
Ma femme à la chevelure de feu de bois/ Aux pensées d’éclairs de chaleur
Se l’essenza, l’archè e il telos dell’essere sfuggono ad ogni esaustiva rappresentazione e predicazione d’ordine concettuale, la sua dimensione trascendente resta inviolabile e inesperibile, ogni operazione semantica di tipo tradizionale che, negandone il mistero insondabile, la costringe abusivamente entro codici simbolici eteronomi e falsificanti, diventa una violenta mistificazione ideologica, che inevitabilmente si traduce in paradigmi normativi, etici e assiologici proditoriamente strumentali ad asservire e sfruttare a beneficio del potere culturale, economico e politico al potere.
Questo spiega perché tutte le rivoluzioni artistiche di maggiore portata etica ed estetica siano state tenacemente osteggiate dai regimi totalitari e liberticidi, come è avvenuto con il surrealismo, anarchico e marxista, da parte dell’Italia fascista, in cui l’avanguardia fu rappresentata solo dal futurismo, schierato col fascismo, entusiasta del potere tecnico-militarista, e rappresentato, almeno in poesia, da autori decisamente mediocri.
Le personalità più ricche e autonome, come Montale, Quasimodo, Luzi, Gatto, Bigongiari, ecc. non ebbero altra scelta che l’estrema introspezione e involuzione semantica dell’ermetismo, diversamente articolata a ripercorrere solitarie e scoscese traiettorie per riappropriarsi della dimensione della libertà e integrità morale ed espressiva.
All’origine della rivoluzione surrealista, auspicata da giovani reduci dalla carneficina della grande guerra, c’è un capovolgimento della gerarchia di valori e istanze che configurano e strutturano le dinamiche della psiche: aderendo all’indagine di Freud, in seguito radicalizzata da Lacan che, a differenza del primo, fu loro sodale e fiancheggiatore, viene drasticamente ridimensionata la funzione normativa dell’istanza morale e razionale, a favore dell’energia emozionale ed affettiva, che costituisce l’insostituibile linfa vitale della realtà psichica, la sua essenza più autentica, insostituibile. Arginarla, inibirla e modellarla secondo dogmi e codici alienanti produce patologie, sofferenza e disfunzioni, individuali e sociali, ma è in ultima istanza illusorio, perché l’io cosciente, razionale e morale, è prodotto di procedure e paradigmi culturali relativi e contingenti, è un mosaico instabile e aleatorio di atti linguistici eteronomi e sovente contradditori e paralizzanti. La natura autentica, profonda e vitale del soggetto psichico è libido, eros, desir, tensione verso l’altro da sé, che nei surrealisti, eredi dell’ignita ansia dissolutrice di Rimbaud e Lautreamont, si manifesta come ebbrezza estatica, dionisiaca, ribelle e dissolutrice di norme e valori etici ed estetici falsi, abusivi, obsoleti e fossilizzati.
Rivoluzionario e anarchico, antidogmatico e anticlericale, Andrè Breton, fondatore e capofila del movimento, individua nell’eros – inteso in forma antimetafisica e nicciana, come desiderio fisico, corporeo, privo di sublimazioni mistiche e agapiche, l’elemento di relazione essenziale di ogni realtà fisica e psichica, capace di ricucire le lacerazioni inflitte all’ego, alle classi sociali e alle pratiche estetiche dalle norme alienanti e criminali della morale borghese; il desiderio, l’immaginazione, l’amore, la bellezza femminile, la libertà, la poesia sono gli strumenti per creare una nuova dialettica anti-idealistica, per riunire sogno e realtà, nella surrealtà, e in alleanza alla rivoluzione marxista, creare una nuova umanità, finalmente libera da ogni schiavitù morale ed economica.
L’Union libre, una delle sue poesie più celebri, è quasi un manifesto poetico della sua visione dell’eros come dimensione liberatoria e salvifica, del suo rivoluzionario dispositivo linguistico, fondato su una metafora composta di elementi volutamente e violentemente incongrui e semanticamente incompatibili, che forzatamente accostati producono una deflagrazione emotiva ed espressiva capace di rigenerare la visione della realtà: “Le parole non comunicano più, fanno l’amore“. In particolare in questa straordinaria celebrazione delle diverse parti del corpo femminile, ispirata dalla sua seconda moglie, Jacqueline Lamba, una splendida spogliarellista, famosa per un numero in cui si immergeva nuda in una vasca d’acqua dalle pareti trasparenti, la corrispondenza tra il corpo della donna e l’emozione che suscita nel poeta è affidata ad un codice sommerso, dinamico, inafferrabile, le immagini proliferano in significati incontrollabili e tracimanti l’uno sull’altro.

Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu.
Ma femme à la chevelure de feu de bois
Aux pensées d’éclairs de chaleur
A la taille de sablier
Ma femme à la taille de loutre entre les dents du tigre
Ma femme à la bouche de cocarde et de bouquet d’étoiles de dernière grandeur
Aux dents d’empreintes de souris blanche sur la terre blanche
A la langue d’ambre et de verre frottés
Ma femme à la langue d’hostie poignardée
A la langue de poupée qui ouvre et ferme les yeux
A la langue de pierre incroyable
Ma femme aux cils de bâtons d’écriture d’enfant
Aux sourcils de bord de nid d’hirondelle
Ma femme aux tempes d’ardoise de toit de serre
Et de buée aux vitres
Ma femme aux épaules de champagne
Et de fontaine à têtes de dauphins sous la glace
Ma femme aux poignets d’allumettes
Ma femme aux doigts de hasard et d’as de coeur
Aux doigts de foin coupé
Ma femme aux aisselles de martre et de fênes
De nuit de la Saint-Jean
De troène et de nid de scalares
Aux bras d’écume de mer et d’écluse
Et de mélange du blé et du moulin
Ma femme aux jambes de fusée
Aux mouvements d’horlogerie et de désespoir
Ma femme aux mollets de moelle de sureau
Ma femme aux pieds d’initiales
Aux pieds de trousseaux de clés aux pieds de calfats qui boivent
Ma femme au cou d’orge imperlé
Ma femme à la gorge de Val d’or
De rendez-vous dans le lit même du torrent
Aux seins de nuit
Ma femme aux seins de taupinière marine
Ma femme aux seins de creuset du rubis
Aux seins de spectre de la rose sous la rosée
Ma femme au ventre de dépliement d’éventail des jours
Au ventre de griffe géante
Ma femme au dos d’oiseau qui fuit vertical
Au dos de vif-argent
Au dos de lumière
A la nuque de pierre roulée et de craie mouillée
Et de chute d’un verre dans lequel on vient de boire
Ma femme aux hanches de nacelle
Aux hanches de lustre et de pennes de flèche
Et de tiges de plumes de paon blanc
De balance insensible
Ma femme aux fesses de grès et d’amiante
Ma femme aux fesses de dos de cygne
Ma femme aux fesses de printemps
Au sexe de glaïeul
Ma femme au sexe de placer et d’ornithorynque
Ma femme au sexe d’algue et de bonbons anciens
Ma femme au sexe de miroir
Ma femme aux yeux pleins de larmes
Aux yeux de panoplie violette et d’aiguille aimantée
Ma femme aux yeux de savane
Ma femme aux yeux d’eau pour boire en prison
Ma femme aux yeux de bois toujours sous la hache
Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu.
La mia donna dalla capigliatura di fuoco di legna
Dai pensieri di lampi di calore
Dal busto di clessidra
La mia donna dal busto di lontra fra i denti della tigre
La mia donna dalla bocca di coccarda e di mazzo di stelle d’ultima grandezza
Dai denti d’impronte di topi bianchi sulla terra bianca
Dalla lingua d’ambra e vetro strofinati
La mia donna dalla lingua d’ostia pugnalata
Dalla lingua di bambola che apre e chiude gli occhi
Dalla lingua di pietra incredibile
La mia donna dalle ciglia come aste di scrittura di un bambino
Dalle sopracciglia d’orlo di un nido di rondine
La mia donna dalle tempie d’ardesia d’un tetto di serra
E di vapore sui vetri
La mia donna dalle spalle di champagne
E di fontana a teste di delfini sotto il ghiaccio
La mia donna dai polsi di fiammiferi
La mia donna dalle dita d’azzardo e d’asso di cuori
Dalle dita di fieno tagliato
La mia donna dalle ascelle di martora e di faggine
Di notte di San Giovanni
Di ligustro e nido di scalarie
Dalle braccia di schiuma marina e di chiusa
E di miscela del grano e del mulino
La mia donna dalle gambe di razzo
Dai movimenti d’orologeria e disperazione
La mia donna dai polpacci di midollo di sambuco
La mia donna dai piedi d’iniziali
Dai piedi di mazzi di chiavi dai piedi di calafati che bevono
La mia donna dal collo d’orzo perlato
La mia donna dalla gola di Val d’Or
Di appuntamento nel letto stesso del torrente
Dai seni di notte
La mia donna dai seni cunicolo marino
La mia donna dai seni di crogiolo del rubino
La mia donna dai seni di spettro della rosa sotto la rugiada
La mia donna dal ventre come l’apertura a ventaglio dei giorni
Dal ventre d’artiglio gigante
La mia donna dal dorso d’uccello che fugge in verticale
Dal dorso d’argento vivo
Dal dorso di luce
Dalla nuca di pietra rotolata e di gesso bagnato
E di caduta d’un bicchiere nel quale si è appena bevuto
La mia donna dalle anche di navicella
Dalle anche di lampadario e penne di freccia
E steli di piume di pavone bianco
Di bilancia insensibile
La mia donna dalle natiche d’arenaria e d’amianto
La mia donna dalle natiche di dorso di cigno
La mia donna dalle natiche di primavera
Dal sesso di gladiolo
La mia donna dal sesso di terra aurifera e d’ornitorinco
La mia donna dal sesso d’alga e di caramelle d’un tempo
La mia donna dal sesso di specchio
La mia donna dagli occhi pieni di lacrime
Dagli occhi di panoplia viola e d’ago calamitato
La mia donna dagli occhi di savana
La mia donna dagli occhi d’acqua da bere in prigione
La mia donna dagli occhi di legno sempre sotto la scure
Dagli occhi di livello d’acqua di livello d’aria di terra e di fuoco
Ci si può chiedere quale sia il codice generativo di queste metafore, a quale paradigma assiologico ed estetico sia possibile riferirle, ma è difficile valutare e codificare in forma razionale e concettuale elementi così vistosamente afferenti alla dimensione emozionale, preconscia, tentando di giudicarle secondo parametri inadeguati ed eteronomi, sarebbe come tentare di tradurre e giudicare in forme e significati razionali una melodia o una pittura astratta.
Il metodo seguito e proposto da Breton per scandagliare l’inconscio è lo stesso usato da Freud, che dopo aver tentato con scarso successo l’ipnosi o simili forme di condizionamenti esterni, si limitava alla libera associazione, cioè all’accostamento spontaneo e casuale di immagini e parole; ma casuale significa solo sottratto all’arbitrio della ragione cosciente, perché per Freud nell’inconscio non esiste casualità, tutto è necessitato dall’energia libidica, che si esplica condensando o rimuovendo i materiali in funzione del desiderio o della paura che ne scaturiscono.
Vorrei solo segnalare la trasparenza iconica di “capigliatura di fuoco“ accanto alla complessità emozionale e alla violenza dissacrante di “dalla lingua ad ostia pugnalata“, e alla vertiginosa stratificazione semantica di “dai seni di cunicolo marino“ o “dai seni di spettro della rosa sotto la rugiada“.
Era inevitabile che un modello formale così semplice e riproducibile, formato da una ininterrotta serie di anafore che fanno da sostegno alla incandescente proliferazione di metafore, fosse preso a modello da altri autori, con lievi modifiche.
Fra le altre vorrei proporre la versione di Paul Celan. Il grande poeta ebreo rumeno, miracolosamente sfuggito allo sterminio nazista, in cui vide scomparire tutta la propria famiglia, appena liberato dal campo di lavoro in cui restò rinchiuso per due anni, entrò in contatto con una cellula surrealista formatasi a Bucarest. In seguito, attraversato ortogonalmente il modello surrealista, di cui conservò sempre la tensione liberatoria e antidogmatica, approdò ad un linguaggio del tutto originale, emancipato da ogni convenzione e ascendenza.
Paul Celan
Ritratto d’un’ombra
I tuoi occhi, orma di luce dei miei passi;
la tua fronte, solcata dal lampo delle spade;
i tuoi sopraccigli, orlo della rovina;
le tue ciglia, messi di lunghe lettere;
i tuoi riccioli, corvi, corvi, corvi;
le tue guance, stemma del mattino;
le tue labbra, ospiti tardivi;
le tue spalle, statua dell’oblio;
i tuoi seni, amici delle mie serpi;
le tue braccia, ontani alla porta del castello;
le tue mani, tavole di morti giuramenti;
i tuoi fianchi, pane e speranza;
il tuo sesso, legge dell’incendio boschivo;
le tue cosce, ali nell’abisso;
i tuoi ginocchi, maschere della tua boria;
i tuoi piedi, teatro d’armi dei pensieri;
le tue piante, cripte di fiamme;
la tua orma, occhio del nostro addio.
Qui è evidente, più ancora che in Breton, come l’apparente casualità degli incastri verbali, rivela la pregnanza emozionale della dimensione inconscia sottesa: “ i tuoi sopraccigli, orlo della rovina “, “ il tuo sesso, legge dell’incendio boschivo “.
Un’altra versione è dovuta al poeta ceco Vitezval Nezval, anch’egli aderente al surrealismo:
Cantico dei cantici
I tuoi occhi due spari alla cieca
Due spari alla cieca che non hanno mancato il bersaglio
Due spari alla cieca dietro l’angolo della strada in cui passavo
Come un carcerato che cerca la fine del cortile
I tuoi occhi due trombette da fiera
Due giostre in lontananza
Due campane
Due sigilli
I tuoi occhi due bicchierini di cicuta
I tuoi occhi due bavagli perché si taccia per sempre
Due cesti in vimini
Due provette
Due rotelline in un orologio d’ottone
I tuoi occhi due calendole
I tuoi occhi due rime ricche
I tuoi occhi due minuscoli tamburi militari
Due tristi funerali due salti giù dalla finestra
I tuoi occhi due notti senza sogni
Come un bilancino da farmacista
Come una carabina a due canne
Come un duplice addio
I tuoi occhi come due fiori di cactus
Come un unico manubrio da pesista
Come un romanzo in due parti
Come una rosa strappata in due
Come il tropico del cancro e il tropico del capricorno
Come un ducato falso accanto a un ducato vero
Come due freni
Come il mare e la terra come due gemelli come un doppio timido sospiro
Le tue labbra sono un’onorificenza scarlatta
Davanti alla quale ci si leva il cappello e si fa ala
Quando ti allontani ti accompagna l’attenti a destr
Di quanti a te prestarono giuramento
Le tue labbra sono un morbido nastro di velluto
Che ama inclinare verso la pianta di tabacco
L’eruzione vulcanica di due crateri di rossetti
Mosca di canicole infuocate
Le tue labbra due pesciolini che si strofinano fra loro
Un acciarino con la sua esca
Un macinino per le spezie
Le tue labbra due nastrini onorifici
Le tue labbra sono il carbone ardente su cui brucio i mei ricordi
E un’enorme pianta carnivora
Cresta di gallo
Tartina di frutta al mattino
Le tue labbra sono tartufo sanguinante
E un alveare d’estate
Le tue labbra sono un monogramma misterioso
Le tue labbra sono una barchetta verniciata di rosso
Le tue labbra sono una zuccheriera
Ma anche un campo di rosolacci sul quale siano state disposte delle statue
Le tue labbra sono un filatoio d’oro
Il fondo del mare un cratere sulla luna
Le tue labbra sono uno scrigno di perle
Un’ultima volontà sigillata
Razzo fiammeggiante
Molla d’orologio
Le tue labbra sono un’eclissi di luna
Un’eclissi di sole
Un’eclissi di venere e della terra
Le tue braccia sono le forbici con le quali recidi il mio sogno
Le tue braccia di ragno
Mentre le tue spalle fremono come un pavone
Le tue mani sono pezze gelate
Le tue mani sono boccioli
Le tue mani sono gocce di pioggia
Sopra seni che creano un mulinello vorticoso
I tuoi seni sono miraggi
…..
I tuoi seni sono un ciclone sotto cui si nascondono due fiamme rubino
I tuoi seni sono un nido di vespe
Un uccello assiderato
….
I tuoi seni sono due camelie fra le mani della notte
….
Il tuo ventre è un lampo globulare
…..
Una tempesta di mare il più triste degli scogli
…..
Specchio opaco e sera sottomarina
Uno stagno nel colmo di una notte di luna
…..
Le tue gambe sono lo scontro di due folgori
Di due spleen
Di due lentissimi fiumi
……
Sei come giorno che si fa notte che si fa giorno giorno che si fa miraggio
(Vitezval Nezval trad. Giuseppe Dierna )
Mi sono permesso qualche taglio nel testo, piuttosto prolisso, dove le metafore mi sembravano depotenziarsi, sfaldarsi, diventando un po’ prevedibili.
Un’altra versione dello stesso modello, facilmente ravvisabile, è opera di Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan: “ Sad eyed lady of the lowlands “, forse il suo testo più misterioso e suggestivo, apparso nell’album Blonde on Blonde, del 1968, con cui celebra la bellezza della sua prima moglie, la fotomodella Sara Leedlands ( da notare l’assonanza con il titolo ) che, al culmine del successo, sposò segretamente solo pochi giorni averla incontrata, da cui ebbe diversi figli e a cui restò sentimentalmente legato anche dopo la separazione.
Signora dagli occhi tristi delle vallate
Con la tua bocca di mercurio nei tempi missionari
ed i tuoi occhi come fumo e le tue preghiere come rime
e la tua croce d’argento e la tua voce come campane
oh, chi tra loro pensi potrebbe seppellirti?
Con le tue tasche finalmente ben protette
e le tue visioni di tram sull’erba
e la tua carne come seta ed il tuo viso come vetro
Chi tra loro pensi potrebbe trasportarti?
Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,
li lascio alla tua porta
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?
Con le tue lenzuola come metallo e la tua cintura come merletto
ed il tuo mazzo di carte senza il fante e l’asso
ed i tuoi vestiti da cantina ed il tuo viso scavato
Chi tra loro potrebbe mai pensare di ingannarti?
Con la tua silhouette quando la luce del sole si abbassa
nei tuoi occhi dove nuota la luce lunare,
e le tue canzoni scritte su scatole di fiammiferi ed i tuoi inni zingari
Chi tra loro vorrebbe cercare di impressionarti?
Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,
li lascio alla tua porta
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?
I re di Tiro con la loro lista dei condannati
stanno aspettando in fila per il loro bacio di geranio,
e tu non sapevi che sarebbe successo,
ma chi tra loro vuole veramente baciarti?
Con le fiamme della tua infanzia e la tua coperta di mezzanotte
ed i tuoi modi spagnoli e le medicine di tua madre
e la tua bocca da cowboy e le tue spine da coprifuoco
chi tra loro pensi potrebbe resisterti?
Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,
li lascio alla tua porta
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?
Oh, i fattori e gli uomini d’affari, hanno deciso tutti
di mostrarti gli angeli morti che erano soliti nascondere
Ma perchè ti hanno scelta per stare dalla loro parte?
Come hanno potuto scambiarti con un’altra?
Volevano che ti prendessi la colpa
ma col mare ai tuoi piedi ed il falso falso allarme,
e con il bimbo di un teppista stretto tra le tue braccia
Come avrebbero mai potuto convincerti?
Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,
li lascio alla tua porta
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?
Con il tuo ricordo su foglio di metallo di Cannery Row,
ed il tuo marito-rivista che un giorno dovette proprio andare
e la tua gentilezza che ora proprio non riesci a non mostrare
Chi tra loro pensi ti assumerebbe?
Ora te ne stai col tuo ladro, sei in parola con lui,
con il tuo medaglione sacro che le tue dita avvolgono
Ed il tuo viso di santa e la tua anima di spettro
Oh, chi tra loro pensi potrebbe distruggerti?
Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,
li lascio alla tua porta
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?
traduzione di Michele Murino
With your mercury mouth in the missionary times,
And your eyes like smoke and your prayers like
rhymes,
And your silver cross, and your voice like chimes,
Oh, who among them do they think could bury you?
With your pockets well protected at last,
And your streetcar visions which you place on the
grass,
And your flesh like silk, and your face like glass,
Who among them do they think could carry you?
Sad-eyed lady of the lowlands,
Where the sad-eyed prophet says that no man comes,
My warehouse eyes, my Arabian drums,
Should I leave them by your gate,
Or, sad-eyed lady, should I wait?
With your sheets like metal and your belt like lace,
And your deck of cards missing the jack and the ace,
And your basement clothes and your hollow face,
Who among them can think he could outguess you?
With your silhouette when the sunlight dims
Into your eyes where the moonlight swims,
And your match-book songs and your gypsy hymns,
Who among them would try to impress you?
Sad-eyed lady of the lowlands,
Where the sad-eyed prophet says that no man comes,
My warehouse eyes, my Arabian drums,
Should I leave them by your gate,
Or, sad-eyed lady, should I wait?
The kings of Tyrus with their convict list
Are waiting in line for their geranium kiss,
And you wouldn’t know it would happen like this,
But who among them really wants just to kiss you?
With your childhood flames on your midnight rug,
And your Spanish manners and your mother’s drugs,
And your cowboy mouth and your curfew plugs,
Who among them do you think could resist you?
Sad-eyed lady of the lowlands,
Where the sad-eyed prophet says that no man comes,
My warehouse eyes, my Arabian drums,
Should I leave them by your gate,
Or, sad-eyed lady, should I wait?
Oh, the farmers and the businessmen, they all did
decide
To show you the dead angels that they used to hide.
But why did they pick you to sympathize with their
side?
How could they ever mistake you
They wished you’d accepted the blame for the farm,
But with the sea at your feet and the phony false
alarm,
And with the child of a hoodlum wrapped up in your
arms,
How could they ever, ever persuade you?
Sad-eyed lady of the lowlands,
Where the sad-eyed prophet says that no man comes,
My warehouse eyes, my Arabian drums,
Should I leave them by your gate,
Or, sad-eyed lady, should I wait?
With your sheet-metal memory of Cannery Row,
And your magazine-husband who one day just had to
go,
And your gentleness now, which you just can’t help
but show,
Who among them do you think would employ you?
Now you stand with your thief, you’re on his parole
With your holy medallion which your fingertips fold,
And your saintlike face and your ghostlike soul,
Oh, who among them do you think could destroy you
Sad-eyed lady of the lowlands,
Where the sad-eyed prophet says that no man comes,
My warehouse eyes, my Arabian drums,
Should I leave them by your gate,
Or, sad-eyed lady, should I wait?
Vorrei enucleare solo la misteriosa tensione semantica che emana dal primo verso:
Con la tua bocca di mercurio nei tempi missionari
La lucentezza e l’inafferrabilità del mercurio, come le labbra dell’amata, che non si posseggono mai abbastanza, e il tempo dell’innamoramento, in cui si emigra in un continente straniero, tentando di convertirlo, immolandosi all’altro…ma sono solo mie interpretazioni soggettive.
Ed ecco la mia versione, postremo dopo cotanto senno:
L’Angelo prigioniero
La mia donna dai capelli di cielo spogliato e di bionde malinconie d’eterno
Dallo sguardo di Paradiso violato e di preghiera d’anime perdute
Dallo sguardo di silenzio di violini sepolti e d’immensa calamita celeste
La mia donna dal sorriso di vicinanza degli Dei
Dall’anima di cattedrale di brezza e di primavera suicida
Dall’anima di profumo d’addio incessante e di frontiera proibita
Dai pensieri di frantumi d’aurora, di cieli divelti e notti smantellate
Dalle parole di sentieri dell’Eden
Dal corpo di riva sconosciuta
Dal corpo di altare profanato e di vertigine celeste
La mia donna dal corpo di sorgente dell’estasi
Dai baci di cieli dischiusi, dai baci di silenzio degli Dei
Dalle carezze di specchi a perdifiato e di stanze confuse nell’azzurro
La mia donna dal respiro di rifugio della quiete
Dalle dolcezze di madonna pensierosa
Dai silenzi di giardino segreto e d’antiche cerimonie
La mia donna dal dolore di assenza impossibile e di giuramento tradito
Dal dolore di finestre chiuse per sempre in un sogno di Dei in esilio
Dalla tristezza d’usignolo rapito, dalla tristezza d’arpa dimenticata fra le rocce
La mia donna dalle mani di lune bambine che strappano le radici del pianto
La mia donna dai gesti di musica e di specchio
Dalla voce di verande di luce dell’infanzia e d’oscuro miele del passato
La mia donna dalle parole di balaustre di sogno e d’immenso ripostiglio azzurro
La mia donna dagli occhi di lontane avemarie e di calme profondità di flauto
Dagli occhi di ogive marine sull’eterno e di misteriosi confini celesti
Dagli occhi pieni di lacrime del Paradiso
La mia donna dal volto d’angelo prigioniero
Dal volto d’ombra divina in uno squarcio del tempo e di brezza che ride nel polline dell’addio
La mia donna dalle labbra d’uragano immobile, dalle labbra di dolce rifugio dell’universo e di eclissi dell’enigma
La mia donna dal profilo di sorgente della nostalgia
Dai baci di precipizio celeste e di prigioni spalancate al vento
Dai baci di morte assassinata che sorride e di sospiri di angeli che si svenano
La mia donna dal sorriso di folle volo di rondini, dal sorriso di segreto del tramonto
La mia donna dai silenzi di navate deserte e di sera d’antiche preghiere
Dai silenzi di culla innevata
Dall’anima di antiche porcellane, dall’anima di specchio delle origini e di chiarore nelle tenebre
Dal passo di delirio in piena luce
La mia donna dai sogni di statue che sorridono e chiudono le uscite del Paradiso
Dai sogni di azzurre sale di Mozart e di scalinate dell’ultimo istante smisurato
Dai sogni di orfanotrofi degli angeli e di tremante capigliatura d’aurora in singhiozzi,
dai sogni di oscure erbe dell’eterno
La mia donna dalla lontananza di cielo affamato di stelle e di sguardi atterriti di vento
Dalla lontananza di lune addormentate fra i marmi della fine
La mia donna dall’assenza piena di spettri che bisbigliano
Dall’assenza di mura che gridano e di notte che precipita stritolando
Qui posso solo mettere in luce la mia volontà di sublimare in senso mistico anagogico la fisicità per me eccessiva delle immagini bretoniane.

A Vienna ci sono dieci ragazze,/ una spalla dove singhiozza la morte
Il genio poetico di Federico Garcia Lorca è talmente grande che è impossibile compendiarne in poco spazio caratteri e ascendenze, qui mi limito a presentare una delle poesie conclusive dell’opera che sancisce la sua conversione al surrealismo, “Poeta a nuova York”, per me una delle vette della poesia universale:
Piccolo valzer viennese
A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove singhiozza la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’e’ un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate.
Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!
Prendi questo valzer con la bocca chiusa.
Questo valzer, questo valzer, questo valzer,
di sì, di morte e di cognac
che si bagna la coda nel mare.
Io ti amo, ti amo, ti amo
con la poltrona e con il libro morto,
nel malinconico corridoio,
nell’oscura soffitta del giglio,
nel nostro letto della luna,
nella danza che sogna la tartaruga.
Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!
Prendi questo valzer dalla cintura spezzata.
A Vienna ci sono quattro specchi,
dove giocano la tua bocca e gli echi.
C’è una morte per pianoforte
che tinge d’azzurro i ragazzi.
Ci sono mendicanti sui terrazzi.
E fresche ghirlande di pianto.
Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!
Prendi questo valzer che spira fra le mie braccia.
Perchè io ti amo, ti amo, amore mio,
nella soffitta dove giocano i bambini,
sognando vecchie luci d’Ungheria
nel mormorio di una sera mite,
vedendo agnelli e gigli di neve
nell’oscuro silenzio delle tue tempie.
Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!
Prendi questo valzer del “Ti amo per sempre”.
A Vienna ballerò con te
con una maschera di testa di fiume.
Guarda queste mie rive di giacinti!
Lascerò la mia bocca tra le tue gambe,
la mia anima in foto e fiordalisi,
e nelle onde oscure del tuo passo io voglio,
amore mio, amore mio, lasciare,
violino e sepolcro, i nastri del valzer.
Ineguagliabile la maestria iconico-verbale con cui il rimpianto dell’amore perduto viene sublimato in sogno e visione di nostalgia per la cultura in crisi e trasfigurata in esoterica ansia di liberazione e salvezza universale.
Concludo con un altro esponente del surrealismo spagnolo, Gerado Diego:
ROSA MISTICA
Era lei
E non lo sapeva nessuno
Ma quando passava
Le piante s’inginocchiavano
Annidava nei suoi occhi
L’avemaria
S’intrecciavano nelle sue chiome
Le litanie
Era lei era lei
Svenni nelle sue mani
Come una foglia morta
Le sue mani ogivali
Che davano da mangiare alle stelle
Volavano nell’aria
Romanze senza suono
Nel suo guanciale di passi
Rimasi addormentato
Gerardo Diego
In questo testo trovo particolarmente significativa l’integrazione del congegno frastico surrealista, con le sue metafore eteroclite e sovrapposte, ad uno scenario emozionale inopinato, quello stilnovista, di cui permangono tracce ideali e sfumature simboliche.
Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010.
Come esempio di post-surrealismo ultroneo pubblico qui una poesia inviatami stamane da
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27288
Adeodato Piazza Nicolai
IL BOSONE DI GIO.LIN
Nel vasto labirinto svizzero del CERN
hanno scoperto il bosone di Gio.Lin.
(Non è una bidonata fake news)
la novella particella sub-sub-atominca:
invisibile indolore inodore ma saggia
ci permette d’assaggiare una brezza
mai sorseggiata prima. Sembra il profumo
di pane azzimato non azzerato dal tempo-
spazio ottimale e/o relativo del cosmo.
[…]
Non domina il nulla e sopratutto il vuoto
già-disarmato e disfatto. Non è tracotante,
non è il ghiaccio bollente/lucente
di un’alba primordiale. Non infetta nessuno
eccetto i potenti.
I poveri si ciberanno di questa manna mirabolante.
[…]
Ringraziamo Madre Gea, rispettiamola con umiltà,
con magna dolcezza mentre vivo l’acerba amarezza
nell’annusare la sua assurda disfatta per mano
dell’umana arroganza vigliacca e prepotente, senza
patente, senza il coraggio con cui frenare la loro
perversa avidità …
[…]
Sia benedetta l’umiltà dell’ignoranza e dell’innocenza
di ogni bimbo/a cosparsi su questa misera terra dove
forse crescerà l’erba mai più sfalciata da uomo e donna …
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, domenica 26-11-2071, ore 6:09
Leggiamo una poesia, che definirei post-surrealistica ultronea,
di Petr Král:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27289
Sono qui
Quando dietro la silhouette maturata del passante
avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.
(da Massiccio e crepacci, 2004 – trad. di Antonio Parente)
Scrive Lacan: «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.
Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]
1] J. Lacan Ecrits, 1966,Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293
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Siccome qui si è dato fondo alla metafora, vorrei dire, ma non è questione di surrealismo o altro, che per mio gusto preferisco quando la metafora richiama – o “evoca” o mostra – aspetti riconoscibili della realtà, anche se non riconoscibili a tutti, anzi meglio, e meglio ancora se sorprendenti.
L’osservazione riportata da Linguaglossa, di Lacan, mette in chiaro quel che ne penso quando scrive: “Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto”; chiaro, anche se mi andrebbe di dire, parafrasando, “perdendomici come soggetto”. Infatti l’intento di Breton e dei surrealisti era proprio quello di disperdere e confondere l’attenzione razionale del lettore. Se non che, poi, ne deriva soltanto un particolare gusto estetizzante. Non so cosa ne pensi Carlo Livia in proposito.
“la tua bocca da cowboy”, di Bob Dylan, a me dice più di tanti rimandi significanti o simbolici. Come anche “Annidava nei suoi occhi / L’avemaria”, di Gerardo Diego.
Del surrealismo amo il ripiegamento nell’inconscio, lo scavo liberatorio, in questo senso davvero rivoluzionario, che ci hanno offerto visivamente Buñuel, Dalì e Magritte. Ho anche molto amato le poesie di Giorgio De Chirico.
Ringrazio Carlo Livia, autorevolissimo interprete del surrealismo, per questo interessantissimo articolo: mi è servito a capire ulteriormente la mia difficoltà nel ritrovarmi in sintonia con questa tendenza, pur avendoli tutti tanto amati.
Vítězslav Nezval
Grazie, Antonio.
Con chi parla il poeta?
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(…)
Ma con chi parla il poeta
Nell’affievolita coscienza della lingua?
«Parla con il niente». E’ la voce aspra di Beckett.
«Con il niente…Perché con il niente..?»
Geme il poeta lirico.
«Perché niente è più reale del niente».
Sbanda senza nessun appoggio il poeta incosciente dell’Io frantumato.
Ora Beckett affonda la sua lama.
Sferra il colpo:«Tu non possiedi la coscienza del mio ‘niente’.
Tu sei poeta lirico. E fra te stesso e la verità del mondo
scegli sempre te stesso».
(…)
Mandel’stam torna dal regno delle ombre.
Fissa negli occhi Beckett.
Volge lo sguardo sul poeta lirico:
«Mineralogia. Fisiologia. Cristallografia. Trasformabilità.
Convertibilità. Vengono tutte prima del verso.
Che il poeta senta la forma interna della Parola.
Che possieda la coscienza dell’artifex. La biologia del tempo.
Il suono chiuso nella pietra. L’ansia del vuoto.
Il sentimento dell’eternità.
Se il poeta domina lo spazio vince il tempo. Entra nella eternità.
Ma dopo cento anni qui risento parole-segni. Parole-simboli.
Parole-oggetto… Il significante prima del significato.
Il poeta è smisurato. Barcolla nel regno delle piccole misure
Meglio sostare nell’impero delle ombre».
Nota.
Henri Cartier-Bresson, a Parigi, nel 1954, fotografa Samuel Beckett, in uno
studio con una libreria sullo sfondo.
In questo celebre ritratto, l’autore di ‘Aspettando Godot’ è sulla destra della
inquadratura quasi pronto a sgusciare via dall’immagine.
La pelle di Beckett nel ritratto di Bresson è una carta geografica.
Capelli ispidi. Occhi inquieti. Penetranti.
Beckett sembra un rapace, un’aquila. Appare pronto a spiccare il volo
per piombare su una preda che all’osservatore non è dato di sapere.
Nei miei versi ho immaginato che la preda possa essere il poeta lirico.
Il Beckett di questa inquadratura mi ricorda sempre il Mandel’stam che si scaglia contro i simbolisti russi, a cominciare da Blok.
Carlo Livia propone un lavoro di solida cultura letteraria.
Gino Rago
Caro Livia,
mi fa piacere che hai scelto la traduzione del mio amico Giuseppe Dierna, di cui Ti consiglio la lettura (se non l’hai già fatta) di un suo straordinario saggio ” MAGHI MERAVIGLIOSI”, ed. Voland, 2012. (in cui riprende il filo rosso in mano dal saggio ripelliniano “LETTERATURA COME ITINERARIO DEL MERAVIGLIOSO”).
Qui, Dierna, sono analizza gli intricati e intricanti i rapporti, raffronti e distinzioni fra il surrealismo francese e quello ceco(slovacco) (nascita, sviluippo e loro morte): i motivi della loro rottura, il superamento del surrealismo ceco in tanti aspetti del surrealismo non solo francese, ma mondiale… insomma il miglior studio che si possa trovare. oggi.
Ripellino già affrontò da pioniere geniale (24 anni!) nel suo introvabile “STORIA DELLA POESIA CECA CONTEMPORANEA”, Le Edizioni D’ARGO, Roma, 1950, tutta la problematica della poesia ceca e di riflesso dell’intera situazione della poesia europea. Dierna, allievo di Ripellino, va più a fondo nelle (sue) ricerche (i tempi e gli strumenti sono completamente diversi)… partendo già dalla prima pagina del viaggio del futurista Marinetti a Praga a fine anno 1921 (all’epoca “futurismo italiano in Boemia).Ti informo che in questo blog pubblicaila mia traduzione del poema surrealista di Nezval : “L BECCHINO ASSOLUTO”, definito dallo stesso Ripellino: ” un dei vertici del surrealismo mondiale”.
A.S.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27410
Caro Tosi, effettivamente il rischio di questo, come di qualunque altro atteggiamento espressivo è di vincolarsi ed estinguersi in un manierismo formalista, estetizzante che si limita a riformulare e sovvertire solo gli elementi di superficie. Ma come può la lingua poetica diventare evocatrice, più che informatrice, per riprendere il pensiero di Derrida citato da Linguaglossa? La prospettiva del surrealismo è un tentativo di abbandonare i “sentieri interrotti” delle strutture e pratiche linguistiche convenzionali e fossilizzate, non identificandovi le componenti più vitali della psiche, incrementandone il dinamismo, accogliendone il mistero e l’inafferrabilità, lasciandosene possedere anzichè dominandole; insomma è quello che io definisco un atteggiamento mistico, che non significa necessariamente metafisico o superstizioso. Ma per quanto riguarda più in particolare la risultanza estetica, credo che sia un’indefinibile sensazione di apertura, di liberazione, una vertigine quasi fisica, molto più emotiva che razionale.
Per ringraziarti dell’attenzione ti dedico un’altra poesia di Lorca, in cui i fasti verbali surrealisti sono strumentali alla denuncia della catastrofe ecologica, che dal ’29, anno della stesura, ad oggi è purtroppo sempre più drammatica.
L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che guazzano nelle acque putride.
L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le lische
tuberose di angoscia disegnata.
L’aurora viene e nessuno la riceve in bocca
perché non c’è domani né speranza possibile.
A volte le monete in sciami furiosi
trapassano e divorano bambini abbandonati.
I primi che escono capiscono
con le loro ossa
che non vi saranno paradiso
né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi
nei giochi senz’arte, in sudori infruttuosi.
La luce è sepolta con catene e rumori
in impudica sfida di scienza senza radici.
Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.
F. G. Lorca
Grazie Antonio, ho letto e apprezzato le tue traduzioni e le tue analisi dei poeti slavi; purtroppo, non conoscendo le lingue, mi limito alle traduzioni, ma sono da sempre un grande ammiratore della saggistica di Ripellino, da molti anni una delle mie letture preferite.
Grazie, Carlo, per questa poesia di Garcìa Lorca. Dice tutto nel migliore dei modi e non ha quasi mistero. Di forte resa “emotiva”, come dici tu, e l’aspetto razionale conta meno.
Non credo che essere “evocativi” abbia a che fare col dominare o lasciarsi possedere… ma qui mi imbroglio, è evidente che non so fare il critico. Evocare è una bella parola, che sento vera e attuale; a me però non fa pensare a cose indeterminate o solo indicate, piuttosto dovrebbe servire a migliorare la vista, precisare i contorni; perché trovo strano che un poeta possa ammettere che esiste qualcosa di inesprimibile… se non riesco a dirlo, io non ci dormo la notte!
“(…) la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.”
E’ questo, per me, il passaggio centrale di tutta la pagina de L’Ombra delle
Parole di ieri e di oggi. E’ il vero nodo da sciogliere – benissimo ha fatto Giorgio Linguaglossa a ri-proporlo – per affrancare la parola poetica da quella, liquida, aeriformizzata, del grigiore imperante della koinè massmediale che ha inondato la narrativa, la prosa, la prosa d’arte, la stessa poesia. Sulla differenza fra “informare” ed “evocare” Giorgio Linguaglossa
ci interpella, ci invita a riflettere…
Infatti, la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Il lavoro sulla parola non cambierà la società. Ma la poesia può mutare
la relazione tra le “cose” e le “parole” in maniera tale che una nuova immagine del mondo possa nascere.
Gino Rago
Pig Song
1. This is what you changed me to:
2. a greypink vegetable with slug
3. eyes, buttock
4. incarnate, spreading like a slow turnip,
5. a skin you stuff so you may feed
6. in your turn, a stinking wartof flesh, a large tuber
7. of blood which munches
8. and bloats. Very well then. Meanwhile
9. I have the sky, which is only half
10. caged, I have my weed corners,
11. I keep myself busy, singing
12. my song of roots and noses,
13. my song of dung. Madame,
14. this song offends you, these grunts
15. which you find oppressively sexual,
16. mistaking simple greed for lust.
17. I am yours. If you feed me garbage,
18. I will sing a song of garbage.
19. This is a hymn.
© Margaret Atwood. Selected Poems 1965-1975. Houghton Mifflin Company, 1976.
Se ho il consenso della Redazione de L’Ombra delle Parole invito il nostro
ottimo traduttore ufficiale, Steven Grieco-Rathgeb, a restituirci i 19 versi
della Atwood in italiano. Grazie.
GR
Quando Breton chiese a Freud di contribuire ad una antologia dei sogni, Freud rispose così:
«una pura e semplice raccolta di sogni senza le associazioni del sognatore e senza che io conosca le circostanze nelle quali i sogni si svolsero, non mi dice niente, e non saprei immaginare che cosa potrebbe aver da dire per chicchessia».1]
Non è soltanto significativo il concetto del sogno ma anche l’impiego che se ne fa in poesia, e l’impiego non può che essere opera della coscienza, cioè della cultura e della poetica del tempo. In tal senso, l’uso del sogno nella nuova ontologia estetica e nella nuova poesia tratta sempre il concetto di un sogno de-simbolizzato, ridotto ad icona, ad involucro, a simulacro, come avviene, ad esempio, in modo manifesto nella poesia di Mario Gabriele…
Ecco cosa scrivevo in un commento alla poesia di un altro poeta ceco, Jachim Topol: https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/09/antologia-bilingue-della-poesia-ceca-contemporanea-a-cura-di-antonio-parente-sembra-che-qui-la-chiamassero-neve-poeti-cechi-contemporanei-milano-mimesis-hebenon-2005-pp-228-e-1600/
Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.
Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…
(Michal Ajvaz)
Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.
1] cit. da ernst H, Gombrich, La psicoanalisi e i simboli, in psicoanalisi e estetica, Firenze, Il Saggiatore, 1975 p. 83.
Una poesia di Karel Siktanc
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27419
Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso
E me stessa mando altrove
Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi
E intorno alla bara cantano qua e là
Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio
che non reggerebbe più la partitura
Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa
E adesso sarà solo altrimenti
Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere
rimbombano per via Sperone
Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri
risplende il gioiello del mio dispiacere
Apro
Chiudo a chiave
e fa freddo dappertutto E buio
È la santa Angoscia già dal principio del mondo
Una poesia di Milan Napravnik
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ALL’IMBRUNIRE
È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso
Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita
Una poesia di Jachym Topol:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27421
Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente
(Martedì ci sarà la guerra, 1992)
poesia di Michal Ajvaz
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Petřín
Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.
(In E i ligli tarri, 2002)
Due poesie di Petr Kral
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Edward Thomas (1878-1917)
I
Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido
II
Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.
(Per l’angelo, 2000)
Che meraviglia per me, le corde di Petr Kral. Ecco, “E così da qualche parte / qualcosa è redenta senza grido”, se non è evocativo questo verso…
Una poesia di Michal Ajvaz
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Turisti
Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.
(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)
Una poesia di Michal Ajvaz
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L’uccello
Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.
(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)
Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer
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Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
di un autore completamente inedito presento qui, in anteprima, alcune sue poesie, si chiama Carlo Del Nero, che presto presenteremo sull’Ombra:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/26/carlo-livia-lamore-ai-tempi-del-mistero-breve-excursus-sulla-poesia-europea-del-surrealismo-testi-di-gerardo-diego-paul-celan-federico-garcia-lorcavitezval-nezval/comment-page-1/#comment-27431
La neve di per sé
è educata,
si appoggia su altra neve
con estrema leggerezza.
La opprimono i nostri passi
che lasciano orme
ansiose di andare.
La neve ha un suono ovattato
sotto i nostri scarponi,
quasi un lamento
di una musicalità che sazia.
Si appesantisce, perde il candore,
non è più lei,
solo passi.
È venuta dal cielo,
ha attraversato i nostri sogni
e si è posata su uomini e cose,
ma nel morire
emette un canto
che vale la vita.
*
E se dovessimo accapigliarci, allora
tu regalami il fiore più fragile
e prometti che
prima che appassisca
avremo fatto pace.
*
Dalla collina
guardo i brillantini della città
di notte,
e mi accorgo che
l’uomo
è tutto
far concorrenza al cielo.
*
Avrei forse potuto vivere di più,
ma ho pensato che infondo fosse
meno volgare
scrivere parole sulla vita.
*
Il mio corpo
appena forgiato
era secco
come stelo di rosa, e
aveva spine che ferivano
per difendere un fiore
non ancora sbocciato.
Avrei potuto amarmi di più.
*
Se mi presterai una notte
te la renderò
all’alba
trasformata in ricordo
d’amore e
tornerai
a regalarne altre
pur sapendo che
non saranno più le stesse.
*
Gli uccelli venendo meno al patto
hanno rubato le ciliegie
come fosse il giardino del cacciatore.
Non puoi tendere la mano
e dar fiducia a chi ha buone ali
per spiccare il volo.
La parola del diavolo è più fidata
di quella dei poeti.
*
Qualcuno, in qualche posto,
non crede alla felicità.
Nessuno può dubitare del dolore.
Sul confine c’è la terra perduta
dei sacerdoti della malinconia.
*
Venisse chiesto
prima di nascere
se siamo disposti
a morire.
*
La cosa più poetica
del natale
era
riporre il cielo.
Scollato dal muro,
dopo i magi,
piegato e messo via
anche un po’ strappato
(il cielo)
per l’anno prossimo.
*
Quella volta che ho dato scacco
al Re
mangiando la Regina,
e com’era saporita e come
mi adorava.
Il Re non era cattivo
e non meritava lo scacco,
ma non meritava neanche la Regina.
E comunque non si accorse di nulla,
aveva altro da fare,
così, nonostante lo scacco,
non diventò matto.
*
Chi racconterà la storia
dello yo-yo,
col suo andare e venire,
sprofondando e riemergendo
dal nulla
come coraggioso,
tenuto in vita
dalla mano del giocoliere
come codardo,
destinato ad una scatola
di giochi passati
come umano.
Voglio salutare Carlo Del Nero, che leggo qui per la prima volta, perché a quanto sembra sta percorrendo la via per me difficilissima del “messaggio” positivo. E’ buffo come il linguaggio da solo a volte possa bastare per trasmettere questo significato, ma dargli anche dei contenuti, be’, è cosa che fino ad oggi era riservata solo ai preti.
Però: mai un verso scontato, orecchiato, prevedibile… complimenti.
grazie
ecco qua uno dei motivi per cui non ho mai pubblicato nulla nonostante la mia non più tenera età e le molte cose scritte: mi imbarazzano i complimenti almeno quanto mi rattristano le critiche negative.
dunque grazie sottovoce
.
Vorrei dare anch’io un messaggio positivo, con un frammento frammentato, surreale ma forse troppo poco surrealista:
Prendiamoci una pausa, dissi, e fumiamo dell’hashis.
Detto in questo modo, qualsiasi carabiniere si preoccuperebbe
per noi, per la salute e tutto il resto. Come un padre.
Invece ci facemmo una canna.
Kabel Siktanc ?
Non conosco questo poeta, ma conosco Karel Siktank .
—
Per favore trascrivete i nomi e i cognomi dei poeti correttamente.
(basterebbe che Voi consultaste internet)
grazie a.s.
Grazie a Gino Rago per l’attenzione e a Giorgio, anche per la poesia di Del Nero che mi sembra molto promettente.
L’incapacità di Freud di valutare positivamente il surrealismo risiede principalmente nella sua personalità fondamentalmente illuministica, logocentrica, distante da ogni istanza mistica ( Jung ), o relativistica: non ha mai citato l’opera di Nietzsche, malgrado ne fosse quasi certamente a conoscenza e fortemente debitore per molti aspetti, ma non avrebbe mai sottoscritto un pensiero come: ” Non ci sono più fatti ma solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione “, né che l’istanza morale non debba ineluttabilmente normare e selezionare gli impulsi dell’Es, come farà Lacan, per il quale la psicosi non si scatena dal debordare irrefrenabile dell’inconscio, ma al contrario dal suo essere soffocato e paralizzato dalla censura del Super-io. E soprattutto non poteva concepire una verità estrinseca al linguaggio, intuibile ma inesprimibile, che è il paradosso intorno a cui ruota tutta la poesia di matrice i rrazionalista, nelle sue infinite manifestazioni.
Breton, al contrario aveva una personalità complessa e contraddittoria, anarchica e libertaria, ma non del tutto irreligiosa, con un cote’ mistico che gli faceva apprezzare esoterismi e magie, o gli scritti di Meister Eckart, che considerava uno dei suoi maestri.
Grazie a Carlo Livia.
In particolare mi sono interessati i primi due paragrafi, decisamente sintetici e ardui da interpretare – ma chiarissimi, una volta che ci si è presi il tempo di leggerli con calma.
Mi hanno indicibilmente attirato, oltre che per la qualità linguistica, proprio per la tematica: ossia il rapporto tra l’arte/la poesia (che forse non sono concetti tra loro assimilabili – e in questo senso, probabilmente, è possibile evidenziare un ulteriore merito/demerito del surrealismo, ossia: essere stato un movimento che accomunava e mescolava le arti con la poesia) e il potere. Il Potere. Concetto difficilissimo da definire – ancor più del concetto di Poesia: probabilmente perché ogni Poeta può farsi portatore di una sua propria Idea di Poesia, ma ogni Poeta deve necessariamente confrontarsi, nello stesso tempo, con il Potere, il quale non è soggettivo, ma, in un certo senso, uguale per tutti. E ciò deve essere fatto perché è solo il Potere che gli assicura, al Poeta, quell’esistenza di cui si nutre – e di cui nutre la propria opera – e che gli promette la trasmissione ai posteri. Il classico Poeta, in un certo modo, insomma, è forse colui che riesce a percepire, servire, rappresentare, fondersi, essere, il Potere stesso, pur volendo nello stesso tempo ribaltarlo.
Ringrazio, oltre che per il lavoro che si svolge in questa rivista – qui rappresentato dall’articolo di Carlo Livia -, anche per l’opportunità di poter interloquire e dialogare e conversare su questi argomenti.
Il punto, caro Livia, che Freud, Lacan e Jung hanno fallito davanti allo specchio… a uno specchio qualsiasi, al loro proprio specchio, al contrario di Meister Eckart (vero e proprio spartiacque nella cultura non solo germanica, ma nella mistica mondiale; ma sono da citare altri mitici tedeschi, come Suso, Silesieus, ecc.), di Nietsche. che diviene egli stesso uno specchio con cui noi ancora dobbiamo fare i conti: questo lo sapeva bene il poeta cecomoravo Otokar Brezina (1868-1929) oggetto della mia tesi.
Ma a questo punto l’argomento richiede centinaia di pagine..
caro Antonio Sagredo,
che significa “fallimento” di Freud e Lacan?, e che c’entrano i due psicanalisti nominati con Meister Eckart? – io mi sforzo di tenere distinta la nuova poesia da ogni misticismo…
Significa che Antonio Sagredo (inconsciamente) è uno starets (o starec)…
Meister Eckart era un poeta eccellente, anche se mistico. La poesia mistica è servita a Freud e a Lacan e specie a Jung per risolvere e spiegare i temi onirici che man mano a loro si presentavano… fra tante cose che devo ricordare che c’è più sesso e sensualità nella poesia mistica che in una poesia dichiaratamente e esplicitamente erotica.
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Di “tenere distinta la nuova poesia da ogni misticismo ” è altra cosa, ed nessuno è contro questa distinzione, specie Sagredo, specie se al misticismo si danno connotati soltanto negativi.
Ma è pur vero che dozzinalmente e frequentemente si fa uso del frammnetismo fino a tingerlo di misticismo.
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Quanto al Margiotta che mi definisce uno “starec”, non mi dispiace, poiché lo starec è persona religiosa al massimo grado e fedele ai suoi principi di fede. Ma detto da Margiotta mi pare troppo, perché presuppone un certo pressapochismo culturale; mi spiego: se Margiotta fosse uno studioso della chiesa greco-otodossa russa e orientale e mi definisse tale, ne sarei orgoglioso, poiché la sua definizione presupporrebbe la conoscenza di una cultura non soltanto profondamente religiosa, ma filologicamente accreditata da studi, ricerche, ecc. – purtroppo Margiotta non è studioso di tale disciplina, e devo dunque interpretare questa sua definizione come una battuta insensata, e fuori luogo.
Questo detto per sommi capi. Si legga Dostoevskij o Florenskij, e altro.
—————–
Sarebbe il caso invece che il Margiotta come tanti altri commentassero i miei versi che sono sparsi ovunque in questo blog, come il grano, pronto a germogliare e a crescere sempre che i critici fossero all’altezza di commentarli.
Se poi davvero fossero all’altezza gli stessi critici crescerebbero di autostima.
grazie