
A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici
Giorgio Linguaglossa
Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.
Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.
Eppure, tra queste «cose» e la poesia che posto qui sotto ci deve essere un collegamento, anche se i temi e lo svolgimento non hanno nulla in comune. A proposito, questa è una poesia dimenticata, che ho dimenticato di inserire nel libro in corso di stampa, titolato Il tedio di Dio. Però c’è un misterioso collegamento che unisce questa poesia a quelle povere «cose» che sostano sul mio comodino da alcuni anni, ma non so più dove esso si trovi. Probabilmente, si è perduto per sempre nei meandri del mio inconscio e lì nuota come uno sciame di pesciolini d’argento…
Marco Alvino Getulio
(da Il tedio di Dio, di prossima pubblicazione)
A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
Sostenevano costoro che prolungare la vita
è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
e moltiplica il numero dei morti.
Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
per vivere una vita intensa e bella.
Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.
La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
ma il responso sibillino non mi piacque
e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
vive il popolo dei garamanti che si nutre
di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.
Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
– mi dissero quei barbari –
E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.
Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
ribrezzo e recrudescenza.
Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.
Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
E gli chiesi notizie intorno all’immortalità…

L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”
Commento di Donatella Costantina Giancaspero
” […] occorre tagliare/ al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo/ per vivere una vita intensa e bella”. In questa verità struggente consiste l’illusione dell’immortalità, per gli uomini. Una verità tragica che spinge Marco Alvino Getulio a cercarne altrove la conferma, la veridicità. La cerca in un “altrove” desolato, più desolato e terribile della stessa “verità”, ovvero della tesi dei filosofi cirenaici. E, nel deserto, nella desolazione dell'”altrove”, luogo di “ribrezzo e recrudescenza”, quella tesi trova finalmente la sua “verità”. Marco Alvino Getulio non lo dice, ma ce lo fa intendere fuggendo dalle “lande desolate”, nelle quali s’era inoltrato, più per paura della verità, forse, che animato da reale scetticismo e volontà di ricerca. Ce lo fa intendere scegliendo infine di ritornare “tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua”. Ma qui, un incontro, quello con “Dio alle porte di Persepolis”, la certezza di questo incontro cruciale, chiude la poesia nell’ambiguità e lascia il lettore a nuovi interrogativi… Che cosa vorrà dire l’incontro con Dio? Chi è Dio? Quale verità potrà aver rivelato al nostro Marco Alvino Getulio? Quale, a noi stessi?
Giorgio Linguaglossa
5 dicembre 2017 alle 10:56
Caro Steven Grieco Rathgeb,
ti pongo questa domanda:
in alcuni momenti, ad esempio nell’arte figurativa e nella poesia, assistiamo alla presenza della «cosa», rivediamo letteralmente la «cosa», come per la prima volta. La «cosa» si libera della cosità e appare nella poliedricità dei suoi «indizi», dei suoi «segni», dei suoi «rinvii» ad altro. Appare come «valore».
Faccio un esempio semplice e ovvio: quando assistiamo a ciò che avviene davanti ad un quadro di Edward Hopper o di Giorgio De Chirico o di Piero della Francesca, ci accorgiamo che lì non avviene niente, che le figure e le cose stanno ferme… ma poi, all’improvviso, ciò che era immobile si anima dall’interno, e vediamo quelle «cose» per la prima volta, o meglio, le riconosciamo perché dentro di noi le avevamo già viste. Questo è un fenomeno estetico che ciascuno può ripeterlo in proprio, talmente è ovvio.
Mi chiedo: come è possibile questo? Abbiamo forse aggiunto un «predicato di valore» alla «cosa»?
Scrive Heidegger: «L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza. I valori si trasformano in determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa… Ma già l’esperienza prefenomenologica riscontra nell’ente che si vuol pensare come cosa la sussistenza di un elemento irriducibile a cosità… Che significa, ontologicamente, l’”inerenza” del valore alle cose?».1]
Sappiamo quindi da Heidegger che «l’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei beni». E allora dobbiamo riformulare la domanda: Come può avvenire che la «cosa» si liberi della sua cosità? – Ecco, questa è la domanda giusta, perché dobbiamo presupporre che quei predicati della «cosa» non si aggiungono alla «cosa», non sono un di più che noi affibbiamo alla «cosa» ma sono una nostra proiezione, sono indizi, rinvii, segni che noi diamo alla «cosa» per il tramite del linguaggio organizzato. Dunque, il problema siamo «noi», è nell’esserci e nel suo linguaggio. Ciò che appare nell’opera d’arte, «la macchia dell’apparenza», per utilizzare le parole di Adorno, è in realtà il suo essere semplicemente-presenza, assoluta presenza che si volatilizza nel momento stesso della sua ricezione. La ricezione dell’opera fonda l’inerenza tra noi e il mondo, apre la «mondità» del mondo e ci rende manifesto il nostro in-essere nel mondo.
Ed ecco che la tua poesia si anima, inizia a muoversi e a stormire come le foglie di un bosco:
L’irrilevanza del poeta 2
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
È il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.
(Roma, via Merulana, autunno 2012)
1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. p. 130

Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
Adeodato Piazza Nicolai
5 dicembre 2017 alle 12:53
Capisco profondamente la condizione esistenziale di Steven Grieco e altri poeti della NOE. Dopo 40 anni di esilio ha capito un poco che non è possibile ritornare dall’esilio esistenziale…Se si ritorna, per caso o per pura disgrazia, si rimane per sempre nemo poeta in patria, per alterare alquanto una famosa battuta. il SILENZIO è l’unica vera parola che significa al giorno d’oggi. Montale aveva usato la metafora della rete a strascico per pescare alcuni keepsakes, ma certamente non parlava dei pescatori di frodo o dei tombaroli di banalità.
Lucio Mayoor Tosi
4 dicembre 2017 alle 17:15
Caro Steven,
la novità del web sta nello scambio immediato, nell’interattività. Prima non era possibile. Il mezzo non consente lungaggini, prima si arriva al dunque e meglio è. Questo vale anche per le immagini (le opere di pittura, in quanto ferme per sempre, hanno fatto il loro tempo). Quindi andrebbero considerati due fattori che considero funzionali all’interattività: la brevità e il movimento.
Brevità nel tempo di lettura: pochi secondi, quasi lo stesso tempo di un cambio immagine – 3 secondi per uno spot sono più che sufficienti, si può fare di più nei lungometraggi, ad esempio nelle panoramiche ma serve il grande schermo –. Va da sé che il frammento adottato nella NOE risponde anche a queste esigenze. Parole e immagini dovrebbero accorparsi nel montaggio. Di fatto, nelle poesie NOE, il montaggio riveste un ruolo determinante. Mi rendo conto di dire cose poco gradevoli ma è così. Queste cose le aveva già bene individuate Luigi Manzi in Fuorivia (2015). Ma sono presenti nella scrittura di Tomas Tranströmer. La Poesia non ne risente, diventa solo più difficile arrivarci. Comunque non saremmo lontani dalla composizione breve di haiku, tanka o chōka. Nella poesia irrompe l’immagine, è con questa che bisogna fare i conti. Si potrebbero anche considerare nuove soluzioni di poesia visiva. Ma dimentichiamoci delle chat, sono solo cose della telefonia.
Steven Grieco Rathgeb
5 dicembre 2017 alle 17:32
Caro Lucio,
non entro nella questione se elettronica o virtualità siano realtà più o meno concrete. Per me, glorificare e sminuire sono i due estremi della stessa cosa Non mi ci identifico. Tuttavia, l’Ombra delle Parole, per sua natura intrinseca, è già un avamposto verso la chat room. E cosa dire di Skype, etc. Ha più senso accettare lo scorrere degli eventi davanti a noi e attraverso noi (perché anche la virtualità non esisterà per sempre, ma adesso C’È, piaccia o meno), piuttosto che cercare di sminuirne l’inesorabilità.
Ad es., ai nostri tempi il rapporto fra “quantità” e “qualità” hanno finito per avvicinarsi incredibilmente, e confondersi perfino. Qualcosa di nuovo nasce sempre in questo mondo, in ogni attimo, e possiamo anche con un certo distacco costatarne la effettiva e relativa realtà. Ad es. dove un tempo si contavano diciamo fino a cento pezzettini di informazione, oggi si superano i miliardi: la quantità diventa così immensa (anche virtualmente, ma con realissime ricadute sul concreto) da impattare in modo massiccio sulla qualità. Infatti, il concetto di qualità che avevano ancora i nostri genitori… dove è andata a finire, adesso che facciamo uso di paccottiglia in ogni luogo della nostra vita: dalle news al mobile creato in serie?
Passo ad un altra cosa che mi interessa di più. Ovvero il commento di Giorgio, ieri in questo post, sulla eventuale differenza fra “oggetto” e “cosa”. In qualche modo Anna Ventura ha tagliato la testa al quesito, facendo notare che il latino “res” li dice tutti e due nel contempo. Verissimo, non fosse per i nostri disgraziati – ma molto entusiasmanti! – tempi ologrammatici, in cui le cose hanno il brutto vizio di sdoppiarsi. Per cui, il quesito di Giorgio rimane, e anzi va a scavare direttamente nel fare poesia, laddove l’oggetto cessa di avere un sua valenza assoluta, e diventa semplice cosa. Ecco che la cosa prende a fluttuare, a volare libera, come la figura femminile sdraiata sul letto nel film Zerkalo (Lo specchio) di Tarkovskij: quando del tutto immobile e ancora in posizione orizzontale lei si libra sopra il letto e prende a fluttuare. Il film è del 1984. Ma lì viene espressa meravigliosamente la questione posta da Giorgio. Ovvero, dà una soluzione squisitamente artistica, estetica ad una questione astratta, teorica. E bene ha fatto Giorgio a porla! Penso che noi poeti della NOE dovremmo rivedere quel film.
Se batto il ginocchio contro il tavolo e mi faccio male, e poi rifletto che a livello subatomico il tavolo è in preda a leggi fisiche totalmente altre e a me invisibili, be’ allora, inizio a vederci doppio. E questo in effetti, è ciò che viviamo oggi. Ma lo scienziato, pur allontanandosi nel pensiero e nel lavoro di mille anni luce dalla realtà di ogni giorno, rimane un essere umano che è nato, vive e muore. Ecco, questa disparità strana, fra un universo immaginato, ipotizzato – che però ha delle ricadute molto reali sull’ognigiorno, come per esempio la risonanza magnetica (lasciamo stare se funziona sempre alla perfezione o no…) che è frutto di ricerche teoriche sulla realtà dei rapporti fisici sub-atomici – e un VIVERE qui, ecco su queste cose anche la poesia può aprire gli occhi.

Alfredo de Palchi (al centro) con Gerard Malaga
Giorgio Linguaglossa
5 dicembre 2017 alle 18:06
Caro Steven,
leggiamo una poesia di Anna Ventura e vediamo come nella sua poesia gli «oggetti» diventano «cose»:
La pagina bianca
Lascio me stessa
seduta davanti alla finestra
della casa di campagna, la vista
aperta su un paesaggio
di colline innevate,
boschi neri,
comignoli cadenti.
Qui dovrei scrivere il libro
Che risolva ogni dubbio,
che mi dia la pace che dà
solo ciò che è necessario.
Ma è già tardi e bisogna tornare
In città, nella vita concreta.
Ti lascio qui,
nel freddo,
avvolta in uno scialle a colori,
mentre nella cucina grande
già si spegne il camino, dal cielo
cadono le ombre, la pagina bianca
è ancora da scrivere.
Tema di questa poesia di Anna Ventura è l’abbandono del sé: «Lascio me stessa / seduta davanti alla finestra»; l’abbandono del sé implica l’adozione di una «distanza» di noi da noi stessi. Paradossalmente, il Sé sono due persone che si trovano in due luoghi diversi, proprio come accade agli elettroni nella fisica quantistica che possono trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi e lontanissimi dello spazio-tempo.
In un’altra poesia troviamo un appunto di Anna Ventura: «Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola». Dunque, l’operazione della poetessa di Montesilvano implica due moti: un allontanamento da se stessi e un allontanamento dalle «cose»; tutta la sua poesia parte da questo assunto esistenziale. Posto questo duplice allontanamento, il momento successivo è il dis-allontanamento, cioè quel moto di riavvicinamento da due allontanamenti. In proposito è illuminante una notazione di Heidegger:
«il disallontanamento dev’essere inteso come un esistenziale. Solo perché l’ente è in generale scopribile da parte dell’esserci nel suo esser disallontanato, divengono accessibili le “lontananze” e le distanze fra un ente intramondano e l’altro. Due punti e, in generale, due cose non possono trovarsi in un rapporto di disallontanamento perché nessuno di questi due enti può, in conseguenza del suo modo di essere, esser tale da disallontanare. fra di essi non c’è che una distanza, constatabile e misurabile solo in base al dis-allontanamento».1]
È proprio da questa operazione di duplice allontanamento e dal successivo moto di riavvicinamento che scocca la poesia di Anna Ventura, e in quello scoccare le «cose» mirabilmente si accendono dall’interno. È questa différance che fa grande la poesia di Anna Ventura.
«L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza»,2] scrive sempre Heidegger, quella «vicinanza» che è il prodotto del ritorno da quel duplice allontanamento da se stessi e dalle cose.
1] e 2] da Essere e tempo trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi, 1970

Foto di Francesca Dono// Altissima sui sugheri,/ cammino per le stanze./ È estate.
Ecco un’altra poesia di Anna Ventura:
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
– oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.
Qui il tempo è diviso in due parti: l’«ieri» e l’«oggi», tra i due tempi si apre il divario della distanza allontanante. Improvvisamente, qualcosa accade «oggi» che ci fa vedere le cose con occhi nuovi, diversi. Che cosa sia accaduto la poesia non lo dice, non lo potrebbe dire perché esula dal suo raggio di introspezione andare oltre il proprio perimetro, la poesia si muove sulla semplice presenza di ciò che c’era «ieri» e di ciò che c’è «oggi». In una parola, è cambiata la presenza?, no, non è cambiata la presenza, è cambiato qualcosa che sta dentro di noi e fuori di noi, ma noi non sappiamo precisamente che cosa sia cambiato. Per l’io auto organizzatorio basta prendere atto che qualcosa è cambiato. Le parole della poesia sono eloquenti: «ieri, / uno sciame di vespe mi seguiva. / Oggi tocco la realtà e le cose: / angoli e superfici tonde». Chiediamoci: si tratta di una mera esperienza psicologica soggettiva?, di una mera opinione personale?; no, non direi, a mio avviso è qualcosa che è inerente al reale, il reale è questo che vediamo «oggi», non più quello di «ieri». L’«oggi» è più reale di «ieri».
Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».
Per Derrida, il «logocentrismo» è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il «bisogno di verità» della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné“). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone“). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di «rimozione» è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
Husserl sostiene che il presente (l’adesso nella sua puntualità) si compone di un non-presente, ogni percezione di una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata anche la possibilità di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitaria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità epochizzabile.
Il pensiero poetante di Anna Ventura assume un punto di vista critico-scettico verso ogni posizione di poetica logocentrica, che cioè si adegua in modo irriflesso ad una metafisica della «presenza della cosa», ovvero, che adotta una procedura ironica. La Ventura sa per istinto e per pensiero che laddove c’è la «cosa» non è detto che esista una «parola» adeguata. Tutto il suo tentativo poetico si gioca su questo punto: l’avversione verso la poesia logocentrica e fonologica che crede di poter identificare la presenza della cosa con la cosa stessa e, quindi, con la sua referenzialità linguistica. Il suo sforzo è teso a non identificare ingenuamente presenza della cosa e logos; il logos è sempre non originario, affetto da secondarietà.

Questi piccoli fogli bruceranno/ con tutto il resto
Anna Ventura
Questi piccoli fogli bruceranno
Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
(da Antologia Tu Quoque. Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014
“In fondo, in fondo”
La Sibilla lasciò l’antro di accesso,
si inoltrò nel corridoio lungo.
In fondo, in fondo,
stava la sua tana. Lì
preparava le foglie
e le metteva nel cestino.
Quel giorno era infuriata con Apollo,
che se ne stava nel Tempio,
lì vicino,
dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,
assediata dall’erba e dai rovi.
Quel giorno, sulle foglie,
scrisse una cosa bruttissima : .
“Guardatevi dall’amore”.
Ma poi che Apollo,
per mezzo di un piccione,
le inviò in dono un fiore,
la Sibilla tornò di buon umore,
e sulle foglie scrisse:
“Non abbiate paura”.
1] M. Heidegger Essere e tempo, p. 137
2] Ivi, p.138
Steven Grieco Rathgeb
5 dicembre 2017 alle 22.40
Caro Giorgio, vai a prendere due poesie di Anna così profonde, forti eppure inafferrabili, sfido che torna la tua teoria! Scherzi a parte, sì, è proprio così: queste poesie sono letteralmente permeate da quello che io, prendendo in prestito il termine scientifico, chiamerò INDETERMINAZIONE, in campo poetico. Come in tutta la migliore poesia europea e mondiale, ormai, come per esempio in Katarina Frostenson, la singola composizione non sembra andare da nessuna parte, e poi si compie… O meglio, arriva l’ultima parola e così la poesia, semplicemente, finisce. E’ proprio questo senso aperto del dire, e del mondo (che qualcuno erroneamente potrebbe chiamare “vaghezza”) che vogliamo sentire in una poesia oggi. Sia il lettore a trarne la suggestione estetica, semmai; il che è molto diverso dal “significato”. Nelle poesie di Anna c’è questo, molto. La poesia sembra farsi da sola; serpeggia fra diversi momenti e stadi di interrogazione e auto-interrogazione, che non vengono mai fissati, definiti, e allora il senso del vissuto diventa molto forte. Nella nostra civiltà del positivismo – perché il positivismo regna ancora dappertutto, e regna il senso dell’onnipotenza dell’agire umano (che un po’ mi fa ridere) – in questa nostra civiltà ancora non si è capito che tutte le risposte, con il tempo, tornano ad essere domande. Questo senti nelle poesie di Anna, e gioisci. Senti questo meraviglioso arrendersi al mondo. Ciò denota una maturazione esistenziale particolare: e in questo contesto come potrebbero le cose essere oggetti?
Il principio di indeterminazione estetica, a proposito, e anche forte in alcune delle poesie che hai postato oggi del poeta Del Nero. Ma di questo vorrei parlare domani in quel post.

Lilith. La donna destino./ Il desiderio. E la voglia di desiderare.
Gino Rago
3 dicembre 2017 alle 17:27
E prima del peccato originale? Lilit
Prima Parte
(Antefatti)
Lilith. La donna destino.
Il desiderio. E la voglia di desiderare.
Nessun maschio ti è sfuggito.
Nessun maschio vorrebbe sfuggirti.
Le due lune. La nera che completa la bianca.
L’Astinenza che in te si fa l’inizio del possibile.
Lilith. La donna-paradiso caduta dal paradiso.
Il sud perché contiene il nord.
La notte perché lei stessa è il giorno.
Il lato destro perché è il sinistro. La purezza.
Che in lei è la scintilla della dissolutezza.
La tenebra femminile. Non la femmina-luce.
(Ciò che manca all’uomo perché non si penta.
Ciò che alla donna manca perché la donna sia).
Lilith. L’immagine femminile prima del peccato originale.
Preda e predatrice. E la donna libera in catene.
(Il poeta racconta Lilith)
(…)
“Mi hai chiamata Lilith…”
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith
perché incateni gli uomini
e poi piangi perché tornino alla loro libertà.
Sei la luce dell’alba la cui nudità destini solo ai ciechi.
Sei la donna libera. Libera persino dalla libertà.
La prima donna di Adamo. La prima disobbedienza.
La fusione del sonno e della veglia.
La fonte d’acqua viva e il Sahara.
(…)
Ti chiama Lilith quel poeta
perché sei il segreto delle dita insistenti.
Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.
Canto di colomba per domare i leoni.
(…)
Di nascosto il poeta ti chiama Lilith
perché sei la Regina di Saba. Sei Circe.
Sei Elena di Troia e Maria Maddalena.
Perché vieni dal soffio nel fango
non estratta da costola umana.
“E prima del peccato originale? Lilith”
Seconda Parte
( Lilith racconta Lilith )
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare. Sono la sposa delle sette notti.
Nessun amante sa che se mi sfugge
Correndoda me mi viene incontro.
Chi mi ascolta va verso la morte.
Quanti non vogliono ascoltarmi
Si scavano la fossa. Chi non mi ascolta
Merita la morte nel rimorso.
Sono mano della serva. Finestra della vergine.
Sono la prima donna di Adamo.
So tutto della noia del paradiso e del primo uomo.
Conosco il trono di Balqis e il dono di Salomone.
Sono lo smeraldo senza filo caduto nella polvere.
Sono il centro della damnatio memoriae
Perché detengo il segreto delle maree.
E della luna quando brilla nelle mie labbra verticali.
“E prima del peccato originale? Lilith”
Terza Parte
(Dio racconta Lilith)
“Ogni volta che invento una donna ne rimango deluso.
Sembra che un sole si spenga. Che una luce tramonti.
Lilith ha detto: ‘Non può esserci salvezza per gli angeli
se non nella caduta. Nessuna redenzione mi trattiene.’ ”
“Nessun trucco allontana dal mio animo il ricordo di Lilith”.
(…)
“L’uomo è fascina di paglia nel campo.
Lilith è la scintilla.
So che il viaggio è l’origine. Partirò per ricominciare.
Perché Lilith è la donna. E conosce il fondo”.
(…)
“Non mi accontenterò perché Lilith aveva ragione.
Il paradiso è sul fondo….”
Un poeta che entra ed esce dallo Spazio Espressivo Integrale:
Steven Grieco-Rathgeb
Steven Grieco-Rathgeb (“Entrò in una perla”)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28176
“Entrò in una perla” è la composizione poetica forse più ambiziosa di Steven Grieco-Rathgeb perché ci fornisce una sorta di resoconto pieno dei rapporti dialettici tra l’anima e l’Io: “Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai…/ (…) E allora noi, prismi ignari,/ tornammo a splendere…”. E lo scontro fra i due termini del binomio Io-anima si avverte nello sfregamento repentino del passaggio rapido dall’Io pagliaccio al “noi” prismi ignari. Sotto questo aspetto, Steven Grieco-Rathgeb lo sento come poeta whitmaniano , soprattutto quando approdo a un altro suo verso rivelatore:”… un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte” ove le due parole-chiave “mistero-notte”, ma verso cieli altissimi, possono essere nella mitologia segreta del poeta una oceanica assenza (madre, padre) assenza, bene espressa da forza inventiva e padronanza metaforica. E poi Steven Grieco-Rathgeb, in altri versi, ci dà il suo incantamento di fronte al susino in fiore. Ed è anche il nostro incanto. Anche se in “Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa” Walt Whitman negli ultimi versi confessa:
“Da quella pianta dai fiori dal colore delicato
con le foglie a forma di cuore d’un verde intenso
stacco un rametto fiorito”
Steven al contrario si arresta di fronte al miracolo dell’albero fiorito. Gli basta il miracolo e lo dice in una pacatezza “soprannaturale.”, in una intima ontologia estetica, avendo ogni poeta una propria, specifica, unica, irripetibile cartografia psichica. Il tutto, per dirla con una riflessione di Giorgio Linguaglossa su questa poesia in un “verso libero privo di unità metrica… Un verso libero privato della sua libertà, un verso libero prodotto del/dal nichilismo compiuto.”
Critica letteraria (nota di Giorgio Linguaglossa) e versi (di Steven Grieco-Rathgeb) qui sono al loro acme, dal greco akmé. Il quale, com’è noto, presenta plurimi significati: ‘vertice’, ‘punto culminante’, ‘massimo vigore’, ‘il più alto grado di qualcosa’; ma, nel caso dell’acmeismo, akmé può essere anche ‘il fiore’, ‘la stagione del rigoglio’.
Nella pagina de ‘ La Presenza di Erato’, ben coordinata da Luciano Nota, l’akmé nelle parole del critico Linguaglossa e del poeta Grieco-Rathgeb racchiude tutti i significati plurimi che prima ho elencato, anche se il mio personale plauso va a questo verso (citato nel suo commento dallo stesso Steven):
“(…) le immagini spezzate da un soffio d’aria….”
Si spezzano le immagini e con esse si rompe nel poeta il filo diretto fra l’Io e il Sé. Si stabilisce una distanza fra il poeta e il mondo, si apre una voragine fra il poeta e ciò che Mariella Colonna chiama “mistero” e che invece Giorgio Linguaglossa preferisce chiamare la “Cosa” e che io dico l’Assoluto. Ovvero le immagini spezzate nella coscienza del poeta aprono un baratro fra il Sé e la Bellezza…
E, in questa condizione di perdita e di assenza, si spezza anche il legame fra il poeta e gli “oggetti”, che rimangono tali, senza mai farsi “cose”.
Da qui quello stato d’animo che invade il poeta e a cui Fernando Pessoa attribuì il giusto nome: “saudade”.
La saudade che è anche in Adeodato Piazza Nicolai e in Anna Ventura, in Gino Rago e in Giorgio Linguaglossa, in Costantina Donatella Giancaspero e in Lucio Mayoor Tosi, per considerare i poeti oggi presenti in questa importante pagina de L’Ombra delle Parole.
La saudade che in Pessoa è più intensa del Pothos nei greci…
Gino Rago
(Su Lucio Mayoor Tosi e sulla sua recentissima produzione sto
ancora elaborando una nota degna delle sue qualità poetiche).
GR
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Non capisco perché l’amico Salvatore Martino ultimamente si sia lamentato
per una inflazione di poeti della sfera slava ecc…e una dimenticanza dei poeti italiani. A me sembra proprio il contrario…
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Inoltre nella testata leggo: L’Ombra delle Parole Rivista di Letteratura Internazionale, non c’è il sottotitolo: con una preferenza per quella Nazionale.
Pardon: Letteraria ma il succo non cambia…
Morte è il mistero: se in vita a malapena sapevamo di non essere i nostri vestiti ( apparenza), davanti alla morte – di altri, per la nostra si vedrà – non sappiamo più se davvero siamo corpo.
Così è l’Io per chi scrive. L’Io, corpo e apparenza, va a morire. L’essere accoglie tutto ciò che non è, come niente può cambiare corpo e vestito, è altro e altrui. Se non è questo l’essere morti, quanto meno è un prepararsi alla morte facendone esperienza in vita.
Dunque, scrivere è un po’ come credersi della stessa natura dei morti. Come dire che non esiste morte. Di conseguenza non esiste nascita. E durante la vita, nemmeno vera appartenenza.
Penso anche che stando con le “cose” possiamo fare più esperienza di morte di quanta ne faremmo se davanti a un cadavere. Già toccarlo, sarebbe toccare la cosa…
Essere per la morte (Heidegger) significa che la morte è sempre presente
dall’ansia della morte è nata la filosofia.L’appartenenza è il gruppo, si vive meglio ad averlo …dicono
terzo mistero irlandese e in-glorioso
(trans/con/sub-stanzia)
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Tutto il principio fu un tormento d’alibi e trapassi,
ricatti, creazioni, postcreazioni e risurrezioni!
Eva ci vendette per una meluccia da un copeco,
la Grande Madre che nulla sapeva dell’increato
e dell’incesto una sola volta fu vista vergine madre figlia
del tuo figlio! – ma del calice fu esperta pescatrice orale!
Come una druda fanciulla fu megafono del trans
e del con, ma in niun caso divenne una celebre sub !
E succhiava come Dulcinea aste armate e palle al vento!
E decollava come Giuditta tra capelli e parrucche gli eretti falli!
Ma era delusa come Lilith dai gonfiori… celebrò sugli altari osceni
le spine della sua rosa e… in gloriam dei ascese al suo Piacere!
antonio sagredo
Vermicino, 24 settembre 2008
Ricevo sulla mia e-mail queste riflessioni problematiche, dotte, sottili di Rossana Levati tutte imperniate sulla fedeltà assoluta alla nostra Rivista di
Letteratura Internazionale. Per le questioni che queste riflessioni garbatamente ma con fermezza etica mettono sul tappeto,
pur combattuto fino all’ultimo istante fra due grandi forze antagoniste, scelgo
alla fine di copiarle, incollarle e pubblicarle, non senza sentitamente ringraziare Rossana Levati, questa dotta e fedele compagna di viaggio la quale sempre addolcisce quello che, con Pessoa e almeno Giorgio Linguaglossa al mio fianco, è il mio male peggiore: non riuscire né ad accogliere né a dimenticare la mia presenza metafisica nella vita, con il mio mai nominato “IO” che sento come
“lo spazio vuoto fra le cose”.
“Ciao Gino,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28202
mi sto chiedendo da un po’ di tempo con quali parole ringraziarti per il tuo lavoro, per me davvero immenso, di interprete ed esegeta della poesia contemporanea: quando leggo le tue note così dense e dettagliate su tutti gli autori di cui ti occupi penso che hai davvero il dono di illuminare con le tue parole testi di grande densità e difficoltà; hai avuto in particolare per me la capacità di aprirmi nuovi orizzonti e di indicarmi strade, percorsi esemplari per accostarmi alla poesia contemporanea, sia essa italiana o straniera, di maggiore o minore rilievo ed efficacia (senza parlare della durata degli autori nei secoli a venire..)
Ti dirò che non capisco le numerose polemiche di cui leggo traccia recentemente su l’Ombra: troppo spazio ai poeti slavi, troppo poco ai poeti greci o occidentali, troppo poco spazio agli slavi, troppo ai poeti italiani, troppo poco alla poesia internazionale, come se l’una pagina togliesse qualcosa all’altra, come se la poesia avesse una bandiera o una nazione, come se il discorso, che tu e Giorgio L. state egregiamente svolgendo sulle direzioni della poesia, sulla sua consistenza e sul suo territorio potesse essere svilito dal soffermarsi su questo o su quell’autore.
Io nel mio piccolo “recinto”, come tu stesso lo hai definito, posso dire di aver imparato tanto da queste letture e dalle vostre proposte; non solo autori e autrici sconosciute per me ma soprattutto linee-guida per orientarmi nel “regno” della poesia che credevo di conoscere ma che rileggendo con le vostre indicazioni ho potuto guardare con “occhi nuovi” .
Giusto ieri sera rileggevo alcune note di Giorgio L. su “oggetti e cose” che mi hanno particolarmente colpita, le ho salvate separatamente per tornarci con un po’ più di tempo in futuro; oggi aprendo la pagina dell’Ombra l’ho trovata “sorprendentemente” proprio dedicata a questo argomento, con enorme gioia per me! Che i poeti fossero italiani e contemporanei mi è sembrato un pregio, non un difetto, anche se magari più che la tua Lilith ci avrei visto volentieri Collage o 16 Ottobre 1943, ma questo è un mio pensiero soggettivo per il quale non mi sogno certo neanche lontanamente di protestare. Invece leggo proteste di chi eccepisce e mugugna a corredo di questa stupenda pagina.
Solo per dirti quanto sono decisive per me queste letture degli ultimi due giorni, è proprio su questo prezioso contributo che vorrei lavorare in futuro, nella mia prossima classe quinta che l’anno prossimo dovrò portare all’esame: questa classe ha un potenziamento di matematica, quindi è esclusa dal mio lavoro di quest’anno sulla poesia contemporanea. Però, mentre avrò il vincolo del programma di prosa e poesia da svolgere, vorrei attivare anche per loro qualche percorso tematico sulla poesia del Novecento: appunto, “Oggetti e cose” mi ha aperto un mondo, e l’altro sarà probabilmente “L’assenza di Dio”, su cui però sto già lavorando con il gruppo di quest’anno…
Del lavoro di quest’anno ti parlerò più avanti…(…)
perché l’obiettivo di questa mail era una riflessione “a cuore aperto” su quello che leggo su l’Ombra (critiche assurde) soprattutto in questo periodo. Forse anche certi poeti (o presunti tali) hanno la mente piccola e il cuore piccolo, come tutti gli altri uomini.
Ma c’è almeno qualcuno ogni tanto che ti dice “grazie”?
A presto
Rossana”
Rossana Levati
Belle letture. Una grande pagina di poesia.
Cara Francesca,
mi fa piacere che Tu risponda, ma non in questa maniera, che non significa nulla…
Che cosa vuol dire o cosa vuoi dire con ” belle letture” e peggio con “una grande pagina di poesia”?
A me non dice nulla di nulla.
Vero , caro Antonio. Ma non amo molto commentare. E’ solo un modo per farvi capire che sono presente e che vi leggo.. Niente di speciale. Un carissimo saluto !
Va be’…ma che vo dí….
Carissimo saluto?
Perché non si può salutare?
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Credo che possa interessare – in relazione al tema gli oggetti e le cose – il fatto che nell’ordinamento giuridico, in particolare nel codice civile, gli oggetti sono designati quali “beni”, mentre la “cosa” è – in una volta – il “bene” e il “diritto” che su di esso insiste. L’interesse potrebbe derivare dal considerare il fatto che nella filosofia del diritto contemporanea [che definirei filosofia (giuridica)] il diritto è sinonimo di interpretazione (p. es. M. Ascoli).
caro Simone,
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il diritto non fa altro che prendere atto della differenza individuata dalla filosofia tra oggetti e cose… Resta il compito del pensiero estetico sgombrare il campo dai truismi secondo cui la poesia deve occuparsi degli oggetti; è vero il contrario: la poesia ha sempre e da sempre avuto rapporti con le «cose».
quindi “gli oggetti” non hanno il “diritto” ?
Ma “designati” sta per qualificati?
Gli oggetti allora hanno per qualità unicamente essere “il bene”?
Non esiste la poesia degli oggetti, esiste la poesia di cose
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sul sito dell’editore Laterza, a commento del libro di Remo Bodei, La vita degli oggetti (2016), si possono leggere questi Appunti. Mi sento di consigliare a tutti i poeti, notoriamente a digiuno di riflessione filosofica, l’acquisto e la lettura di questo libro:
Bodei segue la distinzione tra oggetti e cose, dove le cose sono ciò verso cui si ha un investimento affettivo, mentre gli oggetti sono semplicemente ciò che si contrappone ai soggetti. Le nature morte, cui Bodei dedica alcune tra le pagine più belle di questo libro, sono la massima espressione della caducità, perché gli oggetti trionfano sulla morte, i soggetti no, a meno che si facciano imbalsamare diventando oggetti resistenti. [Maurizio Ferraris, “Il Sole 24 Ore”]
Questo volume ha qualcosa di eccezionale e sorprendente, anche se parte da un’osservazione che tutti in un certo momento della vita abbiamo fatto: gli oggetti vivono dentro di noi ma hanno anche una loro vita indipendentemente da noi. Bodei tocca e scioglie una serie di nodi che spesso impigliano la nostra mente e i nostri pensieri. [Eugenio Scalfari, “L’espresso”]
Semplici cose. Oggetti nudi, ancora nuovi o già logori, intatti o consumati, comunque destinati all’insignificanza e alla distruzione. È questo il destino delle cose? O esiste un altro sguardo su di esse, capace in qualche modo di riscattarle dal loro ruolo anonimo e inerte? È questa la domanda, intensa e originale, che pone Remo Bodei in questo libro. Roberto Esposito, [“la Repubblica”]
*
«La mancata distinzione fra cose e oggetti ha provocato una notevole serie di fraintendimenti». Così Remo Bodei inizia la sua lectio magistralis: “La vita delle cose”. Oggetto deriva dal latino objectum e indica ciò che si oppone al Soggetto nel senso che costituisce un ostacolo, un problema, una sfida che obietta alle sue pretese di fagocitazione e quasi gli impedisce di affermarsi. Oggetto è qualcosa che si usa, che si manipola, che ha un mero valore d’uso o di scambio. Cosa è forma contratta del latino causa e deriva invece da res, che richiama l’idea del riunirsi in assemblea per decidere e quindi qualcosa che ci sta a cuore e per cui ci si batte. La stessa res publica indica ciò che merita una discussione pubblica e fonda il senso di appartenenza dei cittadini alla comunità. Dobbiamo imparare a guardare e pensare alla distinzione fra Oggetto e Cosa, togliendo da quest’ultima la polvere della banalità e ricercando stratificazioni di senso che ci fanno innalzare sopra la mediocrità. A differenza degli Oggetti, sulle Cose ragioniamo a fondo e le amiamo addirittura: esse sono ponti di collegamento, raccordi tra civiltà e natura, centri di relazioni molteplici. Dando maggior valore alle Cose in questo modo, lo stesso Soggetto acquista valenze e significati più profondi. Quando amiamo le Cose, di queste accettiamo la loro diversità da noi, riconosciamo la loro autonomia. Nascono di qui diversi percorsi di cura, sollecitudine, attenzione, volontà di sapere. Un esempio di trasformazione di un Oggetto in Cosa è quello del frigorifero di ultima generazione che dialoga col supermercato per segnalare la mancanza di latte! Oggi l’ammontare di scambio di informazioni tra cose supera quello tra persone. Dopo aver fatto diversi esempi pratici, il professore della Ucla sottolinea che la transustanziazione degli Oggetti in Cose implica la sedimentazione di una pluralità di sensi, significati e simboli che vanno dalla conoscenza delle origini delle Cose stesse, ai loro diversi utilizzi nel tempo e nello spazio, agli affetti e ai pensieri che possono aver prodotto. L’indagine di tali aspetti (si pensi ai fumetti della prima metà del ‘900) permette a una generazione di condividere l’epoca storica di quelle che l’hanno preceduta. Le Cose nascono e muoiono, entrano ed escono dal nostro orizzonte spazio-temporale. Una volta duravano molto di più ma oggi, con la produzione in serie e il consumismo sfrenato, diventano subito obsolete e non riescono più a sopravviverci perché sono programmate per durare poco. E Bodei pone una serie di domande imbarazzanti: possiamo cambiare il modello del consumismo? Saremo mai capaci di condividere ciò che abbiamo con chi ha meno? Potremo tornare a un’epoca di frugalità? Saremo mai in grado di vincere la nostra attuale bulimia acquisitiva? Dobbiamo reinventare modelli di vita, di silenzio, di serenità, di valori non misurabili in termini di PIL. Dobbiamo tornare al piacere della convivialità, del dono, dell’amicizia, della gratuità dei comportamenti. Forse, quando la necessità preme perché il peggio è già passato e siamo a un passo dalla catastrofe, questi cambiamenti si produrranno. Di certo lo sforzo di vedere e trasformare gli Oggetti in Cose può aiutare in questa direzione. Lo stesso sisma può farci cambiare il rapporto con le cose, constatarne la caducità, capire qual è la vera posta in gioco. Il mondo è comunque più ricco di quanto sembri allo sguardo che si posa sugli Oggetti che non sono ancora diventati Cose.
[festival filosofia 2012]
Nella forma-merce dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo, viene ad assottigliarsi fino a quasi scomparire del tutto le linea di demarcazione tra gli oggetti e le cose, la merce deve durare tanto quanto dura il consumo, questa utilizzazione dell’oggetto-merce determina l’eclisse della durata: l’oggetto viene rapidamente sostituito da un nuovo oggetto, tale sostituzione implica l’abolizione del tempo e della temporalità dell’esserci. Se consideriamo che le «materie» oggi disponibili sono in gran parte artificiali, ciò contribuisce a quella perdita del legame psicologico e concettuale che lega la natura all’oggetto. Il consumo degli oggetti-merce produce la distruzione del tempo della durata con tutti i risvolti filosofici e psicologici che conseguono a tale perdita. Perdita così grave da non avere precedenti nella vita dell’homo sapiens dalla sua comparsa sulla terra ad oggi.
L’arte è quel «luogo» dove avviene la tarsmutazione degli oggetti in cose, collocandosi in quella zona insostituibile per l’ecologia della mente umana perché fornisce la possibilità di un più intenso appagamento mediante la fruizione delle cose in quello spazio linguistico-simbolico che è, propriamente, la casa dell’esserci, la nostra patria spirituale.
La «nuova ontologia estetica» concentra la sua speculazione su questo nesso che collega e divide gli oggetti e le cose. Dal modo con cui un poeta utilizza le parole possiamo discernere se egli usa le parole come equivalenti degli oggetti o se usa le parole some equivalenti delle cose. La distinzione è ovviamente di fondamentale importanza. Se si legge la poesia presente nel post di Anna Ventura (che risale se non sbaglio a circa venti anni or sono), balza evidentissimo il fatto che la poetessa di Montesilvano sta trattando delle «cose» e non degli «oggetti», si tratta di una percezione vivissima ed immediata che ciascuno può far propria. La poesia è una «pagina bianca» abitata, anzi, affollata di «cose».
Dunque, la poesia veramente grande tratta sempre e soltanto di «cose», mai di «oggetti», tanto è vero che quando Anna Ventura scrisse la poesia che abbiamo postata la «nuova ontologia estetica» non era ancora nata. Ciò significa che la «nuova ontologia estetica» è un movimento di pensiero che pensa l’arte e la poesia contemporanee secondo una nuova sensibilità e mediante categorie estetiche nuove e mediante l’accentuazione di categorie estetiche riprese, ripescate dal passato e riconsiderate alla luce della nuova sensiblerie.
Per Heidegger le «cose» si incontrano nel mondo e soltanto nel mondo, noi siamo nelle cose e con le cose, mai negli oggetti e con gli oggetti. Scrive il filosofo tedesco: «queste “cose” si incontrano a partire da un mondo in cui sussistono come utilizzabili per gli altri; il mondo, questo, che è anche, fin dal principio, il mio».1]
1] M. Heidegger Essere e tempo op. cit. p. 153
(…)
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La riflessione sugli oggetti ha accompagnato la cultura del Novecento capaci come sono di veicolare idee, immagini, comportamenti, quasi nel tentativo di vedere in essi la sopravvivenza dell’ordine simbolico e tradizionale. Ma il pensiero postmoderno ci dà arresi alle copie di copie, ai simulacri senza originale.
Ma cosa accade agli ‘oggetti’ quando vengono percepiti come ‘cose’ e come tali sembrano possedere la capacità di stabilire relazioni? Qui nei miei versi mi sono rifatto a una meditazione ad hoc di Remo Bodei (1) secondo cui «Se oggetto è la cosa fisica che viene ‘gettata’ (ob-jectum) davanti a noi, quasi a farsi ostacolo, il lemma italiano ‘cosa’ è contrazione di “causa”, nel senso di ciò che ci sta a cuore, che riteniamo tanto importante da coinvolgerci nella sua difesa….Perché noi investiamo intellettualmente e affettivamente gli oggetti. Diamo loro senso e qualità sentimentali. Li avvolgiamo in scrigni di desiderio o in involucri ripugnanti. Li inquadriamo in sistemi di relazioni. Li inseriamo in storie che possono ricostruire e che riguardano noi e gli altri, noi o gli altri.
E investiti così di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, “gli oggetti diventano cose”, “gli oggetti in noi e per noi si trasformano in cose”».
E le “cose” finalmente così intese diventano, per dirla con J.L.Borges, le parole di quell’Idioma in cui giorno e notte “Qualcuno” o “Qualcosa” scrive quell’infinito intreccio che è la storia del mondo.
Gino Rago
(1) Remo Bodei La vita delle cose Editore: Laterza – Collana: Anticorpi – Edizione: 4 (2009) EAN: 9788842089988
(dalla Relazione letta da me in uno dei Laboratori Poesia Gratuito,
l’Altracittà, Via Pavia, Roma, nel primo trimestre 2017, in calce alla lettura di
“I platani sul Tevere diventano betulle” dedicati a Donata De Bartolomeo e a Giorgio Linguaglossa. E ribadita in estrema sintesi all’ “Isola dei poeti”, Roma, Isola Tiberina, il 21 giugno 2017. Spero ardentemente che questo breve contributo possa esser utile anche a Rossana Levati la quale al Liceo Classico “V. Alfieri” di Asti sta realizzando con il suo motivato gruppo di lavoro un’opera proprio incardinata sulla dialettica “Oggetti” e “Cose”)
GR
Gino Rago araldo poetico-ontologico al dono noumenico della parola!,
recensione di Elena Ponta
http://www.syzetesis.it/Recensioni2011/La%20vita%20delle%20cose.htm
A due anni di distanza dalla prima uscita nella collana Anticorpi, Laterza ripropone in edizione economica La vita delle cose, un breve saggio di Remo Bodei, in cui l’autore indaga i significati intrinseci custoditi dagli oggetti che ci circondano e i rapporti che stabiliamo con essi.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28239
Le cose sono semplicemente vuote entità artificiali o possiedono significati simbolici, cognitivi e affettivi? Questi ultimi diventano portatori di vita autonoma per gli oggetti inanimati? E in che modo l’uomo può porsi di fronte ad essi con uno sguardo che li riscatti dall’anonimato e la staticità in cui sembrano congelati? Per rispondere a questi interrogativi Bodei si affida innanzitutto a un approccio filologico, seguendo la distinzione tra ‘oggetti’e ‘cose’, termini che l’uso quotidiano ha finito per rendere sinonimi, con inevitabili ripercussioni non solo per il senso comune, ma anche per il pensiero filosofico.
Il termine italiano‘cosa’ è la contrazione del latino causa, ossia «ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa» (p. 12). A livello concettuale il termine trova i suo corrispettivi nel greco pragma, nel latino res e nel tedesco Sache, tutte parole che non hanno alcun riferimento all’oggetto materiale, ma che rinviano alla cosa di cui si parla, che si pensa, o che ci sta più a cuore. Appartengono inoltre al linguaggio filosofico l’espressione aristotelica auto to pragma e la locuzione di Hegel die Sache selbst, poi ripresa dall’esortazione husserliana Zu dem Sachen selbst!, verso le cose stesse. Queste terminologie assumono un proprio senso e rimandano all’idea di un cammino della coscienza verso la comprensione delle cose nella loro essenza, grazie alla guida di un istinto di verità che spinge gli uomini alla sua ricerca.
Nel processo di avvicinamento alla conoscenza delle cose, ma anche nel corso della loro fattiva costruzione materiale, sia i singoli individui che la società proiettano affetti e valori simbolici, sulla base di meccanismi psicologici studiati già da Sigmund Freud in Lutto e melanconia. In misura diversa e con diversi gradi di consapevolezza, infatti, ogni essere umano riversa cariche di significato su determinate cose, inglobandole nel proprio orizzonte valoriale. Questo vale in qualche modo anche a livello storico e sociale, dove ogni generazione può essere descritta da una specifica varietà di oggetti simbolici, che tratteggiano contemporaneamente anche il carattere di un’epoca. Secondo Bodei il fenomeno è ben spiegato da Umberto Eco in La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo in cui il protagonista Yambo cerca di recuperare la sua memoria autobiografica proprio facendo affidamento ai suoi quaderni di scuola, alle vecchie cartoline conservate o ai libri letti da ragazzo, percepiti non solo come qualcosa di strettamente collegato alla sua storia personale, ma anche come la narrazione delle vicende del popolo italiano durante il periodo fascista e i primi anni della storia repubblicana.
Può accadere che per cause diverse la relazione che la persona stabilisce con la cosa si interrompa. Quest’ultima perde così di significato e regredisce allo status più elementare di semplice oggetto. Bodei spiega come il termine ‘oggetto’, che risale alla Scolastica medievale, indichi l’idea di ostacolo, di impedimento, analogamente al greco problema, al latino objectum o al tedesco Gegenstand. Oggetto è dunque ciò che si contrappone alla piena realizzazione del soggetto, e che lo obbliga a un confronto per l’affermazione di sé, spesso portato avanti sino alla definitiva sopraffazione dell’ostacolo che gli sta di fronte. Nella nostra realtà quotidiana esistono grandi quantità di oggetti, che l’autore definisce con la felice espressione di ‘oggetti orfani’, ormai privi della loro carica simbolica e il cui destino dipende dalla nostra capacità di investimento affettivo e cognitivo su di essi. Sostituire con un elemento nuovo qualcosa di caro che è stato smarrito, o conservare parte degli arredi della casa dei propri genitori dopo la loro scomparsa, sono rituali che ci aiutano a lenire le sofferenze di una perdita e nello stesso tempo conferiscono una nuova anima e un’ulteriore pienezza di senso agli oggetti che ci circondano. Bodei sembra così descrivere una dinamica secondo cui anche le realtà inanimate rimangono coinvolte in un loro proprio ciclo vitale, e, alla stessa maniera degli animali e dei vegetali, possono essere amate e accudite, oppure abbandonate, dimenticate, uccise.
Una varietà sempre più ampia di oggetti, molti dei quali nuovi rispetto a quelli tradizionali, popola ormai il nostro mondo. Essi si rivelano in continua mutazione, scalzati da modelli più raffinati, grazie agli sviluppi delle nuove tecnologie, o soggetti a improvvise uscite di scena dal panorama della nostra realtà, schiacciati dalla logica della società dei consumi che, come ben comprese il sociologo Baudrillard, sopravvive solo nella misura in cui distrugge ciclicamente i suoi prodotti e crea bisogni sempre nuovi e sostanzialmente superflui. In un contesto di questo genere, dove «la moda prevale su ciò che dura» (p. 71) e tutti acquistano gli stessi beni per uniformarsi a modelli sociali imposti, sembra quasi impossibile salvare le cose dalla banalizzazione e dall’assenza di senso, e stabilire un rapporto più vero e personale con esse. Bodei ritiene, tuttavia, che esista la possibilità di far recuperare maggiore autenticità al mondo che ci circonda, affidando all’uomo il compito di un cambiamento di rotta che può provenire soltanto dal soggetto conoscente. Secondo l’autore lo sforzo in cui deve impegnarsi l’individuo è quello di rivolgersi alle cose con un approccio che cerchi di liberarsi della mentalità tradizionale, dominata dal pensiero metafisico e rappresentativo. Sin dalle sue origini fino agli ultimi sviluppi del secolo scorso, la metafisica occidentale ha tentato di dimostrare la razionalità del reale, catalogando gli enti attraverso rigide definizioni che con il trascorrere del tempo li hanno fatti cadere nell’ovvietà, azzerando le molteplicità di significato che essi possiedono intrinsecamente e sin da subito. Il pensiero razionale ha da sempre rassicurato l’essere umano di fronte all’ignoto della realtà circostante e gli ha garantito una sorta di dominio conoscitivo sulle cose, successivamente alimentato dalle moderne scienze della natura, portatrici di un dominio anche pratico, in grado di ridurre le cose a meri strumenti funzionali, caricati di un qualche significato simbolico solo a posteriori. Bisogna quindi ribaltare i termini del rapporto con la realtà, abbandonando la consolidata dicotomia tra soggetto razionale e oggetto conosciuto, in favore di un modo di concepire le cose come proprie già di per sé di una loro carica di umanità e inserite connaturalmente in un sistema di relazioni con l’umano.
Secondo Bodei nella storia della filosofia non sono mancati i tentativi di presa di distanza dal pensiero razionale, rappresentati per esempio dalle diverse correnti dello scetticismo, dalle teorie estetiche di Kant, e ancor più dalla fenomenologia husserliana. Husserl invita all’epoché, la messa tra parentesi dell’atteggiamento consueto, che porta a considerare il mondo come puramente materiale, al fine di far emergere la coscienza pura, che si muove nel cosiddetto ‘mondo della vita’, uno spazio intersoggettivo comune alla realtà, grazie a cui viene stabilita una relazione inscindibile con essa. A sua volta Heidegger modifica le teorie husserliane, descrivendo la cosa come ciò che si dirige verso l’uomo e di cui l’uomo deve prendersi cura, senza limitarsi a contemplarla in maniera puramente teorica. Ma è nell’«alleanza tra arte e filosofia» (p. 85) che Bodei individua la soluzione più efficace contro la riduzione di significato operata nei confronti delle cose dalla pratica comune e dalle generalizzazioni scientifiche. Si tratta di una strada ampiamente sperimentata dalla filosofia del Novecento, che non solo è stata indotta, sull’esempio dell’arte, a concedere maggiore spazio al sentimento e alla fantasia, ma si è impegnata anche in una riflessione sull’arte stessa e sulle sue singole rappresentazioni, che comunicano una varietà di significati grazie al fatto di aver sottratto l’oggetto raffigurato alla banalità della sua funzione.
A conclusione delle sue riflessioni l’autore affronta in modo ampio il tema della natura morta nell’arte figurativa, in particolare nella pittura olandese del Seicento, in una sezione che per la verità corre il rischio di essere percepita come un’appendice distaccata dal resto del saggio, ma che ci restituisce pagine di grande bellezza. La natura morta rappresentata dai pittori olandesi del XVII secolo, più correttamente detta stilleven, vita immobile, risulta essere la sintesi più perfetta tra il verismo mimetico e l’espressione di valori simbolici. A differenza del contemporaneo barocco italiano, che si fa interprete dell’epoca travagliata in cui fiorisce con produzioni artistiche cariche di drammaticità, lo stilleven trasfigura le cose che riproduce, trasportandole in un altro spazio, «sospese nel tempo e messe, per quanto è possibile, al riparo dall’oblio, dal decadimento e dalla morte» (p. 100). In questo tipo di pittura diventa protagonista l’oggetto, raffigurato al di fuori dei contesti che tradizionalmente prevedevano la presenza umana: si moltiplicano così rappresentazioni di cacciagione, frutta, composizioni floreali, pipe e articoli da fumo, tutti esaltati nella loro individualità e al loro toppunt, ossia all’apice della loro bellezza e maturità, come salvati dal ciclo inevitabile della generazione e della corruzione. Lo sguardo con cui la pittura olandese osserva e descrive gli oggetti è dunque sub specie aeternitatis, prospettiva che ritroviamo anche nel pensiero filosofico di Spinoza, che ci insegna a considerare le singole cose dal punto di vista dell’occhio di Dio, ovvero all’interno del quadro più ampio e armonico della totalità del mondo. Trasportate al di fuori del loro contesto originario, la lezione di Spinoza e la celebrazione del toppunt della pittura olandese ci inducono, secondo l’autore, ad abbandonare una visione del mondo autoreferenziale e ci aiutano a riconsiderare il nostro rapporto con le cose, riconsegnando loro una dignità che va oltre la produzione in serie e la semplice strumentalità.
Ne La vita delle cose Bodei riesce a dare profondità a temi e considerazioni legati al valore simbolico degli oggetti, che appartengono, sia pur in maniera molto meno consapevole, al comune sentire. Risulta inoltre suggestiva la sua descrizione del mondo artificiale come un sorta di quarto regno fatto di cose vive, che ci offre una visione della realtà molto lontana da quella delineata nel corso dei secoli dal pensiero logico-razionale, attualmente messo in discussione da molte correnti della filosofia contemporanea. Nel saggio è la sfera del sentimento che viene messa al centro del discorso, nella convinzione da parte dell’autore che dal mondo emozionale si possano attingere nuove risposte di senso per la filosofia, e se ne possa anche ampliare l’orizzonte di indagine. Risulta tuttavia non sempre felice la modalità scelta per condurre il ragionamento: l’uso frequente di citazioni e i passaggi repentini tra differenti ambiti disciplinari, ad esempio dalla psicologia, alla sociologia, al pensiero filosofico, appesantiscono la lettura del saggio, e, pur costituendone un indubbio segno di ricchezza, rendono spesso faticoso seguire l’esposizione della tesi proposta.
Bodei, Remo, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 135, € 8
Ricevo alla mia email e pubblico volentieri da questo poeta finlandese questi haiku, perché mi sembra che ci sia qualcosa di importante in queste smilze composizioni di qualcosa che stiamo dicendo a proposito delle «cose» e degli «oggetti» e della differenza che passa tra questi concetti.
Robin Valtiala è nato 1967 a Helsinki, Fnlandia. Appartiene alla minoranza svedese-parlante e scrive in questa lingua. Fino ad adesso ha pubblicato 7 libri, il più recente dei quali è una collezione d’haiku, Barnvagn i överhastighet (2013) (Passeggino in sopravelocità).
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28241
gira la testa!
dice il tuo acquerello blu
dietro di me
vänd på ditt huvud!
hör jag din blå akvarell
bakom mig säga
*
siesta inutile
non ho potuto volare
onödig tupplur
jag kunde inte flyga
*
di marmo
ha detto quello che già sapevamo
calma nello stomaco
av marmor
sa det vi redan visste
lugnt i magen
*
giovinezza
persino la mucca ringhiante
mi da felicità
ung
även morrande kon
gör mig glad
*
la ruota di bicicletta nell’esposizione
sa fare tutto
cykelhjulet på utställningen
kan allting
*
luglio
il lepre può crescere
il tram ha lo spazio sufficiente per non uccidere
haren kan växa
sommarspårvagnen har rum
att inte döda
*
il locale è troppo pieno di sillabi
o non ce ne sono sufficienti
l’haikumetro strilla
lokalen är överfull av stavelser
eller innehåller för få
haikuläsaren skriker
*
alto mare gelato
in un punto più lontano
alcuni brini d’erba
öppet fruset hav
längre bort sticker det upp
några grässtrån
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28242
Il limite della pittura di stilleven (natura morta) sta nel fatto che gli oggetti devono sottostare alle regole dell’unico oggetto che sta veramente a cuore all’artista: il quadro, che è esso stesso oggetto. E’ sempre stato così, dal seicento a Giorgio Morandi. Sono regole della rappresentazione, del bello che muta a seconda dell’epoca.
Alcuni anni fa, nel 2013, chiesi a sei artisti dilettanti di dipingere degli oggetti – rigorosamente ritratti dal vero –. I pittori dilettanti si riconoscono oggi dal fatto che tentano il nuovo, vogliono fare a tutti i costi della modernità ( Dio ce ne scampi!). Ma io dissi loro di non interpretare gli oggetti, in nessuna maniera e di limitarsi a fare semplicemente buona pittura, al meglio delle loro capacità. Però, il fatto che erano dilettanti a me faceva gioco. Sapevo, intuivo, che se fossero stati degli accademici, avrebbero dipinto tutti alla stessa maniera. Invece furono bravi e dipinsero diligentemente, chi un ombrello, chi un cappello, una tazza, un vasetto per tenerci il caffè e così via. Anche se si trattò di una manifestazione di provincia, la mostra ebbe successo di pubblico e qualche operetta andò perfino venduta. Alla mostra diedi il titolo “COSE”.
L’idea mi nacque per aver scritto, quasi vent’anni fa, un racconto avveniristico, – un racconto che ho perduto ma che ricordo perfettamente – nel quale profetizzai l’avvento di una corrente artistica basata sul post-consumismo, anti intellettualistica, che chiamai Simple. Tra vent’anni, alcuni artisti avranno successo per il fatto che dipingeranno semplici lucchetti per bicicletta, stoviglie, maniglie per porte e finestre , ecc. E lo faranno con buona esecuzione, senza particolare esibizione interpretativa. Nemmeno filosofica. Nel racconto immaginavo il pubblico estasiato, perché rilassato, finalmente in grado di riconoscere nell’opera d’arte qualcosa di familiare, anche se erano “cose” di un’epoca appena trascorsa. Erano Simple! e andavano a ruba.
In poesia vale lo stesso. Se scriviamo la parola “ombrello”, oppure la parola “neve”, non avremo alcun bisogno di ricorrere a particolari abbellimenti (aggettivi): la parola è completa in sé, è già portatrice di affettività. Ha valore umano, di relazione…
Come piangono i gocciolii degli anni persi/ a tesa a tesa/
nelle grondaie che schizzano i fracassi./ E come urlano quelle gole giovani
nelle trombe plumbee senza cappello e senza piú ombrello.
(in un altro post riportata , qui riproposta)
Grazie,Ombra.
OGGETTI E COSE NELLA POESIA DI FERNANDA ROMAGNOLI
Fernanda Romagnoli, Lattiera di smalto (da “Ad ogni altezza”, in “Il tredicesimo invitato”, Garzanti, 1980)
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Lattiera di smalto, il tuo ventre
che fu sorso di neve – in sfacelo.
Il tuo dorso di cielo, irrigato
d’impietrite saette.
Mia madre versava, inclinata
su ogni tazza, scrutava un sospetto
di caglio, contava ogni stilla
del nutrimento – che fosse
il dovuto a ogni figlio.
Lattiera di smalto, esumata
dal ripostiglio, degradata a mummia
ancora viva – come un cuore avaro
che invecchia male…
Sognasti la sua mano
sul tuo braccio, talvolta? Non servire
ti sembrò duro?
Lei in prima linea, al bersaglio,
non ha retto altrettanto.
In su dal tempo – su dallo specchio infranto
ecco, fulmineamente vi catturo
nella scheggia d’un gesto quotidiano
sul compiersi: ambedue
giovani – eterne.
Fernanda Romagnoli, Oggetti ( Da “Ad ogni altezza”, ibidem)
I piccoli oggetti, i piccoli
amici-schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. E’ più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.
Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.
Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli…Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… Ma adesso
muoviamoci, andiamo.
Leggendo questi testi di Fernanda Romagnoli, che incontrano il mio personale gusto di lettrice e che vorrei proporre nel mio semplice ruolo di docente di lettere ai miei studenti, avrei rischiato di fraintenderli, di non avere le coordinate giuste per presentarli.
Il rischio più clamoroso per esempio sarebbe quello di apparentare la “Lattiera di smalto” alla poesia, per altro abbastanza diffusa sulle antologie scolastiche, “Ida” di Pascoli, e a quell’attacco semi-aulico in cui il nobile endecasillabo della tradizione italiana si trova sopraffatto dalle “scarabattole”, parola insignificante e di uso quasi colloquiale, se non gergale.
“Al suo passare le scarabattole
fremono e i bricchi lustranti squillano;
e la grave padella
col buon paiòl favella”
Peggio ancora se pensassi di paragonare “Lattiera di smalto” della Romagnoli ai lunghi elenchi di oggetti banali, domenicali e quotidiani dei crepuscolari.
Leggendo le riflessioni proposte da Giorgio Linguaglossa sulla distinzione tra oggetti e cose nella poesia contemporanea ho invece compreso quell’andirivieni tra “cosa” e “oggetto” nella prima poesia: la lattiera di smalto era un tempo “cosa”, carica quindi del valore affettivo di una madre che versa il nutrimento ai figli, carica della cura domestica, del calore del vissuto quotidiano e del rapporto madre-figli; si comprende in quale momento è ritornata “oggetto” e perciò degradata a sopravvivere, malamente, come una mummia, nel ripostiglio di casa: la morte della madre ne ha interrotto la funzione, affettiva prima che pratica; come dice Gino Rago, una condizione di “perdita e assenza”, un’improvvisa distanza tra il poeta e il mondo interrompe la natura di “cosa” della lattiera, che sembra quasi accusata di essere durata nel tempo più della donna che la usava: “lei non ha retto altrettanto”; ma nell’ultima strofa essa ritorna “cosa”, nell’ apostrofe che la poetessa rivolge alla lattiera: di nuovo “cosa” perché attraverso essa si recupera ancora un legame esile con la madre; “su dallo specchio infranto” del tempo capovolto ritorna, sul bordo della lattiera, “catturato” improvvisamente, il tocco della mano della madre, il ricordo della madre, nuovamente giovane, con la lattiera ancora nuova in mano, ancora “cosa” come quando ella era in vita, ancora “cosa” nella volontà della poetessa di restituirla al suo presente.
La seconda poesia, “Oggetti”, ha un movimento meno complesso della “Lattiera di smalto” ma altrettanto significativo, se la leggo con le coordinate che ho appreso.
Sembrerebbe descrivere un semplice trasloco di oggetti inutili, ma quale ne sarebbe il senso? Non certo quello di descrivere un accumulo di oggetti dismessi in cantina, cosa che ognuno di noi può semplicemente svolgere nella sua vita quotidiana. Credo, anche in questo caso, di potervi leggere il percorso, indicato nella precedente poesia, di rifiuto di “cose”; oggetti che rifiutano di ritornare tali, estromessi di colpo dal mondo di padroni a cui comunque va peggio, perché questi non potranno sopravvivere in nessuna cantina e neppure sperare di ritornare un giorno ad essere “cose” tra le mani di qualcuno. E quel “mazzo di chiavi risputato da ogni serratura” non è più solo un esempio di oggetto inutile, come il loro “girare a vuoto” sembra far intendere; è anche il segno di una mancanza, di uno scollamento tra se’ e il mondo, ancora secondo le parole di Gino Rago; se le chiavi che sono rimaste in mano non aprono più nulla, dove saranno infatti quelle che servono? Con quali chiavi supereremo il nostro disorientamento, ritroveremo un percorso verso l’Assoluto o la Bellezza, un punto di equilibrio nel mondo?
“Un oggetto sfida il soggetto, e da parte sua il soggetto deve inglobarlo e farlo proprio”, come afferma Remo Bodei nella citazione riportata da Giorgio Linguaglossa. Così questa “lotta” descritta nella poesia, tra gli oggetti che si ribellano, che per non sparire “s’uncinano a tutti gli appigli” e la proprietaria che, spietatamente, li “licenzia in tronco”, rappresenta evidentemente un rifiuto, il rifiuto del soggetto di fare propri gli oggetti e di ri-trasformarli in “cose”.
Ecco, credo di aver imparato tutto questo dalle pagine de L’Ombra di questi giorni; non lo avrei saputo spiegare in questo modo se non le avessi lette…
Ma non bisogna fare l’apologia delle cose e degli oggetti! La distinzione “giuridica” riferita dal signor Simone Carunchio la ricevo con gratitudine poiché per intuito – non razionalità – m’ero alquanto avvicinato.
Ma non si dimentichi che per i futuristi (specie russi) gli oggetti avevano una anima, talmente vivida e vitale che la loro natura era rivoluzionaria, infatti “LA RIVOLTA DEGLI OGGETTI”…. così:
–
“””””””””””””””Mentre gli altri le raccoglievano, Majakovskij le trasportò in poesia, facendole partecipare di quello scatenamento degli oggetti, tipico della sua poesia: “Sulla scaglia di un pesce di latta/ le mani contorte delle insegne…”.
Gli oggetti, in Majakovskij, sono sempre ribelli, scatenati, refrattari all’ordine; si svellono dalla tirannia dell’uomo, ma nello stesso tempo riflettono la pazzia dell’uomo, cioè diventano espressione dell’agitazione stessa del poeta.
Dice l’etnologo Marcel Mauss che, presso gli Indiani Kwakiutl, i piatti, le forchette, gli oggetti di rame sono tutti animati perché partecipano della persona del proprietario e della famiglia, partecipano del clan; molte volte gli oggetti di Majakovskij sembrano animati appunto perché partecipano di questa sua instabilità e agitazione. Avviene, cioè, in Majakovskij e nei cubo-futuristi quello che alla finGli oggetti dei cubo-futuristi si distolgono dalla postura tradizionale e creano una serie di piani diversi provocati dalla loro agitazione, che anima e frastaglia e volumetrizza la poesia come un effetto di diversi piani spezzati. Nei simbolisti, invece, gli oggetti erano tranquilli, labili, dolci (I.F. Annenskij, Blok). Dell’agitazione che Majakovskij dà e dell’interesse per l’oggetto che egli rivela, esempi se ne ritrovano anche nel passato. e del Medioevo avveniva con gli animali: quando gli animali si sottraevano alla tirannia dell’uomo riflettevano nello stesso tempo, e la cattiveria e la perfidia dell’uomo.
Nell’opera Oblòmov di I. A.Gončarov si trova il gioco del servo Zachar con gli oggetti: si china quattro volte per ricuperare una cosa che gli scappa o fa cadere i piatti da un vassoio. Anche in Dostoevskij molto spesso l’oggetto è visto e isolato nella sua autonomia. Per esempio, ne Il Sosia c’è un samovar che posto a terra si stizziva, si accalorava, minacciava continuamente di correr via e con fervore balbettava rapidamente nella sua saggia lingua, bofonchiando e biascicando al signor Goljàdkin qualcosa,
probabilmente:”prendetemi, brava gente, sono maturo, e pronto!. Il poeta post-futurista Zabolockij dirà che il samovar è come un generale in una corazza casalinga. Gli oggetti nelle Anime morte sono un riferimento fondamentale, poiché già vivono per sé, si staccano dall’uomo, oppure sono espressione diagonale dell’uomo . Per esempio, c’è un piumino, ma perde le piume e si sgonfia sotto il peso della padrona e la cassetta di Čičikov.
Karl Marx, riferendosi alle Esposizioni generali parla dell’oggetto-feticcio; in Gogol’ c’è questa elencazione di oggetti-feticci, che come in Marx sono visti negativamente come accumulazione di capitale. Sempre nelle Anime morte, per esempio al personaggio Sobakèvič corrispondono oggetti a lui simili: una panciuta scrivania; al personaggio Pljuškin oggetti inutili: una seggiola spezzata, un orologio a pendolo fermo, un armadio con vecchi argenti, ecc. Naturalmente tutto questo in Gogol’ ha un valore statico, fermo; non c’è lo scatenamento degli oggetti di Majakovskij , però l’attenzione posta all’ordine degli oggetti e alla loro vitalità lo rende estremamente moderno.
La grande trovata in Gogol’ resta che gli oggetti sono maschere ribelli dei loro personaggi, e i personaggi diventano oggetti essi stessi, perché gli oggetti li rappresentano con una specie di sorniona perfidia e cattiveria.
Le scomposizioni liriche dei cubisti pongono l’oggetto da diverse angolazioni: ne risultano combinazioni prismatiche di oggetti che staccano l’oggetto dalla sua postura abituale, o gli danno una nuova significazione e una nuova autonomia.
Le lettere, le cifre inserite, sono in correlazione logica con gli oggetti; ma anche le lettere e le cifre vanno assumendo come una esistenza maligna, qualcosa di estraneo, come un misterioso codice cifrato.
I cubisti, di questo passo, arriveranno fino all’inserimento di pezzi di giornale, di tappezzeria, di legno. E tutto questo gioco con frammenti di realtà, con emblemi oggettivi, provoca una oscillazione inquietante fra il quadro e la natura; cioè l’oggetto inserito nel quadro assume un valore irreale che non ha in natura, si libera, si autonomizza, diventa ribelle.
I futuristi che amavano la velocità e avversavano i cubisti, tranne che nell’area russa, pensavano che la scomposizione volumetrica dei cubisti fosse eccessivamente statica e gelida, e volevano liberare l’oggetto attraverso la velocità (Balla) .
Il tema di questo componimento sono le insegne, i nuovi libri di ferro. Il flauto incantatore può muovere gli oggetti, e quindi anche quelli raffigurati nell’insegna. La città è vista come composta di immagini che formano un universo costituito da queste arti. Il flauto muove una lettera: la lettera che si muove ci riporta ai cubisti.
C’è anche un momento boccioniano (nel senso tecnico del manifesto futurista), quando attraverso la mamma malata passano i rumori della gente dal letto all’angolo vuoto; abbiamo quella tipica compenetrazione di piani che era propagandata dai futuristi italiani: cioè la città entra dentro le cose e la strada dentro i personaggi (continuità degli oggetti nello spazio: l’analisi del moto degli oggetti e il ripetersi dell’oggetto significa che un oggetto entra nell’altro, nella persona). “””””””””””””” (Ripellino)
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(Il poeta si conferma il poeta più urbano del mondo futurista: la città per lui è lo spazio congeniale alle/delle sue visioni contorte – è anche la città che deforma il poeta. Il Majakovskij urbano è diretto discendente di Gogol’ e di Dostoevskij, le cui loro contorsioni visive incidono fortemente sullo stile del loro linguaggio scritto stravolgendo la realtà in cui vivono. In questi due scrittori si hanno forse le prime rivolte degli oggetti, che nei poeti futuristi assumeranno tale fondamentale importanza da detronizzare il poeta stesso, e assurgere loro, gli oggetti, a definire una epoca! E infine allignano in poesie del genere già altre avanguardie: avvisaglie di immagini raccapriccianti che caratterizzeranno l’occhio espressionista; e perciò vi è un filo rosso che lega simbolismo, futurismo ed espressionismo. Non vi sono poi, come sembra che vi siano, profonde differenze e distinzioni tra queste correnti o movimenti letterari-artistici.) (Sagredo)
caro Antonio Sagredo,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/10/gli-oggetti-e-le-cose-poesie-di-anna-ventura-gino-rago-giorgio-linguaglossa-steven-grieco-rathgeb-dialogo-su-gli-oggetti-e-le-cose-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-gino-rag/comment-page-1/#comment-28315
all’alba della rivoluzione industriale del carbone, del treno e delle strade ferrate si aveva un’altra cognizione degli oggetti, si pensava alla vita e alla vitalità degli oggetti, alla rivolta degli oggetti… impossessarsi degli oggetti sembrava il massimo della vitalità, di qui il futurismo, il cubofuturismo, e le avanguardie allineate agli oggetti…
Esemplare e insuperabile il pezzo che hai citato di Ripellino… Ma oggi, al crepuscolo della civiltà degli oggetti e all’inizio di una nuova civiltà della nuova rivoluzione cibernetica e tecnologica, gli oggetti si sono caricati di altri significati, non ci colpisce più il trionfo e la vitalità degli oggetti quanto il loro lato in ombra, la differenza tra gli oggetti e le cose… oggi sono le cose che attirano lo sguardo introspettivo dei filosofi migliori e dei pochissimi poeti rimasti in circolazione… tutti gli altri fanno poesia di chiacchiere e di nacchere…
A proposito, bravissima Rossana Levati che ci ha guidato attraverso la lettura di due poesie di Fernanda Romagnoli…
All’alba della più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai esperito dopo quella del fuoco e della ruota, la rivoluzione telematica che è ancora in corso e che chissà quando mai finirà, deve essere ripensato e riconsiderato il rapporto tra l’uomo e le «cose», tra l’artista e le «cose». Per esempio nella pittura di Balthus le persone giovani che vi sono raffigurate si presentano come già morte, irrigidite nella postura della morte. Più che simboli erotici le figure giovani di Balthus sono figure della morte che incombe in tutte le «cose». Per Balthus le «cose» non si liberano mai della loro «cosità».
Perdita della memoria è perdita delle “cose”. Lo sanno bene coloro che hanno perso tutto e in particolar modo i migranti di tutte le epoche.