Traversata di Edith Dzieduszycka, voce recitante di Pino Censi |
Roma, Convention Center via Asia, 40 – EUR
Più libri più liberi
Sabato 9 dicembre alle ore 16,30 – Sala Marte
Presentazione del libro di haiku di Edith Dzieduszycka: Haikuore.
Intervengono oltre all’Autrice, Luigi Celi, Roberto Pagan e l’editore, Sandro Gros-Pietro. Letture di Ketty Di Porto
Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa: Soliloquio di un robot
La poesia ultima di Edith Dzieduszycka è di tipo illocutorio. Per atti illocutivi si intendono quegli enunciati che comportano effetti convenzionali sui destinatari. Direi che il discorso illocutorio della «nuova ontologia estetica» è anche di questo tipo: ha «senso» pur non avendo alcuna significazione. I suoi personaggi «parlano» e, in qualche modo, sembra che indichino un «senso». Purtuttavia, un «senso» non c’è, anzi, il «senso» è barrato, impercorribile.
Scrive Adorno: «Qualora neghino il senso, le opere d’arte divengono, sia pure contro la loro volontà, nessi sensati. Mentre la crisi del senso ha radici in un aspetto problematico di tutta l’arte, nel fallimento dell’arte di fronte alla razionalità[…]
In Beckett domina un’unità parodistica di luogo, tempo e azione, con episodi sapientemente montati ed equilibrati e con la catastrofe che ora consiste in questo: che non avviene. Veramente uno degli enigmi dell’arte e testimonianza della potenza della logicità dell’arte è che qualsiasi conseguenza radicale, anche quella detta assurda, va a finire in qualcosa di affine al senso. Ciò però non è tanto la conferma della sostanzialità metafisica del senso, la quale si impadronirebbe di ogni opera integralmente formata, quanto piuttosto la conferma del carattere di apparenza dell’opera: alla fin fine l’arte è apparenza perché non riesce a sfuggire alla suggestione del senso in mezzo all’insensato. Tuttavia le opere d’arte che negano il senso devono anche essere sconvolte nella loro unità; questa è la funzione del montaggio il quale sconfessa l’unità con la pubblicità della disparatezza delle parti così come, quale principio formale, ha per effetto di nuovo l’unità […]
Tutta l’arte moderna dopo l’impressionismo e certo anche le manifestazioni radicali dell’espressionismo, rinnegano l’apparenza di un “continuum” fondato nell’unità soggettiva di esperienza, nel “flusso di coscienza”».1]
Nei racconti poetici di Edith Dzieduszycka
la catastrofe annunciata non avviene, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo, funziona come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es.
La fabulazione dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare una fabulazione finalmente «libera» sia dal senso che dal significato, libera dal sistema articolatorio dell’io.
«Penso dove non sono e sono dove non penso».
Questo motto lacaniano ci indica allusivamente la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come quella di Edith Dzieduszycka e quella della «nuova ontologia estetica» (in modo generalissimo) non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico.
Negli autori della «nuova ontologia estetica» un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica; noi sappiamo che l’Es rifugge dai concetti di «bello»-«brutto», accettabile non-accettabile, di buon-gusto non-di-buon-gusto, erotico e/o pornografico, tutte categorie ideologiche proprie dell’Io, che è una istanza eminentemente auto organizzatoria, dedita alla organizzazione dell’auto conservazione e del regolare usufrutto delle categorie grammaticali.
L’Es è quanto resta della struttura dell’io penso – È l’insieme del discorso meno (con il segno -); «io non penso» ergo «io non sono», qui si ha il ribaltamento dell’assunto cartesiano che rappresenta la verità dell’alienazione, il «resto» dell’operazione di divisione del soggetto, ossia tutto ciò che è «non-io».
Non a caso, una volta arrivato a individuare il luogo dell’Es, Lacan introduce la questione del «fantasma».
Quando la parola da rappresentativa diventa enunciativa? Lo diventa, ci dice Lacan, quando giura, promette, indica, asserisce, quando utilizziamo un linguaggio suasorio, per eccellenza il linguaggio politico. Il discorso suasorio sarebbe così quella parola che in un certo modo vuole ricucire la frattura tra enunciato ed enunciazione, l’atto illocutorio di Austin, la parola che dice e allo stesso tempo dice di dire: «Tu sei mia moglie», «Tu sei il mio maestro», «Tu sei colui che mi seguirà», «Tu sei questo», «tu sei quello»: tutti esempi di parola piena, rivelatrice, suasoria; la parola che dice la verità del soggetto sullo sfondo di finzione inaugurato dal linguaggio.
Il discorso illocutorio di Edit Dzieduszycka
assume il discorso suasorio assertorio del discorso politico e lo mette in bocca ai suoi personaggi che erogano il discorso illocutorio. In questo tipo di operazione siamo «fuori» del linguaggio poetico come noi lo abbiamo conosciuto nel novecento, ed entriamo propriamente in un post-linguaggio, illocutorio appunto, che vuole fare chiarezza denotativa con tutte le proprie forze. Questo tipo di linguaggio è proprio dei paranoici, di coloro che vogliono fare chiarezza a tutti i costi. Ma è possibile un tale estremo tentativo? In realtà, il discorso illocutorio dei personaggi della Dzieduszycka ruota intorno ad un vortice linguistico al cui centro c’è il «nulla» del «senso». Alla fine, di tutto questo universo di parole del discorso poetico dzieduszyckiano non rimane che cenere, un nulla di nulla, nulla di «senso» e nulla di «significato». Un «buco». Un «vuoto». Un «nulla».
Quanto il linguaggio ha in serbo è un abisso ben più profondo di quello che un concetto rappresentazionale e pacificatorio vorrebbe consegnarci: è l’abisso di quel nulla, dell’ex nihilo. Il discorso illocutorio della Dzieduszycka punta tutto sulla roulette della funzione inaugurale della parola piena, per scoprire poi, con rammarico e stupefazione, che non si dà alcuna parola che non sia «vuota», piena di «nulla».
È questo «vuoto» che si presenta come nihil, come «nulla» al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.
Non si dà un significante che possa significare la Cosa. Tale impossibilità configura la condizione stessa della Parola, l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché esso non è dotato di quella compiutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il «vuoto».
Non si dà parola pontificante che non sia al contempo parola nullificante, auto nullificatoria
L’«Altro», verso il quale sono rivolti i soliloqui allo specchio della Dzieduszycka, è strutturalmente mancante, la sua mancanza è ciò che ricaviamo dall’esperienza stessa della psicosi. Le varie forme di nevrosi o psicosi non sono altro che una risposta che il soggetto dà a questa mancanza, una strategia per eluderla, come nella nevrosi, o di negarla, come nella psicosi. Ma torniamo alla Cosa, das Ding, a quel «vuoto causativo» in cui Lacan situa l’essere stesso del soggetto. In tale prospettiva, la promozione dell’oggetto-a costituirà la via attraverso cui Lacan sostituirà la nozione fenomenologico-esistenziale della Cosa con una nozione psicologica. I soliloqui della Dzieduszycka funzionano all’interno del complesso di un’algebra psichica dove lo sguardo assume una valenza centrale; lo sguardo dei suoi personaggi è uno sguardo psicotico, per il quale non si dà distinzione tra il visibile e l’invisibile. Per Sartre, nella sua magistrale lezione sulla distinzione tra occhio e sguardo, lo sguardo, in quanto sguardo di «altri», non può essere considerato alla stregua dell’occhio, organo della visione. Lo sguardo non può «vedersi», tra occhio e sguardo si apre una «schisi». L’occhio infatti si mostra come oggetto, come qualcosa di reperibile nel campo degli oggetti che osservo. Ma allorché sono io stesso oggetto di uno sguardo, cosa vedo? Vedo l’occhio, certo, vedo che sono visto dall’occhio dell’altro, vedo l’altra persona X, il suo volto, mi sento colto dal suo sguardo; ma alla fin fine, cosa ne è dello sguardo? Lo sguardo è qualcosa che resta separato dall’occhio, che non converge con l’oggetto-occhio che io vedo, sia che io guardi un altro, sia che io mi veda riflesso in uno specchio. «Non posso vedermi da dove (mi) guardo», è la formula con cui Lacan sintetizza il paradosso del «mi vedo vedermi» di Paul Valéry. Lo sguardo è sempre panoramico, coinvolge gli oggetti i quali a loro volta sembrano guardarci. È questa labirintite dello sguardo che emerge dai soliloqui della Dzieduszycka, questa incapacità di distinguere lo sguardo degli altri dallo sguardo degli oggetti che ci guardano, che sembrano parlarci.
1] T.W. Adorno, Teoria estetica, trad it. a cura di Enrico De Angelis, 1975 Einaudi pp. 220,21

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Edith Dzieduszycka
TRAVERSATA
Avevano corso,
di giorno e di notte,
poi di nuovo di giorno,
e ancora di notte.
Avevano corso
come bestie assetate,
in cerca del ruscello al quale abbeverarsi.
Avevano corso,
come prede inseguite in mezzo alla foresta,
cani sulle loro tracce, trombe per eccitarli.
I rovi laceravano le loro carni nude.
Dietro di loro scie,
sangue, sperma, orina,
sulle quali scivolavano quelli ancora dietro.
S’erano addentrati in buie gallerie.
Crepitavano, ritmati, i loro passi,
come pallottole contro duri bersagli.
Correvano, mani strette alla testa
per non sentirsi più,
vestiti a brandelli svolazzando nel vento.
Contavano le ore.
Contavano le stelle.
Affamati, mangiavano erba e croissant di luna.
Sferzati dalle liane dai rami dai rovi,
scalavano montagne e ghiacciai bollenti,
vulcani incandescenti, oceani furenti.
*
Li respingevano bufere e tempesta.
Gemevano le barche sfondate dal loro peso.
Per i pesci era festa.
Approdavano, quelli più fortunati,
su scogli inospitali.
Quando capivano, quelli più deboli,
che raggiunta era l’ora,
sprofondavano nel proprio silenzio.
Ansimanti crollavano, si rialzavano,
cadevano di nuovo, calpestati
da chi aveva fretta, da chi ancora forza
e perfino speranza.
Scricchiolavano le loro ossa,
legna da ardere al morso d’una fiamma.
Cercavano l’uscita.
Sognavano.
Una porta, una soglia da varcare,
una tana dove nascondersi,
un albero da tagliare,
una spiga da raccogliere,
una voce in lontananza.
Speravano nel caso,
nella buona sorte, nella bontà.
Dentro di loro lacrime,
colmando ogni spazio.
Ma non piangevano.
Sacche senza forma.
Erano solo quello.
Sacche. Che camminavano.
Sacche di lacrime,
di lacrime asciutte,
mescolate a bile, moccio, saliva.
*
Nulla soltanto.
Dei nulla, che andavano
senza sapere dove.
Dei niente che s’accavallavano.
Diventavano mucchi, colline,
montagne, avanzi, detriti,
da spallare, incenerire, annientare.
Cercavano, ma non trovavano.
Una porta miraggio, nera, pesante,
di cera, d’oro, di piombo.
Bussavano, mani insanguinate.
Bussavano a lungo, ormai
stremati dal peso del loro corpo.
Bussavano invano.
Infine un rumore.
Ticchettio, catene trascinate.
Con un cupo stridore si socchiuse una porta.
Tutti verso quel sogno,
un’idea di salvezza nella mente rimasta.
Immagine sbiadita.
Il verso d’una civetta che nella notte vola
senza fermarsi mai.
Ombre sulla soglia. Quattro.
Una per ognuno dei punti cardinali.
Ombre grigie, silenziose,
in attesa, a dar loro il benvenuto
con un cenno abbozzato.
Al loro fianco, chiavi, catene, forse per trattenerli.
Percepirono un segnale, più che segnale, ordine.
Dovevano entrare. Scapparono alcuni.
Mentre fuggivano, si dissolvevano,
si sbriciolavano, scomparivano
sotto gli occhi degli altri spaventati.
*

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Delle ombre,
i gesti erano lenti, come felpati i passi,
lo sguardo insondabile.
Quasi di malavoglia s’avvicinò la Prima.
Con voce tremolante li sgridò
per il loro ritardo. Cos’avevano fatto
di quel tempo in eccesso?
Ordinò loro di togliersi le vesti,
brandelli misti a carne.
Alcuni rifiutarono.
Vennero dissolti come quelli scappati.
Diventarono mucchi, colline,
montagne, avanzi, detriti.
Gli altri sempre in piedi,
immobili, inermi, nudi.
La Seconda cacciò la Prima.
Prese il suo posto.
Nella mano un’urna.
Ne estraeva piastrine, ognuna un numero,
da abbinare subito a quelli nudi, inermi,
in piedi davanti ai mucchi.
All’uno poi all’altro toccò avvicinarsi,
prendere la piastrina,
premerla contro il petto, di più,
sempre di più in fondo alla carne.
Spariva chi protestava.
Di lui nulla restava.
Appena un po’ di fumo, nemmeno cenere.
Un passo in avanti lo fece poi la Terza.
Collettore di anime, questa la sua mansione.
Con delle pinze d’oro, di ognuno afferrò
il nodo inconsistente, l’invisibile trama,
strappandoli con forza,
ad alcuni dalla testa, ad altri dalla pancia,
per poi depositarli sopra le mensole
già ingombre di anime
tutt’intorno alla stanza.
Scaffalature antiche,
quasi crollate sotto immani pesi.
Altre invece nuove, dai colori brillanti,
ancora disponibili.
Lungo fu il lavoro come ampio il bottino.
Ormai rimasero tutti senz’anima.
Alcuni, quella scena,
la guardavano, dritto, senza vederla.
Altri la vedevano, però senza capirla.
Della Quarta fu tempo.
Più alta degli altre,
la avvolgeva tutta una mantella nera.
Con uno strano suono adunò il suo gregge,
Alzando il braccio destro,
un punto segnalò, lontano, da raggiungere
sull’orizzonte oscuro.
Conteneva l’insieme dei punti cardinali.
*
Si mise in movimento una marcia inumana.
Nudi, inermi, loro, senza più anima,
inseguendo la guida.
Non correvano più.
Incerti i loro passi d’automi tremolanti.
Senza accorgersene, varcarono confini
sopra stretti sentieri, lungo bui precipizi,
attraverso vallate, oceani di nebbie,
sopra nevi scarlatte, pozzanghere di sangue
seminate di croci.
I loro corpi gelidi, bollenti, senza forze,
a volte sprofondavano in una lava immonda,
brulicante di vite gementi e sconosciute,
aggrappate alle loro membra.
Scoppiavano di suoni le loro teste vuote,
percorse dagli echi di fanfare lontane.
Ciechi, trasparenti sotto lampi e soli
diventavano bianchi e fissi i loro sguardi.
Stracci di pelle informi pendevano, cadendo
dai loro corpi secchi, come scorze dagli alberi.
Senza fermarsi mai, avanti, senza pietà,
proseguiva la guida.
Loro dietro seguivano.
E dalle loro bocche, larghe, spalancate,
prosciugate dalla sete, nessun suono usciva,
né grido, né gemito.
Docili, silenziosi, ubbidienti, andavano.
*

edith dzieduszycka diario-di-un-addio-sogno
All’improvviso, si mise a correre
uno di loro, scompigliando il corteo
e la massa turbata.
La guida orientò verso di lui la fiamma
in cima alla sua torcia.
In quel caos ostile sembrò loro salvezza,
il bagliore danzante di quella luce livida.
Su quell’uno evaso subito calpestato,
si richiuse il gregge.
E le file scomposte riannodarono i fili,
e le file riandarono.
La marcia proseguì, tutti dietro la guida,
finché con uno slancio,
un altro si staccò
dalla marea mossa dei corpi in movimento,
seguito da un altro e da un altro ancora.
Si misero a correre,
come bestie assettate
in cerca del ruscello al quale abbeverarsi.
Bianco l’orizzonte di pianure infinite,
di terre brulle,
di campi senza scampo.
Insieme a loro, per non precipitare,
correva anche la Quarta,
trasportata dal vento dell’andare.
Dietro di loro scie,
sangue, sperma, orina,
sopra cui scivolavano quelli più dietro ancora.
Si misero ad urlare,
e il loro clamore riempiva lo spazio,
raggiungendo, sgomento, i punti cardinali,
traboccava innalzato verso cielo e stelle.
Colmava la volta intera,
la volta adesso nera,
vicina, sigillata.
*
Cercavano un’uscita,
una porta,
una porta qualunque
alla quale bussare,
una porta,
socchiusa nella memoria.
Dietro la quale,
impazienti,
voraci,
li aspettavano
quattro ombre grigie.
D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci. Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski. L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia. Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta. Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta. Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron. Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016), Trivella, poesia, 2 ballate, Genesi (2015); Come se niente fosse, poesia, Fermenti, 2016; La parola alle parole, poesia, Progetto-Cultura (2016); Intrecci, romanzo, Genesi (2016).
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus; Le sol dérobé, Memorie di Marcel de Hody, Editions des Paraiges, (2015)
Cinque poeti verso lo Spazio Espressivo Integrale (Rossella Cerniglia, Gabriella Cinti, Edith Dzieduszycka – Diario di un addio -, Vito Taverna, Anna Ventura), Rossella Cerniglia (Teseo)
Lungo sette componimenti (Delfi; Il deposito; Medea; Minotauro; Lo sbarco; Il labirinto; Arianna abbandonata), Rossella Cerniglia propone alla nostra lettura una sua nuova opera poetica, alla quale l’autrice impone il titolo “TESEO”. Questo recente lavoro di ricerca di poesia presenta, per omogenea continuità di temi, linguaggio, tono e atmosfera, l’architettura del poema. Ed è una “Water Music”, una musica sull’acqua come quella che Händel compose per il Re Giorgio I d’Inghilterra in una delle sue “cavalcate in barca” sul Tamigi.
Rossella Cerniglia riattraversa il mito di Teseo, nato dalla “Inebriata copula” fra Egeo e la giovane Etra, già posseduta divinamente da Poseidon, nel corso dell’incontro propiziato dal re attico. Teseo è destinato dal volere degli dèi a divenire eroe senza rivali, pari soltanto per valore a Eracle. Dal “deposito” vengono tirati fuori i sandali e la spada. Con quest’ultima, arma infallibile, supera l’inganno di Medea e il suo disegno, uccidendo Medo e altri malvagi che fino a quel momento avevano seminato ingiustizia e terrore, a cominciare da Procuste.
Ma non si nomina Teseo senza associarlo inestricabilmente al Labirinto, al Minotauro, ad Arianna. E al suo “Filo” come simbolo di via d’uscita da ogni forma o situazione labirintica. Perché davvero divenne prova insopportabile quella di sacrificare al Minotauro, ogni anno, sette giovani e sette fanciulle ateniesi. Teseo viene caricato del compito di porre fine al dolore di questo sacrificio. S’insinua con i giovani e le fanciulle da sacrificare al mostro, nato dagli amplessi fra Pasifae e il Toro Bianco, per punizione di Poseidon, ingannato da Minosse. Entra nel labirinto, uccide con quella spada protetta dagli dèi il Minotauro, riesce nell’impresa di uscir dal labirinto riavvolgendo il filo donatogli da Arianna. Teseo vittorioso abbandona Cnosso con l’opera progettata da Dedalo su richiesta del re Minosse e fugge con Arianna. Ma, in seguito, Teseo l’abbandona sull’isola di Naxos e naviga vittorioso verso il padre Egeo. Ma Teseo, vuoi per spossatezza, vuoi per l’ebbrezza della vittoria sul Minotauro, impresa che per sempre liberava gli ateniesi dal greve sacrificio, dimentica di issare le vele bianche come concordato con il padre in segno di vittoria. Egeo, in attesa sul promontorio, scorgendo la nave senza vele bianche, credendo Teseo morto, per la disperazione si buttò in mare. Da quel momento quel mare ne prese il nome. E per tutti fu, è, sarà, il mar Egeo.
Ove cercare le motivazioni poetiche in Rossella Cerniglia o gli antefatti per il poemetto TESEO? Forse in ciò che T. S. Eliot scrisse, riferendosi all’ Ulisse di Joyce, e anche a Yeats, nelle riflessioni su quello che definì il “metodo mitico” che l’autore de La terra desolata sentiva come possente “passo verso la possibile resa del mondo moderno in termini artistici”. Del resto, la stessa autrice chiude l’idea di Minotauro in questi chiari, ben curati versi “Orrido mostro che abiti il buio dell’anima/ e i labirinti del maleficio governi …”nei quali elegge il Minotauro a simbolo del nostro mondo con i suoi mali e con le sue storture. Ma Teseo è chiamato a uccidere il mostro e l’impresa riesce. E Teseo chi è se non il poeta che in questa Water Music l’autrice invita a caricarsi di responsabilità, soprattutto estetiche, tornando così al ruolo vero che il poeta deve avere sempre. In particolare, in una stagione in cui “ S’accampa l’odio e s’alimenta/
nei tenebrosi recessi dell’anima…” come succede in questa in cui ci tocca vivere?
Gabriella Cinti (Euriridice è Orfeo)
Già in altra occasione lo affermammo, con gioia nascosta e affettuosa complicità, che i versi di questo libro poetico, “Euridice è Orfeo”, di Gabriella Cinti può per economia estetica generale a buon diritto collocarsi nel grande alveo del “metodo mitico”. Quel metodo, che ha fatto grande certa parte della Letteratura mondiale, magistralmente praticato dal Joyce di Ulisse, dal T. S. Eliot de La terra desolata, da Derek Walcott di Omeros, con una poetica incentrata sulla indicibilità di un mondo in cui “i segni dello sfacelo sono il sigillo dell’arte moderna” (T. W. Adorno).
Un mondo tanto sciatto, decadente, chiassoso da indurre i poeti a rivolgersi al mito quale unica via per aggirarne la volgarità. Esemplarmente a hoc sento questi versi sui quali giova meditare:
” (…) Possa il fruscio delle vesti mai avute,
dell’abito d’ombra che Moira mi ha tessuto,
essere la vera lira del tuo canto
e tornare agli dei per la strada dell’Uomo.”
Versi nei quali dottrina e inclinazione alla pienezza di canto segnalano una voce poetica, quella di Gabriella Cinti, capace di un totale distacco da tanto pseudolirismo novecentesco nel quale un “Io” poetante narcisistico, piccolo-borghese, accartocciato senza scampo sulle psicopatologia d’una vita quotidiana senz’attese, è stato il nucleo piangente.
Anche la Cinti usa l’Io, ma questo «IO» cintiano è relegato ai margini dei versi e ridotto a un minimo rumore di fondo, visto che questo ‘Io’ tende leopardianamente a universalizzarsi, aggregandosi intorno alle verità del mondo e delle cose.
Sotto tale aspetto, il lettore diciamo “sprovveduto” potrebbe essere indotto a considerare l’esperienza poetica di Gabriella Cinti come “esperienza lirica”. Nulla di più errato perché il poeta lirico da sempre fra se stesso e la verità delle cose sceglie sempre se stesso; mentre la Cinti dà al suo Io poetante lo sguardo severo e luminoso che mai si spicca dalla verità del mondo né dalle atrocità e dagli oltraggi del tempo e della Storia.
Se la Divina Commedia dantesca è il poema delle stelle, questo lavoro poetico della Cinti è esperienza di poesia intrisa di luce, impastata di luce, già dai suoi primi versi che annunciano una “poesia pensante” (Dante, Leopardi, Montale) sostenuta da folgoranti immagini metaforiche della migliore poesia scandinava (Espmark, Tranströmer) del Novecento e postNovecento poetico europeo.
Edith Dzieduszycka (DIARIO DI UN ADDIO)
Raramente avverto nella poesia contemporanea proposta alla mia lettura un distacco netto da ogni forma d’inclinazione all’epigonismo come succede invece in “Diario di un addio” di Edith Dzieduszycka.
In questi versi di E.D., la poesia viene ricondotta nell’alveo che le spetta quale alta, sacra espressione della profondità dell’essere volta a rivelazione di verità. Come tale, la poesia di Edith è leopardianamente collegata con la morte. Con la morte di Michele, il compagno d’una vita.
La forza di “Diario di un addio”, forza non ideologica ma etica, è nella intuizione della “morte” quale punto d’incontro, d’intersecazione tra le due categorie care a Carlo Diano: la morte come evento supremo e la morte come estrema forma.
Nella difesa privatissima, esclusiva della propria cifra stilistica personale, Edith D. lega l’esercizio poetico strettamente alla forma/evento morte, meglio alla «contemplazione della morte.» Ma proprio in quest’atto Edith Dzieduszycka pone l’esperienza poetica come strumento, l’unico strumento, capace di trasformare la meditatio mortis in vittoria sulla morte.
Rose rosse
mi offrivi per
i miei compleanni
rose rosse
ti resi
Così Edith in “Rose”. Le rose come «ultima coperta» per Michele che da lei si diparte. E’ un gesto estetico possente, chiaro, definitivo. E’ un gesto estetico più forte della morte. “Diario di un addio” come punto di convergenza di varie poetiche (Poetica dell’oggetto, poetica dell’assenza, poetica della memoria, poetica dell’aura e dell’hic et nunc) è un poema ad elevata resa estetica per una “parola” necessaria, in grado di vibrare fra tensione ritmica, qualità espressiva, potenza simbolico-allusiva.
Ne La Belligeranza del Tramonto (2006) di Giorgio Linguaglossa il filosofo Ipponatte parla: «Non amate i fiori che nascono tra i fiori».
Di questa massima Edith ha fatto propria l’ esortazione linguaglossiana e si è sottratta a ogni tentazione epigonica.
Vito Taverna ( Le poesie di novembre )
– La dotta presentazione di Donatella Bisutti lascia ben poco spazio ad altri esercizi ermeneutici sulla superba raccolta di versi di Vito Taverna, congedata con il titolo “Le poesie di Novembre” (pertinentissimo l’accostamento fatto dalla Bisutti, per tono, tema, umore, stile, al Montale degli “Xenia”).
– La nominazione diretta, precisa, icastica di luoghi (“Scandolaia”, “monte Penna”…), di animali (i gatti, gli scoiattoli, il pettirosso, le tortore…), di fiori e piante (crochi, viole, ortiche) fa di Vito Taverna un esemplare unico (con Edith D.) nel panorama della nostra poesia contemporanea di “adamismo”, la componente gloriosa dell’acmeismo russo (Mandel’stam, Cvetaeva) poiché sembra che Vito nomini piante, fiori, luoghi, paesaggi, animali come se fosse all’alba del mondo, come se nessun altro prima di lui li avesse nominati, esattamente come, primo uomo sulla terra, seppe fare Adamo.
– Vito Taverna riporta tempo e spazio alle concezioni e alle percezioni spaziotemporali premoderne, superando con un salto stilistico e un gesto estetico secchi modernismo e postmodernismo, restituendo ai luoghi la natura di “Luoghi Antropologici”, secondo la visione di Marc Augé.
– Si muove nei suoi versi, come in questo, stupendo, “(…) Tagliare i rovi/ perché non vi s’impigli il velo/ della primavera…”, con un efficacissimo enjambement, o in questi altri, struggenti, “(…) Mi duole tanto quella musica sepolta nel fango,/ forse muta per sempre”, nella padronanza culturale, poetica ed emotiva di colui che conosce profondamente la differenza fra “oggetti” e “cose”, consapevole come dimostra d’essere del travaglio della riflessione sugli “oggetti” che ha accompagnato la cultura del Novecento, e superando anche qui il pensiero postmoderno che ci vede e ci vuole arresi alle copie di copie, ai simulacri senza originale.
– In ‘Le Poesie di Novembre’, infine, Vito Taverna compie un viaggio che in sé somma la risalita dantesca a riveder le stelle dopo la discesa agl’inferi, il ritorno che Omero impone a Ulisse verso Itaca, la navigazione di Achab alla ricerca di Moby Dick…
Perché Vito Taverna ‘viaggia’ in quegli interstizi che sono molto di più della memoria, molto più in là dei ricordi: viaggia nella sua mitologia personale, intima, unica, irripetibile. E inviolabile. Viaggia nell’anima. E compie un atto etico- estetico più forte della morte.
E Midori per sempre e ovunque vibrerà fra le fragili fibre dell’universo come un fruscio di fiori di ciliegio. Perché Midori nell’intima polpa, nell’essenza, nella vera energia interna dei versi taverniani si è trasformata in Euridice. E come Euridice dal poeta
è percepita:
“(…) Dimmi, è una tua domanda?
Vuoi sapere da me
perché non ho difeso
la tua luce a costo della vita?
Oh, se potessi farmi anche per un attimo
(…) l’aedo Orfeo, per scendere nell’Ade
a trascinarti in fuga
nel mio porto.”
Anna Ventura (Antologia Tu Quoque)
Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera ironia del dettato poetico della poesia di Anna Ventura, «la Szymborska italiana», come è stata felicemente definita nel blog “L’Ombra delle Parole” da Giuseppina Di Leo, un dettato poetico sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e risoluzione. Nella poesia della Ventura assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, l’allestimento di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge e ascolta. È una poesia che nasce da Atena che «conosce la superficialità degli dèi», dalla Sibilla che non cerca la verità delle «cose» ma il loro «evento», da Antigone, che invece cerca la verità delle «cose» al di là e al di fuori dei discorsi discordi dell’agorà, lontana mille miglia dai reumatismi dell’intelligenza e dalle insolvenze dei discorsi suasori della politica e della poesia corrotta dalla retorica e dai sofismi dei sofisti. La loro parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melancholia. La Sibilla, anch’essa è leggera, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La poesia della Ventura è poesia politica e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse “Gli sposi etruschi”, o “Le case” o le poesie dedicate alle “streghe”, siano “Due fili d’erba” o qualsiasi altro argomento come il poeta Nerone, preso ad emblema della follia poetica, o Giulio Cesare che celebra inconsapevole il suo trionfo che sarà la sua rovina, o “La guardiana delle oche”, così misteriosa e insondabilmente autentica. “La neve di ovatta” è un ricordo dell’infanzia, una stregoneria che rievoca il mondo in cui tutto era un mistero. L’ultima poesia dell’antologia (che qui viene riprodotta per prima) è il testamento spirituale di Anna Ventura: la parola che pronuncia «il dissenso».
Questi piccoli fogli bruceranno
Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
Un poeta tra Premodernismo, Modernismo e Postmodernismo:
Salvatore Martino
“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il
tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”
Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.
La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quali si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.
Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo
alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno si mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da Pregreca del D’Arrigo
poco prima di ‘Orcynus Orca’:
da Pregreca di Stefano D’Arrigo
“Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece”
Gino Rago
Mamma mia che sorpresa carissimo Gino! Che lettura profonda. Mi dispiace di rubare un po’ di fiato al poemetto di Edith, ma certamente le tue parole mi scavano al profondo e mi riportano al tempo mitico della mia prima giovniezza, a quel sud estremo e insulare che tanto ha inciso nella mia vita do uomo e di poeta. L’Assiria nacque in una lunga estate sulle rocce della costa maremmana, in un delirio wagneriano legato a Tristan und Isolde, che ossessivamente ascoltavo. E legato inoltre alla scoperta dei Pisan Cantos e dei Quattro Quartetti. Sono davvero orgoglioso che tu mi abbia accostato a grandi figure del nostro sud, soprattutto a quel Bartolo Cattafi che conobbi nella sua Barcellona siciliana e che oggi appare caduto in un totale cerchio di dimenticanza. “E l’immenso lavoro sul linguaggio” etc. mi fa pensare che ci sia qualcuno che rende giustizia ad un poeta che ha dedicato tutta la sua esistenza alla poesia e al teatro.
Quattro poeti nello Spazio Espressivo Integrale (Edith Dzieduszycka, Mariella Colonna, Francesca Dono, Costantina Donatella Giancaspero)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/08/edith-dzieduszycka-un-poemetto-inedito-traversata-commento-psicofilosofico-di-giorgio-linguaglossa-il-discorso-illocutorio-di-edit-dzieduszycka-ce-il-senso-ma-non-ce-il-significato-penso-dov/comment-page-1/#comment-28115
Edith Dzieduszycka (LORO)
Accettare il mondo e guardarlo con gli stessi occhi di Adamo, primo uomo: questo è l’intento dell’acmeismo nei versi di “Loro” di Edith Dzieduszycka.
Con una icasticità espressiva che raramente abbiamo riscontrato in tanta parte delle nostra poesia contemporanea, Edith Dzieduszycka sembra suggerire alla nostra coscienza che a
trarci dal nulla o, se si vuole, dall’inumano, a volte può essere il ricordo delle cose, uno Stillstand nel quale ci acquietiamo. In questi versi possenti Edith fa uso di immagini in fuga
dal profondo del tempo e dello spazio, quasi fotogrammi di luoghi abitati, in una fantasmagoria di persone e di oggetti occupanti il posto d’abitudine, un posto a noi noto
e che quasi sempre ci rassicura.
L’Io di Edith che sostiene l’intero poema non è l’io decadente, piccolo-borghese delle psicopatologie della vita quotidiana. E’ al contrario un “Io” titanico, benché con i tratti
dell’antieroe, il quale è consapevole che se si vuole abbandonare il sentiero della storia con la ‘s’ minuscola occorre intraprendere quello della Storia, con la ‘S’ maiuscola.
Ma quest’anelito si scontra con “LORO”, “LORO” si frappongono fra l’aspirazione e il risultato finale da attingere.
“.. .Loro erano comunque sempre lì.
Loro.
Impalpabili.
Inafferrabili.
Tu ne eri cosciente, come sentivi che anche
Loro sapevano che tu li percepivi …”
Una metafora riconducibile ,per taluni aspetti di questo poema, alla caverna di Platone, allo scontro perenne fra doxa e aletheia.
Due grandi novità si registrano in questo corso poetico del tutto ‘nuovo’ di Edith: l’uso sapiente del punto fermo in grado di conferire ai versi una indiscutibile compiutezza e
l’introduzione dell’elemento colloquiale il quale gioca un ruolo decisivo nell’economia estetica generale del poema poiché invita il lettore a entrare nei versi, giocando così non
più soltanto il ruolo del fruitore, ma interagendo attivamente con i versi stessi. (“Scrivo per me e per gli altri…” ha sempre sostenuto Gertrude Stein).
Si mediti su questi versi , sui loro drammatici interrogativi:
“…Chi sono Loro?
Cosa vogliono da me?
Per quale motivo ce l’hanno con me ?
Con me soltanto,
o anche con altri poveretti in circolazione intorno a me? “
Ottima la nota introduttiva di Giorgio Linguaglossa.
E’ un lavoro , questo di Edith , destinato a lasciare tracce profonde nel fare poetico contemporaneo.
(…)
Se un’altra cifra è da cogliere nei versi di Edith D. io la segnalerei sommessamente in una certa forma di ‘ adamismo’, che circola nel respiro stesso dell’Io adottato dall’autrice, quasi
a volersi richiamare direttamente al libro della Genesi in cui Adamo per primo dà un nome alle cose, un atto primigenio di nominazione dell’esistente: definire nuovamente, con forza,
chiarezza e linearità, tutto ciò che esiste, come se niente fosse stato davvero nominato da nessun altro prima. Accettare e guardare il mondo con gli stessi occhi di Adamo, primo
uomo: questo fu l’intento dell’acmeismo sovietico e che Edith riesce a far suo in questo lavoro compatto, severo e luminoso, come del resto si evince dalle riflessioni dello stesso
Giorgio Linguaglossa, i cui versi segnano un punto di svolta nel fare poetico di Edith, una poetessa nella quale ammiriamo anche la capacità quasi camaleontica di saper mutare ciò
che in Estetica si dice la ‘Livrea’.
Questa febbre poetica non sarebbe possibile sostenerla senza “desiderio di poesia”… Edith D. conoscendola davvero ha ” desiderio di poesia”. Vive, vibra, opera, migrando da un
registro espressivo a un altro, da un linguaggio ad un altro (fotografia, arte figurativa, ecc.) nel desiderio di poesia, e sempre alla ricerca del ‘tutto’.
Quel ‘tutto’ che per Edith , e in Edith, coincide con la percezione di quel ‘frammento’ che non basta a se stesso.
Omaggio da Osip Emil’evic Mandel’štam
a Edith D.
‘Mi è dato un corpo – che ne farò io
di questo dono così unico e così mio?
Per la placida gioia di respirare e vivere
chi, ditemi, devo ringraziare?
Io sono giardiniere e sono anche fiore,
nella prigione del mondo io non sono solo.
Sui vetri dell’eternità si è steso
il mio respiro, il mio calore.
Su di esso si è impresso un disegno
ultimamente indecifrabile.
Lascia che sgoccioli il sedimento dell’attimo
il caro disegno non si può cancellare.’
Sono versi che sigillano la grandezza del poema di Edith. Perché?
Perché anche nel mondo-prigione dominato dalla percezione di LORO, la poetessa vive e respira con un corpo che accetta come ‘dono’ nella sua unicità e irripetibilità, nel giardino della poesia in cui, come Mandels’tam , anche lei si sente nel contempo come giardiniere e come fiore.
Anche dai versi sopra proposti da Giorgio Linguaglossa come backstage del poemetto ‘Loro’ si coglie senza sforzi un dato, accanto a quelli già segnalati in precedenza: il lavorio serio sulla forma-poesia operato da Edith rispetto alla sua precedente esperienza di poesia.
E se qualcuno degli ostili alla NOE si prendesse la briga di analizzare uno ad uno i suoi versi non faticherebbe più di tanto ad accorgersi che i versi di Edith Dzieduszycka esaminati alla luce del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale rifondano i concetti di ‘ nome ‘, di ‘tempo-spazio’ , di ‘proposizione’.
“…E’ dunque successo una sera di novembre,
me lo ricordo perfettamente,
una di quelle sere in cui il buio e l’ombra
ti piombano addosso senza preavviso,
quando già volteggiano nell’aria gelida tante foglie rosse e ruggine
prima di cadere e formare un tappeto morbido
che scricchiola sotto i passi…“
Versi esemplari con i quali l’autrice si sottrae definitivamente a ogni forma, a ogni tipo, a ogni suggestione di epigonismo poetico, aprendo nella boscaglia fitta dell’atto poetico del nostro tempo un sentiero personale, inimitabile e sicuro.
Perciò, giustamente, a cominciare dalla nota introduttiva di Giorgio Linguaglossa, il poema “LORO” è stato in quasi tutti i commenti salutato come lavoro di approdo, da un lato, e di ripartenza, dall’altro, nella militanza poetica dell’autrice anche di ‘Diario di un addio’ …
La forza morale di questa scrittura “nuova” di Edith D. , in grado di spostare il baricentro poetico della sua ricerca verso quei paradigmi estetici da inscrivere nello spirito e nella forma-poesia della Nuova Ontologia Estetica, si avverte lungo l’intero poema e nel finale esplode nell’incanto laico del dubbio, senza illusioni catartiche né pretese palingenetiche:
“ …Senza battere ciglia,
guardarmi dritto negli occhi e dirmi
“Sei stato il più bravo.
Il più coraggioso.
Il Più.”
E morire felice. O forse no.
Chi può saperlo. “
Mariella Colonna
Mary Colonna si muove in questa sua Allegoria entro i massimi temi del tardomoderno storico; ovvero, del post-moderno artistico: nomadismo super-capitalista globalizzato; marginalità di ogni localizzazione; aeriformazione dell’intellettuale; crollo della razionalità progettuale; solitudine esistenziale dell’individuo; impresentabilità dell’arte con tutto il rifiuto della icona; amore «liquido»; condizione cosciente del difetto del ‘Sé’; ibridazione; immanenza…
E adotta due strumenti tardomoderni esteticamente efficaci: la performance
e l’ironia per armonizzare le ‘contraddizioni’ di cui parla Costantina Donatella
Giancaspero nel suo commento in cui riprende le riflessioni di Giorgio Linguaglossa: il testo postmoderno vive nel teatro. Tutti gli eventi si riconducono a una dimensione di teatralità. Da qui la performance.
Ma questa per Mary Colonna-Londadeltempo da sola non basta.
La performance si deve fondere con l’ironia: Perché’?
Perché per tutti i personaggi dell’Allegoria colonniana ( i quali vivono e respirano tutti intorno a Kappa-Linguaglossa) l’ironia
è lo strumento più efficace per superare il silenzio e per oltrepassare la morte. Come? Attraverso il “DIALOGO” , se non altro per “restare in sintonia con il cosmo”, come si desume dal frammento della Commedia (che serve a preparare il verso più felice dell’Opera “…«In una notte come questa, in una notte di tempesta,/ il firmamento nuota ancora verso la stella marina.”)
che trovo utile rammentare, riportandolo tal quale:
“G.R. Poeta coronato di alloro, le prende una mano e lei tende l’altra mano ad Ecuba: i tre accennano ad un delicato passo di danza…
G. R.: “Adesso danziamo, non possiamo fare altro / che restare in sintonia con il cosmo e attendere…”
Da cui si avverte tutta la crisi dell’individualismo tardomoderno, negli ambienti come negli eventi e nei ‘templi’ contemporanei, i nonluoghi nei quali
la vita viene scandita dall’aggregarsi in folle, essendo in essi assente
l’individuo (ecco anche perché è ormai intollerabile la poesia incentrata
sull’Io, un Io che non ha più alcuna ragione d’essere).
Francesca Dono
“(…) sono lontana dal molo.” L’autrice dunque si cala nel ‘luogo’ che non può non essere acquatico, meglio se di mare. E questo molo è nel mare.
L’autrice poi aggiunge nei versi successivi degli elementi precisi che fondendosi reciprocamente individuano irreversibilmente, inconfondibilmente
un luogo preciso: Venezia. Non è dunque un luogo etnico. Nè è un luogo fisico. Tutto spingerebbe il lettore alla individuazione di un “Luogo antropologico”, un luogo della relazione, della memoria. della identità.
Ma un luogo per essere pienamente ‘antropologico’ richiede una fisicità che in buona sintesi è in grado di esprimersi in una geometricità, ben
definita e riconoscibile, delle sue tre semplici forme spaziali e cioè la linea, l’intersezione, il centro.
Francesca Dono abilmente invece spiazza il lettore. Spezza le tre forme spaziali linea-intersezione-centro e dall’ apparente luogo antropologico sospinge il lettore in un ‘Nonluogo’, cioè in uno spazio non identitario, smemorato, non storico né relazionale. E cala il lettore in una cascata di coriandoli mentre la “muschiata della piazza è una fotografia a scacchi” in cui
“un gondoliere ha l’aria turbata”.
Il ‘gondoliere dall’aria turbata’ di Francesca Dono non è poi tanto esteticamente distante da “L’intruso” di Mauro Pierno. Differente è invece l’approccio richiesto alle composizioni di Carlo Livia e di Antonio Sagredo, nelle quali oggi ci siamo intensamente imbattuti.
Ma visto che Giorgio Linguaglossa ha proposto meritoriamente Fernando Pessoa, affermo che le quattro voci poetiche di Francesca Dono, Mauro Pierno, Carlo Livia e Antonio Sagredo, anche se
con differentissime sensibilità linguistiche, hanno in comune la coscienza (centrale nella poetica di Pessoa, soprattutto della ‘Ode Marittima”) del viaggio, del ‘viaggio’ nella letteratura occidentale come metafora della vita, perché i quattro poeti mostrano di sapere proprio con Fernando Pessoa che “La vita è ciò che di essa facciamo. I viaggi sono i viaggiatori. E ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”.
Costantina Donatella Giancaspero
Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…
” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”
Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…
In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…
Ma su tutte rimane sospesa, almeno in me e per me è ancora senza risposta, la questione posta da
Ewa Lipska :
“Come si entra nella storia, cara signora Schubert?
All’assalto come i tiranni?
Timidamente come i poeti?”
Un tentativo, esteticamente coraggioso, (un testamento prematuro etico-estetico dal vago sapore degli Xenia montaliani?) si avverte in questi che avverto come i versi più belli e densi degli ultimi tempi da me letti e anche fisicamente sofferti, di
Edith Dzieduszycka:
POST
Ecco.
Ci siamo.
Doveva finire così.
Era scritto che finisse così.
Scritto da chi?
Bella domanda…
Però lo so…
o devo dire lo sapevo…
– presente o imperfetto? –
lo sapevo, sì,
da tempo,
come lo sappiamo tutti.
Tutti quelli che ci pensano,
o semplicemente che pensano.
Cosa non facile da accettare
ancora meno da condividere.
Un giorno ci sei,
e poi…
via,
il giorno dopo chi sa?
Invece si sa benissimo,
ma per l’appunto
si evita di pensarci.
Dunque riflettevo,
imperfettamente,
ma riflettevo,
l’altra mattina,
una vita fa…
Prima davanti allo specchio
poi nella vasca da bagno.
Cos’è uno specchio
se non lo strumento
che ti rivela quello che sei,
che spesso dimentichi
o ti sforzi di dimenticare
o che rifiuti.
Ambiguo strumento
con il quale chiacchieri
mattina e sera
cercando d’ingannarlo,
mentre lui non ci casca,
e ti risponde
rendendoti pan per focaccia,
spesso boccone amaro.
Cos’è poi
una vasca da bagno
se non una bara
un po’ speciale,
bara acquatica
a misura umana,
come ce ne sono tante altre
(Gino Rago)
Carissimo Gino,
se non ci fossi tu a segnalare ed interpretare i nostri tentativi di uscire dall’io uccidendo l’odiato Ego…credo che la mancanza -forse temporanea- di senso e non senso o l’eccesso dell’uno e dell’altro non sarebbero letti ed elaborati neppure da noi stessi, (questo vale almeno per quanto mi riguarda.) La tua cultura e onnicomprensione delle manifestazioni dell’Arte dà ali ai versi che stentano a prendere il volo e alle parole ancora incerte perché coraggiosamente pronunziate nel VUOTO. Per fortuna Vuoto, perchél’io e l’Ego sono ormai IRREFRENABILI VOGLIONO TUTTO SENZA ACCORGERSI CHE si sono autodivorati e di loro non rimangono che ceneri e miseri resti. Ma c’è ancora, inella profondità di noi stessi, una “Cosa” fantasma che vive e ci sollecita ad andare avanti. A dare una mano alla”Cosa” Fantasma ci sei tu, Gino, ben vivo e intelligentemente aperto ai tuoi amici poeti, tu che ti fermi sui loro fiori e li trasformi in miele.
Grazie, grazie!
Perdona il ritardo con cui ti ho risposto, ma non riuscivo a ritrovare il dicembre sull’Ombra delle parole!
A presto, spero, se questo magico blog non si negherà ai tasti del mio computer.
Mariella
Sono lusingata della lucida, intelligente lettura che Gino Rago ha dedicato ai miei versi.Nello sconforto che viene dalla consapevolezza dell’avanzare di tempi duri contro ogni tentativo di nuovo umanesimo,la consapevolezza di avere compagni di viaggio in un tentativo di resistenza è già una grande consolazione
Anna Ventura
Compagno di viaggio in un tentativo di resistenza: se così mi senti, cara
Anna, ho ricollegato il centro della mia coscienza al Tutto Pieno/ Vuoto.
Grazie per il tuo apprezzamento.
La tua Antologia ‘Tu Quoque’ richiedeva altre meditazioni vista la ricchezza di temi che vi appronti; ma una nota critica è e dev’essere un esercizio ad alta densità…
Gino Rago
Due poeti al centro dello Spazio Espressivo Integrale:
Giorgio Linguaglossa e Mario Gabriele
Giorgio Linguaglossa (Preghiera per un’ombra )
Questa è la preghiera per un’ombra.1
Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,
la sua personale Odissea.
Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici
e il Teatro dei pupi.
L’illusorietà delle illusioni.
[…]
«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio
– mi dice l’ombra –
così, stoltezza e saggezza si equivalgono,
eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.
Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli
della nostra condizione di fantasmi.
Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano
e vivono come se fossero immortali;
il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico
imperscrutabile,
un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.
Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,
sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;
tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».
[…]
«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,
«come un re vecchio che parla ai bambini
che giocano con gli eroi omerici
credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali
che governano le cose del mondo nulla sappiamo
se non che anch’essi sono bambini che giocano
con i mortali come se fossero immortali;
perché Omero dopo aver poetato gli immortali
cantò la guerra delle rane e dei topi,
degli uccelli e dei vermi,
come un dio che avesse creato il cosmo
e subito dopo il caos.
Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone
nel mare vasto e oleoso.
E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,
Asterione, alle pareti bianche del Labirinto
perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.
In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,
solo che essi non lo sanno.
Non c’è strumento più prezioso dello specchio
nel quale ciò che è precario diventa immagine.
A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».
[…]
«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.
Perché il suo destino non era il mio.
Il suo specchio non era il mio».
[…]
«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla
con gli uomini e le Parche.
Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.
Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.
Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.
Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.
Come farai tu».
[…]
«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta…»2
1 Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi
2 versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)
“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna, con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza. Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché, questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna. Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “verità“ delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa). E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti e le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna? Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia), fino a quando non giungono alla “conoscenza”. Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma
singolari parole-chiave: forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello “spazio espressivo integrale”, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.
Lo “spazio espressivo integrale” della “Preghiera per un’ombra” è il campo in cui “nomi”, “tempo”, “immagine”, “proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo [Mario Gabriele, fra questi, con Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Lucio M. Tosi, Angela Greco, (in parte Antonio Sagredo) e lo stesso Gino Rago] a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni altra esperienza di poesia contemporanea esterna a tale campo.
Nota.
Segnalo l’ottimo commento di Alfredo Rienzi a “Preghiera per un’ombra” (al quale non mi sono voluto sovrapporre con la mia lettura del 30 marzo 2017 – Roma, Laboratorio Poesia Gratuito, Libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106) apparso su La presenza di Erato.
Mario Gabriele (In viaggio con Godot)
I due poeti al centro della NOE, Giorgio Linguaglossa, già considerato, e Mario Gabriele, che stiamo considerando) nel loro fare poetico all’interno dello Spazio Espressivo Integrale, sanno che:
* il vuoto non è assenza di materia;
* l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
* il Campo Espressivo Integrale è l’unico in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
Esemplare sotto tale specifico aspetto è il recentissimo Libro-Poema di Mario Gabriele , con memorabile saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa,”In viaggio con Godot“, 69 composizioni che s’intrecciano l’una con l’altra, ma ciascuna con una propria completezza finita.
Un Libro ad architettura e struttura di poema da inserire nel meglio della poesia pubblicata negli ultimi 15/20 anni in Italia.
Ed i meriti sono etici ed estetici, stilistici e linguistici, ecc. con una abilità del poeta di nominare con esattezza e leggerezza luoghi, situazioni. occasioni,
personaggi, giornali, riviste, libri, esperienze musicali, opere d’arte visive, in uno stile che definirei ‘adamistico’, pensando all’inevitabile collegamento con la corrente più significativa dell’acmeismo mandelstamiano:l’ “adamismo “.
Ma nei 69 pezzi de ‘In viaggio con Godot’ ho sentito vibrare un’adesione
gentile, consapevole, cordialissima alle dinamiche contorte del mondo e della vita che l’autore (Mario Gabriele) interpreta e segnala giocando sulla asimmetria spaziotemporale, all’insegna della indeterminazione del vivere e altro…L’esito estetico finale è una poesia, rubando le parole a Giorgio Linguaglossa, autore del saggio introduttivo, “atetica, non-apofantica, pluritonica, vario ritmica.”
Ne è paradigmatico il componimento numero 51.
Questo componimento numero 51 della raccolta gabrielana si lega strettamente agli altri 50 che lo
Precedono e d’altro lato prepara il terreno agli altri diciotto che lo seguono, pur presentando e possedendo una propria finitezza stilistico-emotiva, una compiutezza tematico-etico-stilistica:
“Dora scrive versi.
Sorprendono le metafore e i giorni della resa.
Al Circolo Heidelmann
si replica il Partigiano Johnny.
Con Le Demoiselles d’Avignon
siamo andati a cercare Le Illuminazioni.
Il tempo è in agguato. Ci minaccia.
Dora alle sette apre le imposte.
Toglie i ragni sui muri. Chiude la porta.
Benn l’accompagna alla stazione.
-Milano- dice.- è una grande città
con tante Silicon Valley.
Puoi contattare qui la M.G.M.
per un lavoro part-time.
Poi si vedrà se andare a Boston.
C’è però un problema ed è la famiglia Salomon
che parla sempre di decaloghi
e di colombe che tornano dopo il diluvio-.
Un’altra stagione è alle porte
con lampi di sole sulle tavolette di Lucio.
Domani è di scena Mrs Dalloway,
ma senza Virginia Woolf.”
Così è per gli altri 68 del libro. Ciò ben lo rimarca Giorgio Linguaglossa nel suo poderoso saggio introduttivo quando tira in ballo «Il treno del tempo».
Un tempo da Giorgio interpretato come ‘successione, salto in avanti, salto
All’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa,
reversibilità, irreversibilità…’.
Riflessioni linguaglossiane che sono propedeutiche all’accostamento consapevole
alla cifra centrale della poesia di Mario Gabriele: le immagini. Più precisamente alle immagini metaforiche nel senso di Tranströmer, in ciò maestro indiscusso.
Gino Rago
P.S.
Ho in elaborazione altri brevi lavori su Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco-Rathgeb. Ma non sono soddisfatto, incontentabile e severo con me stesso così come mi percepisco, ancora dei loro esiti. E poi sono oggi anche un pò
provato…
GR
Ma ditemi come si fa a leggere, e per giunta alla luce precaria del computer, questo fiume invasivo che Gino Rago ci ha regalato. Lo vedo e mi sgomento , anche perché l’incipit mi appare un po’ confuso. Alla mia età per fortuna mi è consentito scegliere., e le mie capacità di lettore si offuscano, anche perché, come vado ripetendo inascoltato da tempo, le immissioni dei poeti si susseguono alla velocità della luce. Uscire da un mondo poetico ed entrare immediatamente in un altro proprio non mi riesce. Ma forse nato al cartaceo e alla meditazione, codesta velocità mi sconvolge. Insomma qui devo leggere Traversata della Edith o il Nilo di Rago che allaga il basso e l’alto Egitto?
Caro Salvatore Martino,
dopo l’esondazione di ieri del mio Nilo credo e temo che il mio spirito di servizio verso l’altrui poesia si placherà e, dando ascolto finalmente allo struggente invito-appello di due mie grandi amiche di finissima e colta civiltà poetica, dedicherò più attenzioni, più tempo ed energie a me stesso
e alle cure della “mia” poesia.
Colgo l’occasione per dirti un sincero e riconoscente ‘grazie’ per le parole
ben calibrate e congrue che hai saputo inanellare nel commento – da me
assai gradito – ai versi su Lilith, Seconda parte.
Gino Rago
Se i fiumi sono questi che ben vengano, non c’era ironia nel mio scritto solo sgomento per la mia scarsa scapacità di lettore. Credo che Lilith possa avere un seguito.
Tornata da poco, dopo l’ora passata su “Marte” dentro la Nuvola, mi sono tuffata nel variegato e generoso commento di Gino Rago appena inserito su L’Ombra. A dire la verità non era “UN commento”, ma “una lunga catena” di pareri e osservazioni, ragionamenti elaborati e emozioni provate alla lettura dei scritti di alcuni di noi, con le nostre specificità e particolarità che ha saputo estrarre con sapienza e affetto.
E quando ho scritto “generoso” era secondo me il qualificativo giusto per definire l’attenzione profonda che ha usato per parlare di ognuno. E credo, anzi, ne sono sicura, possiamo essergli tutti infinitamente riconoscenti.
Per quello che mi riguarda, sono rimasta colpita dalla sua trascrizione di una frase di Pessoa inserita ad un certo punto nel suo testo. Perché provo un grande amore per Pessoa, ispirato al quale ancora dorme una mia raccolta a lui consacrata, e perché mi ritrovo in quelle due righe: “La vita è ciò che di essa facciamo. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo.”
Per tornare sulla Nuvola, quell’ora passata insieme mi sembra essere andata molto bene, con la presentazione delle due iniziative del nostro superattivo e generosissimo (anche lui) Giorgio: la collana Il Dado e la Clessidra e la rivista Il Mangiaparole. Ma lo sapete ovviamente! Un grandissimo grazie a lui, che non si risparmia mai e ci tiene tutti sotto la sua ala! Ha spiegato molto chiaramente i suoi progetti insieme a Letizia e a Steven. Grazie anche a Mauro, l’editore di ProgettoCultura.
In quanto alla Nuvola contro la quale nutrivo parecchi pregiudizi, mi hanno conquistata in cima gli intrecci, le spire e le arabesche della sua struttura sovrastante. Nell’insieme, stand, spazi, lunghe scale mobili, il tutto un po’ asettico ma funzionale. Contrordine: ho appena sentito che non ci sono i carrelli per gli editori…Brutti e stretti i marciapiedi sulla Colombo….. Ma lì mi sembra ci sia un contenzioso…?
Letto ora il commento di Salvatore. La Traversata della Edith non si legge, si ascolta! E’ un video! E grazie ancora a Giorgio per averla inserita nel momento più strategico!!!!
Edith, grazie.
In realtà a te ho riservato la magna pars perché sulla pagina de
L’Ombra a te riservata con l’ottima “Traversata” tu appari con “Diario di
un addio”, con “LORO”, con i versi recentissimi (struggenti) di “POST”.
Ma mi è sembrato eticamente congruo e doveroso affiancare alle tue opere
da me considerate anche quelle degli altri valorosi poeti (ne ho interpretati ben 11 in una pagina soltanto di Commenti) per quello spirito di servizio che anima e sostiene la mia responsabilità di Redattore de L’Ombra…
“Ma oggi il poeta tradisce la sua catena di passati.
Resiste all’amplesso cerebrale
di fare l’amore con il giorno precedente.
Commette l’adulterio di esser già domani.
Solo che stanotte la notte non prosegue…”
(alla maniera di Dark Eros di un poeta senza nome)
Edith, seri motivi familiari (di cui il nostro Giorgio e Costantina sono a conoscenza) mi hanno imposto di lasciare Roma determinando la mia
assenza alla Nuvola…
Gino (Rago)
Una situazione disperata, di assoluta sconfitta o comunque di fragilità: è quanto mi serviva per tirarmi su. Sì, perché “La traversata” di Edith è comunque scritta con vitalità. Come se concepita da una levatrice. E poi non sono tanti a saper stare nel dolore, anche sotto il dolore, perché queste non sarebbero situazioni dove a qualcuno può venire in mente di scrivere. Io (purtroppo) credo a tutte le poesie. Penso che, dietro, sotto o da qualche parte, le poesie sono sempre autentiche. E’ la seconda volta che leggendo Edith mi ritrovo a vivere un’emozione, quasi che l’emozione sia l’avvisaglia di un potere. Un dono. Che io accolgo volentieri. Forse il dono è la risalita (finché c’è vita). Senza una ragione. Questa volta però ho trovato anche poesia come l’intendo io, voglio dire non solo prosastica:
Affamati, mangiavano erba e croissant di luna.
Sferzati dalle liane dai rami dai rovi,
scalavano montagne e ghiacciai bollenti,
vulcani incandescenti, oceani furenti.
Un inferno! Qualsiasi altra situazione disperata potrebbe sembrare di privilegio. Per questo, dopo aver letto, e mentre leggevo, mi sono sentito sollevato. Mi chiedo in quale parte dell’oceano della memoria Edith sia andata a guardare, in quale profondità. E cosa sia riuscita a portare a riva. Sono felicissimo di non saperlo, e che Lei sia stata attenta a non dirlo.
Sacche senza forma.
Erano solo quello.
Sacche. Che camminavano.
Sacche di lacrime,
Un incubo! La narrazione di un sogno, che poesia rimette in azione. Nel caos, inferno dantesco. E per finire, quattro ombre… con quell’aggettivo “grigie” messo lì apposta! come che il peggio – che siano figure adulte? – debba ancora arrivare. Ecco dove sta di casa la realtà: in un posto invisibile, tenuto nascosto. Un posto sconosciuto a noi stessi; che pochi sanno vedere. Meglio la favola bella? Ma i poeti non sono qui per consolare, o per fare in modo che il mondo sembri più bello.
Bene anche la cadenza, la narrazione sostenuta e rafforzata da punti e periodi brevissimi; molte immagini in movimento. Anche meglio del sogno, se questo fosse stato per davvero. A volte il logos rischiara.
Parlavo ieri con un amico poeta il quale mi diceva di non riuscire a riconoscere in questa composizione di Edith Dzieduszycka la poesia che lui conosceva. Io gli ho risposto di sì, che è vero, che la forma di «racconto poetico» prescelto da Edith è una forma-poetica di tipo nuovo, e che quindi se si ha in mente la forma poesia tradizionale non si può riuscire a riconoscere questo nuovo sotto genere diciamo inventato dalla poetessa romana. Questo «racconto poetico» è una forma-poesia di nuovo tipo che richiede l’impiego di altre categorie estetiche. Ecco spiegato il mix di psicoanalisi e filosofia usato nel mio commento psicofilosofico. Non c’era altro modo per spiegare questa nuova forma poesia.
Il dono della tua emozione l’hai fatto a me, caro Lucio, ho letto il tuo commento con gratitudine. Ti chiedi “in quale parte dell’oceano della memoria sono andata a guardare, in quale profondità… e sei felice di non saperlo”. Chi mi conosce meglio invece lo sa. Ha a che fare con l’eterna malvagità umana scoperta con stupore nell’infanzia e mai poi smentita. Per cui il mio scrivere è sempre cangiante, perché poggiato su un’altalena.
Un poeta che entra ed esce dallo Spazio Espressivo Integrale:
Steven Grieco-Rathgeb
Steven Griecp-Rathgeb (“Entrò in una perla”)
“Entrò in una perla” è la composizione poetica forse più ambiziosa di Steven Grieco-Rathgeb perché ci fornisce una sorta di resoconto pieno dei rapporti dialettici tra l’anima e l’Io: “Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai…/ (…) E allora noi, prismi ignari,/ tornammo a splendere…”. E lo scontro fra i due termini del binomio Io-anima si avverte nello sfregamento repentino del passaggio rapido dall’Io pagliaccio al “noi” prismi ignari. Sotto questo aspetto, Steven Grieco-Rathgeb lo sento come poeta whitmaniano , soprattutto quando approdo a un altro suo verso rivelatore:”… un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte” ove le due parole-chiave “mistero-notte”, ma verso cieli altissimi, possono essere nella mitologia segreta del poeta una oceanica assenza (madre, padre) assenza, bene espressa da forza inventiva e padronanza metaforica. E poi Steven Grieco-Rathgeb, in altri versi, ci dà il suo incantamento di fronte al susino in fiore. Ed è anche il nostro incanto. Anche se in “Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa” Walt Whitman negli ultimi versi confessa:
Da quella pianta dai fiori dal colore delicato
con le foglie a forma di cuore d’un verde intenso
stacco un rametto fiorito
Steven al contrario si arresta di fronte al miracolo dell’albero fiorito. Gli basta il miracolo e lo dice in una pacatezza “soprannaturale.”, in una intima ontologia estetica, avendo ogni poeta una propria, specifica, unica, irripetibile cartografia psichica. Il tutto, per dirla con una riflessione di Giorgio Linguaglossa su questa poesia in un “verso libero privo di unità metrica… Un verso libero privato della sua libertà, un verso libero prodotto del/dal nichilismo compiuto.”
Critica letteraria (nota di Giorgio Linguaglossa) e versi (di Steven Grieco-Rathgeb) qui sono al loro acme, dal greco akmé. Il quale, com’è noto, presenta plurimi significati: ‘vertice’, ‘punto culminante’, ‘massimo vigore’, ‘il più alto grado di qualcosa’;
ma, nel caso dell’acmeismo, akmé può essere anche ‘il fiore’, ‘la stagione del rigoglio’.
Nella pagina de ‘ La Presenza di Erato’, ben coordinata da Luciano Nota, l’akmé nelle parole del critico Linguaglossa e del poeta Grieco-Rathgeb racchiude tutti i significati plurimi che prima ho elencato, anche se il mio personale plauso va a
questo verso ( citato nel suo commento dallo stesso Steven ):
“(…) le immagini spezzate da un soffio d’aria….”
Si spezzano le immagini e con esse si rompe nel poeta il filo diretto fra l’Io
e il Sé. Si stabilisce una distanza fra il poeta e il mondo, si apre una voragine
fra il poeta e ciò che Mariella Colonna chiama “mistero” e che invece Giorgio Linguaglossa preferisce chiamare la “Cosa” e che io dico l’Assoluto.
Ovvero le immagini spezzate nella coscienza del poeta aprono un baratro
fra il Sé e la Bellezza…
Gino Rago
(Su Lucio Mayoor Tosi e sulla sua recentissima produzione sto
ancora elaborando una nota degna delle sue qualità poetiche).
GR
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/08/edith-dzieduszycka-un-poemetto-inedito-traversata-commento-psicofilosofico-di-giorgio-linguaglossa-il-discorso-illocutorio-di-edit-dzieduszycka-ce-il-senso-ma-non-ce-il-significato-penso-dov/comment-page-1/#comment-28360
La scrittura di Edit Dzeduszycka ha un respiro raro nella poesia odierna; riesce a trasporre i contorni, l’atmosfera, la cornice della narrazione poetico-epica: un contributo di cui avremmo sempre più bisogno della poesia in questi tempi sbandati, sciagurati, polverizzanti il senso più profondo dell’umano, ma che in realtà sempre meno i poeti (anche loro per la maggior parte stritolati nella morsa disumana di questa scenario cronologico) riescono ad offrirci, più protesi in molti casi alla ricerca della visibilità mediatica – questi sono i danni della digitalizzazione, che per altri versi offre invece risorse preziose come “L’Ombra delle Parole- che a tentare di approdare ad una vera ricerca poetica che si faccia testimonianza, traccia del percorso umano. E’ questa la ragione per cui mi sento di aver trovato una casa, un rifugio da questo scempio che ci circonda tra le mura dell'”Ombra” ed è questa la ragione per mi sento in dovere di ringraziare Edit e come lei tutti i grandi poeti che animano queste stanze, per essere in grado di regalarci ancora i loro fulgidi lampi di eternità. Buona giornata a tutti voi.