
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
Presento questo primo post ponendo prima di tutto un interrogativo: perché le due scritture – prosa e poesia – la cosiddetta letteratura – soffrono oggi di una malattia da deperimento?
Certo, mi rendo conto che anche le altre arti sono in crisi: pittura e scultura oggi sembrano produrre poco di significativo: la musica classica contemporanea (elettroacustica, etc.) sembra stia girando su se stessa, le installazioni artistiche sono spesso meri giochi di abilità, Ai Weiwei espone mille selfie di se stesso, e noi non siamo così stupidi da non capire che espressioni come queste, apparentemente originali, nascondono (a fatica) una immensa povertà di idee…
Rispondo a tale quesito in due modi: con il testo “Conversazione con Gilberto” che segue, e con il primo di una serie di commenti esplorativi che trovate più sotto, subito dopo qualche mia poesia, perché questa è una rivista di POESIA, e la prima privilegiata su queste pagine deve essere sempre lei, la POESIA.
(Steven Grieco Rathgeb)

Il cobra, non più il giardino. La memoria.
Steven: Gilberto, ho pensato ad un certo tipo di opera d’arte come ad una scatola chiusa. Dentro non sappiamo cosa c’è: potrebbe anche essere vuota, chissà. Ma ha una decorazione esterna molto piacevole.
E poi c’è una scatola scoperchiata, aperta, al cui interno è visibile una installazione. Diciamo una poesia scritta su un foglio – passami questo esempio, visto che sono poeta: i graffi nerissimi sul foglio bianco sono i segni, le cieche asticelle significanti di un grumo autocosciente, auto-creato, che si va costruendo man mano che lo leggiamo, osserviamo.”
Gilberto: Questo mi fa pensare quanto ancora oggi siamo abituati a muoverci culturalmente entro certi confini. E quanto le cose sono, in effetti, a partire dal secolo scorso, cambiate.
Ad esempio, in questo caffè dove stiamo seduti, il nostro parlare prende un senso che non può essere avulso dal contesto: il passare frettoloso dei camerieri, il bisbiglio delle persone. Un tempo forse non avremmo espresso la cosa in simili termini. Non trovi affascinante pure tu questo nostro modo di essere qui?
S.: Questo tinnire di tazze e bicchieri, questo frusciare dei nostri vestiti quando ci muoviamo: è anche nei rumori intorno a noi che oggi riconosciamo l’incomparabile musicalità delle cose. Direi una cosa meravigliosa.
G.: Ovunque volgi lo sguardo, la scena si illumina e prendiamo coscienza di parte di questa realtà che ci circonda. Ovunque, perché non può esserci, io penso, nessuna zona di ‘nulla’. Ecco, guardo in quella direzione e scorgo la luce magica che viene dalla porta d’ingresso in questo tardo mattino di sabato.
S.: Ho sempre avvertito le ombre di possibili eventi – addirittura di epifanie – che esistono intorno a noi. Possono manifestarsi in vari modi: o possono anche starsene lì per sempre, folla ‘irrealizzata’ che non vivremo mai. Ma se per caso il mio sguardo dovesse posarsi su una di loro, lei può illuminarsi, forse anche entrare nel mio raggio di esperienza. Arriverò anche a dirla ‘mia’.

opera di Gilberto Peverini
S.: Caro Gilberto, il nostro incontro di qualche ora fa è solo un ricordo. Sto tornando a casa sotto i platani autunnali di Castro Pretorio. L’aria di questo pomeriggio di dicembre è immobile: le grandi foglie marroni senza vita scendono sfiorandomi la testa e le spalle. Cadono come corpi sfasciati, dimentichi di se stessi.
Al mio collega giapponese il waka aveva insegnato molte cose. Una di queste: il vento è invisibile. Riconosci il suo soffiare solo dai suoi effetti sui volti e sui capelli della gente, da come scuote i rami e le foglie degli alberi. Dalle rilevazioni di un anemometro. Eppure il vento è sempre tra noi.
La scatola sul tavolo. Leggera. Il vento la butta giù.
G.: Volevo proprio riflettere, caro Steven, su quella tua scatola vuota. Pensa in quale momento storico complesso e strano viviamo. E ripeto: l’opera d’arte fatta come scatola vuota ma esternamente decorata è probabilmente figlia di una cultura conformata a degli assoluti. Modi di fare arte che nel secolo scorso hanno iniziato a lasciare spazio a nuovi linguaggi: linguaggi aperti, che dialogano non solo con chi fruisce, ma con il luogo, col circostante, con le stagioni, l’autunno, la primavera. Aprirsi all’inatteso. Allora i confini dell’opera tendono a dissolversi e confondersi con tutto il circostante, e l’opera stessa non sarebbe più il lavoro compiuto dell’artista: quest’ultimo farebbe semmai da tramite per un contesto più ampio.
S.: Guardo la scatola. Che strano! Il suo stare qui, e non lì: il mio guardarla, in qualche modo la influenza, sembra compierne la forma; ma, anche, dà ad essa delle sfumature particolari. Tutto ciò è forse influenzato dal fatto che la scienza studia realtà per noi sempre meno visibili o direttamente percepibili, ma che pure determinano la nostra vita come ciò che invece percepiamo?
G.: Abbiamo sempre pensato che l’arte fosse il prodotto dell’atto cosciente di un artista. Ma se parliamo di contesti allargati, come stiamo facendo adesso, possiamo anche chiederci il senso che ha un’opera quando il suo circostante ne determina sempre più fortemente il linguaggio. Pensa a come in fisica quantistica l’osservazione determina lo stato del fenomeno. ‘Non osservare’ implica uno scenario completamente diverso, addirittura paradossale, nel quale coesistono realtà contraddittorie.
Non prendere coscienza di uno stato non esclude però la possibilità che esista quello stato, ed altri potenzialmente tanto ricchi quanto quelli di cui abbiamo coscienza. Anche quel mondo infinito che rimane buio intorno a noi partecipa del nostro essere, dialoga in modo oscuro, indicibile, con parti di noi.
Certo, abbiamo sempre bisogno di dare un senso alle cose. Ma per quanto ricco, vasto, affascinante, quel senso non è tutto. Noi siamo sempre molto di più.
S.: Mi sembra che qui tu tocchi il concetto scientifico di supersimmetria. Un concetto che, in modi diversi, certamente, io uso in poesia. Lo spazio è gremito di presenze che nessuno avverte: le cosiddette assenze. Dietro la facciata dei palazzi che ci circondano, scale di ferro salgono in ogni direzione ai piani più alti. A noi chiusi qui in basso rimane il senso, adesso, dei cortili. Ma immaginiamo altro. Dire ‘irruzione di realtà’ forse non è altro che alludere al mondo allargato, l’aria e il cielo sopra i palazzi, che pure è sempre con noi. Quel tinnire di tazze e bicchieri che dicevamo prima: i suoni dolci, altri che invece feriscono l’udito. Non tutti i suoni ci piacciono, ma il mondo allargato è sempre qui con noi. E così, dico con te: non è che tutto ci tira verso una piena partecipazione delle cose?
G.: Visto che parli di ‘mondo allargato’, fammi tornare indietro un momento. E’ questo allora ciò di cui stiamo parlando? Una forma d’arte ‘aperta’ dove l’artista è solo uno strumento in mezzo a tanti strumenti? Penso alla dissoluzione del confine netto di una opera d’arte che allora si apre al suo contesto, il quale stesso contesto diventa messaggio, opera; e il fruitore lui stesso parte dell’opera d’arte; il tutto, opere in continuo mutamento.
S.: Certo. Ma la ‘opera artistica’, anche nel suo senso più lato, ancora conserva – deve conservare – delle ‘separazioni’, dei sottili tramezzi, delle intercapedini, fra ‘opera’ e ‘tutto il resto’. Il che non esclude quello che hai detto tu adesso, ‘opere in continuo mutamento’. Prendo un esempio: capita che, ascoltando una musica, ci troviamo, di colpo, ad essere coscienti anche del fruscio dei nostri vestiti, degli altri rumori intorno a noi: allora quella musica esce dal suo contesto predefinito, delimitato, quasi troppo sacrale, ed entra meravigliosamente nello spazio in cui io, ascoltatore, mi trovo. E, grazie ai rumori intorno a noi entriamo più profondamente in quella musica per la porta, adesso spalancata.
‘Musica’ non è soltanto ‘atto cosciente del musicista’. E’ anche ‘ascolto’. Quasi che il vento avesse, scoperchiandola, aperto la bellissima scatola.
Ora, questa esperienza sonora sarà ovviamente più facile averla con un pezzo di musica classica contemporanea, elettroacustica o orchestrale, non importa. Infatti, questa è una musica che ha aperto all’ascoltatore un nuovo orizzonte sonoro, uno che prima nella musica occidentale semplicemente non esisteva. Così, la musica si è aperta all’universo del suono, e al rumore. Mi ricorda la cosa dello spazio sacro e dello spazio profano di Mani.

opera di Gilberto Peverini
G.: Sì, ma torno a chiederti: questo cambia il nostro modo di concepire l’opera artistica?
S.: Certo che lo cambia.
G.: Se i confini dell’arte si dilatano fino ad inglobare tutto il circostante, come ‘partecipa’ questo circostante all’opera stessa? In che modo possiamo percepirne il senso?
S.: Ho appena dato un esempio, del tutto legittimo, ma che ovviamente va preso con le pinze. Non si tratta qui di fare generalizzazioni.
G.: Se i confini dell’opera si dissolvono del tutto, allora può essere arte anche il nostro stare qui, questa atmosfera cittadina, questi rumori, queste luci. Insomma, se andiamo in questa direzione, tutto diventa unico, si frammenta … diventa ‘soggettivo’. Un intero universo ricco di simbologie di segni di luci e suoni, ma sempre diverso, e unico.
S.: E’ per quello che parlavo prima di ‘separazioni’, in alcuni casi sottilissimi (ad es. nel pezzo “Bird Cage” di John Cage) ma pur sempre determinanti, fa ‘opera’ e ‘tutto il resto’.
G.: Sì, perché rimane però che arte è anche ‘messaggio’. Anzi, più il messaggio artistico è universale, più è potente. Se facciamo un’arte completamente “aperta” al suo circostante, non giungiamo ad un minimalismo poco dialogante, dialogante se non con se stesso?
S.: Sembrerebbe giusto quello che dici. Però non escludo sorprese. Bene o male, non viviamo più in un mondo di assoluti. Il ‘tutto è possibile’ può portare (come sembra stia facendo adesso) alla banalizzazione più totale di ogni contenuto, certo, ma da quell’oceano può anche nascere una nuova Afrodite. Adesso però vediamo solo come gli argini sono scoppiati, la piena ci sta arrivando addosso. Non so quanto abbia senso difendere i piccoli lembi di terra dall’alluvione: meglio imparare a navigare su quelle acque. Sarà quel che sarà.
Penso ad Anemoessa, il soffio del vento omerico. Un pezzo musicale che in qualche modo contraddice quello che hai appena detto. In Anemoessa, il suo autore, Iannis Xenakis, lega a noi quel tempo remoto, omerico, per mezzo di fischi, sussurri, sibili, suggestione sonora delle voci di poemi senza numero che trasvolano i millenni nell’infinita dolcezza e nei possenti tromboni della rosa dei venti. Nei vasti vuoti ventosi collocati di traverso al paesaggio vivono, da lui inspirati ed espirati, le musiche d’Occidente come soffi impercettibili, e i microtoni delle antiche melodie. Un intero mondo che coglie – primo fra tutti – il labirinto che è dentro il nostro orecchio umano.
Allora considero una poesia ciò che non vive più soltanto all’interno della bellissima scatola. Piuttosto, una poesia che sulla pagina soffia nel vento dell’Egeo.
G.: Xenakis è molto interessante. Ma lasciami fare una distinzione. Un conto è un opera d’arte che si arricchisce di nuovi linguaggi aprendosi a possibilità espressive impensabili nel passato. Altra cosa è la dissoluzione dei confini dell’opera stessa.
S.: Certamente.
G.: Forse tale dissoluzione è impossibile, estremizzata, utopica. Ma ora, qui, del nostro discorso cosa rimane? Forse abbiamo percepito per un attimo le possibilità che può avere questa decostruzione dell’arte, in quanto apre il campo ad un arte nuova che ancora non ha nome?
S.: Avevo in mente qualcosa cosa del genere…
G.: Se un tempo pensavo di vivere in un universo infinito, ora in un modo più complesso ho la sensazione di vivere in un universo infinito che è dentro un altro universo infinito ed è accanto ad altri universi ancora. Se ci penso mi stordisce questa architettura. La mia mente non è fatta per concepirla, eppure il mio corpo, qualcosa di me, vive questa condizione.
S.: Se l’artista può fare qualcosa oggi, è fornire una immagine di questo sentire a noi non ancora del tutto familiare. Ed è proprio di “immagine in arte” che vorrei parlassimo la prossima volta.

opera di Gilberto Peverini
Qualche mia poesia:
VERSO BANERIA
Questa steppa desolatissima, le rondini. Passa qualche camion al tramonto: la prosopis cineraria ne avverte il colpo d’aria. In un terreno così arido, solo le falde freatiche in profondità garantiscono la sua sopravvivenza.
Il ciuvascio Gennadij Aygi parlava della mamma intenta alle sue faccende nella loro povera abitazione quando lui era bambino: vivevano di giorno in giorno, eppure intravedevano la distanza, l’invisibile nelle cose.
A Udaipur, la luce delle vetrate è rosso, giallo, verde, blu. Non si vede niente all’esterno, finestre fatte apposta per chiudere il dentro dal fuori. Le donne nel gineceo. Di nuovo l’ho avvertito. “Who are you?” Il riferimento è ai Kalbelya: “Non sei nessuno se non sei intessuto nella tua comunità: peggio di un granello di polvere nel vento impetuoso del deserto.”
“Ah!” dice Nihal, fermo davanti al pozzo: “se la tartaruga ancora vive laggiù sul fondo, posso berne l’acqua!”
Qui il popolo è stato violato per secoli e secoli. Notava il Capitano Mathur di Jodhpur: “vado in giro per queste steppe, e la sua gente derelitta mi parla sempre come mi parli tu del tuo Maestro. Mi sorprende che non abbiano nessun altro desiderio.” Lui era anche andato a Brindavan, fra le sabbie dello Yamuna, dove aveva conosciuto un cocomeraio che seminava i suoi cocomeri nel letto asciutto del fiume. Gli chiese quell’anno come era andata, ebbe risposte vaghe: le piantine erano cresciute vigorose, poi una piena del fiume aveva portato via tutto. E l’anno prima? Una gelata invernale.
Il ricordo può apparire come un giardino trascurato. La foresta non è mai trascurata, ma un giardino lo diventa quando l’uomo se ne dimentica. Così, io ho scordato Asha Bahinji. Nihal chiede al giardiniere: “C’è ancora il vecchio cobra?” “Certo! – risponde quello. – I cobra possono vivere fino a cento anni.” Tutto intorno a quest’uomo in piena luce c’era il groviglio impenetrabile di fronde.
Il cobra, non più il giardino. La memoria.
È bella una storia che si snoda come un fiume. Mi ricorda “Itaca” di Kavafis. Ma vorrei togliere quell’eccessivo soffermarsi sul puro godimento della vita: leggo “Itaca” più come uno snodarsi senza direzione.
Gennadij Aygi: “iniziai per gradi a contrapporre qualcosa di diverso alla poesia come ‘gesto’: Non si trattava propriamente di contemplazione. No, era un’altra cosa, una immersione sempre più profonda in una sorta di unità auto preservante, una cosa che posso solo descrivere come “non diminuente-dimorante”, qualcosa da cui l’intervento umano non ha ancora fatto nascere quel fenomeno cui diamo il nome ‘gesto’.”
Siamo entrati nella fortezza deserta al tramonto, quando i muri biancheggiano nell’ultima luce. Le volpi volanti sfarfallano veloci nell’atrio sfasciato.
(Deserto del Thar, febbraio 2010)
VICINO ALLA STAZIONE DI NOGIZAKA
Gli eventi di chissà dove,
immagini che giacciono aggrovigliate; e i loro filamenti
inspiegabilmente sciolti, ma di nuovo intrico.
E segue la perdita di ciò che si sussegue
e di nuovo si perde; le gallerie in luce spezzata,
follia umana: straniamento
che intreccia il sotto-sentiero, zig-zag
disfatto come nodo assente
nel gran splendore di questi eventi!
Ma come si, o non si avvolgono;
e dove, chissà dove si svolgono.
(Tokyo, ottobre 2005)

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi
“NARCISO S’INCANTA”
Non si strappa dal se stesso miracoloso:
ne ammira perduto l’immagine complessa
che guarda senza vedere, senza vedere
gli occhi creatori insaziabili.
Lui
che lui divora.
E quando l’imbrunire frana sulla polis,
trasecola nei polmoni questo male
nello sguardo sbarrato
(febbraio-marzo 1988)
L’IRRILEVANZA DEL POETA 1
I venti hanno smesso di soffiare,
la via biforcata, il pendio storto si vedono bene.
Ma se la vita fosse solo poesia, e la poesia non vita:
se fossero la verità dei cieli azzurro-pietra ogni giorno senza pioggia,
gli alberi stellati e l’inspiegabilità delle foglie
una semplice illusione
che tutti mi concedono con un sorriso:
se fosse questo
non saprei come andare avanti.
La via si apre un po’ con ogni passo
ma non ci sono passi che portano nel buio
(via Merulana, autunno 2012)
L’IRRILEVANZA DEL POETA 2
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
E’ il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.
(via Merulana, autunno 2012)

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi
PRIMO MIO COMMENTO ESPLORATIVO SUI “MALI” DELLA LETTERATURA OGGI
Sarebbe difficile contestare che dalla seconda guerra mondiale a oggi la letteratura dorme il lungo e pacifico sonno del senso letterale della parola. Al quale è consentito, al massimo, il volo, sempre controllatissimo, del senso figurato, del “traslato”. Non sembrano esistere oggi scritture davvero significative: un Dostoevskij sembra una assoluta impossibilità (eppure…). In più, le varie convenzioni letterarie – quali la metafora, e per la poesia anche la metrica, l’enjambement e tutte le altre ferruginose incrostazioni – gravano ancora addosso alla scrittura come un macigno togliendole il miglior respiro.
Inoltre quasi tutta la poesia contemporanea che leggo è tornata inequivocabilmente su posizioni pre-moderniste, vendendosi falsamente come stile postmoderno, leggero, distaccato, ironico.
In effetti, pochi vogliono più saperne niente. E il poeta si è ridotto a scrivere per gli altri poeti e, peggio ancora, per se stesso.
Si trova ancora strano vedere la scrittura, tanto per dare un esempio, come un disegno: come una rappresentazione visiva quasi spazio-temporale, di inchiostro sul foglio bianco: il Pieno delle parole scritte (le energie cinetiche, e quindi anche trasferibili, del senso), il foglio bianco che invece evoca un qualche tipo di Vuoto, la potenzialità ancora inespressa delle Cose. In questo senso, il foglio bianco è parte integrante del testo scritto.
Ma non così strano! Qui gioca fortemente il fatto che la scrittura è fatta di parole e quindi dipende, come (quasi) imprescindibile punto di partenza, dal loro “senso letterale”, dall’aspetto semantico della lingua. La lingua è infatti il mezzo di comunicazione che l’uomo usa più di tutti gli altri.
L’aspetto semantico, il senso letterale delle parole, è una matrigna durissima: non ammette se non minimi sovvertimenti, interruzioni del flusso del senso, pena il gibberish, il quack quack, lo sproloquio ‘insensato’, oppure l’Assurdo, il Dada, o l’umorismo del non-senso. (Questi ultimi stili di scrittura sono però secondo me assolutamente validi, soltanto che vengono considerati marginali dai più, forse perché non sono mai stati esplorati artisticamente in modo più esauriente.)
Ecco perché la scrittura difficilmente si apre alla possibilità di un travaso in essa di contenuti, in forma sostanzialmente immodificata, provenienti dalle arti visive, dalla musica: ovvero, li accoglie, ma non senza prima averli filtrati attraverso le parole, la sua griglia semantica, impietosa, illuminante ma anche castrante. I pochi tentativi in altre direzioni, poesia visiva, etc., non sono mai uscite dall’alveo della sperimentazione occasionale.
Il travaso inverso – dalla scrittura verso quelle arti – invece funziona. I testi scritti ad es. vengono musicati senza sottoporre il loro significato ad una metamorfosi irreversibile, quella della trasformazione a ciò che è intellegibile sul piano semantico. Il lavoro della musica sul testo scritto ad es. avviene in ambito sonoro: timbro, altezza, lunghezza del suono…
Le sorellastre della scrittura letteraria sono il linguaggio della scienza, il linguaggio del commercio, i linguaggi della comunicazione orale e scritta dell’ogni giorno in tutti i campi della vita sociale, dalla semiotica al bigliettino d’amore, al comunicato stampa di una società internazionale. Tutti questi linguaggi sono in perfetto e indiscusso accordo con la matrigna della semantica. Esse non sono maligne o cattive, semplicemente fanno la loro vita.
Di fronte alla presenza sempre più ingombrante – spesso di indiscussa superiorità – delle sorellastre, la scrittura letteraria tende oggi spesso a ridursi ad un timido balbettio. O a un gradevole prodotto della sfera del cultural entertainment.
Per contro, vedi il linguaggio usato dagli astrofisici o ai giornalisti scientifici per scopi divulgativi: questa citazione ad. es. da un articolo di Steve Connor, “The galaxy Collisions that Shed Light on Unseen Parallel Universe” (!!!), su The Independent, 26 marzo 2015:
Although dark matter is invisible, it can be detected and mapped by the gravitational distortions is produces on starlight. These three-dimensional maps have already revealed that it acts like an invisible scaffold around which ordinary matter accumulates.
Benché la materia oscura sia invisibile, essa può essere rilevata e definita (mappata) in base alle distorsioni gravitazionali che essa produce sulla luce delle stelle. Queste mappe tridimensionali hanno già rilevato che essa agisce come una impalcatura invisibile intorno alla quale si accumula la materia ordinaria.
E più sorprendente ancora:
Galaxy clusters, the largest objects in the Universe held together by their own gravity, are made up of three main components: stars, clouds of hot gas, and dark matter. When galaxy clusters collide, the clouds of gas enveloping the galaxies crash into each other and slow down or stop. The stars are much less affected by the drag from the gas and – because they occupy much less space, they glide past each other like ships passing in the night. da (http://chandra.harvard.edu/photo/2015/dark/ )
Gli ammassi di galassie, [ovvero] gli oggetti più grandi nell’Universo ad essere tenuti insieme dalla loro stessa gravità, sono composti da tre componenti principali: stelle, nubi di gas caldo, e materia oscura. Quando gli ammassi di galassie collidono, le nubi di gas che le avviluppano si scontrano fra di loro con violenza e poi rallentano o vengono a fermarsi. Le stelle sono molto meno interessate dal [la azione di] trascinamento del gas e, dato che lo spazio è di gran lunga minore, esse si incrociano come fanno le navi scivolando di notte [sul mare].
Qui lo scienziato ha usato la lingua da vero poeta! Ma voi poi troverete sui siti scientifici italiani tante altre citazioni di questo tipo. (E scusate la mia traduzione affrettata!)
Dato che la scrittura letteraria non gode di buona salute, possiamo solo tornare indietro alle sue origini per capire cosa è successo: non tanto a quelle orali in questo caso, ma a quelle pittografiche. ossia “un ideogramma che comunica il proprio significato tramite la sua somiglianza pittorica ad un oggetto fisico”. Sembra un dato certo che gli alfabeti odierni radicano tutti in antiche scritture pittografiche. Ma è quello che è successo in seguito che dovrebbe entusiasmare noi postmoderni oggi: le pittografie si sono andate stilizzando nei secoli antichi, fino a diventare “lettere”, nelle quali semplicissimi tratti, segni, indicano l’immagine: “imbrunire” è una parola forte, evoca il crepuscolo avvalendosi del riferimento al colore bruno. In una sola parola come questa, ci sono mille o diecimila immagini.
Per contro al carattere cinese, che di per sé e diversamente dai nostri alfabeti medio-orientali e indiani racchiude immense potenzialità per la scrittura poetica (Il libro di Fenollosa ha contribuito fortemente all’avvio dell’Imagismo dei poeti inglesi e americani degli inizi del secolo scorso); diversamente da questo, dobbiamo riflettere su i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore. Se si tratta di un testo commerciale, lo si leggerà per la sua specifica suggestione di ciò che si compra e si vende; se un testo scientifico, per la specifica comunicazione del linguaggio scientifico. E così via. Arrivando alla scrittura letteraria, troviamo la virtualità suggerita dalle lettere dell’alfabeto portate a dei livelli incredibilmente immaginifici: capaci di ispirare il lettore, profondamente commuoverlo, spronare la sua immaginazione, apportare in lui realizzazioni di mille tipi diversi, etc.
Sembra tutto evidente. Ma non lo è per niente, perché in realtà anche noi poeti raramente ci soffermiamo su questo aspetto più intrinseco di quello che chiamiamo “scrittura”: diciamo, lo stadio precedente alla scrittura vera e propria: quando ancora le parole non hanno formato frasi, significati più estesi, ma stanno in una zona transitoria fra il non detto e il detto. Voglio dire, non entriamo più profondamente nel valore davvero immaginifico delle parole, costruite con quegli strani segni: senza pensarci nemmeno un po’, prendiamo la parola “imbrunire” e la mettiamo là dove ci è necessario indicare o suggerire l’ora che viene subito prima della notte: non pensiamo più di tanto all’enorme e fulmineo lavoro mentale che quell’insieme di tratti tracciati con l’inchiostro esprime. Perché questa non è pictografia: e tuttavia la potenza immaginifica di quei tratti di inchiostro così astratti evidentemente tornano ad un qualche antichissimo valore pictografico che si nasconde anche nei nostri alfabeti, Russo, Latino, Greco, Sanscrito ed altri.
Qui la scrittura si apparenta alla pittura. Laddove invece la scrittura diventa orale, essa si apparenta alla musica.
MA ALLORA CHE DIAVOLO DI FACCENDA È QUESTA?
Intendo dire che LA VIRTUALITÀ DELLE LETTERE TRACCIATE CON L’INCHIOSTRO È POTENTEMENTE IMMAGINIFICA, PROBABILMENTE DI GRAN LUNGA PIÙ POTENTEMENTE VIRTUALE DI OGNI REALTÀ VIRTUALE TECNOLOGICA, in base alla definizione corrente di realtà virtuale, “Simulazione all’elaboratore di una situazione reale con la quale il soggetto umano può interagire…” della Treccani; oppure del Merriam Webster’s: “An artificial environment which is experienced through sensory stimuli (such as sights and sounds) provided by a computer and in which one’s actions partially determine what happens in the environment” (“Un ambiente artificiale che viene vissuto attraverso stimoli sensoriali (visivi e sonori) forniti da un computer, e in cui le proprie azioni determinano in parte ciò che avviene in quell’ambiente.”)
Ecco, finisco dicendo: la virtualità che tramite gli alfabeti e la scrittura si è sviluppata nel corso dei secoli, ovunque nel mondo, è probabilmente ancora oggi la virtualità più potente, più immaginifica che esista. Per questo, io penso, è destinata a restare. Resta comunque la questione di come la scrittura letteraria entrerà nelle virtualità elettronica (entrare per esempio nelle chat rooms continuando però ad esprimere il suo antichissimo e modernissimo spirito espressivo): non so esattamente come lo farà, ma so con certezza che questo dovrà farlo, dovrà assolutamente farlo, pena la scomparizione.
È necessario che lo scrittore e il poeta oggi riscoprano, che noi della NOE oggi riscopriamo, questa antica potenzialità della scrittura che ho cercato delineare sopra.

Prima di mettersi al lavoro/ il pittore di questa/ immagine ricordi:/ Chi vuole rappresentare?
da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016
The painter’s portrait
Before setting to his work,
the painter of this image should remember:
Who is he portraying? and reflect
how the narrow corridor through our world of chance
lies strewn with breakable misery
and fear of violent mishap
and sudden bottomless manholes:
for, clearly, the likeness of a distinguished forebear
or even the vision of all humankind
unlocking in one single flower,
are not what lies in his heart of hearts:
but considering that he may no longer
be shielded from thought of accident,
know the only way to be the way forward,
the whole face he dare not envision.
Then he will do his work in the best of ways,
and accomplish what he had always striven for,
knowing this to move strangely
between waking dream and recognition
and play down the importance of individual traits,
putting them surprisingly
where they are – much as meaning
rises out of words that sleep:
the city at night
resembling itself, intently
outside the window, enveloped in darkness.
So that his image may finally be expressed.
Then the painter will not only render
cheekbones and shading,
not only conjure light in the eyes.
His portrait will be memory itself.
2003
Il ritratto del pittore
Prima di mettersi al lavoro
il pittore di questa immagine ricordi:
Chi vuole rappresentare? e rifletta come
l’angusto corridoio attraverso questo mondo dell’alea
è cosparso di umana disperazione
e del timore di violenti sinistri
e di improvvise botole senza ritorno:
perché la somiglianza di un illustre predecessore,
o anche la visione di tutto il genere umano
schiusa in un unico fiore,
non sono certo quello che lui ha nell’animo:
invece, sapendo di non avere più riparo
dal pensiero di sciagure,
capisce che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che non osa immaginare.
Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
e che lui ben sa muoversi strano
fra sogno ad occhi aperti e riconoscimento
e senza dare troppa importanza alle fattezze del viso,
le porrà dove già si trovano:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono:
città di notte
assorto specchio di sé,
fuor di finestra, avvolta nel buio.
Affinché la sua immagine possa compiersi.
Allora il pittore non avrà solo reso
zigomi e ombreggiature,
non solo evocato la luce negli occhi.
Il suo ritratto sarà la memoria stessa.
(2003)
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com
Gilberto Peverini, nato a Roma nel 1954. Lavora presso l’Atac, dipinge, legge filosofia
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27696
“ A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio desio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle.”
Scomodo Dante per i tuoi versi.
Bravo Steven.
Gino Rago
Riprendo un concetto di Steven Grieco Rathgeb che credo sia utilissimo per la nuova poesia:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27696
«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.
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In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.
L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.»
Mio commento:
l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio.
Nella coproduzione svizzera-italiana, il film “Il senso della bellezza”, uscito da poco nelle sale cinematografiche, si racconta del lavoro svolto al CERN di Ginevra, e di come bellezza e astrofisica, bellezza e matematica, arte e ricerca scientifica, vadano a braccetto. Senza entrare ora nel merito del film, mi premeva ricordare qui una citazione così bella: “La natura ama nascondersi”, disse Eraclito. Il senso è spostato più in là, rispetto alla nostra percezione della realtà – e la percezione che noi daremo in una poesia, un pezzo musicale, un quadro, di quanto ancora sarà spostata?
Forse che questo scivolare tra immagini, può in realtà aiutarci a ridurre al minimo quel divario? Ovvero che non ci sia possibilità di svelare, ma solo di raggiungere vari gradi di approssimazione?
Penso alla Maria Nefeli di Elytis, che andrebbe tradotta in toto in italiano, dove molti degli argomenti a noi cari, sulla poesia, sono svolti in poesia!
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Se il nostro Steven e il signor Gilberto Peverini parlano di poesia in un caffè di pazza Vittorio, la poesia è già salva.
“diversamente da questo, dobbiamo riflettere se i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore.”
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Parto da qui. Negli ultimi mesi ho avuto modo di discutere a lungo con Steven Grieco-Rathgeb sulla virtualità della scrittura, della lingua che da suono si fa segno e poi di nuovo suono, in un travaso continuo, una ripetizione che internamente ha un profondo effetto rinnovatore: le lingue sono un tessuto vivo, che evolvono, muoiono in una forma per rinascere in un’altra. Ma il mistero del travaso (phōnē-morphé-phōnē, φωνή-μορφή-φωνή), conserva in sé il suo segreto.
Va sottolineato che le parole greche φωνή (voce) e φαίνω (mostrare) condividono la stessa radice. La voce si fa segno, lo racconta l’etimologia stessa di quelle parole che noi poeti adoperiamo come materia prima.
Mi ha detto, in una recente conversazione, come secondo lui la società tecnologica suo malgrado allontana dallo studio della lingua, della letteratura. Gli risposi che nella nostra società, stanca e in declino, pare di assistere ad un fenomeno che un tempo era diacronico, ed ora (in convergenza temporale) è divenuto sincronico: ovvero la lingua parlata e scritta è (per dirla con un ossimoro) “vissuta come morta”. Intendo dire che un tempo le lingue morte erano quelle classiche, antiche – quante volte mi hanno rivolto questa domanda, quand’ero al liceo: “Perché studi le lingue morte? A cosa “ti serve”?); oggi la stessa domanda mi viene rivolta da studenti che vengono da me per ripetere e studiare l’italiano: “Perché devo studiare la grammatica? Non mi servirà mai a niente”.
Dall’altra parte, una giovane insegnante di discipline plastiche, a scuola di mio figlio, racconta delle sue esperienze estive in Massico, dove ogni anno trascorre il periodo di pausa da scuola: lì insegna a leggere e scrivere a giovani e giovanissimi. E lei vuole portare ai nostri ragazzi, qui, la testimonianza di quello stupore che invade le fronti (diventano chiare, aperte quelle fronti!), quegli occhi, quando finalmente imparano a rendere simbolo il suono della loro voce, le parole pronunciate dal padre e dalla madre, e poi persino i loro pensieri, prima ancora che si trasformino in suono. Dicono di ciò che fanno, che stanno compiendo una magia.
Tornare alla virtualità della scrittura, riappropriarci dello stupore. Ripartire, come analfabeti, a leggere da capo il mondo.
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Caro Linguaglossa ci risiamo!! Non si ha il tempo di digerire un poeta come Takano che subito affiora alla luce un altro poeta come Grieco altrettanto complesso. Credo che bisognerebbe avere una intelligenza da extra terrestre oppure una disponibilità straordinaria di tempo e tralasciare qualsiasi impegno del quotidiano , a volte impegnativo, e dedicare l’arco della giornata e persino della notte, per seguire tutto quello che a stretto giro di posta tu proponi. Vedo che alcuni amici poeti sono capaci di farlo, io forse data l’età, ma anche oi scrupolo e l’onestà intellettuale , mi rifiuto di compiere.Tante volte ho manifestato questi miei dubbi, inascoltato, non solo da te ma anche da quanti si affannano a scrivere sulla tua rivista. Ho l’impressione che tu pensi di possedere non una doxa come tutti noi ma una alètheia almeno a me sconosciuta, e cammini imperterrito per la tua strada. Mi permettono questa mia riserva la lunga conoscenza che ho nei tuoi riguardi e la prifonda stima che nutro verso di te. Comunque perdona a questo vecchio brontolone le sue ubbie. Comunque mi piacerebbe conoscere l’opinione anche degli altri poeti, che si affacciano sull’Ombra, il loro pensiero al riguardo.
Carissimo Steven sgombriamo la strada da possibili mie opinioni estetiche, non ne sono capace e forse manco lo voglio, sulla tua poesia: mi commuove, mi taglia in due, mi induce a riflettere sulle miserie umane, sulla inutilità, forse presunta, della poesia. e il tuo dettato stilistico è chiaro e lucente come il taglio di un diamante sudafricano.Un pensiero profondo si annida in questi versi apparentemente facili, e questa è davvero la poesia. Lascio ad altri il compito di una esegesi più attendibile, a me lettore basta quello che nell’intimo del mio corpo, della mia anima del mio pensiero suscitano i tuoi versi. Sono felice di conoscerli. Molti precedono l’avvento della NOe, e questo si avverte, nella circolarità, nella mancanza del frammento, in una ricerca di ritmo, di cadenze musicali, che tutte ti appartengono
.
” I venti hanno smesso di soffiare
la via biforcata, e il sentiero storto si vedono bene”
Questi come tanti altri disseminati nel fiume della tua poesia sono davvero memorabili, e sono certo resteranno nel tempo, checché ne pensi il signor Linguaglossa..
Avevo chiesto a voi tutti , spinto anche dal magister di questo blog, di esprimere un parere circa la veloce scomparsa delle proposte, e quindi per me la difficoltà estrema a seguirle tutte, ma finora non vedo riscontro alcuno. Aspetterò pazientemente.Io purtroppo non ho la velocità mentale che possiede il nostro Sagredo, il quale continua imperterrito a commentare i versi altrui con i propri. Ma forse fa persino bene, a propagandare la sua immagine di poeta.
caro Martino,
hai ragione da vendere, ma tieni presente che teniamo gli articoli più complessi in bacheca due giorni proprio per permettere a tutti di leggerli, purtroppo lasciarli tre giorni è forse un po’ eccessivo e penalizzerebbe le visualizzazioni del blog. Cmq sentirò il parere di tutti quanti i Lettori, è bene che su questo punto almeno i Lettori più fedeli ci facciano conoscere la loro opinione.
Grazie del suggerimento e buonanotte.
Una poesia di Anna Achmatova
(versione di Paolo Statuti)
Questa poesia mostra tutta la femminilità e la passionalità della grande poetessa russa. La scrisse nel 1911 quando aveva ventidue anni. Nel 1910 aveva sposato il poeta Nikolaj Gumiljov. Nella poesia si tratta di lui?
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Strinse le mani sotto la scura veletta…
Strinse le mani sotto la scura veletta…
“Perché oggi hai quel viso sbiancato?”
– Perché di amara tristezza
Io senza pietà l’ho ubriacato.
Come scordare? Egli uscì vacillando,
La bocca dal dolore storta…
Io corsi, quasi volando,
Gli corsi dietro fino alla porta.
Ansimando gridai: “E’ stato tutto
Uno scherzo. Morirò se te ne andrai.”
Sorrise tranquillo e tremendo
E disse: “Rientra, o ti raffredderai”
1911
(https://musashop.wordpress.com/2017/12/02/anna-achmatova/#comment-1471)
Per esempio, in questa poesia c’è una esperienza personale trasformata in evento linguistico. La poesia nasce da una esperienza reale, vissuta dal poeta.
Ci sono però altri tipi di poesia nelle quali non si dà una esperienza in carne ed ossa, realmente vissuta o rivissuta ma interalmente disegnata dalla immaginazione. Questo per dire che in arte ci sono delle convenzioni che il poeta o il pittore accetta (consapevolmente o inconsapevolmente), c’è una «cornice» che racchiude il quadro, per cui il contenuto pittografico, diciamo, non può uscire fuori della cornice; in altri casi invece il contenuto pittografico eccede, sortisce fuori dalla cornice…
Oggi è il pittore, il poeta, lo scultore che dà a se stesso le regole che deve seguire, non si dà più alcuna imposizione dall’esterno, l’opera si è aperta e sconfina con il «fuori»… concetti come il «dentro» e il «fuori» appaiono antiquati e non idonei per costruire una composizione, una installazione, una pittura, etc…
Chiediamoci: che cosa divide il «dentro» da un «fuori» in un’opera (linguistica o iconica)?. Ma è ovvio, è sempre l’autore che governa i confini tra il «dentro» e il «fuori». Ad esempio, quando noi parliamo di «frammenti» iconici e linguistici, c’è chi salta sulla sedia per opporre al falso del frammento la continuità dell’anima sinfonica e delle musiche del pentagramma sonoro e delle sinfonie celesti… insomma, si tenta di negare legittimità estetica ad un certo concetto di arte. In fin dei conti si fa politica, si utilizza la politica per censurare una forma di arte che non si condivide. In definitiva, voglio dire che le categorie del politico inquinano sempre e da sempre le categorie estetiche. È un dato di fatto.
Una poesia di Tomas Tranströmer
Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini, completamente immaginifiche e sganciate da qualsiasi «esperienza» vissuta, sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra.
Leggiamo una poesia di Traströmer:
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
Grazie Giorgio Linguaglossa per queste sue riflessioni, con due esempi eccellenti, che aprono a ulteriori approfondimenti.
Desidero aggiungere qui un appunto su “Maria Nefeli, Into the mirror” (Maria Nefeli, Dentro lo specchio”, 1978) poema di Odysseas Elytis, del quale a quanto io sappia non esiste ancora una traduzione completa in italiano. Lavoro immenso, in effetti, sia per le dimensione del poemetto, sia per la complessità dello stesso.
L’ossatura del poema, che vive delle sue simmetrie interne, apre continuamente al fuori: un dialogo tra fuori e dentro, finché il lettore si accorge di non sapere più se è fuori o dentro che si trova in quel momento.
Simmetrie che ci informano del fatto che la raltà ha una sua struttura. Ma questa si sovverte continuamente fino a diventare invisibile, ed è in quel momento che noi siamo totalmente liberi di “vedere il mondo”.
Il sogno sembra essere più duro della realtà, se il viaggiatore che ne esce “sprofonda verso lo spazio verde del mattino:” Ma, che ci sarà, in questo spazio?
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
Non si strappa dal se stesso miracoloso:
ne ammira perduto l’immagine complessa
che guarda senza vedere, senza vedere
gli occhi creatori insaziabili.
Lui
che lui divora.
(S.G.R. – 1988)
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Uscire dalla vita come una chimera
e nelle mani il dono di un rigagnolo.
Dovunque il numero è Uno
e unico è il suo valore.
(A. S. – 1988)
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Cosa hanno in comune questi versi di due poeti che allora non si conoscevano?
Direi un altrove che ci mirava.
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caro Martino, la Poesia è più veloce della velocità della Luce…
se hai buoni occhi vedrai le sue Visioni, altrimenti poniti oltre la stessa e non Ti perderai nulla, cioè anticipa le sue visioni, e vai oltre
grazie
a. s.
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Caro Steven, i tuoi versi sono di altissima proposizione stilistica e formale, che richiedono molta partecipazione da parte del lettore.Non è cosa di tutti i giorni, né si può uscire con una scrollata di spalle anche di fronte al tuo commento esplorativo sui “mali” della letteratura di oggi, che in ogni tempo e in ogni luogo, ci sono sono sempre stati e che la critica, ridotta a ologramma, non se ne occupa più.
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Il commento di Mario Gabriele mi ha fatto riflettere sulla complessità delle poesie di Steven (lo dice un poeta, oltretutto, la cui poesia non concede al lettore neppure un minimo allontanamento: lo vuole lì, lo vuole deciso a inoltrarsi nei propri versi, pretende da lui l’essere presente a se stesso):
è vero, le poesie di Steven presentano una sorta di doppia velocità. L’immagine (fainomai – apparire), che si manifesta attraverso un’apparente semplicità; e la loro fonì, la loro voce-parola, che complica l’immagine, e lì dove ti pare d’averla agguantata essa ti sfugge, metamorfica.
Due velocità (e nella sua ricerca poetica egli questo l’ha esplicitato), che riesce a manifestare dentro la profonda struttura sua poetica.
‘Carissimo Sagredo in tutti questi anni che i miei scritti sono apparsi sull’Ombra non ho mai avuto il piacere di leggere un tuo commento, magari negativo.Pensi che i miei versi, come le mie considerazioni, non meritino alcuna attenzione da parte tua, sia roba di scarto da ignorare?.Nonostante la tua narcisistica autoreferenzialità, con la quale allaghi questa rivista, ho sempre avuto per tre stima e rispetto. Peraltro ho presentato, aggiungo molto bene a detta di tutti i presenti, un tuo libro all’Alerph, ho letto in pubblico i tuoi versi, li ho commentato spesso, anche con suggerimenti , a volte hanno suonato non graditi. Mi hai spedito toui testi inediti, che ho letto con attenzione e commentato, Mai che tu mi abbia chiesto di fare altrettanto.Io del resto non spedisco mie creature se non mi venga espressamente richiesto, la mia discrezione e il rispetto per gli altri me lo impone.Ma tra poeti ci deve essere uno scambio, un transitare di acque, che forse potrebbero arricchire il panorama di entrambi.Pazienza! Il mio non vuole essere altro che la manifestazione di un rammarico e di una possibile perdita, una sorta di complicità tra due poeti che viene meno. Con l’augurio di una campagna creativamente felice Salvatore
Steven Grieco osserva la poesia come oggetto, o come dipinto. E’ un fatto che capisco bene. Quante volte ho osservato lo spazio bianco che si andava creando mentre scrivevo a sinistra! Nuove regole imprecise agiscono spingono a proseguire, regole di pittura e di senso che insieme sembrano darsi un nuovo dettato. E il linguaggio sembra terra arsa, sottostante.
Anche questo è. Questo e molto altro, sembra dire Steven. Ma forse tutto si crea per lo spazio lasciato vuoto dell’io. Astratto, incorporeo identificarsi. Memoria sensoriale che continua ad agire senza soggetto. Eco di tutto e contemporaneo accadere. Il poeta che si apre a questo è perduto come individuo. O di lui o lei resta il passaggio, meno di una foglia nell’universo.
“L’Irrilevanza del poeta” , 1 e 2, sono in questo senso due operette magistrali.
Capisco anche perché Steven Grieco Rathgeb si ponga delle domande sul virtuale. La gran parte delle scoperete e le invenzioni sono dettate da antropomorfismo. In questo senso anche il web. Io però non penso che la scrittura debba porsi il problema di come la poesia possa entrare nella “virtualità elettronica”, in quanto è realtà transitoria; inoltre è già tutta scrittura – la fine del canone ha fatto sì che il periodo umano del non-ancora-artista sia il massimo a cui si debba aspirare, vale a dire per l’adesso, senza maturazione – . Penso invece a quel piccolo esperimento che anche Giorgio Linguaglossa sta mettendo in atto, quello di unire versi con immagini, in modo non didascalico ma tali da creare somme di significato. Parola e immagine. Il web non può bastare. Chi andrebbe a vedere un film senza parole, oggi, un film muto? La novità da ricercare non sarebbe il sonoro ma lo scritto…
E prima del peccato originale? Lilith
Seconda Parte
( Lilith racconta Lilith )
Pensando ai poeti della NOE
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare. Sono la sposa delle sette notti.
Nessun amante sa che se mi sfugge
Correndoda me mi viene incontro.
Chi mi ascolta va verso la morte.
Quanti non vogliono ascoltarmi
Si scavano la fossa. Chi non mi ascolta
Merita la morte nel rimorso.
Sono mano della serva. Finestra della vergine.
Sono la prima donna di Adamo.
So tutto della noia del paradiso e del primo uomo.
Conosco il trono di Balqis e il dono di Salomone.
Sono lo smeraldo senza filo caduto nella polvere.
Sono il centro della damnatio memoriae
Perché detengo il segreto delle maree.
E della luna quando brilla nelle mie labbra verticali.
Gino Rago
“Steven Grieco osserva la poesia come oggetto, o come dipinto. E’ un fatto che capisco bene.” (Tosi Mayoor).
Steven Grieco “non” osserva la poesia come oggetto, o come dipinto. E’ un fatto che “non”capisco bene.
Steven Grieco “non” osserva la poesia come oggetto, o come dipinto. E’ un fatto che capisco bene.
Steven Grieco osserva la poesia come oggetto, o come dipinto. E’ un fatto che “non”capisco bene.
ecc. ecc.
Caro Antonio,
non fare tanto caso a quello che scrivo nei commenti; a volte mi sembra di andare a segno ma più spesso le mie sono stramberie da pittore. La poesia come “oggetto” non è una novità, già Dylan Thomas… Si conferma che i punti di vista possono essere molteplici, anche per un solo osservatore.
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In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci prova, senza riuscirci. E per fortuna, direi, che non ci riesce, perché lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Takano, Steven è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile e alieno alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli intellettuali di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute a cadere tutte quelle chiacchiere di cui sono pieni i libri di prosa e di poesia che si fanno oggi e si sono fatti ieri. Chiacchiera, ciarla, battute da bar dello spot come nella poesia di Zeichen e di Magrelli, per fare due nomi noti.
Per tanti troppi anni è stato impossibile, qui in Italia, ai poeti di razza tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica, ossessionati dal vuoto, dalla anomia e dalle battute da bar dello spot sono stati impossibilitati a scrivere… Steven Grieco è ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia di ieri e di oggi tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» prigioniere impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».
La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida nequizia.
«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di cose inutili che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia postata qui sopra da Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripugnano…
Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.
Cari amici,
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poiché Steven Grieco-Rathgeb lo ha citato nel suo dialogo con l’amico Gilberto Peverini, oggi vorrei parlarvi di Iannis Xenakis (1922 – 2001).
Nato in Romania, ma trasferitosi in Grecia nell’infanzia e poi, in gioventù, a Parigi, Xenakis ha avuto un ruolo importante nel rinnovamento musicale del Novecento, soprattutto nel campo della musica elettronica.
Per delinearne la personalità artistica, bisogna innanzi tutto dire che Xenakis fu anche matematico e filosofo. Aveva studiato ingegneria e architettura, lavorando perfino nello studio del grande Le Corbusier… Insomma, la sua fu una formazione scientifica. E questo vuol dire molto. Difatti, proprio sulla matematica (la matematica superiore) si baserà la sua musica.
Fu a Parigi, alla fine degli anni ’40, che Xenakis cominciò gli studi di composizione: inizialmente sotto la guida di Arthur Honegger e Darius Milhaud, con i quali, tuttavia, ebbe rapporti non facili e si trovò ben presto in conflitto riguardo ai metodi didattici. A partire dal 1951 fu allievo di Olivier Messiaen, di cui seguì assiduamente i corsi di analisi presso il Conservatorio Superiore di Parigi. Insieme alle capacità tecniche compositive, prese consapevolezza della propria strada. Così, iniziò ad applicare alla musica i concetti matematici e architettonici appresi nei suoi studi precedenti, incoraggiato anche dal maestro, Olivier Messiaen.
Dal 1955 ha inizio per Xenakis una importante carriera di livello internazionale, che gli permetterà di dedicarsi esclusivamente alla composizione.
Da quanto s’è visto, potremmo pensare che la musica di Xenakis, basandosi sulla matematica e l’architettura, possa risultare fredda all’ascolto e, per così dire, “disumanizzata”; invece, molto spesso, si rivela decisamente lirica. Forse perché i temi traggono ispirazione, in larga parte, dalla mitologia greca e dai fenomeni naturali, come, ad esempio, il fruscio della sabbia su una spiaggia, la pioggia, uno sciame di api, una folla di persone… D’altro canto, a pensarci bene, l’architettura stessa non segue solo una monotona ripetitività di geometrie e volumi, ma si compone anch’essa di ritmo, di transizioni ora brusche, ora fluide, proprio come accade nella musica. Inoltre, già nel 1956, Xenakis aveva elaborato una teoria di musica stocastica che gli aveva permesso di avvicinarsi ai fenomeni biologici ed agli avvenimenti naturali del mondo vivente.
In definitiva, il suo contributo più innovativo riguarda la musica elettronica, con la creazione, a Parigi nel 1966, di un Istituto dedicato allo studio dell’applicazione informatica nella musica, il CEMAMu (Centre d’Études de Mathématique et Automatique Musicales), e con la progettazione di un computer mobile per la composizione, il cosiddetto UPIC.
Purtroppo, ironia della sorte, Iannis Xenakis, questo autentico genio, si ammalò di Alzheimer…
Anemoessa è un brano del 1979, per coro e orchestra.
In greco Ἀνεμόεσσα, che significa “spazzato dal vento”, è un aggettivo femminile impiegato da Omero per le isole Egee, Karpathos e Icaria.
Il termine è molto appropriato come titolo per questa musica che vuole rappresentare il vento.
Alla prossima…
Buon ascolto!!
Grazie Costantina, prezioso contributo!
Mi sembra evidente che io appartenga ad un pianeta diverso, magari ad una generazione diversa, ad una cultura diversa, ad una preparazione all’ascolto diversa, ma certamente dopo dieci minuti di un simile concerto mi potrei suicidare. Al limite penso che questo genere di musica possa coronare le scene, le vicende di un film. Comunque già un po’ più accettabile di Scelsi. Invidio voi che siete capaci di godere e apprezzare queste disarmonie , a me totalmente estranee .Ricordo con raccapriccio un concerto a Santa Cecilia, si eseguivano musiche di Stockausen, con un titolo vagamente orientale. Ero stato invitato e quindi costretto a resistere fino in fondo. Non andai a salutare il Maestro direttore, né alcuni professori,
primi violini, che appunto mi avevano invitato, per la difficoltà della menzogna..
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G. Linguaglossa dice: “Oggi è il pittore, il poeta, lo scultore che dà a se stesso le regole che deve seguire, non si dà più alcuna imposizione dall’esterno, l’opera si è aperta e sconfina con il «fuori»… concetti come il «dentro» e il «fuori» appaiono antiquati e non idonei per costruire una composizione, una installazione, una pittura, etc…”
Qui sono perfettamente d’accordo. Un po’ meno subito dopo, quando dice: “Chiediamoci: che cosa divide il «dentro» da un «fuori» in un’opera (linguistica o iconica)?. Ma è ovvio, è sempre l’autore che governa i confini tra il «dentro» e il «fuori».”
Sembra una costatazione rispondente alla realtà. E’ vero, noi dobbiamo stabilire confini, sempre e comunque, per le opere che facciamo. Ma l’aleatorio dove sta in tutto questo? Cento anni o più di decostruzione del mito dell’artista rinascimentale supremo creatore, quasi un dio – dove sta tutto questo? Io ho seri problemi, ormai da tempo, con quel certo senso di “autorialità” che la frase di Giorgio sottintende: l’artista visto come assoluto padrone delle sue creature. Per me la poesia è un organismo vivo, e sta al poeta lasciare che questa si esprima essenzialmente da sola. Proprio qui sta l’impresa più difficile del poeta e dell‘artista. Dice Giacinto Scelsi: “Le compositeur n’existe que comme absent de son oeuvre.“
Sarà che io sono da sempre un aleatorio, e so che questo scoglio è il più duro da superare per noi artisti. Non so nemmeno se davvero io l’ho superato: forse no, ma certo è che aver lavorato con una lingua fantasma come è stato per me l’Italiano per i primi 25 anni (dal 1972 fino alla pubblicazione di “Maschere d’oro” nel 1997), e costatare come sfuggivano dalle mie mani i migliori arnesi del mio mestiere, e come mi fuggivano dalla testa le idee migliori perché in italiano in un primo momento quelle idee si appiattivano fino a diventare NULLA – questo ha contribuito molto a farmi capire la totale aleatorietà dell’operare dell’artista in genere.
Certo, si tratta di una esperienza mia totalmente personale, senza alcun valore universale. Tuttavia, i problemi in cui incappa il poeta in genere sono abbastanza simili, io penso: la lingua è e rimane un fantasma che continuamente ci sfugge: è il nostro tutto, e allo stesso tempo la nostra fata morgana.
Vorrei anche sapere meglio da Giorgio ciò che lui intende con quella frase, “è sempre l’autore che governa i confini tra il «dentro» e il «fuori».” Penso che anche ragionando intorno a questo aspetto del fare poesia sia cruciale e ci aiuterà meglio a definire una piattaforma teorica per la NOE.
Giorgio continua, parlando di come Transtroemer ha introdotto nella poesia europea una nuova visione multi prospettica, etc. Grande verità. Senza Transtroemer, l’orizzonte oggi sarebbe molto molto più scuro, e oscuro.
Resta ancora una questione aperta come “definire” – sì proprio come “definire” – quello “spazio espressivo integrale” di cui parla Giorgio – espressione calzante e davvero felicissima. Quello “spazio” deve continuamente “ridefinirsi”, vorrei aggiungere: lo spazio di Transtroemer non ci basta più oggi. Il mondo è in costante evoluzione, e noi non possiamo certo fermarci.
Ciò detto, leggere Transtroemer costituisce tuttora una potentissima e meravigliosa esperienza estetica e didattica per il poeta giovane o molto meno giovane di oggi. Io lo leggo spessissimo, anche per ritrovare l’entusiasmo e la forza di cui ho bisogno per far fronte alla entropia culturale che attualmente viviamo.
Sempre più vado considerando la mia reticenza a scrivere su questo blog
come fondata su valide ragioni. Ho inserito un mio commento con relativa opinione dettagliata sulla Noe, ma nessuno si è degnato di sprecare un proprio scritto. Ho invitato ad esprimere un parere sulla successione troppo serrata degli autori inseriti, e stavolta caldeggiata persino dal Magister, ancora niente, ma sono fiducioso che qualcosa comparirà, visto che il mio inserto è assai recente. Continuo a leggere dottissime dissertazioni filosofiche, di estetica, trattati di musica e fisica quantistica, ma raramente una risposta esaustiva sulla produzione poetica, se non un balletto di incensamenti reciproci.So di attirarmi violente critiche da parte di tutti, ma non è mio costume tacere su quanto credo , anche sbagliandomi, possa essere la stesura di sincere opinioni. Infine l’abitudine di allagare con proprie poesie il blog stesso…purtroppo anche io sono stato talvolta costretto a farlo,non mi pare rientri nello spirito democratico e rispettoso degli altri che presiede a questa rivista. Cerco spesso di essere provocatorio, illudendomi di spezzare il “cerchio magico” che incista il pensiero di poeti validissimi, che si affacciano lungo.questo pregevolissimo blog, che peraltro ha straordinari meriti, non ultimo quello di agitare le acque della palude poetica italiana.
GIGIONEROS
si fanno ombra le parole
riscaldano motivi irrisolti
di un pastore asiatico errante
che colla critica ne fa mandria
ma i poeti sono strane bestie
non riconoscono gli ovili. e questi eroi
sono irrequieti, miti insoddisfatti, Argo
attende tormentato dalle zecche.
come è finita la guerra di Troia non lo ricordo nemmeno io.
(e a questo punto nemmeno lei)
(gigioneros te salutant!)
p.s.:
Non affezionarti ai post caro Salvatore Martino.
svaniscono come i poeti. e ritornano quando meno te lo aspetti.
difatti post addietro ne lamentai anch’io la vorticosi che l’Ombra
affibbia.
questo è il gioco.fatti molecola.
vortica insieme a noi.
un caro saluto.
grazie Ombra.
per fare certe cose…
“E prima del peccato originale? Lilit”
Prima Parte
(Antefatti)
Lilith. La donna destino.
Il desiderio. E la voglia di desiderare.
Nessun maschio ti è sfuggito.
Nessun maschio vorrebbe sfuggirti.
Le due lune. La nera che completa la bianca.
L’Astinenza che in te si fa l’inizio del possibile.
Lilith. La donna-paradiso caduta dal paradiso.
Il sud perché contiene il nord.
La notte perché lei stessa è il giorno.
Il lato destro perché è il sinistro. La purezza.
Che in lei è la scintilla della dissolutezza.
La tenebra femminile. Non la femmina-luce.
(Ciò che manca all’uomo perché non si penta.
Ciò che alla donna manca perché la donna sia).
Lilith. L’immagine femminile prima del peccato originale.
Preda e predatrice. E la donna libera in catene.
(Il poeta racconta Lilith)
(…)
“Mi hai chiamata Lilith…”
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith
perché incateni gli uomini
e poi piangi perché tornino alla loro libertà.
Sei la luce dell’alba la cui nudità destini solo ai ciechi.
Sei la donna libera. Libera persino dalla libertà.
La prima donna di Adamo. La prima disobbedienza.
La fusione del sonno e della veglia.
La fonte d’acqua viva e il Sahara.
(…)
Ti chiama Lilith quel poeta
perché sei il segreto delle dita insistenti.
Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.
Canto di colomba per domare i leoni.
(…)
Di nascosto il poeta ti chiama Lilith
perché sei la Regina di Saba. Sei Circe.
Sei Elena di Troia e Maria Maddalena.
Perché vieni dal soffio nel fango
non estratta da costola umana.
“E prima del peccato originale? Lilith”
Seconda Parte
( Lilith racconta Lilith )
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare. Sono la sposa delle sette notti.
Nessun amante sa che se mi sfugge
Correndoda me mi viene incontro.
Chi mi ascolta va verso la morte.
Quanti non vogliono ascoltarmi
Si scavano la fossa. Chi non mi ascolta
Merita la morte nel rimorso.
Sono mano della serva. Finestra della vergine.
Sono la prima donna di Adamo.
So tutto della noia del paradiso e del primo uomo.
Conosco il trono di Balqis e il dono di Salomone.
Sono lo smeraldo senza filo caduto nella polvere.
Sono il centro della damnatio memoriae
Perché detengo il segreto delle maree.
E della luna quando brilla nelle mie labbra verticali.
“E prima del peccato originale? Lilith”
Terza Parte
(Dio racconta Lilith)
“Ogni volta che invento una donna ne rimango deluso.
Sembra che un sole si spenga. Che una luce tramonti.
Lilith ha detto: ‘Non può esserci salvezza per gli angeli
se non nella caduta. Nessuna redenzione mi trattiene.’ ”
“Nessun trucco allontana dal mio animo il ricordo di Lilith”.
(…)
“L’uomo è fascina di paglia nel campo.
Lilith è la scintilla.
So che il viaggio è l’origine. Partirò per ricominciare.
Perché Lilith è la donna. E conosce il fondo”.
(…)
“Non mi accontenterò perché Lilith aveva ragione.
Il paradiso è sul fondo….”
(la terza parte, ‘Dio racconta Lilith’, è proposta soltanto nel suo attacco)
Gino Rago
Carissimo Gino interessante la tua Lilitih, soprattutto nella seconda parte. la prima forse un po’ ripetitiva nel descrivere tutte le essenze e l’esistenza della protagonista, tutte le sue prerogative notevoli peraltro.
“L’uomo è fascina di paglia nel campo.
Lilith è la scintilla.
So che il viaggio è l’origine. Partirò per ricominciare.
Perché Lilith è la donna. E conosce il fondo”.
Versi memorabili questi, come altri sparsi qua e là, che riscattano pienamente una certa monotonia elogiativa della potagonista.
“Sono il centro della damnatio memoriae
Perché detengo il segreto delle maree.”
Vedo che anche tu hai appreso dal maestro Sagredo l’arte di inserire vostri scritti poetici a commento di altri poeti o saggisti. Ma forse avete ragione voi. La Propaganda Fide paga sempre.
Condivido il parere di Salvatore Martino… il quale ha spiccate doti critiche, solo che non vuole ammetterlo per non dover poi faticare a scrivere qualcosa… in questo poemetto ci sono molte autentiche perle ma anche delle parti che possono essere rese più funzionali.
Caro Salvatore, questa è una rivista officina, un cantiere dove si lavora tutti insieme, ci si dice con franchezza se qualcosa non va o può essere migliorato, qui nessuno si pavoneggia a maitre à penser come in moltissimi altri luoghi, abbiamo tutti da imparare e siamo ben propensi ad accettare suggerimenti e critiche da qualunque parte provengano…
Può darsi che tu abbia ragione Linguaglossa caro sulle mie doti nascoste di critico, solo che spesso evito di manifestarle non solo per una sorta di considerazione sulla modestia delle mie possibilità, ma anche perchè temo sarei troppo severo e probabiolmente anche incline a trasmettere il mio gusto personale laddove bisognerebbe essere obiettivi e distaccati.
Scusate, cari amici, avevo risposto a tutti voi, uno per uno nello stesso commento, e di colpo il maledetto si è involato via. Riscriverò tutto domani. Scusatemi…
Un pezzo l’ho ritrovato. Eccolo:
Il commento poetico di Sagredo al mio “Narciso s’incanta” è davvero una cosa eccezionale! Dopo le esperienze “sciamaniche” nel tradurre waka a Tokyo, leggendo questi versi di Sagredo mi è sembrato di nuovo di volare in compagnia di uno strano vicinissimo collega, quasi un io…
Xenakis, e per favore non inorridite, lo ascolto spessissimo, per non dire ogni sera: egli è per me un Transtroemer della musica, un uomo che sa infondermi di energie vitali, creative, artistiche.
Per quanto dice Costantina a proposito di questo grande, non scordiamoci di come i volumi architettonici, con la loro presenza o con l’ombra che essi gettano, come appunto i volumi architettonici riescono a tagliare la luce. Nel totale silenzio: un dialogo muto, sempre cangiante, vivificante. Ed ecco che abbiamo capito cos’è la musica concreta! E abbiamo la chiave per apprezzarne la irruzione come una folgore nel nostro consueto mondo musicale.
Caro Salvatore, ti ringrazio del tuo apprezzamento per le mie scritture, e spero di vederti presto a Roma per il nostro famoso annoso caffè. Per quanto riguarda la frequenza dei post su l’Ombra: ma tu sai che quando un post viene sostituito da un altro sulla prima pagina, non è che quello scompare. Noterai che spesso infatti intorno a un post “sloggiato” in seconda posizione o terza continua una trama fitta di commenti, per diversi giorni. Quindi non si perde nulla!
A proposito dei versi di Dante citati da Gino Rago, ricordo una notte bianca qui a Roma, nel 2006. Con degli amici andai in un cortile di un palazzo del centro, perché un certo bravissimo attore, Roberto Herlitzka, avrebbe letto l’ultimo canto del Paradiso. Fu un’esperienza indimenticabile per me. Anche perché Herlitzka lesse con un fervore privo di ogni odore retorico, con un amore tale per il poeta, che rimanemmo tutti sbalorditi. Herlitzka era riuscito a fornire la piattaforma discreta e direi invisibile, sopra la quale quel canto poteva involarsi là dove doveva andare. Capii perché W.B.Yeats disse che il profilo aquilino di Dante Alighieri domina 700 anni di poesia europea.
Chiara Catapano sta effettivamente esplorando, da poeta e anche da studiosa, questo strano fatto della radice comune di φωνή (voce) e φαίνω (mostrare). E’ una ricerca dell’unità sostanziale delle cose, che sta alla base antichissima della lingua stessa. Cara Chiara, è appena iniziata qui con noi della NOE una esplorazione delle radici stesse della lingua, delle radici della poesia, del miracolo dell’immagine in arte. Davanti a tutti noi si apre uno scenario quasi inconcepibile. Qualcuno ci aveva fatto un tempo pensare che tutto era finito, qualcuno ci aveva fatto pensare che alcuni poeti del bar dello sport, come dice Giorgio, stessero scrivendo le ultime poesie della storia umana. Poveri illusi.
Ma tu, Lucio, non pensi davvero che il WEB sia qui ormai per restare per i prossimi chissa quanti secoli, e che ci dobbiamo fare i conti? Io trovo la questione della possibile convergenza fra parola scritta letteraria o poetica e virtualità elettronica una cosa davvero entusiasmante. Soltanto, deve passare questo momento di sguaiata e acritica euforia per il nuovo.
Caro Giorgio, quanto dici è giustissimo. Dopo anni di silenzio – in cui però ho avuto una vita pienissima, una famiglia, ho viaggiato come un pazzo e ho conosciuto persone di altissimo livello principalmente in Italia, in Grecia, in India – dopo questi anni ho comunque trovato un luogo per la poesia. Questo. E ci ritroviamo tutti, noi poeti, e lettori “forti”, assieme qui.
Caro Steven, nel mio commento mi sono preoccupato del fare, meno dell’essere. Per me l’essere è un farsi, può darsi che ai massimi sistemi sia un’incognita che ci trascende, ma dove sto io semplicemente mi pervade e attraversa. Nel fare, il tempo esiste e passa più in fretta. La televisione è tra noi dal 1950, si presume che il web possa durare altrettanto, solo va considerata la sua rapida evoluzione. E’ un mezzo assai differente.
VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA.
Il «tempo interno» in Poesia; Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»? E come si fa ad entrare dentro la «cosa»?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27843
Proviamo ad avvicinarci ad una idea inconsueta, alla idea di far diventare gli «oggetti», «cose». Forse siamo troppo adulti, troppo abituati a considerare le «cose» gli equivalenti degli «oggetti» che non sappiamo più la differenza tra gli «oggetti», e le «cose». Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»? E come si fa ad entrare all’interno della «cosa»? Come si fa ad adoperare una «cosa»? Ma, una «cosa» si può adoperare? Quando è che una «cosa» diventa un evento esteticamente tracciabile? Che rapporto c’è tra un «evento» e una «cosa»? – Ecco, io direi che la poesia italiana ha trascurato da sempre questo piccolo problema: quando gli oggetti cessano di essere «oggetti» e diventano «cose». È soltanto a quel punto che può sorgere una tracciabilità per la poesia. Io la metterei così: la «cosa» è un oggetto simbolico che ha iniziato ad irradiare segnali significativi. Ad un certo punto avviene che un «oggetto» è muto per il linguaggio ordinario ma non per il linguaggio simbolico per eccellenza quale è il linguaggio poetico, e comincia a «parlare». E questo suo «parlare» è il discorso poetico. Un «oggetto» diventa «cosa» quando viene dotato di temporalità. Voglio dire che, fino ad un certo punto, gli oggetti di tutti i giorni non hanno ancora acquisito una propria temporalità ma convivono con noi e in mezzo a noi nella confusione della dimensione della confusione, dell’inautenticità, nella temporalità del presente; ad un certo punto della loro condizione di esistenza gli «oggetti» restano muti, non emettono segnali simbolici significativi, almeno fino a quando vengono, per una ragione o per l’altra, dismessi. E allora diventano oggetti simbolici, dotati di una propria temporalità significativa. Soltanto a questo punto possono fare ingresso nel linguaggio poetico. Leggiamo tre versi di Werner Aspenström:
Il frutto che cade si ferma a metà strada
tra ramo e erba e chiede:
Dove sono?
L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante, fatto di quel solido nulla che è il soggetto degli oggetti.
C’è una bella differenza: le «cose» sono fatte di «tempo» mentre gli «oggetti» sono fatti di tempo di lavoro. Ad esempio: C’è una differenza abissale tra una poesia fatta di «oggetti» e una poesia fatta di «cose». Capisco di riuscire un po’ metafisico e misterioso, ma qui si cela una evidenza importante che vorrei esplicitare. Per farla breve, dirò che una poesia fatta di oggetti la si dimentica nel giro di qualche anno o di qualche generazione, la poesia fatta di cose invece resiste al tempo, non si cancella. Come mai avviene questo? La risposta la dobbiamo cercare nell’ingresso del Fattore tempo all’interno della «cosa», e quando io dico «tempo» intendo qualcosa di difficilmente definibile, qualcosa che riguarda tutto ciò che c’è nel creato e in noi. Come diceva Agostino se nessuno me lo chiede so benissimo che cos’è il tempo, ma se qualcuno me lo chiede, allora non lo so più. Appunto, il paradosso del tempo è questo; che noi pensiamo intuitivamente, dando credito al senso comune, di sapere che cos’è il tempo, ma in realtà non sappiamo nulla di esso, siamo ancora al livello dei trogloditi.
Per semplificare, dirò una evidenza: che la Lingua e la Parola sono entità fatte di Tempo. Non soltanto il Tempo le penetra dall’esterno, ma direi che le penetra anche dall’interno, ma anche e soprattutto che il Tempo è la cosa stessa, che non c’è cosa nel nostro universo che non sia «tempo» irrelato. Ma, dicendo questo mi rendo conto che ho proferito una tesi estrema, che dovrebbe avere il supporto della scienza e del pensiero filosofico, ma tant’è, lo scrivo egualmente, in modo ingenuo, nella speranza che qualcuno che ne sa più di me voglia tentare di spiegare questa «evenienza»… Da questo punto di vista, l’idea anceschiana di una «poesia degli oggetti» è destituita di fondamento filosofico. In realtà, nella migliore poesia moderna sono le «cose» che si palesano nella loro «cosalità»; una «poesia degli oggetti» è un non senso filosofico, è una sciocchezza filosofica. La poesia abita le «cose», non conosce gli «oggetti». La «metafora tridimensionale» di Mandel’štam tratta di «cose», non di «oggetti», e così la poesia di Aspenström. Il «laboratorio di impagliatura» degli oggetti dei simbolisti viene da Mandel’štam sostituito con le «cose» vere, con le «suppellettili» con cui ha a che fare l’uomo nella sua vita quotidiana di tutti i giorni. Gli «oggetti» sono quelle entità di cui sono piene le nostre vite quotidiane, ma la poesia rigetta gli «oggetti», è loro estranea; o meglio, li ricrea e li sostituisce con le «cose». Soltanto le «cose» possono abitare il discorso poetico. La poesia è irrimediabilmente nemica della civiltà degli oggetti del capitalismo inoltrato.
Ma che cos’è questo «secondo tempo», non più parametro (come nella meccanica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica che Prigogine chiama «tempo interno»? È singolare che per spiegare questo concetto scientifico così singolare Prigogine ricorra a una vera e propria riabilitazione ontologica della percezione immediata quando afferma che «è essa a renderci consapevoli dell’esistenza nella nostra stessa vita, di una freccia del tempo […] La giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha finora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio».1
Quando gli «oggetti» sono saturi di tempo, allora vuol dire che sono diventati delle «cose».
Per caso oggi ho aperto una antologia di Poeti svedesi contemporanei nella traduzione di Enrico Tiozzo del 1992. Guardate il modo con cui il poeta svedese tratta gli «oggetti», qui non c’è alcuna topologia utilitaristica. Ecco come gli «oggetti» non più utilizzati ridiventano «cose» misteriose. Un semplicissimo «momento in pizzeria», una esperienza quotidiana e irrisoria, diventa epifania di una diversa collocazione delle «cose» nel mondo e nel «tempo». Attenzione, qui non si tratta di epifania estatica alla maniera dei primi simbolisti europei, di Ungaretti, per intenderci, che sta in posizione estatica in attesa dell’epifania, qui si tratta di una nuova e diversa collocazione del nostro essere nell’universo e nel tempo. Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità». Le «cose» sono frammenti del mondo e del «tempo» e la cosalità è quell’alone che avvolge le cose come la carta stagnola avvolge i regali delle persone care.
Ecco un modo di fare poesia veramente moderna con le «cose» e il «tempo».
1 Marramao Giacomo, Minima temporalia, luca sossella editore, 2005, p. 20
mi viene di rispondere così; scrivevo nel 1971:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27845
Eppure compresso come sono
sono il migliore tra voi,
poeti lecchini!
Un vino giovane ha un antico languore:
è carne nel crivello dei suoni!
Io mi rifiuto comune:
sono un grande istrione, come Adus,
impiccato all’albero della conoscenza,
l’Affamato di versi sonori
l’Inventore di parole propellenti.
Cosa conservate della carne-parola
diroccata come un muro di guerra?
Ricordate soltanto un passato remoto di sterco !
Elevarsi al di là del principio del Verbo!
Amare fino a leccare le piaghe d’amore dei poeti!
Un cimitero di versi non invecchia un poeta!
Nel Verbo genesis al di là dei quasar
si spargeranno parole sulle strade,
come secoli dalla tasca del Tempo,
ma sulla Tavola dei Numeri resterà una Rosa!
a.s.
Roma, 23 maggio 1971
Dici bene, caro Sagredo:”le piaghe d’amore dei poeti”,che mi rimanda alla”piaga rossa languente” di Campana; che pagò con ogni miseria terrena la gloria della poesia vera.Oggi c’è il mercato della poesia,perchè si pensa che tutto possa essere mercato.Ma è un errore;cominciano a capirlo perfino quelli che del mercato fanno una semplice professione.
Carissimo Steven ti ringrazio per il tuo apprezzamento, peraltro laconico, su quanto scritto da me circa la tua produzione poetica. Davvero non ti sei sprecato come hai fatto con altri. Mi sembrava che le mie parole potessero suscitare in te qualche altro pensiero o commovimento. ma forse narcisisticamente mi aspetto troppo degli altri. Ci vedremo senz’altro alla fiera del libro e finalmente potrò ottemperare alla mia promessa circa “Cinquantanni di poesia”. Per quanto riguarda la tua affermazione che gli interventi di tutti restano anche nei giorni successivi non mi trovi in consonanza, non sempre si ha il tempo e la capacità di intervenire su più fronti. Mia opinione confutabile, ma della quale sono profondamente convinto
Caro Salvatore, non ho detto altro, semplicemente perché non era il luogo giusto. E poi i tuoi commenti sul mio post erano commenti ottimi ma en passant, e non mi sembrava necessario commentarli a mia volta ! Il che va bene, benissimo! Perché comunque c’è sempre tempo per entrare più in merito.
Insomma, caro, mi aspetto da te prossimamente un post importante, in cui ci dai un po’ della tua esperienza in campo poetico ed esistenziale. Corredato da tue poesie, naturalmente.
Sarò felicissimo di vederti il giorno 8 alla Nuvola, e di ricevere finalmente il tuo libro. Stai sicuro che una volta che l’ho ben digerito, saprò parlare della tua poesia e della tua poetica, non da critico certamente, ma da poeta che ha uno spirito anche critico.
Dunque, saluti, auguri, ci vediamo l’8!!!!
Quello che scrivi carissimo Steven non fa che aumentare la stima che ho nei tuoi confronti. la tua sollecitudine a da esternare sull’ombra il mio pensiero, quello che intendo cioè sulla poesia, incontra una certa reticenza all’interno della mia persona.Se il Magister non si pronuncia in materia, promettendomi uno spazio adeguato, perdona il mio narcisismo, dettato dall’alta considerazione, Ahimé, che ho di me stesso, non mi sento di affronate, un'”impresa”,che comunque sarenbbe impegnativa. Non ultima ragione di reticanza è quella quasi totale mancanza di considerazione, con assenza di risposte quindi, alle mie esternazioni, talvolta volutamente provocatorie. sai parlare dei propri versi edella propriavisione della poesia è sempre arduo, problematico, pieno di trabocchetti, soprattutto per uno come me così lontano ad un pensiero critico sugli altri, figuriamoci su me stesso.Vedremo se in seguito tutto assumerà un sapore diverso.L’unica cosa che farei senza esitazione, è quella di far conoscere alcuni miei scritti, che in questo tempo , che mi viene concesso, hanno visto una forse precaria luce. Si sono già affastellati questi miei versi in una sorta di volume, che potrebbe in un tempo da venire, magari lontano, essere editato. Un giorno con la tua dialettica preziosa mi spiegherai le tue affinità con alcuni poeti della NOE. e come possa convergere verso un possibile incontro il tuo pensiero, che nasce da posizioni estremamente lontane,
VERSO LE NUVOLE!!!!!!
——————————————————————————-
Padre mio!
Almeno tu abbi pietà e non ti torturare!
È il mio sangue da te versato che si sparge per la valle terrena.
È la mia anima
come pezzi di una nuvola stracciata
nel cielo riarso
sulla croce arrugginita del campanile!
Tempo!
Almeno tu, sciancato imbratta-tele
impiastriccia il mio sembiante
nel reliquario del mostruoso secolo!
Io sono solo, come l’ultimo occhio
di un uomo che va verso i ciechi!.
———————————————————————————–
Volete –
sarò rabbioso a furia di carne –
e, come il cielo, mutando i toni,
volete –
sarò tenero in modo inappuntabile,
non uomo, ma nuvola in calzoni!
—————————————————-
Prometeo: Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto
volgevo al sole gli occhi sperduti
La nuvola:
Anch’io sono un angelo, io lo ero,
guardavo negli occhi come un agnello di zucchero.
Prometeo:
Quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso.
La nuvola:
Uscirò fuori
per dirgli in un orecchio:
ascoltate, signor Dio…
Prometeo:
Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori
Di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lagrime
Di me ch’ero in angoscia?
La nuvola:
Pensavo che tu fossi un gran Dio onnipotente
e invece sei un incipiente, minuscolo deuccio.
Prometeo:
Buon Dio, tu che mi hai dato tanto
Perché non ti sei tenuto per te metà dei tuoi
doni, e non mi hai concesso
in cambio di essere sicuro e contento di me!
La nuvola…:
Onnipotente, che hai inventato un paio di braccia
che hai fatto si che ciascuno avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare senza tormenti?
————————————————————————————
Non ti pare caro Sagredo di esagerare inserendo una infinità di tuoi testi poetici a commento di altri. Ma sono soltanto io a rilevare questa tua diciamo scorrettezza.?
Caro Steven,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27867
la novità del web sta nello scambio immediato, nell’interattività. Prima non era possibile. Il mezzo non consente lungaggini, prima si arriva al dunque e meglio è. Questo vale anche per le immagini ( le opere di pittura, in quanto ferme per sempre, hanno fatto il loro tempo). Quindi andrebbero considerati due fattori che considero funzionali all’interattività: la brevità e il movimento.
Brevità nel tempo di lettura: pochi secondi, quasi lo stesso tempo di un cambio immagine – 3 secondi per uno spot sono più che sufficienti, si può fare di più nei lungometraggi, ad esempio nelle panoramiche ma serve il grande schermo –. Va da sé che il frammento adottato nella NOE risponde anche a queste esigenze. Parole e immagini dovrebbero accorparsi nel montaggio. Di fatto, nelle poesie NOE, il montaggio riveste un ruolo determinante. Mi rendo conto di dire cose poco gradevoli ma è così. Queste cose le aveva già bene individuate Luigi Manzi in Fuorivia. Ma sono presenti nella scrittura di Tomas Tranströmer. Poesia non ne risente, diventa solo più difficile arrivarci. Comunque non saremmo lontani dalla composizione breve di haiku, tanka o chōka. Nella poesia irrompe l’immagine, è con questa che bisogna fare i conti. Si potrebbero anche considerare nuove soluzioni di poesia visiva. Ma dimentichiamoci delle chat, sono solo cose della telefonia.
Condivido in pieno le considerazioni espresse da Lucio Mayoor Tosi qui sopra, sono talmente eloquenti che non ho altro da aggiungere.
Quanto a Salvatore Martino, caro Salvatore, mandami le tue nuove poesie che ne faremo un post, sono curioso di leggere le cose tue ultime…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27868
La dizione di «forma-poesia» era già stata usata da Franco Fortini nei lontani anni Novanta, quindi ha una lunga gestazione, non è quindi una mia invenzione; quando la utilizzo lo faccio perché in modo incisivo serve a far comprendere di che cosa stiamo parlando. Se dicessi semplicemente “poesia“, questo termine sarebbe troppo vago; invece, con la dizione «forma-poesia» intendo una costruzione stilistica tipica di ogni Lingua e di ogni società, essa cambia con la mutazione della Lingua e della società.
Con il termine «Anti-poesia» intendo qualcosa che ognuno può intuire. Detto in parole semplici, dirò che ciascun poeta quando mette sulla carta qualcosa che per lui è “poesia”, ha chiara in mente anche la nozione opposta di «Anti-poesia» che implicitamente e esplicitamente nega la categoria di «poesia».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27886
e…no ci sono prima io!
t’avvedi padre
delle sventure alate e di quant’altro le tue posture scaltre fanno di noi che riverberi
di frammenti saturi anelano addescandoti?
si fanno ombra le parole
riscaldano motivi irrisolti
di un pastore asiatico errante
che colla critica ne fa mandria
ma i poeti sono strane bestie
non riconoscono gli ovuli, e questi eroi
sono irrequeti, miti insoddisfatti, Argo
attende ancora tormentato dalle zecche.
come è finita la guerra di Troia non lo ricordo nemmeno io.allora
facci sereno cielo
indisturbato.
colora stracci imperturbati.
gli stessi
di un un mito altro, napoletano
un tale Cupiello.
che anche strattonato a forza
di sogno invano si trangugió intere statue.
stessi pastori di transumanza
stesse accoglienze estetiche,
con lo stesso timore di
Steven Grieco Rathgeb che tutto scompaia scrivendone.
com’è è vero!
(sapeste! sapeste quanto è strano sentirsi sballottati dentro un treno, dentro un treno…)
addí,5 dicembre 2017 finito di assemblare.
Grazie Ombra.
Caro Steven Grieco Rathgeb, ti pongo questa domanda:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27893
In alcuni momenti, ad esempio nell’arte figurativa e nella poesia, assistiamo alla presenza della «cosa», rivediamo letteralmente la «cosa», come per la prima volta. La «cosa» si libera della cosità e appare nella poliedricità dei suoi «indizi», dei suoi «segni», ovvero, dei suoi «rinvii» ad altro. Appare come «valore».
Faccio un esempio semplice e ovvio: quando assistiamo a ciò che avviene davanti ad un quadro di Edward Hopper o di De Chirico, ci accorgiamo che lì non avviene niente, che le figure e le cose stanno ferme… ma poi, all’improvviso, ciò che era immobile si anima dall’interno, e vediamo quelle «cose» per la prima volta, o meglio, le riconosciamo perché dentro di noi le avevamo già viste. Questo è un fenomeno estetico che ciascuno può ripeterlo in proprio, talmente è ovvio.
Mi chiedo: come è possibile questo? Abbiamo forse aggiunto un «predicato di valore» alla «cosa»?
Scrive Heidegger: «L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza. I valori si trasformano in determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa… Ma già l’esperienza prefenomenologica riscontra nell’ente che si vuol pensare come cosa la sussistenza di un elemento irriducibile a cosità… Che significa, ontologicamente, l'”inerenza” del valore alle cose?».1]
Sappiamo quindi da Heidegger che «l’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei beni». E allora dobbiamo riformulare la domanda: Come può avvenire che la «cosa» si liberi della sua cosità? – Ecco, questa è la domanda giusta, perché dobbiamo presupporre che quei predicati della «cosa» non si aggiungono alla «cosa», non sono un di più che noi affibbiamo alla «cosa» ma sono una nostra proiezione, sono indizi, rinvii, segni che noi diamo alla «cosa» per il tramite del linguaggio organizzato. Dunque, il problema siamo «noi», è nell’esserci e nel suo linguaggio. Ciò che appare nell’opera d’arte, «la macchia dell’apparenza», per utilizzare le parole di Adorno, è in realtà il suo essere semplicemente-presenza, assoluta presenza che si volatilizza nel momento stesso della sua ricezione. La ricezione dell’opera fonda l’inerenza tra noi e il mondo, apre la «mondità» del mondo e ci rende manifesto il nostro in-essere nel mondo.
Ed ecco che la tua poesia si anima, inizia a muoversi e a stormire come le foglie di un bosco:
L’IRRILEVANZA DEL POETA 2
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
È il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.
(via Merulana, autunno 2012)
1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. p. 130
Posto un Commento di Adeodato Piazza Nicolai giunto alla mia email:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27898
Capisco profondamente la condizione esistenziale di Steven Grieco e altri poeti della NOE. Dopo 40 anni di esilio ha capito un poco che non è possibile ritornare dall’esilio esistenziale…Se si ritorna, per caso o per pura disgrazia, si rimane per sempre nemo poeta in patria, per alterare alquanto una famosa battuta. il SILENZIO è l’unica vera parola che significa al giorno d’oggi. Montale aveva usato la metafora della rete a strascico per pescare alcuni keepsakes, ma certamente non parlava dei pescatori di frodo o dei tombaroli di banalità.
L’IRRILEVANZA DEL POETA 2
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
È il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.
(via Merulana, autunno 2012)
1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. p. 130
IRRELEVANCE OF THE POET 2
A shattered image stands at the center of my breast.
Words, like big rats, appear and stealthily enter.
It is the broken disk of a new moon,
cutting fragments of brown glass dispersed here and there.
Inside interstices
with night-time trees and hills yet in milky light,
a dreamed-of landscape lies with no shame.
(via Merula, Autumn 2012)
1] M. Heiddegger, Being and Time, italian translation, p. 130
posto qui un Commento di Steven Grieco Rathgeb, al momento impossibilitato ad inserirlo:
Caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27929
non entro nella questione se elettronica o virtualità siano realtà più o meno concrete. Per me, glorificare e sminuire sono i due estremi della stessa cosa Non mi ci identifico. Tuttavia, l’Ombra delle Parole, per sua natura intrinseca, è già un avamposto verso la chat room. E cosa dire di Skype, etc. Ha più senso accettare lo scorrere degli eventi davanti a noi e attraverso noi (perché anche la virtualità non esisterà per sempre, ma adesso C’È, piaccia o meno), piuttosto che cercare di sminuirne l’inesorabilità.
Ad es., ai nostri tempi il rapporto fra “quantità” e “qualità” hanno finito per avvicinarsi incredibilmente, e confondersi perfino. Qualcosa di nuovo nasce sempre in questo mondo, in ogni attimo, e possiamo anche con un certo distacco costatarne la effettiva e relativa realtà. Ad es. dove un tempo si contavano diciamo fino a cento pezzettini di informazione, oggi si superano i miliardi: la quantità diventa così immensa (anche virtualmente, ma con realissime ricadute sul concreto) da impattare in modo massiccio sulla qualità. Infatti, il concetto di qualità che avevano ancora i nostri genitori… dove è andata a finire, adesso che facciamo uso di paccottiglia in ogni luogo della nostra vita: dalle news al mobile creato in serie?
Passo ad un altra cosa che mi interessa di più. Ovvero il commento di Giorgio, ieri in questo post, sulla eventuale differenza fra “oggetto” e “cosa”. In qualche modo Anna Ventura ha tagliato la testa al quesito, facendo notare che il latino “res” li dice tutti e due nel contempo. Verissimo, non fosse per i nostri disgraziati – ma molto entusiasmanti! – tempi ologrammatici, in cui le cose hanno il brutto vizio di sdoppiarsi. Per cui, il quesito di Giorgio rimane, e anzi va a scavare direttamente nel fare poesia, laddove l’oggetto cessa di avere un sua valenza assoluta, e diventa semplice cosa. Ecco che la cosa prende a fluttuare, a volare libera, come la figura femminile sdraiata sul letto nel film Zerkalo (Lo specchio) di Tarkovskij: quando del tutto immobile e ancora in posizione orizzontale lei si libra sopra il letto e prende a fluttuare. Il film è del 1984. Ma lì viene espressa meravigliosamente la questione posta da Giorgio. Ovvero, dà una soluzione squisitamente artistica, estetica ad una questione astratta, teorica. E bene ha fatto Giorgio a porla! Penso che noi poeti della NOE dovremmo rivedere quel film.
Se batto il ginocchio contro il tavolo e mi faccio male, e poi rifletto che a livello subatomico il tavolo è in preda a leggi fisiche totalmente altre e a me invisibili, be’ allora, inizio a vederci doppio. E questo in effetti, è ciò che viviamo oggi. Ma lo scienziato, pur allontanandosi nel pensiero e nel lavoro di mille anni luce dalla realtà di ogni giorno, rimane un essere umano che è nato, vive e muore. Ecco, questa disparità strana, fra un universo immaginato, ipotizzato – che però ha delle ricadute molto reali sull’ognigiorno, come per esempio la risonanza magnetica (lasciamo stare se funziona sempre alla perfezione o no…) che è frutto di ricerche teoriche sulla realtà dei rapporti fisici sub-atomici – e un VIVERE qui, ecco su queste cose anche la poesia può aprire gli occhi.
Caro Steven,
leggiamo una poesia di Anna Ventura e vediamo come nella sua poesia gli «oggetti» diventano «cose»:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27932
Anna Ventura
La pagina bianca
Lascio me stessa
seduta davanti alla finestra
della casa di campagna, la vista
aperta su un paesaggio
di colline innevate,
boschi neri,
comignoli cadenti.
Qui dovrei scrivere il libro
Che risolva ogni dubbio,
che mi dia la pace che dà
solo ciò che è necessario.
Ma è già tardi e bisogna tornare
In città, nella vita concreta.
Ti lascio qui,
nel freddo,
avvolta in uno scialle a colori,
mentre nella cucina grande
già si spegne il camino, dal cielo
cadono le ombre, la pagina bianca
è ancora da scrivere
Tema di questa poesia di Anna Ventura è l’abbandono del sé: «Lascio me stessa / seduta davanti alla finestra»; l’abbandono del sé implica l’adozione di una «distanza» di noi da noi stessi. Paradossalmente, il Sé sono due persone che si trovano in due luoghi diversi, proprio come accade agli elettroni nella fisica quantistica che possono trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi e lontanissimi dello spazio-tempo.
In un’altra poesia troviamo un appunto di Anna Ventura: «Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola». Dunque, l’operazione della poetessa di Montesilvano implica due moti: un allontanamento da se stessi e un allontanamento dalle «cose»; tutta la sua poesia parte da questo assunto esistenziale. Posto questo duplice allontanamento, il momento successivo è il dis-allontanamento, cioè quel moto di riavvicinamento da due allontanamenti. In proposito è illuminante una notazione di Heidegger:
«il disallontanemnto dev’essere inteso come un esistenziale. Solo perché l’ente è in generale scopribile da parte dell’esserci nel suo esser disallontanato, divengono accessibili le “lontananze” e le distanze fra un ente intramondano e l’altro. Due punti e, in generale, due cose non possono trovarsi in un rapporto di disallontanamento perché nessuno di questi due enti può, in conseguenza del suo modo di essere, esser tale da disallontanare. fra di essi non c’è che una distanza, constatabile e misurabile solo in base al dis-allontanamento».1]
È proprio da questa duplice operazione di allontanamento e dal successivo moto di riavvicinamento che scocca la poesia di Anna Ventura, e in quello scoccare le «cose» mirabilmente si accendono dall’interno. È questa différance che fa grande la poesia di Anna Ventura.
«L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza»,2] scrive sempre Heidegger, quella «vicinanza» che è il prodotto del ritorno da quel duplice allontanamento da se stessi e dalle cose.
Ecco un’altra poesia di Anna Ventura:
Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
– oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.
Qui il tempo è diviso in due parti: l’«ieri» e l’«oggi», tra i due tempi si apre il divario della distanza allontanante. Improvvisamente, qualcosa accade «oggi» che ci fa vedere le cose con occhi nuovi, diversi. Che cosa sia accaduto la poesia non lo dice, non lo potrebbe dire perché esula dal suo raggio di introspezione andare oltre il proprio perimetro, la poesia si muove sulla semplice presenza di ciò che c’era «ieri» e di ciò che c’è «oggi». In una parola, è cambiata la presenza?, no, non è cambiata la presenza, è cambiato qualcosa che sta dentro di noi e fuori di noi, ma noi non sappiamo precisamente che cosa sia cambiato. Per l’io auto organizzatorio basta prendere atto che qualcosa è cambiato. Le parole della poesia sono eloquenti: «ieri, / uno sciame di vespe mi seguiva. / Oggi tocco la realtà e le cose: / angoli e superfici tonde». Chiediamoci: si tratta di una mera esperienza psicologica soggettiva?, di una mera opinione personale?; no, non direi, a mio avviso è qualcosa che è inerente al reale, il reale è questo che vediamo «oggi», non più quello di «ieri». L’«oggi» è più reale di «ieri».
Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».
Per Derrida, il «logocentrismo» è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné“). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone“). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
Husserl sostiene che il presente (l’adesso nella sua puntualità) si compone di un non-presente, ogni percezione di una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata anche la possibilità di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitaria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità epochizzabile.
Il pensiero poetante di Anna Ventura assume un punto di vista critico-scettico verso ogni posizione di poetica logocentrica, che cioè si adegua in modo irriflesso ad una metafisica della «presenza della cosa», ovvero, che adotta una procedura ironica. La Ventura sa per istinto e per pensiero che laddove c’è la «cosa» non è detto che esista una «parola» adeguata. Tutto il suo tentativo poetico si gioca su questo punto: l’avversione verso la poesia logocentrica e fonologica che crede di poter identificare la presenza della cosa con la cosa stessa e, quindi, con la sua referenzialità linguistica. Il suo sforzo è teso a non identificare ingenuamente presenza della cosa e logos; il logos è sempre non originario, affetto da secondarietà.
Anna Ventura
“Questi piccoli fogli bruceranno”
Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
(da Antologia Tu Quoque. Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014
“In fondo, in fondo”
La Sibilla lasciò l’antro di accesso,
si inoltrò nel corridoio lungo.
In fondo, in fondo,
stava la sua tana. Lì
preparava le foglie
e le metteva nel cestino.
Quel giorno era infuriata con Apollo,
che se ne stava nel Tempio,
lì vicino,
dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,
assediata dall’erba e dai rovi.
Quel giorno, sulle foglie,
scrisse una cosa bruttissima : .
“Guardatevi dall’amore”.
Ma poi che Apollo,
per mezzo di un piccione,
le inviò in dono un fiore,
la Sibilla tornò di buon umore,
e sulle foglie scrisse:
“Non abbiate paura”.
1] M. Heidegger Essere e tempo, p. 137
2] Ivi, p.138
Posto anch’io una mia poesia a riguardo:
ALCHIMIA-SKYPE (DOVE IL POETA DIVENTA LETTURA)
La distanza-forma-assenza, più che sogno poco meno che realtà
per velo d’impotenza
il gioco-Skype ci converge in nicchia d’assoluta trasparenza.
Lui lettura-poesia, il file scorre gli zigomi ripercorre
me-ascolto-diventiamo pronunciamento
nella prospettiva-web, versi stesi nello spazio minimo dei pixel.
Mai se non qui, nello sguardo-schermo,
è
pura
percezione nostra lettura.
Cari amici, sono Steven Grieco-Rathgeb, scrivo dalla postazione di Trinita qui a Firenze. Ringrazio moltissimo Adeodato Piazza Niccolai per la traduzione della mia poesia. Ironia della cosa, l’originale di questa poesia è già in inglese! La scrissi in inglese nel 2012, poi qualche giorno fa, l’ho tradotta in italiano per il mio post. Ecco l’originale!
A shattered image lies at the centre of my chest.
Words, like rats, creep up and slip inside.
It’s the broken disk of a new moon,
jagged dark-glass fragments lie strewn about.
Inside the cracks
with trees and night hills still bathed in milky light
a dreamscape continues lying by its teeth.
Come vediamo, la versione di Adeodato è davvero vicinissima! E di questo lo ringrazio di cuore! Serendipity!
E’ sempre Steven Grieco-Rathgeb che parla qui…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27936
Caro Giorgio, vai a prendere due poesie di Anna così profonde, forti eppure inafferrabili, sfido che torna la tua teoria! Scherzi a parte, sì, è proprio così: queste poesie sono letteralmente permeate da quello che io, prendendo in prestito il termine scientifico, chiamerò INDETERMINAZIONE, in campo poetico. Come in tutta la migliore poesia europea e mondiale, ormai, come per esempio nella Frostenson, la singola composizione non sembra andare da nessuna parte, e poi si compie… O meglio, arriva l’ultima parola e così la poesia, semplicemente, finisce. E’ proprio questo senso aperto del dire, e del mondo (che qualcuno erroneamente potrebbe chiamare “vaghezza”) che vogliamo sentire in una poesia oggi. Sia il lettore a trarne la suggestione estetica, semmai; il che è molto diverso dal “significato”. Nelle poesie di Anna c’è questo, molto. La poesia sembra farsi da sola; serpeggia fra diversi momenti e stadi di interrogazione e auto-interrogazione, che non vengono mai fissati, definiti, e allora il senso del vissuto diventa molto forte. Nella nostra civiltà del positivismo – perché il positivismo regna ancora dappertutto, e regna il senso dell’onnipotenza dell’agire umano (che un po’ mi fa ridere) – in questa nostra civiltà ancora non si è capito che tutte le risposte, con il tempo, tornano ad essere domande. Questo senti nelle poesie di Anna, e gioisci. Senti questo meraviglioso arrendersi al mondo. Ciò denota una maturazione esistenziale particolare: e in questo contesto come potrebbero le cose essere oggetti?
Il principio di indeterminazione estetica, a proposito, e anche forte in alcune delle poesie che hai postato oggi del poeta Del Nero. Ma di questo vorrei parlare domani in quel post.
Ancora Grieco-Rathgeb; ho riletto la poesia di Anna Ventura “La pagina bianca”: un vero e proprio capolavoro
Come non condividere il lucido pensiero di “Lo chiamavano” Trinità”?
Gli oggetti e le cose
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Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.
Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.
Eppure, tra queste «cose» e la poesia che posto qui sotto ci deve essere un collegamento, anche se i temi e lo svolgimento non hanno nulla in comune. A proposito, questa è una poesia dimenticata, che ho dimenticato di inserire nel libro in corso di stampa, titolato Il tedio di Dio… Però c’è un misterioso collegamento che unisce questa poesia a quelle povere «cose» che sostano sul mio comodino da alcuni anni, ma non so più dove esso si trovi. Probabilmente, si è perduto per sempre nei meandri del mio inconscio e lì nuota come uno sciame di pesciolini d’argento…
Marco Alvino Getulio
A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
Sostenevano costoro che prolungare la vita
è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
e moltiplica il numero dei morti.
Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
per vivere una vita intensa e bella.
Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.
La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
ma il responso sibillino non mi piacque
e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
vive il popolo dei garamanti che si nutre
di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.
Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
– mi dissero quei barbari –
E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.
Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
ribrezzo e recrudescenza.
Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.
Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis
“Ti giuro, Spoono, non ce la faccio a sopportare l’idea schifosa che non finirà mai, che la sola scelta è fra le droghe e le cimici nel cervello” ( S. Rushdie)
Carissimo Giorgio a me sembra che i tuoi versi se fossero allineati di seguito , come in una forma prosastica non subirebbero alcuna variazione. E mi appaiono così lontani dai dettati così espliciti della NOE. Ma come sempre mi sbaglio.Evidentemente comunque nascono prima della via di Damasco.
vedo, caro Salvatore Martino, che continui a leggere con leggerezza le mie riflessioni sulla nuova ontologia estetica perché considero queste mie cose nella linea della nuova poetica, quella poetica che, come scrive Gino Rago, riprende i temi dell’acmeismo degli anni Dieci del novecento per svilupparli…
[…] “occorre tagliare/ al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo/ per vivere una vita intensa e bella”. In questa verità struggente consiste l’illusione dell’immortalità, per gli uomini. Una verità tragica che spinge Marco Alvino Getulio a cercarne altrove la conferma, la veridicità. La cerca in un “altrove” desolato, più desolato e terribile della stessa “verità”, ovvero della tesi dei filosofi cirenaici. E, nel deserto, nella desolazione dell'”altrove”, luogo di “ribrezzo e recrudescenza”, quella tesi trova finalmente la sua “verità”. Marco Alvino Getulio non lo dice, ma ce lo fa intendere fuggendo dalle “lande desolate”, nelle quali s’era inoltrato, più per paura della verità, forse, che animato da reale scetticismo e volontà di ricerca. Ce lo fa intendere scegliendo infine di ritornare “tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua”. Ma qui, un incontro, quello con “Dio alle porte di Persepolis”, la certezza di questo incontro cruciale, chiude la poesia nell’ambiguità e lascia il lettore a nuovi interrogativi… Che cosa vorrà dire l’incontro con Dio? Chi è Dio? Quale verità potrà aver rivelato al nostro Marco Alvino Getulio? Quale, a noi stessi?
Il video mostra l’opera site specific realizzata da Getulio Alviani per Fuori Uso (Pescara, 1995). Si tratta di un tunnel in bianco e nero, percorrendo il quale, si accede allo spazio espositivo “Alviani ArtSpace”.
per Trinita Buldrini: Cara amica, grazie per l’intelligente interpretazione critica dei miei testi; e grazie per avermi chiamata semplicemente”Anna”Con affetto, beneaugurando, Anna Ventura
per Giorgio Linguaglossa: Carissimo, poni un tema di discussione interessantissimo: la problematicità della “referenzialità linguistica”. L’uomo è un privilegiato, certamente,perchè ha il dono della parola(parlata e anche scritta),ma i mezzi di comunicazione, in natura, sono infiniti.Io parlo sempre alle piante, quando le innaffio ,parlo col gufo albino che abita nell’oleandro sotto alla veranda ( lui si chiama “Co”),parlo col mare.Troppe volte,in presenza degli umani, è meglio tacere.Grazie, sempre, per la voce che mi dai sulle tue pagine vive,che mi liberano dall’assedio del silenzio.
il filosofo Remo Bodei parla della differenza tra gli oggetti e le cose.
http://www.filosofia.rai.it/articoli/remo-bodei-le-cose-e-gli-oggetti/19210/default.aspx
Il filosofo Remo Bodei – Presidente del Comitato Scientifico del Consorzio per il festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – ci illustra il tema dell’edizione 2012 del festival: le cose.
Qual è la differenza tra una cosa e un oggetto? Un “oggetto” lo si considera con indifferenza, ad esempio per usarlo, comprarlo o venderlo. Un oggetto sfida il soggetto, e da parte sua il soggetto deve inglobarlo e farlo proprio. Una “cosa”, invece, è un oggetto sul quale si sono depositati dei significati, che siano affettivi, intellettuali o altro. In genere dovremmo trasformare gli oggetti in cose per rendere più sensata la nostra vita.
Il tema delle “cose” e degli “oggetti” è stato scelto dal Festival perché sono innumerevoli gli aspetti implicati in esso: da quello economico a quello religioso, da quello industriale-artigianale a quello scientifico, da quello sociale a quello squisitamente filosofico fino al dono e addirittura al perdono. Un tema che il Festival ha affrontato e problematizzato con lezioni magistrali, cinema, teatro, mostre e molto altro.
Bodei affronta le varie accezioni dei termini “cosa” e “oggetto” sia dal punto di vista etimologico, sia da quello della storia della filosofia. Da Kant (la “cosa in sé”) al significato delle parole latine causa e res, da Aristotele a Hegel, ne emerge che le cose hanno una forza in grado di “spingere” i nostri pensieri. I pensieri pensano l’essere: pensano un qualcosa che esiste al di là di loro. Le cose sono tali perché presentano una stratificazione di significati che da oggetti li trasforma in qualcos’altro: un semplice telefono cellulare, ad esempio, assume uno statuto differente da quello di semplice oggetto se pensiamo che alcuni minerali che lo compongono hanno scatenato una guerra in Congo.
Infine Bodei risponde alla sollecitazione riguardo un libro da recuperare e uno da dimenticare. Dichiarando la sua fiducia nei classici, che costituiscono una garanzia, Bodei vuole ricordare Histoire des deux Indes di Raynald. Vorrebbe invece buttare molti romanzi commerciali contemporanei.
[Pensiero NOE]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/02/steven-grieco-rathgeb-conversazione-con-gilberto-peverini-in-un-caffe-di-piazza-vittorio-roma10-dicembre-2016-e-5-poesie-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-27987
Se Bodei vorrebbe buttare molti romanzi commerciali contemporanei, io getterei anche tutta quella poesia fatta di chiacchiera insulsa. Da un libro di poesia e di filosofia io voglio sapere soltanto una cosa: che cos’è la morte e come affrontarla, tutto il resto non mi interessa perché per capirlo non ho bisogno né della filosofia né della poesia.
Caro Steven, scusami se ti ho inglobato in Trinita Bultrini; queste mie confusioni hanno, talvolta, qualcosa di magico.come se io volessi scavalcare il limite tra il vero e l’immaginato.Colpa, forse, anche di un tenue rimbambimento senile, anche lui favorevole allo sconfinamento verso qualunque luogo che ci distragga da certe bassure terrene,da una preoccupante barbarie di ritorno.
Caro Giorgio, sono incantata dal tuo elenco di Cose/Oggetti che ami,mi dice (l’elenco) che in te, nonostante la realtà di tante esperienze, resta ancora un angolo fanciullo; non lo perdere.