Reperti, obelischi e monumenti: verso una “Archeologia fredda degli oggetti”? Il monumento questo oggetto opaco e pesante in uno scritto di Jean Clair. Il monumento nella scultura di Ivan Theimer con un testo ecfrastico di Letizia Leone: “Il monumento ebbro” sulla scultura di Ivan Theimer.

Foto bicchiere in bianco e nero

(Da: Jean Clair, da Ivan Theimer, catalogo Regione valle d’Aosta, 1998)

Vi sono oggetti che credevamo familiari e che, subdolamente, si sottraggono a noi, scompaiono furtivamente dall’orizzonte che pensavamo immutabile, spariscono da una scena che credevamo solida. E poi, un bel giorno, ricompaiono, un po’ strani, fuori posto, incomprensibili. Il monumento, per esempio. Chi oggi, si preoccupa dei monumenti? Chi osa prenderli in considerazione? Chi ne intraprende la costruzione? Li credevamo eterni, o, per lo meno, solidamente radicati nella vita, ed eccoli invece appartenere alla sfera del passato.
Non è certo difficile intuire le cause immediate di tale scomparsa. Chi ha ancora il tempo di edificare monumenti? Chi regna abbastanza a lungo per assumersi il rischio di esserne il committente? Quale architetto o quale artista ha una presunzione tale da decidere di farli rivivere?
Mancanza di tempo da parte dei committenti, degli artisti, nonché del pubblico. Il monumento non è compatibile con la cultura dell’automobile. Si costruiscono edifici di tutti i tipi, municipi, scuole, ospedali, ministeri, musei ‘arte contemporanea, ma nessuno più erige monumenti.

In questa sede sarà utile allora, visto che il monumento è prossimo alla fine, interrogarsi sulle sue origini. La parola “monumento” compare nella lingua del XII secolo, nel periodo che gli storici dell’arte chiamano proto-rinascimento, quando per la prima volta, in Occidente, il patrimonio culturale della tradizione classica viene rivalutato e serve da modello ai primi scultori e architetti del gotico.
Monumentum, in latino, copre un campo semantico piuttosto vasto: ha a che fare con il ricordo: monumenti causa dice Cicerone, “per conservare un ricordo”. Ha quindi a che fare con la cultura in quanto nata dal culto dei morti, e ben prima che la religione ne facesse il luogo di culto degli dei: monumentum sepulcri è la tomba.
Il culto dei morti, tuttavia, può estendersi alla conservazione e all’esaltazione di ciò che di memorabile l’uomo ha lasciato dietro di sé, scritti, memorie, documenti, annali: monumenta rerum gestarum, dice ancora Cicerone. Rousseau chiamerà quest’impresa i mémoratifs, i rammemoranti. Di un’opera notevole per dimensione o erudizione, costituita anche solo di parole, come per esempio il dizionario Treccani, si dirà comunemente che è un monumento.

Ivan Theimer 4

Ivan Theimer

Molto tempo dopo, in Tertulliano, il termine monumentum finirà per indicare l’amuleto, il medaglione che si mette al collo dei bambini. Dall’opera dell’architetto, dalla summa dello scrittore, siamo passati alla categoria del ninnolo e del feticcio.
Evitiamo però di trarre conclusioni affrettate sullo status del monumento nella nostra cultura.
Sottolineiamo invece l’urgenza che presiede alla costruzione del monumento: monumento viene da moneo, ricordarsi, rammentare, dare testimonianza ma, anzitutto, avvertire. Un monumento è un ammonimento. Con la sua presenza ci ricorda quello che tenderemmo a dimenticare: ea quae a natura monemur. Gli avvertimenti che la natura e la stessa cultura ci trasmettono, dice sempre Cicerone, sono veicolati dai monumenti. Richiamo alla legge, a quanto c’è di significativo nel passato, il monumento apre la strada al futuro, informa, predice, annuncia, ispira. Quando Virgilio dice alla Musa che deve ispirare il poeta, è il verbo monere che impiega. Un monumento è una premonizione.

Il monumento ha quindi a che fare con la memoria ma non, come si crede, con la sua parte più sociale, decifrabile, ufficiale e scontata quanto piuttosto con la sua parte più oscura, più selvaggia, meno familiare, quella dei meccanismi di censura, del rimuovere o del riaffiorare, che fanno sì che l’uomo sia non solo l’essere dell’istante presente, come l’animale, ma anche del ricordo e del presagio. Animale storico, gli succede di partecipare al festino degli dei che detengono il futuro. In tale strategia cosmogonica il monumento esiste per aiutarci a togliere i divieti che il presente fa pesare su di noi in modo che possiamo impadronirci di quanto è stato rimosso e intuire quanto accadrà. Freud è stato uno degli ultimi umanisti del nostro tempo ad essere impressionato dai monumenti e ad individuarne il vero significato dietro tanti artifici. Erigiamo monumenti, che ci piace credere immortali, per liberarci dalla paura non tanto della morte quanto dell’oblio, dell’imbarazzo del lapsus, del timore di non sapere decifrare i segni, dell’apprensione dei giorni a venire. La grandezza di una cultura si misura allora in base all’importanza che essa attribuisce ai monumenti, i suoi soli edifici che non servono a nulla. È nella misura in cui le culture si sanno mortali che dedicano all’immortalità questi blocchi che il tempo a sua volta distruggerà.

 

[monumento di Ivan Theimer]

Andiamo avanti: in moneo c’è mens, l’anima in quanto attività dello spirito, facoltà di ragionare, manifestazioni dei caratteri e delle passioni. Il termine deriva direttamente dal greco menòs che ha lo stesso identico significato.
A questo punto sarebbe avventuroso e senza dubbio illecito avvicinare questo termine a témenos, che indica la sezione del tempio consacrata al dio – l’area sacra – e di cui ritroviamo il senso nel verbo latino contemplari, il fatto di entrare visivamente nel campo occupato dal tempio così come si staglia nel cielo.

Allora ricordiamo semplicemente questo: il monumento, che si presenta ai nostri occhi come un oggetto opaco e pesante, grave e inutile, in realtà è legato alla dimensione più recondita, più inafferrabile, più labile e più essenziale dell’uomo: la sua anima. Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima.

 

Ivan Theimer nasce nel 1944 a Olomone in Moravia. Nel 1968 partecipa alla Biennale Internazionale di Bratislava e, lo stesso anno decide di lasciare la Cecoslovacchia. Si trasferisce in Francia. Nel 1973 espone alla Biennale di Parigi. Nel 1978 alla Biennale di Venezia. Ancora alla Biennale di Venezia sarà presente nel 1995 per il centenario a Palazzo Grassi. Le mostre personali e collettive si susseguono in Europa, soprattutto in Francia, Italia, Svizzera, Germania che culminano nella grande mostra antologica nel 1996 al Belvedere del Castello di Praga. Numerose le sculture destinate agli spazi pubblici. Si dedica inoltre alla scenografia per l’Opera di Göteborg , in Svezia. Vive a Parigi ma soggiorna spesso in Toscana, a Pietrasanta.

 

Letizia Leone

Il monumento ebbro

La Porta.
Era da aprire al centro
Dell’immensa Agorà
Nel paesaggio svuotato dai mercati
Opaca e pesante. Volante come il culmine di una visione
Socchiusa sull’ala dello sprofondamento
Intanto che dai cardini fuoriuscivano cose a groppi
Esitanti piccolissimi animali e sagome d’uomini minuscoli
Moribondi anfibi o delfini – la Porta
Che nel riverbero di tutta quella luce rovente sulla piazza. La Porta
Immensa, non vedevamo.
Come i gusci, centinaia e centinaia di acini appesi alle ante
Tra le cotogne, grappoli e foglie carnose
(Avrebbe perfino pensato a una Rivelazione?)
Tanto era il vortice delle creature che schizzavano fuori
Disorientate. Ma a noi
E ai portatori
Premevano sul cuore certe cose di zolfo
Vive vivai gocce fiammiferi. Fosse stato anche solo il portato di un’illusione
Cervello e utero germinale nell’oscillazione di forme antiche che vomitava
La Porta.
Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano
Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca
Intanto che qualche altra cosa strisciava
Odore o sapore che aveva forma
Cifra o grillo, antimateria o polvere che aveva trovato il coraggio di uscire dal covo
Delle puzze e si ergeva ad animale di sangue nuovo malfermo
Su gambe su zampe ora eretto ora in ginocchio ma animale comunque incarnazione incontro alfine ricordo dell’uomo con la grande tartaruga in mano. O sotto i piedi, le tartarughe lente e orribili scarpe di un gigante a bordo. Navigavano le tartarughe. Scherzo ed oblio.
Con la potenza degli esorcismi intanto la Porta induriva conchiglie di viti giravano a velocità folle
E noi
Per il troppo bagliore un fuoco secco negli occhi accecati al centro della piazza cercavamo chi potesse dirci tutto di quel calice venereo che esalava. Corpi esplosi nuovo sangue.
Ci girammo verso i portatori ma erano già anneriti nel sole con l’obelisco in mano
Saldati nei loro gesti brevi
Di cavalieri di piombo.

Fiera 8 dic 2017 1

Roma, 8 dic 2017 Convention Center , Più libri più liberi, Presentazione del trimestrale di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole e della collana di poesia di Progetto Cultura Il dado e la clessidra – da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Jean Clair scrive: «Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima». Appunto, è di questo che ci parla la poesia di Letizia Leone, di questa perdita, ekfrasis del monumento impossibile di Ivan Thurmer. Una poesia impossibile per una «cosa» impossibile. Non sappiamo più che cosa sia un «monumento» proprio perché l’unico «monumento» vero, reale, realissimo, è quello che abbiamo edificato al nuovo Moloch, il Denaro con le sue Banche e le sue filiali e i suoi cortigiani: la civiltà massmediatica e i suoi utenti, i suoi schiavi mediatici. Non c’è più la «cosa», ecco il vero problema di cui ci dovremmo preoccupare, non c’è più la «cosa» perché ci sono miliardi di «cose».

Aristotele dice che il luogo di una cosa è ciò che sta intorno a quella cosa.
Newton corregge Aristotele e lo bacchetta, dichiara «banale» definire lo spazio come quella cosa che sta attorno alla cosa, e definisce «assoluto, vero e matematico» lo spazio in sé, che esiste anche dove non c’è nulla.

Commenta Carlo Rovelli:

«La differenza fra Aristotele e Newton è flagrante. Per Newton, fra due cose può esserci anche “spazio vuoto”. Per Aristotele, “spazio vuoto” è un’assurdità, perché lo spazio è solo l’ordine delle cose. Se non ci sono cose, la loro estensione, i loro contatti, non c’è spazio. Newton immagina che le cose siano collocate in uno “spazio” che continua ad esistere vuoto, anche se leviamo le cose. Per Aristotele lo “spazio vuoto” è un non senso, perché se due cose non si toccano vuol dire che fra loro c’è qualcosa d’altro, e se c’è qualcosa, questo qualcosa è una cosa, e quindi qualcosa c’è: non può non esserci “nulla”».1]

Possiamo porre il problema della «cosa» presente in poesia partendo da questi due concetti per dire che entrambi sono erronei, in quanto la «cosa» non è il luogo che occupa ma è un qualcosa che, letteralmente, fonda il luogo, fonda lo spazio e fonda il tempo. Il tempo e lo spazio sono «dentro» la «cosa», e questa splendida poesia di Letizia Leone segue esattamente questa idea, è a partire da questa idea della «cosa» che costruisce la sua poesia. Non dunque la poesia vista come anima sinfonica o musica esterna, ma come qualcosa che è all’interno del suo interno, dove lo spazio e il tempo sono introiettati e raggelati in essa…

Questa poesia di Letizia Leone presenta delle particolarità stilistiche che non possono essere spiegate senza addentrarci all’interno della complessa questione filosofica che sta alla base della poesia, che è tutta incentrata sulla macro metafora della «Porta». La «Porta» è [copula] la cosa-parola, è la coincidenza di parola e cosa, ma, al tempo stesso è [copula] anche la non coincidenza di parola e cosa. La «Porta» dunque, è e non è, è la contraddizione per eccellenza, impersona la contraddittorietà autocontraddittoria, la contraddizione che è anche assenza e presenza di contraddittori.

La Porta.
Era da aprire al centro
Dell’immensa Agorà
Nel paesaggio svuotato dai mercati
Opaca e pesante.

Assenza e presenza di contraddittori che si annullano reciprocamente, che collidono e friggono. E che cos’è questo se non un procedimento stilistico che riposa sulla peritropé (capovolgimento) dove gli attanti e i predicati sono una volta nell’essere e una volta nel non essere? Capovolgimento che capovolge se stesso e fluisce nel nulla. Anche i personaggi anonimi e neanche nominati della poesia finiscono per accrescere la dinamicità di questo movimento convulso che tira in tutte le direzioni con una regia ammirevole che lo stile incontraddittorio della Leone magnificamente mette in evidenza:

Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano
Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca
Intanto che qualche altra cosa strisciava […]

1] Carlo Rovelli L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 65

Fiera 8 dic 2017 2

Roma, 8 dic 2017 Convention Center , Più libri più liberi, Presentazione del trimestrale di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole e della collana di poesia di Progetto Cultura Il dado e la clessidra – da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Collabora con numerose riviste letterarie e organizza  laboratori di lettura e scrittura poetica. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)

35 commenti

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35 risposte a “Reperti, obelischi e monumenti: verso una “Archeologia fredda degli oggetti”? Il monumento questo oggetto opaco e pesante in uno scritto di Jean Clair. Il monumento nella scultura di Ivan Theimer con un testo ecfrastico di Letizia Leone: “Il monumento ebbro” sulla scultura di Ivan Theimer.

  1. antonio sagredo

    Non posso che plaudire a Letizia Leone per la scelta dell’artista boemo, la cui attività è pervasa dall’influenza del gotico e barocco, di cui la sua città natale Olomouc (che conosco molto bene… ci sono stato come borsista nei primi anni ’70) come quasi tutte le città fino ai villaggi boemi sono costellati nei loro più nascosti luoghi da questi due aspetti così manifesti e preponderanti, quasi da soffocarti e da inebriarti questi desideri goticamente e baroccheggianti da ridurti in deliquio. Il barocco specialmente non mi sorprese se non perché realizzato con “pietra nera”, ma simile nelle forme e nei simboli che vuole rappresentare a quello di Lecce con e”pietra dorata” Sia Lecce che Praga furono “gesuitiche”.
    La poesia della Leone qui pubblicata già dal suo stupendo titolo “Il monumento ebbro”, mette in evidenza l’aspetto architettonicamente tortuosamente visionario dell’opera di Theimer.

    • letizia leone

      Caro Antonio con questa tua descrizione delle città e villaggi boemi mi hai fatto venir voglia di partir subito e sicuramente è a questo che mi dedicherò nel prossimo futuro…devo dire che un viaggio esperienziale altrettanto sconvolgente fu nel 2007 visitare la mostra di Ivan Theimer a Milano allestita nelle splendide sale di Palazzo Reale. Chi ha visto le opere dello sculture sa come l’immagine fotografica, per quanto professionale, non renda in minima parte la struggente e “monumentale” bellezza del concentrato di miti, simboli, reperti di civiltà sepolte affastellate e tatuate nella materia, nel bronzo…i portatori con il loro carico di obelischi, enormi delfini, grappoli d’uva… insomma tutta l’episteme deflagrata in una ultima e postuma ubriacatura generale. Tra l’altro a proposito di cose e oggetti in poesia ho trovato interessantissime le considerazioni sul monumento di Clair: È nella misura in cui le culture si sanno mortali che dedicano all’immortalità questi blocchi che il tempo a sua volta distruggerà.

  2. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28313
    Con questa poesia Letizia Leone raggiunge il vertice delle sue possibilità espressive,rimanda a quei misteriosi monumenti neri che sorgono nell’Europa più remota,lì dove ancora si avverte la presenza del sacro come forza sospesa tra speranza e terrore, nel segno severo di un luteranesimo professato non solo come religione, ma anche come stile di vita ,oltre che come espressione artistica .

    • letizia leone

      Grazie per il preziosissimo feedback gentile Anna Ventura! Si è molto facilitati nello scrivere di fronte ad un’opera d’arte, nei suggerimenti e nelle potenti evocazioni che irradia, così come questa atmosfera spirituale che lei ha saputo cogliere e centrare empaticamente in modo profondo…

  3. Salvatore Martino

    Ha ragione Sagredo a definire il titolo della Leone straordinario. A me ha interessato moltissimo la commistione di versi decisamente in una sintassi poetica alternati a momento di poème en prose.L’Agorà e la sua Porta trasformate in una sorta di arca dell’Ararat apocalittica. Questa invasione animale che ci distrugge. Un universo di angosce, che tutti ci massifica. Il mondo vegetale che dà una mano a quello zoologico in questa patologia della distruzione. Non restano che cavalieri di piombo, soldati che non hanno che gesti brevi, siamo in una compagnia del disordine totale, una Apocalisse senza trombe,né angeli, senza che la Bestia riemerga dalle acque o dalle tenebre, una storia senza speranza, in una pastoia di elementi che travolgono qualsiasi rifiuto umano. Accidenti che potenza! E come mi fa male leggere queste verità che tradiscono una disperazione commovente , senza uno stralcio di fede nel trascendente e neppure nell’immanente storico che ci attiene dolorosamente.. Persino il mondo degli oggetti, dell’inorganico contribuisce in questa dannazione, in questa congiura tesa a demolire la nostra esistenza nel quotidiano e nelle speranze nostre di sopravvivenza. Zolfo, conchiglie, polvere fiammifero, antimateria si uniscono in una danza macabra di distruzione. Cara Letizia mi hai sorpreso con queste tue note apocalittiche, che tanto condivido, e che sono accosto al mio pensiero, diciamo filosofico, tanto per compiacer l’amico Linguaglossa. Il tutto racchiuso in un andamento stilistico sempre sorvegliato e comprensibile.Un balzo in avanti che gli abitanti della NOE dvrebbero ammirare e seguire.

    • letizia leone

      Grazie carissimo Salvatore per la tua nota critica centrata e profonda su questo mio testo! Un testo anfibio a metà tra la poesia e le potenzialità, tutte manifeste, della scultura contemporanea, genere che condivide con la poesia in parte lo stesso destino di perdita e oblio…come tutta la civiltà umanistica agonizzante nel frullatore della postmodernità! Dannazione e apocalisse, sì ma in un senso pasoliniano: “restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo”…Un caro abbraccio

  4. gino rago

    Un poeta nel flusso dello Spazio Espressivo Integrale e oltre la Babele:
    Letizia Leone
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28317
    “(…) Tanto era il vortice delle creature che schizzavano fuori
    Disorientate (…)”
    Letizia Leone percorre uno spazio estetico nel quale storia dell’arte, filosofia e poesia vengono a trovarsi faccia a faccia in un confronto ebbro in cui i
    rispettivi linguaggi si intrecciano in una parola poetica tesa a ristabilire la relazione originaria fra parola e cosa.
    Perché, sfiorando un pensiero di Michel Foucault più d’una volta considerato
    sulla nostra Rivista Letteratura Internazionale, quando nella sua forma originaria fu da Dio stesso donato agli uomini, il linguaggio era segno certo e trasparente delle cose perché somigliava ad esse. Ma tale trasparenza fu frammentata a Babele e fu castigo per gli uomini. E non resta che interrogarci su ‘linguaggio delle cose’ In questa poesia Letizia Leone va oltre
    Babele, ripristina la chiarezza trasparente fra parola e cosa e, come
    Rossana Levati nei confronti dei versi della Romagnoli, si pone al centro
    di una riflessione interdisciplinare sulla ‘thing theory’.
    Sicché, sia Rossana Levati, sia Letizia Leone, spostano il baricentro della teoria dal “come gli uomini fanno le cose” al “come le cose fanno gli uomini”.
    Per taluni stralci del componimento di Letizia Leone ho anche pensato
    a “Il Museo dell’Innocenza” di Orhan Pamuk; ma questo sentiero lo sento un pò tortuoso e condurrebbe al panopticon…

    Gino Rago

  5. Aristotele dice che il luogo di una cosa è ciò che sta intorno a quella cosa.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28320
    Newton corregge Aristotele e lo bacchetta, dichiara «banale» definire lo spazio come quella cosa che sta attorno alla cosa, e definisce «assoluto, vero e matematico» lo spazio in sé, che esiste anche dove non c’è nulla.

    Commenta Carlo Rovelli:

    «La differenza fra Aristotele e Newton è flagrante. Per Newton, fra due cose può esserci anche “spazio vuoto”. Per Aristotele, “spazio vuoto” è un’assurdità, perché lo spazio è solo l’ordine delle cose. Se non ci sono cose, la loro estensione, i loro contatti, non c’è spazio. Newton immagina che le cose siano collocate in uno “spazio” che continua ad esistere vuoto, anche se leviamo le cose. Per Aristotele lo “spazio vuoto” è un non senso, perché se due cose non si toccano vuol dire che fra loro c’è qualcosa d’altro, e se c’è qualcosa, questo qualcosa è una cosa, e quindi qualcosa c’è: non può non esserci “nulla”».1]

    Possiamo porre il problema della «cosa» presente in poesia partendo da questi due concetti per dire che entrambi sono erronei, in quanto la «cosa» non è il luogo che occupa ma è un qualcosa che, letteralmente, fonda il luogo, fonda lo spazio e fonda il tempo. Il tempo e lo spazio sono «dentro» la «cosa», e questa splendida poesia di Letizia Leone segue esattamente questa idea, è a partire da questa idea della «cosa» che costruisce la sua poesia. Non dunque la poesia vista come anima sinfonica o musica esterna, ma come qualcosa che è all’interno del suo interno, dove lo spazio e il tempo sono introiettati e raggelati in essa…

    1] Carlo Rovelli L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 65

    • Salvatore Martino

      Un giorno vorrei incontrare su queste pagine la filosofia centrata sull’Uomo e come auspica anche Sagredo più poesia e meno filosofia. Questa apologia della “cosa” in contrapposizione all’oggetto mi ha letteralmente stufato. Non credo che Letizia scrivendo questi versi, che nascono dal profondo, si sia troppo preoccupata della differenza tra Aristotile e Newton, né tantomeno abbia indagato sulla tematica che da mesi invade questa Rivista. La razionalità interviene in un momento successivo alla creazione di un testo poetico, i primi moventes sono da ricercare in ben altre sedi. Ma non voglio qui ripetere quello che costantemente in passato ho enunciato.Diceva Enrico Falqui: “qui il poeta ragiona troppo”
      stigmatizzando l’eccessivo intellettualismo diffuso tra i versi, e che porta ad una composizione algida, prova di kommos e di pathos , quindi di accesso comunicativo difficile per ll lettore. Solo pochi grandi si sono potuti permettere talvolta un abuso della razionalità, cosa vietata ai poeti soltanto bravini, figuriamoci ai versificatori che imbrattano la carta, e invadono a pagamento le case editrici.i

  6. antonio sagredo

    Aristotele è nel museo dell’archeologia filosofica da secoli, e soltanto la Chiesa cattolica lo riesumò per i suoi intrighi che finirono in torture e roghi.
    E ancora oggi vi sono degli aristotelici che in primis beffeggerei e poi impiccherei!

  7. però, Antonio, c’è una certa differenza tra la filosofia di Aristotele e la Chiesa della Controriforma… Aristotele non c’entra niente con l’inquisizione e il catechismo sessuofobico…

  8. donatellacostantina

    L’opera scultorea di Ivan Theimer rappresenta un’arte senza tempo, dove i temi mitologici e i simboli della tradizione classica e rinascimentale si arricchiscono di elementi e suggestioni proprie della contemporaneità. Brandelli di passato trovano la loro eco nel presente, in una visione, a tratti, antimoderna.
    I versi di Letizia Leone risuonano, qui, dello stesso potente significato con cui l’artista ceco scolpisce le sue forme; le forme, ma potremmo dire le «cose», dentro le quali tempo e spazio formano un tutt’uno con esse stesse.
    In questo senso, Il monumento ebbro di Letizia Leone rappresenta un vivo esempio di poesia che prende forma “all’interno del suo interno”, come dice Linguaglossa, dove appunto lo spazio e il tempo si configurano “introiettati e raggelati in essa…”.

  9. donatellacostantina

    A proposito del discorso su «gli oggetti e le cose», vorrei proporre qui due brevi prose poetiche di Petr Král, in attesa di dedicare sulla Rivista un intero post a questo importante autore ceco contemporaneo.
    Ecco, dunque, di Petr Král, Il cappello e La valigia, due brani tratti dal libro Nozioni di base (Miraggi Edizioni, 2017), nella traduzione di Laura Angeloni.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28329
    ***

    Il cappello

    Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale? Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.

    ***

    La valigia

    Seguiamo con lo sguardo la nostra valigia che si allontana, sul nastro trasportatore dell’aeroporto o in mano al facchino dell’albergo, come se si portasse dietro anche una parte di noi. Quando ci viene restituita dalle profondità di un deposito o di un’altra sala aeroportuale la riconosciamo subito e la salutiamo, ma con sentimenti ambivalenti. Sembra la stessa, ma non lo è, il viaggio che ha affrontato, diverso dal nostro, è ancora più inquietante proprio perché non ha lasciato tracce evidenti. A volte, mentre più tardi la svuotiamo, spunta tra gli effetti personali una forcina mai vista, e sentiamo quasi risuonare l’eco di una risata lontana. La valigia viaggia anche per noi, è la nostra casa itinerante, lo scrigno segreto che ci permette di entrare in spazi altrimenti inaccessibili. Sfortunatamente possiamo solo fare congetture sulle mani che l’hanno frugata e hanno tenuto impunemente tra le dita – magari anche per lunghi minuti – il nostro pettine, il sigaro, la matita –, o sugli amori, sugli assalti di orribili custodi all’oscena allacciatura di qualche biondina, di cui è stata testimone la valigia nel buio di un deposito. Invano la esaminiamo da lontano, sola nell’androne deserto in una città straniera, ancora una volta non avremo modo di riconoscere l’alter ego sconosciuto a cui abbiamo offerto la valigia come fosse un’esca, quasi pronti a cedergliela. Dunque non ci resta che prelevarla e, trascinandola, tornare ad essere i servi di noi stessi.

  10. Posto qui una poesia di Adeodato Piazza Nicolai giunta alla mia email:

    Adeodato Piazza Nicolai
    CARILLON UMBILICALE
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28331
    […]

    quali cifre culturali umbilicano picasso klee
    leger lascaux?
    forse il surrealismo viveva nelle cave neanderthali
    rinascendo nelle damoiselle d’avignon,
    nell’urlo di munch
    nei girasoli di vangogh
    nella donna dal lungo collo di amadeo modigliani.

    […]
    Sinergia-sinfonia-nostalgia. Il bipolarismo ricorda il linguaggio
    del calcolatore virtuale 0/X: l’amico computer neurale.
    centra l’umano? Shakespeare: “To be or not to be, that
    is the [eternal] question” posta fino dall’alba della storia
    a volte negata/neutralizzata/modificata e scartata dalla Storia.
    cosa cambia nel tempo/non-tempo? sembra proprio Nada!
    […]
    questa mattina un gatto nero-bianco ballava nei fiocchi di neve.
    scendevano come minime stelle strappate dal cielo.
    il cane del nostro vicino di casa guardava, abbaiava, scodinzolava
    voleva seguirlo per confrontarlo oppure giocare …?

    © 2017 Adeodato Piazza Nicolai
    Vigo di Cadore, 11 dicembre, ore 21:12

  11. antonio sagredo

    “però, Antonio, c’è una certa differenza tra la filosofia di Aristotele e la Chiesa della Controriforma… Aristotele non c’entra niente con l’inquisizione e il catechismo sessuofobico…”
    e invece c’entra e come!
    Quando risiedevo a Lecce (fino 1 19 anni) ero ebbro di sapere del barocco in cui ogni giorno m’affogavo! E studiavo, studiavo, leggevo e leggevo di tutto, dalla filosofia, alla pitture per accedere con le armi alla pittura e scultura barocca: sono indissolubili aristotelismo e gesuitismo: questi s’appoggiava totalmente allo spirito del greco! Ci son voluti secoli per toglierselo dalle
    pa..e! – Bisogna giungere a Kant per vederci un po’ chiaro! E Leopardi essendo filosofo eccelso (e Schopenhauer e poi Neitzsche ne riconosceranno i meriti) lo combatté aspramente: ed io di Giacomo mi fido!

  12. antonio sagredo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28334

    nei versi di Letizia, nella sua Poesia insomma, sono felicemente a mio agio. e che ci sia un po’ di sagredismo non è una colpa e né critica, anzi è una variante che merita rispetto: non me ne abbia la poetessa, che rientra nel piccolissimo gruppo di cui ho stima! D’altra parte Lei stessa ne elenca gli aspetti fondamentali e originari e qualcosa mi ha dato, e siccome sono presuntuosamente consapevole, devo dire che La ringrazio. Si vada avanti a galoppo per questo nostro sentiero: diverrà non un’autostrada, ma una infinità di sentieri e ogni sentiero possiederà la propria personalità.
    —-
    Ringrazio Martino Salvato che di recente ritroviamo contatti insperati; e la Giancaspero Costantina per le Sue conoscenze “musicistiche”… e la Catapano chiara che invito a un commento su questi versi di Letizia Leone e all’ammirevole Steven Grieco -R.

  13. Una poesia di Edith Dzieduszycka
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28336
    Ritorno dalla Toscana.

    Abbagliata
    sostavo
    sul crinale dell’ora

    plenilunio perlaceo
    di giada l’orizzonte
    per un lampo sconfitto
    si era interrotto
    del mondo
    il rullio

    in agguato
    sospeso
    ora taceva
    il pensiero

    profumava di fieno
    d’erba tagliata viva
    l’aria leggera
    che annusavo
    grata
    appena superato il centro storico

    emergeva
    sottile
    quasi inebriante
    un effluvio di tiglio
    mentuccia

    gelsomino
    respinta per un po’
    la calura feroce
    una brezza svogliata
    pigramente lambiva
    delle cose
    la pelle
    femmina gravida
    ora godeva
    la notte sveglia

    di curva plenitudine
    puntini incandescenti
    lucciola
    aereo
    stella
    cucivano nell’aria
    una tela immensa
    cupola mitica
    seminata di gemme
    senza metà

    andavo
    conscia però
    del mio passo lento
    tra siepi di biancospino

    chiedermi
    non volevo
    se questa era gioia
    piacere
    felicità
    avrei sciupato
    quell’ora senza nome
    di cui solo temevo
    il fuggitivo andare

    gracidava una rana
    una gatta gemeva
    rispondeva il gallo
    vita che pulsava
    lenta
    interminata.

    *

    Returning from Tuscany

    Dazzled
    I rested
    on the edge of the hour

    pearly full moon
    of jade the horizo
    necause of a defeated flash
    the roll of the world
    had been
    interrupted

    suspended
    in ambush
    now thought
    remained silent

    aroma of hay
    of the cut grass
    alive the light air
    I inhaled
    In gratitude
    just passed the historical center

    thinly emerged
    an almost inhebriating
    effusion of lime tree
    of mint
    of mulberry

    pushed back for a little
    the horrible heat
    a random breezel
    lazily enfolded
    the skin
    of things
    aA pregnantwoman
    enjoyed now
    an open-eyed night
    with curves of plenty

    shining small points
    lady bug
    airplane
    star
    sewed in the air
    a gigantic cloth
    mythical dome
    seeded with gems

    not half-way
    I moved on however
    conscious of my slow step
    among hawthorn bushes

    I didn’t wish
    to ask
    if this was joy
    pleasure
    happiness
    I would have undone
    that nameless hour
    whose fugitive moving
    I feared

    a frog croaked
    a lady cat moaned
    a rooster responded
    pulsating life
    slowly
    indeterminate.

    © 2017 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem “Ritorno dalla Toscana” of
    Edith Dzieduskycka. All Rights Reserved.

  14. letizia leone

    Doppiavita: un piano speculativo come livello in sui si dipana l’analisi martellante e comprensiva del pensiero esperiente, e un piano pragmatico, o per meglio dire, creativo, come livello incandescente del pensiero operatorio- artistico. Una sorta di schizofrenia forse, ma questo mi pare sia il modo di procedere della NOE e dei suoi creatori che ringrazio per gli stimoli e le ispirazioni in questo lavoro in sinergia. Una allargata piattaforma progettuale, (un metodo) che naviga a vista nel mare dell’inerzia. Il testo è una revisione NOE di una poesia pubblicata su “La disgrazia elementare” nel 2011. Ma urgeva una riscrittura alla luce di un nuovo esperire. L’ispirazione è nata dal discorso su “gli oggetti e le cose” e i vari affondi speculativi e poetici dei numerosi amici che dibattono in queste pagine…Ispirazione? Ho pensato alle cose che degenerano in oggetti e mi è venuto in mente il monumento, il suo spazio, il suo non-essere nelle megalopoli contemporanee…Ringrazio tutti per gli affondi critici, i lettori-poeti militanti come Gino Rago e Costantina Giancaspero, Sagredo, Martino, i molti frequentatori dell’ombra e Giorgio Linguaglossa spietato “anatomo-patologo” del testo…

  15. “Con la potenza degli esorcismi intanto la Porta induriva conchiglie di viti giravano a velocità folle”
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28341
    Questo verso esprime secondo me meglio di ogni altro nella poesia di Letizia Leone, l’emozione a sorpresa che fuoriesce continuamente nell’opera di Ivan Theimer. Così anche la parte finale della poesia, che ci rimette in prossimità della scultura (astutamente, Letizia lo fa alla fine invece che all’inizio). Tuttavia, se questa poesia piace molto a Salvatore Martino qualche sospetto che non sia tanto NOE mi viene ( che poi non sarebbe obbligatorio, solo che Martino se lo chiede continuamente). Non è il numero e la varietà delle immagini, né l’impeto e l’efficacia espressiva che sono ben resi – come nel verso che ho riportato all’inizio – ma per un eccesso di parole, come se la scansione sia a troppo alta risoluzione. Ovvio, è solo il mio parere personale. Ma nemmeno, è una domanda.
    Non mi meraviglia il fatto che le sculture di Theimer possano piacere molto anche ad Antonio Sagredo, come pure, penso, a Carlo Livia, perché vicine alla loro sensibilità artistica. Nonché, per certi versi, anche alle cose di Martino. Devo anche dire che leggendo questa poesie di Letizia Leone, ho pensato all’amico De Robertis, il quale, sebbene di temperamento diverso da Letizia, tentò operazioni analoghe e con esiti altrettanto felici.
    Sul monumento, ricordo il bel libretto di Marina Cvetaeva, “Il mio Puskin”. Nel ricordare i suoi anni giovanili, la Cveteva riesce a dire tutto l’indispensabile da sapere sul valore del monumento, inteso come “cosa”. Già, quand’era ragazzina! Così come i bambini ritratti nelle sculture di Theimer. E così come, immagino, debbano piacere molto anche ai bambini queste sculture: rarissimo caso, per soggetti tanto carichi di simboli e rimandi.
    Con Ivan Theimer siamo all’eccellenza. Purtroppo non ho avuto occasione di poter guardare le sue sculture dal vivo. Me ne dispiace, quelle sue patine hanno l’aria di poter essere di grande insegnamento per i pochi maestri artigiani che ci restano in Italia.

    • letizia leone

      Caro Lucio, opere pubbliche di Theimer si possono ammirare a Foligno (una fontana in memoria ai caduti per la pace) e a Follonica, mete defilate che valgono una sosta o un viaggio magari…per il resto che dire? l’alta risoluzione è implicita nell’intenzione ecfrastica di questa scrittura, anzi il dettato dell’opera, (questa cornucopia di reperti e frammenti), il groviglio di immagini dissonanti è un continuo suggerire l’ignoto, l’oblio, la precarietà o il silenzio per sovrabbondanza cacofonica…penso sia una neo-allegoria che lascia libero il campo alle congetture e alle supposizioni più ardite…(ma questo nelle intenzioni di che scrive: una volta liberato, il testo diventa autonomo)…Grazie per la lettura

  16. Caro Salvatore Martino (e, a volte, Antonio Sagredo),
    a Voi che spesso gridate contro l’eccesso di filosofia, non posso che contrapporre un ragionamento che è per forza filosofico.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28342
    Questa poesia di Letizia Leone presenta delle particolarità stilistiche che non possono essere spiegate senza addentrarci all’interno della complessa questione filosofica che sta alla base della poesia, che è tutta incentrata sulla macro metafora della «Porta». La «Porta» è [copula] la cosa-parola, è la coincidenza di parola e cosa, ma, al tempo stesso è [copula] anche la non coincidenza di parola e cosa. La «Porta» dunque, è e non è, è la contraddizione per eccellenza, impersona la contraddittorietà autocontraddittoria, la contraddizione che è anche assenza e presenza di contraddittori.

    La Porta.
    Era da aprire al centro
    Dell’immensa Agorà
    Nel paesaggio svuotato dai mercati
    Opaca e pesante.

    Assenza e presenza di contraddittori che si annullano reciprocamente, che collidono e friggono. E che cos’è questo se non un procedimento stilistico che riposa sulla peritropé (capovolgimento) dove gli attanti e i predicati sono una volta nell’essere e una volta nel non essere? Capovolgimento che capovolge se stesso e fluisce nel nulla. Anche i personaggi anonimi e neanche nominati della poesia finiscono per accrescere la dinamicità di questo movimento convulso che tira in tutte le direzioni con una regia ammirevole che lo stile incontraddittorio della Leone magnificamente mette in evidenza:

    Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano
    Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
    Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca
    Intanto che qualche altra cosa strisciava
    […]

  17. gino rago

    Un poeta nel flusso dello Spazio Espressivo Integrale e oltre Babele:
    Letizia Leone

    (…)
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28346
    Per taluni stralci del componimento di Letizia Leone ho anche pensato
    a “Il Museo dell’Innocenza” di Orhan Pamuk; ma questo sentiero lo sento un pò tortuoso e condurrebbe al panopticon…Perché se il poeta nomina icasticamente “gusci”, “acini”, “cotogne” si pone deliberatamente nella consapevolezza del Res ipsa loquitur, riconoscendo che le cose hanno un linguaggio. E il “linguaggio delle cose” scaturisce direttamente dalle proprietà delle cose stesse le quali cose si prestano e/o si adattano agli scopi culturali
    per i quali esistono.
    Ma il “linguaggio umano” non di rado copre, se non nasconde, le cose esistenti riducendole alla condizione di freddi strumenti o di feticci.
    Dov’è l’abilità del poeta che con le cose accetta di confrontarsi? E’ nella capacità di cogliere, di leggere nitidamente in esse ciò che le cose dicono
    dell’artista che le ha collocate nella sua opera e di riflesso ciò che sanno dire di noi come tracce del vissuto e della nostra storia personale.
    Quest’abilità Letizia Leone la possiede e la maneggia confermandosi poeta
    nel flusso dello spazio espressivo integrale anche per il plurilinguaggio
    sciolto in un unico linguaggio, per una forma senza forma, per un ritmo
    che in sé chiude molti ritmi. E il monumento di Letizia Leone così caricato dal poeta di energia emotivo-affettiva cosa è se non una “grande cosa” capace di sconfiggere lo spazio, di imporsi sul tempo, di tendere all’eternità?
    “Le cose” disse Borges, “Gli oggetti ” disse Adam Zagajewski, “il cappello”, “la valigia” dice Kràl attraverso la mano fatata di Costantina Donatella Giancaspero, “il monumento” dice oggi Letizia Leone. Che filo li lega?
    Le parole. Le parole che a noi son capaci di portare lo slancio delle cose,
    le parole che spingono noi verso di loro. Poi, più nulla: “Cala il silenzio./
    Sulla parete danza l’ago del barometro.” (Adam Zagajewski).

    GR

  18. gino rago

    Un poeta nel flusso dello Spazio Espressivo Integrale, verso il linguaggio delle cose, oltre la Babele:
    Letizia Leone

    “(…) Tanto era il vortice delle creature che schizzavano fuori
    Disorientate (…)”
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28347
    Letizia Leone percorre uno spazio estetico nel quale storia dell’arte, filosofia e poesia vengono a trovarsi faccia a faccia in un confronto ebbro in cui i
    rispettivi linguaggi si intrecciano in una parola poetica tesa a ristabilire la relazione originaria fra parola e cosa.
    Perché, sfiorando un pensiero di Michel Foucault più d’una volta considerato
    sulla nostra Rivista Letteratura Internazionale, quando nella sua forma originaria fu da Dio stesso donato agli uomini, il linguaggio era segno certo e trasparente delle cose perché somigliava ad esse. Ma tale trasparenza fu frammentata a Babele e fu castigo per gli uomini. E non resta che interrogarci su ‘linguaggio delle cose’ In questa poesia Letizia Leone va oltre
    Babele, ripristina la chiarezza trasparente fra parola e cosa e, come
    Rossana Levati nei confronti dei versi della Romagnoli, si pone al centro
    di una riflessione interdisciplinare sulla ‘thing theory’.
    Sicché, sia Rossana Levati, sia Letizia Leone, spostano il baricentro della teoria dal “come gli uomini fanno le cose” al “come le cose fanno gli uomini”.
    Per taluni stralci del componimento di Letizia Leone ho anche pensato
    a “Il Museo dell’Innocenza” di Orhan Pamuk; ma questo sentiero lo sento un pò tortuoso e condurrebbe al panopticon…
    Perché se il poeta nomina icasticamente “gusci”, “acini”, “cotogne” si pone deliberatamente nella consapevolezza del Res ipsa loquitur, riconoscendo che le cose hanno un linguaggio. E il “linguaggio delle cose” scaturisce direttamente dalle proprietà delle cose stesse le quali cose si prestano e/o si adattano agli scopi culturali
    per i quali esistono.
    Ma il “linguaggio umano” non di rado copre, se non nasconde, le cose esistenti riducendole alla condizione di freddi strumenti o di feticci.
    Dov’è l’abilità del poeta che con le cose accetta di confrontarsi? E’ nella capacità di cogliere, di leggere nitidamente in esse ciò che le cose dicono
    dell’artista che le ha collocate nella sua opera e di riflesso ciò che sanno dire di noi come tracce del vissuto e della nostra storia personale.
    Quest’abilità Letizia Leone la possiede e la maneggia confermandosi poeta
    nel flusso dello spazio espressivo integrale anche per il plurilinguaggio
    sciolto in un unico linguaggio, per una forma senza forma, per un ritmo
    che in sé chiude molti ritmi. E il monumento di Letizia Leone così caricato dal poeta di energia emotivo-affettiva cosa è se non una “grande cosa” capace di sconfiggere lo spazio, di imporsi sul tempo, di tendere all’eternità?
    “Le cose” disse Borges, “Gli oggetti ” disse Adam Zagajewski, “il cappello”, “la valigia” dice Kràl attraverso la mano fatata di Costantina Donatella Giancaspero, “il monumento” dice oggi Letizia Leone. Che filo li lega?
    Le parole. Le parole che a noi son capaci di portare lo slancio delle cose,
    le parole che spingono noi verso di loro. Poi, più nulla: “Cala il silenzio./
    Sulla parete danza l’ago del barometro.” (Adam Zagajewski)

    Gino Rago

    • Rossana Levati

      (J. Ritsos, “La casa morta”, in “Quarta dimensione”)
      https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28348
      “E anche queste due stanze che abbiamo tenuto,
      le più fredde e le più nude, le più alte, forse sono
      per guardare le cose dall’alto
      e da una certa distanza, per avere la sensazione
      di controllare e dominare la nostra sorte; soprattutto
      quando fa sera e tutte le cose si chinano giù sulla terra calda,
      qui il freddo è acuto come una spada,
      puoi tagliare il desiderio di un nuovo accordo o la speranza
      di un incontro irrealizzabile; e questo gelo
      puro, sprezzante, è quasi salutare.
      E queste due stanze sono appese nella notte infinita
      come due fari spenti sul litorale più deserto,
      soltanto il lampo li accende un attimo e li spegne,
      li trapassa e li inchioda diafani nel vuoto, anch’essi vuoti.(…)
      E la stella del vespro -non ci hai fatto caso?- la stella del
      vespro è tenera
      come la gomma – si consuma sempre nello stesso punto
      come per cancellare un nostro errore – quale errore?-
      e sfregando la gomma si sente un suono impercettibile
      sopra l’errore – che non si cancella;
      briciole di carta cadono sugli alberi e scintillano;
      è una distrazione piacevole – e non ha importanza
      se l’errore non si cancella; basta il moto della stella,
      gentile, persistente, perenne,
      come un significato primo ed estremo – ritmo; attività celeste
      e pratica insieme, come quella del telaio e del verso.
      va e viene, va e viene, la stella in mezzo ai cipressi,
      una spola d’oro tra i lunghi fili lugubri,
      che ora nasconde e ora svela il nostro errore- no, non nostro,
      errore del mondo, errore radicale . che colpa abbiamo noi?-
      errore della nascita o della morte – ci avete fatto caso?”

  19. Salvatore Martino

    Con grande emozione leggo questi versi del grande Ghiannis Ritsos,ricordando i nostri incontri al 39 di Michail Koraca nella sua Atene,che egli praltro, uomo del Peloponneso non amava particolarmente.

    “se l’errore non si cancella; basta il moto della stella,
    gentile, persistente, perenne,
    come un significato primo ed estremo – ritmo; attività celeste
    e pratica insieme, come quella del telaio e del verso.
    va e viene, va e viene, la stella in mezzo ai cipressi,
    una spola d’oro tra i lunghi fili lugubri,
    che ora nasconde e ora svela il nostro errore- no, non nostro,
    errore del mondo, errore radicale . che colpa abbiamo noi?-
    errore della nascita o della morte – ci avete fatto caso?”

    Voglio ripeterli questi versi perché riscrivendoli possano restare meglio incisi nella mia memoria. Aveva proprio ragione Aragon quando diceva di Ritsos appunto “il più grande poeta di questo tempo che è il nostro. E io sono orgoglioso di averlo frequentato, in lunghi pomeriggi tra un cedrangolo e un ouzo e la sua voce in francese dal viso in demotichì dal disco della sua “Sonata al chiaro di luna”.
    Ringrazio la Rosanna Levati che fra tante voci slave ha fatto risuonare una grande voce mediterranea.
    Questa signori è per me la poesia che mi trascina in comunione perfetta con il suo creatore.

  20. Soltanto per ricordare di Eduardo, ave Eduardo!
    Il testo teatrale appunto “il monumento”
    straordinario.
    Grazie OMBRA.

  21. Jean Clair scrive:
    «Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima».
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28359
    Appunto, è di questo che ci parla la poesia di Letizia Leone, di questa perdita, ekfrasis del monumento impossibile di Ivan Thurmer. Una poesia impossibile per una «cosa» impossibile. Non sappiamo più che cosa sia un «monumento» proprio perché l’unico «monumento» vero, reale, realissimo, è quello che abbiamo edificato al nuovo Moloch, il Denaro con le sue Banche e le sue filiali e i suoi cortigiani: la civiltà massmediatica e i suoi utenti, i suoi schiavi mediatici. Non c’è più la «cosa», ecco il vero problema di cui ci dovremmo preoccupare, non c’è più la «cosa» perché ci sono miliardi di «cose».

  22. antonio sagredo

    “Ringrazio la Rosanna Levati che fra tante voci slave ha fatto risuonare una grande voce mediterranea.” (Martino)…
    Anche io La ringrazio, ma per motivi diversi, e non certo per contrapposizione : poesia slava contro poesia mediterranea ( o viceversa): cosa inesistente e insensata.
    Non è questo il punto: più volte ho scritto dell’amore e passione dei poeti russi da Puskin in poi (ma se si legge la “Storia della poesia russa…” dalle sue origini fino a Pasternàk e oltre, sono decine gli scrittori, poeti, studiosi di ellenistica) per la poesia mediterranea ( e in specie per quella greca: grandi traduttori russi dal ‘700 a oggi hanno tradotto i principali poeti greci: in primis ovviamente Omero e suoi contemporanei, e tutti gli altri; del ‘900 quasi tutti!).
    E allora :
    >>>>> “Mandel’štam ci sorprende perché nell’epoca della rivoluzione è riuscito a fondere, lui che era un ebreo di origine polacca russificato, innumeri strati di cultura, come se la rivoluzione avesse sommosso tutta la cultura del mondo togliendole la specifica temporalità e l’avesse fusa insieme. Mandel’štam era un poeta di citazioni, cioè che vive della citazione di diversi strati culturali. Blok nel poema gli Sciti aveva detto dei russi:

    Noi amiamo tutto:
    l’inferno delle strade parigine
    e la frescura di Venezia. “ (trad. Ripellino)
    ——————————————————————————————
    (Notare come il poeta (nelle fattezze di una americana colta!) in pochi versi realizza degli spostamenti geografici immensi: dall’America all’Egitto si ritorna in Europa passando per la Francia per giungere alla Grecia, e durante il viaggio una occhiatina alla Germania di Goethe. Ma questi dislocamenti geografici trovano la loro origine nel cubismo (scomposizione-dislocamento degli oggetti); i poeti cubo-futuristi russi ne fanno larghissimo uso, in primis Chlebnikov, Majakovskij, Pasternàk non disdegna, e non deve sorprenderci lo stesso Mandel’štam)
    (da mia nota 195 p.77; Corso su Mandel’štam di AMR – 1974-75)
    ———————————————————————————————————–
    >>>>>> “ Fedele al concetto della sovrapposizione, della giustapposizione, di diverse zone culturali e semantiche, passando dalla Grecia a Pietroburgo, dal nord alla Toscana, ecco che Mandel’štam s’incastra anche nel mondo nordico dei poemi, di James Macpherson, di Ossian, e ne rievoca in queste quartine la sostanza, la luce, la malinconia, quella specie di pessimismo greve da brughiera nordica che li percorre” …” ( Dunque Pietroburgo diventa Petropoli, come se fosse una città greca o una città latina, però una città dell’inferno, infernale. È un procedimento simile a quello del pittore fiammingo Delvaux, il quale ritrae le Fiandre come se fossero fatte di antiche acropoli, di antichi templi, di Partenoni, di elementi architettonici dorici, e in questi Partenoni passano dei treni, elementi moderni, attraverso le vie di una Fiandra avvicinata alla Grecia.)
    >>>>> “ Dice Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola e in un altro saggio La parola e la cultura che la lingua russa ha una natura ellenistica, e che ogni trasgressione di questa natura, ogni utilitarismo è un peccato contro la sostanza ellenistica della lingua russa. Cioè la poesia russa va collegata a quella classica; le radici, greca e latina, sono corpose e forti in Mandel’štam, e questo forse indica quello che egli chiama “ellenismo della poesia russa”….. “Il chiamare Pietroburgo, Petropoli, l’immettere elementi mitici in Pietroburgo, conferma quel suo gusto della cultura ellenistica alla quale, più vagamente della cultura greca, vuole agganciare la lingua e la poesia russa. Non è un tema così peregrino, perché si sa che la tradizione russa è fortemente connessa con Bisanzio, come l’ortodossia, e allora non è altro che un ritorno a certe radici già presenti da lungo tempo nella cultura russa, e che egli vuol mettere in chiaro, vuole tirare alla luce. Nell’epoca della crisi della coscienza cristiana in Russia, l’Armenia attraeva Mandel’štam per la persistenza della sua indole cristiana, anche per i suoi legami con l’antica Grecia, per la sua proiezione nel bacino del Mediterraneo. E si preparò a questo viaggio leggendo molti annalisti armeni, studiando la cultura armena e leggendo i poeti armeni. Fu un viaggio ed un oasi di riposo alla sua vita travagliata.”<<<<<< (Ripellino)
    —————
    Basta così, o potrei continuare per non fermarmi più !!!!

    • Salvatore Martino

      Come talvolta ti capita carissimo Antonio fraintendi: io non intendevo affatto contrapporre mediterraneo e mondo slavo,mi riferivo solo al fatto , che dopo una invasione incontrovertibile di test slavi nel blog appunto, salutavo finalmente un grande poeta della nostra amatissima Grecia. Tutto qui.

  23. antonio sagredo

    un Monumento di altra natura e genere……

    Exegi monumentum
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28378
    Mi sono eretto un monumento non di opera umana,
    Non s’infesterà il sentiero che ad esso avvicina,
    Con la testa indocile s’è innalzato più alto
    Della colonna alessandrina.

    No, non morirò del tutto – l’anima nella diletta lira
    Sfuggirà le ceneri, la putrefazione certamente –
    E sarò famoso, finché nel mondo sublunare
    Anche un solo poeta sarà presente.

    Parleranno di me in tutta la grande Rus’,
    E mi nomineranno nei loro propri linguaggi,
    Il fiero nipote degli Slavi, il Finlandese, il Tunguso
    E il Calmucco, figlio delle steppe selvagge.

    E a lungo al mio popolo io sarò caro,
    Che in un tempo crudele ho lodato la Libertà,
    Che ho acceso i buoni sentimenti con la lira
    E verso i caduti ho invitato alla pietà.

    Ascolta, o Musa, il comando divino,
    Non temendo le offese, non chiedendo corone,
    L’elogio e la calunnia accogli indifferente
    E con gli sciocchi non entrare in discussione.

    1836

    (trad. di Paolo Statuti)

  24. letizia leone

    Ricevo via mail da Giuseppe Gallo (autore di un romanzo biografico sulla figura di Tommaso Campanella di prossima pubblicazione) questo contributo al dibattito che, ringraziando, condivido con gli amici dell’Ombra:

    “Carissima Letizia,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/12/reperti-obelischi-e-monumenti-verso-una-archeologia-fredda-degli-oggetti-il-monumento-questo-oggetto-opaco-e-pesante-in-uno-scritto-di-jean-clair-il-monumento-nella-scultura-di-i/comment-page-1/#comment-28441
    ti ringrazio per avermi fatto partecipe della discussione sulla “Archeologia fredda degli oggetti”, sia della tua analisi de “Il Monumento ebbro” riguardante l’opera scultorea di Ivan Theimer. Il tutto concluso con la tua visione della Porta sull’Acropoli. Ho letto con interesse sempre più vivo i vari interventi tanto che mi vedo costretto a esprimere qualcosa in relazione agli argomenti in discussione. Riassumo:

    1) Il barocco e la Controriforma; o meglio, Barocco e Riforma del cattolicesimo.
    2) Gli oggetti o cose, o “cosità” come precisa Linguaglossa.
    3) Lo Spazio, il Tempo, Aristotele, il vuoto, ecc.

    In relazione al primo punto è innegabile che ci sia stato un rapporto di vicendevole influenza tra Barocco e Cattolicesimo. Non si potrà intendere il fenomeno culturale, letterario, nonché monumentale e architettonico, del barocco se non lo si ricollega alla radice teologica come veniva riproposta, dopo quella luterana e calvinista, ecc., nell’ambito spagnolo, portoghese e italiano, e nei lavori tridentini. Non vorrei rifare il meridionalista, ma qualcuno degli intervenuti ha ricordato già la fioritura baroccheggiante di Lecce. Si confronti qualsiasi chiesa leccese con qualsiasi sede di culto controriformistico e si avrà negli occhi la differenza fra le due forme “rituali”.

    In quanto a me, come calabrese, non posso far altro che ricordare Campanella e la sua lotta politico-religiosa contro il sistema culturale imperante. E contro chi lottava Frate Tommaso se non contro l’aristotelismo, ancora in piedi nella prima metà del Seicento? E non si era aperto il Seicento fra i bagliori del sacrificio di Bruno in Piazza Farnese? Tutta l’opera di Campanella era tesa, tra conati rinascimentali, sperimentalismi magici e visioni fantasmagoriche, a liberare il corpo e la mente dalle fissità aristoteliche, avvalorando quella “Natura iuxta propria principia” di origine telesiana. “Sentire di sentire”, affermava Campanella, precedendo lo stesso Cartesio; ovvero, abbiamo il diritto di dare dignità ai corpi, alla carne, al sangue e ai vari gradi dell’anima. Ma non disdegnava il metodo scientificodi Galileo Galilei… qualcuno potrebbe rileggersi le lettere e quanto il “mago” scriveva allo “scienziato” e in sua difesa.
    Per quanto riguarda gli oggetti, le cose, ecc. forse dovremmo ritornare indietro, magari a Kant. Ebbene, diceva Kant, se togliessimo un oggetto dallo spazio occupato, cosa resterebbe? Il vuoto! Ma per un’operazione del genere ci vuole il Tempo… non si possono praticare esperienze senza la nostra presenza! Solo la permanenza di chi pensa, agisce e opera non si può avere realtà. Ciò significa che Spazio e Tempo appartengono alla costituzione strutturale della nostra coscienza, del nostro Io… e dunque, Linguaglossa, elencando gli oggetti presenti sulla propria scrivania, ora e adesso, non può far altro che collegarli alla dimensione del proprio vissuto. E se cominciassero a svaporare? Anche questo ipotetico mutamento rientrerebbe nell’ambito delle nostra esperienza! Siamo noi a evocare oggetti e cose tramite parole, siamo noi a creare “fenomeni” prima assenti!

    L’indicazione di Wittgenstein, nel senso di indicare con l’indice, non potrebbe creare poesia, solo silenzio. Il problema non sono le cose, o la cosità, ma le parole! Ricordate Magritte? “Cecì n’est pas une pipe!” Un oggetto reale, evocato, rinominato e incluso in un ambito artistico, viene negato dal pensiero, diciamo, filosofico? Eppure nel nostro cervello quell’oggetto continuerà ad esistere e noi, con esso, inventeremo altri quadri e altre poesie.
    Allora? Ormai delle parole sappiamo tutto: significato, significante, funzioni, fonemi… ecc., però, spesso, dimentichiamo che esiste uno scarto, non solo fra il nostro modo di vivere le parole ( e che forse abbiamo già vissuto) e ciò che vorrebbero rappresentare; ma soprattutto tendiamo a dimenticare che dal momento in cui collochiamo le parole sulle pagine, o in un verso, allora la questione si complica: ogni parola diventa “un salto nel buio!” e noi siamo sul limite, sul bordo di una implicazione che ha a che fare con la contingenza, ma anche con il baratro dell’eterno.
    E veniamo alla tua Porta.

    Il viaggio verso l’Acropoli era per i Greci, lo ricorda Parmenide e spesso anche Socrate, un viaggio di purificazione. Attraversare le varie “porte” è una preparazione per essere nella condizione di avvicinarsi alla Porta per eccellenza, al pertugio che collega gli uomini e gli dei. Nei primi tuoi versi il richiamo al Tempio, mi sembra evidente; mercati, grilli, lucertole, formiche, tartarughe colombe, anfibi, uomini; hai radunato, da Oriente a Occidente, tutto ciò che ha a che fare con le “spianate” dei luoghi di culto. È una sarabanda di ectoplasmi congelati in un gesto, quello del prossimo sacrificio. È così che ci avviciniamo alla Porta! Ma l’attraversiamo? No! Ci giriamo intorno, ci annodiamo alle sue soglie, inginocchiati e schiacciati dal nostro peso! Ci incolliamo al suo architrave per spiare oltre, ma invano. Ci svolazziamo intorno, a volte, come mosche; a volte come farfalle… ma il vuoto ci risospinge indietro! Perché affanniamo davanti a tale crepa? Anche qui devo ricorrere alla cosiddetta “Dispositio naturalis” evocata da Kant. Proprio perché uomini, impastati di spazio e tempo, vorremmo sfuggire a noi stessi attraverso quella tensione metafisica che inscena per noi, e solo per noi, un orizzonte precario e indicibile. Così non possiamo far altro, davanti a tale disastro e davanti alle macerie di noi stessi che osservare gli altri noi stessi:

    “Saldati nei loro gesti brevi,
    Di cavalieri di piombo”

    immagine, questa che rinvia a quella di “La disgrazia elementare”:

    ” Ti sei ridotto così, a camminare
    con il contatore Geiger sulle spalle.”

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