
la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico, una direzione di ricerca
gino rago
20 agosto 2017
Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione), sensa dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica) se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico. e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti…
Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi”
di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatta appariva a quella contemporanea…
Temo che la “critica letteraria” abbia lo stesso problema oggi di fronte alla nuova poesia… È come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela”
d’un Lucio Fontana….
Giorgio Linguaglossa
caro Gino,
hai colto il punto centrale: la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico. Non è facile costruirsi un nuovo linguaggio critico, ma penso che esso dovrà essere fatto con gli stessi materiali con cui è stata fatta la nuova poesia. la poesia della nuova ontologia estetica richiede il nuovo linguaggio critico, ma non è cosa facile né automatica, e forse un nuovo linguaggio critico non vedrà mai la luce perché non è nell’interesse dei gruppi editoriali e istituzionali favorire e avallare un nuovo linguaggio critico; del resto, io stesso dico sempre che non sono un critico e né un ermeneuta, non so proprio cosa voglia dire fare dell’ermeneutica, tento di fare della critica ma non sono affatto sicuro di riuscirci, consapevole dei miei limiti e delle mie possibilità.
Un nuovo linguaggio ermeneutico deve prendere tutto da tutto, proprio come fa la poesia della nuova fenomenologia del poetico, come fa la poetry kitchen che prende tutto da tutto, deve saper gettare a mare gli antiquati linguaggi della critica accademica, la vecchia terminologia stilistica. Un nuovo linguaggio deve essere ancipite, eclettico, ellittico, deve saper anche improvvisare, deve saper trattare i linguaggi di disparati campi, non escluso quello del giornalismo, quello filosofico e quello della moda, deve essere un conglomerato di esperienze, di polinomi frastici, un concentrato, una sovrapposizione di altri linguaggi, di iconologie, di asimmetrie, deve saper parafrasare, dialettizzare, deve procedere a zig zag, deve essere rapido, infungibile, inquieto…
Ecco, ad esempio, quello che scrivevo a proposito della poesia di Kjell Espmark:
” Le parole di Espmark sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.
Nella poesia di Kjell Espmark ci trovi in trasparenza frasari che riecheggiano frasi un tempo già pronunciate, già scritte, magari nella Bibbia o in qualche cronaca dell’impero cinese. L’ingresso in questi grattacieli del fabbricato leggero, le novelle piramidi del nostro tempo, è fatto di effimero e di transeunte, di transitante nel Nihil, ponte di corda steso sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà. Ecco, la poesia di Kjell Espmark ha la solidità e la leggerezza di un ponte di corda. L’ingresso, dicevo, in questo fabbricato di frasari nobili e non-nobili è un tortuoso cunicolo che ci porta all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale. Qui, ci si muove a tentoni, non si vede granché, non c’è luce, non si percepisce se la via scelta sia quella giusta, ma l’attraversamento di essa è per un poeta un obbligo non eludibile. Bisogna varcare quell’ingresso e inoltrarsi. La poesia di Kjell Espmark si propone questo compito. È un tragitto fra intervalli di buio durante i quali il tempo sembra sospeso, dove la «parola» si è volatilizzata, portandosi via con sé «una patria incompleta», ed è diventata invulnerabile al tempo che la vuole soccombente. Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:
Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –
Questo «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Um-Weg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.”
Donatella Costantina Giancaspero
POESIA.
Un mio contributo alla Nuova Ontologia Estetica
Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.
Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.
Giorgio Linguaglossa
Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa alla poesia di Donatella Costantina Giancaspero
Ci sono delle «strade» nell’inconscio che non sono state «mai più percorse», che hanno le loro buone «ragioni», sono «esse stesse» che interdicono «il passo». È il passato che incombe minaccioso sul presente dell’io. Qui siamo nell’ambito di dominio dell’inconscio e della correlativa funzione dell’io. L’Io non è più il sovrano assoluto dell’io penso cartesiano non è la sintesi dei miei pensieri e delle mie percezioni, ma è Altro. L’Io è stato esautorato delle proprie istanze, dei propri poteri illusori, del proprio scettro; l’Io è ciò che resta dell’io, ciò che non sa dell’io. L’Io, dirà Lacan nella sua lettura dell’Entwurf freudiano nel seminario L’etica della psicoanalisi, «l’io è l’inconscio in funzione». Da un lato obliterato dall’inconscio, dall’altro suo prolungamento nella realtà.
Si tratta di un’istanza formalmente rappresentativa, funzionante secondo una dialettica che articola le Wortvorstellung alle Sachevorstellung, coinvolta in un processo che associa linguaggio e rappresentazione. E qui sta lo snodo che segna il passaggio in Lacan alla definizione di «soggetto dell’inconscio» come effetto dell’«azione letale» del significante, una volta introdotto nel campo dell’Altro come luogo della Parola. Questo «tu» al quale ciò che resta dell’io si rivolge, è un «tu» di incantamento, è un fantasma che ci giunge dall’al di là dell’istanza della coscienza; ciò che per noi ha a che fare con il «fantasma», quel «Qualcuno», che non sai se sia io o una parte dell’io o altro e altro dell’Altro.
«Qualcuno», questo indeterminativo, questo misterioso ospite, ha risposto ed ha preso il posto dell’io. Qualcuno ci tratta da imputati: – Io! Che cosa è questo Io? Io tutto solo, cos’è? – se non un Io di sottrazione, un Io di ricusazione, un Io di no, non per me, io non sono io, io è un altro. Così è fin dalla sua origine, l’Io, in quanto si ribella, si sottrae, espelle anche se stesso con un movimento all’incontrario; l’Io come difesa, come Io che prima di tutto rigetta e ricusa, e che lungi dall’annunciare, disarma, vaga nella zona anestetizzata dell’esistenza. È l’Io nell’esperienza anestetizzata del proprio sorgere e che fa esperienza della propria disparizione.
L’inconscio non è l’inconoscibile, non è l’indicibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni, si manifesta in poesia e il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficie ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più intimo essere.
«Le ragioni» «mai sapute», restano «inconfutate», appunto perché gravitano «nell’equivoco» dei «selciati» (una metafora che serve a spostare il discorso dalle «ragioni» ai «selciati» con un cambio di soggetto); ecco, quei «selciati» colti da «martellante fiducia» restati preda di Wortvorstellungen (rappresentazioni di parole del linguaggio articolatorio), che non possono sfuggire alla loro vera sostanza di giustificazioni «scampate al giudizio», argomentazioni che l’io si dà di continuo per poter sopravvivere e costituirsi come proiezione di pulsioni cieche che hanno trovato la loro vestizione linguistica. Le giustificazioni, «le ragioni» sono nient’altro che proiezioni linguistiche, Wortvorstellungen, artifizi concettuali che l’io erige come complementi dell’inautenticità generale dell’esistenza.
Giorgio Linguaglossa
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia
(Vincenzo Vitiello)
Cosa è la presenza? C’è una presenza? La poesia della Giancaspero ruota ossessivamente e instancabilmente attorno a questo punto, rumina incessantemente attorno al punto della disparizione de-coincisione del presente, a quella cosa incredibile che è la manifestazione dell’atto, della attualità, cioè della presenza perché la presenza è un togliersi, è l’attualità del togliersi.
La presenza non è un immediato ma un mediato, dipende da altre innumerevoli presenze che si sono tolte, sono dileguate. Il de-coincidersi della presenza fonda la presenza, il continuum della presenza è il suo continuo de-coincidersi.
Il de-concidersi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, immediatamente attuale, immediatamente nella attualità e immediatamente svanito in quanto nulla, perché il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Il presente è l’origine che si rinnova e che muore allo stesso istante. Appunto perché il nulla è attuale, perché l’attuale non contiene il nulla staticamente, omeostaticamente come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi, de-coincidendosi.
Lucio Mayoor Tosi
21 agosto, 2017 alle 20.18
Nella dottrina buddista questo pensiero viene detto della Impermanenza (Anitya). È tipico di questa dottrina affrontare in chiave negativa – dell’abbandono – le circostanze della vita. Tutto finisce, non solo le cose che consideravamo importanti per noi ma anche semplicemente quando osserviamo il volo di uno stormo di uccelli e li vediamo scomparire dietro il tetto di una casa; un passante che svolta l’angolo della via: c’era e non c’è più. E’ tutto così, per non dire dei pensieri che nascono e muoiono. Questa comprensione porta all’abbandono delle passioni, dell’io-sono e molto altro. Ma serve, secondo me, un passo oltre per non cedere al pessimismo esistenziale, e questo passo è l’accettazione – se si vuole, nichilista – della continua e inarrestabile mutazione. E questa la si ottiene osservando. Esattamente come fa Donatella Costantina Giancaspero, la quale scrive separata, non da quel che è stato ma da se stessa. Donatella non c’è più. C’è l’amarezza, c’è qualcuno che…
Ma sono tasselli, frammenti; che aspiriamo, senza trattenerli.
Nelle parabole buddiste si usa dire “uscire dalla ruota del carro”. Osservare. In effetti, io credo che NOE abbia a cuore la visionarietà, più che la parola; il pensiero filosofico scritto con lingua naturale, non specialistica. Questo potrebbe anche dipendere dal generale impoverimento della lingua italiana. Forse gli stracci sono lì.
Vieri Tosatti
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Andrea Riderelli – Zwei Tosatti-Lieder (1990)
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Il ‘900 sancì la fine del primato della pittura tra le arti visive. Forse anche della pittura stessa. Parole che vanno da “maestria” alla semplice “qualità e spessore del pigmento”, oggi non hanno senso: chi mai si sognerebbe di pronunciarle entrando nel merito di un prodotto industriale? Pare conti l’idea, quella fulminante dell’artista, il quale potrebbe anche limitarsi a fare una telefonata per vedere realizzata la sua immaginazione. Io lo trovo divertente: tutta gente che campa avendo leader da scopiazzare… Tracce di un secolo duro a morire; ma è sempre stato così. Lasciamo la critica intesa come cronaca degli eventi al giornalismo, e raccomandare i carpentieri dell’esegesi a qualche prestigiosa ecole de Cuisine. Soluzioni se ne trovano sempre.
La critica di Giorgio Linguaglossa non può che essere quella acuta di un poeta, dal momento che poeta lo è. Possiamo quindi parlare di immaginazione critica, qualcosa che si possa fare solo in divenire; una critica che parta e veda dal nulla in cui ci troviamo. Il nulla offre un’ampia visione: riduce l’enormità del contingente, ridimensiona il tempo, offre vie d’uscita ovunque si guardi. Le parole della critica saranno molto simili a quelle del poeta: vere; solo che appartengono alla normalità di un altro universo – con cui prima o poi bisognerà pur fare i conti. Le questioni, o meglio i parametri di giudizio sono stati delineati: tempo, stile, rapporto con l’esistenzialità. Sono ammessi anche sfottò e ghirigori. Tanto si tratta di restauri, lavori in corso per rianimare con poesia, tra le altre, anche le parole appena venute al mondo. Alcune inaccettabili, però con riserva. Non cambia nulla, sono le fatiche di sempre. Io mi sto preparando per Hollywood.
Non ho letto molto di Kjell Espmark, abbastanza per sentirlo molto vicino alla ricerca in corso della NOE. Per questa ragione forse più interessante dello stesso Tranströmer, il quale, mi sembra abbia attraversato il cielo come una cometa, alla velocità della luce; quindi l’esito o gli esiti potrebbero anche essere diversi da quanto dimostrato dal Nobel svedese.
La poesia giace sul lettino, non per sottoporsi a un’operazione di chirurgia estetica, ma per poter riprendere a respirare, in ciascun poeta, separatamente.
…Io mi sto preparando per Hollywood…
è bellissimo…🙌
Il Signor Cogito è l’uomo dell’Occidente. Colui che pensa dunque è. Herbert in questa poesia lo invita ad agire, perché il pensiero guida l’azione e, quest’ultima è un atto insieme etico, politico e, soprattutto, estetico. Il libro è nato come un tentativo di risposta sul tema del Signor Cogito.
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Zbigniew Herbert
Il sermone del signor Cogito
Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio
va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute
non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare
abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante
e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati
non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba
ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore
fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo
ad essi non serve il tuo caldo respiro
son solo per dirti: nessuno ti consolerà
bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella
ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai
ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia
e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio
va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’
(traduzione dal polacco di Paolo Statuti)
È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta, un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché Egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene. Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.
(Giorgio Linguaglossa)
Il luogo del linguaggio poetico
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Il linguaggio poetico non può mai attingere la pienezza ontologica. Essere e linguaggio obbediscono a leggi diverse: si dà un ordine del senso, a livello ontologico, un altro senso si dà a livello proposizionale nella misura in cui la sfera dell’essere resta incisa e recisa dal linguaggio, evirata della sua mitica pienezza. L’unità mitica dell’essere è, appunto, un mito, anzi, un mitologema. In questa unità prelinguistica e presimbolica il linguaggio appare come l’Altro, come ciò che introduce il segno come traccia, iscrizione, gioco di presenza-assenza che il significante dischiude.
La parola diventa così il luogo in cui il soggetto evanesce. Con la parola il soggetto incontra la propria nientificazione, il proprio essere-per-la-morte,
l’inaugurale sottrazione che scinde la presenza ripetitiva del godimento, del piano della pienezza dell’essere dalla rappresentazione di cui il significante,
come luogo in cui il soggetto diventa evanescente, è marca.
Alienazione e separazione sono la ripercussione di questa scissione, quella che Lacan chiama «la divisione del soggetto». La dimensione della
soggettività si configura in questa perdita, in questa lesione della pienezza della sfera dell’essere, mitica, da cui balza fuori, letteralmente, il soggetto parlante.
Si può adesso comprendere come in Lacan il «soggetto parlante», ovvero il soggetto tout court, sia tale solo in quanto soggetto dell’inconscio, perché qualcosa come l’inconscio freudiano ha fatto la sua irruzione nella cultura moderna.
L’inconscio, secondo la celebre intuizione di Lacan, è «strutturato come un linguaggio», si manifesta secondo le modalità retoriche della metafora e della metonimia, individuate attraverso Freud nelle operazioni della condensazione e dello spostamento.
L’inconscio individua in noi quanto il linguaggio dischiude come Altro. La fenomenologia dell’inconscio è basata sulle leggi del linguaggio. Con l’intervento del linguaggio si verifica uno spostamento, e di qui la catena sinonimica che introduce il significante. L’inconscio è quel luogo strutturato dalla parola come luogo dell’Altro, il risultato dell’azione del significante.
L’inconscio pertanto non va interpretato come fonte, luogo in cui sarebbero ricondotti unicamente quei desideri e quelle pulsioni che non hanno avuto accesso alla coscienza; è strutturato come un linguaggio simbolico di cui però non possediamo le chiavi di accesso, è una istanza che parla attraverso i suoi simbolismi. Ciò che Freud ha scoperto e ha chiamato inconscio è quella dimensione «proteggente avvolgente», dice Heidegger, che esiste perché c’è linguaggio, che la parola non è mero strumento di comunicazione, ma la dimensione che apre nella vita un divario tra detto e dire, tra enunciato ed enunciazione, che sloggia il soggetto dall’alveo della certezza della coscienza dell’io penso, che lo strappa alla sua chiusura autoreferenziale.
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La poesia di Costantina Giancaspero riesce ad operare uno scavo linguistico paragonabile a quello archeologico alla ricerca di un’antica civiltà sepolta dal tempo: Costantina dice senza dire togliendo l’ “in più” delle parole alle parole e facendo sprofondare significante e significato nel vortice dell’assoluto presente da cui ha origine un Nuovo Significato. Questa poetessa sta superando i propri limiti espressivi con sapiente lavoro di cesello e, ripeto, di scavo. Non c’è più ombra di lirismo nei suoi versi…si respira un senso di libertà e di trasparenza.
Mariella Colonna
Cara Mariella, ti ringrazio vivamente per questa tua riflessione così precisa sulla mia poesia.
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La tua straordinaria sensibilità ti porta ad evidenziarne quelle caratteristiche fondate su alcuni miei intenti consapevoli, come, ad esempio, il voler togliere alle parole – e dunque alle immagini che esse costruiscono – tutto ciò che è “in più” (come scrivi): un procedimento che conduce a quei risultati da te pienamente sottolineati. Se sto realizzando tutto questo, devo ringraziare i principi della Nuova Ontologia Estetica, questa nostra immensa finestra da cui osservare una prospettiva poetica totalmente rinnovata. Infine, devo ringraziare Giorgio Linguaglossa, nonché persone intelligenti e ricettive come te che condividono questa via.
E, un poco, anche me stessa.
For you…
Poesia
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Poesia, mi metterò a giurare
su di te, e finirò, restando arrochito:
tu non sei la prestanza di un cantore mellifluo,
tu – sei un’estate con un posto in terza classe,
tu – sei un sobborgo e non un ritornello.
Tu – sei afosa come un maggio, Jamskaja,
ridotta notturna di Ševardinó,
dove le nuvole emettono gemiti
e vanno sparpagliate verso lo scioglimento.
E duplicandosi nell’intreccio dei binari –
sobborgo, e non ritornello, –
strisciano dalle stazioni verso casa
non come un canto, ma attonite.
Germogli d’acquazzone s’ingolfano nei grappoli
e a lungo, a lungo sino all’alba
acciarpano dai tetti il proprio acrostico,
gettando bollicine nella rima.
Poesia, quando sotto il rubinetto
c’è un truismo, vuoto come lo zinco di una secchia,
anche allora il getto resta incolume,
il quaderno è approntato – puoi scorrere!
Boris Pasternàk
1922
(trad, di A. M. Ripellino, 1954)
Caro Antonio,
le tue citazioni sono sempre molto interessanti, ma io qui rispondo a Donatella Costantina che ha detto cose molto significative sull’esperienza della NOE e la ricchezza della Nuova Poesia nei confronti di chi si abbandona con totale trasporto al lavoro sulle parole. Hai ragione, Cara amica della Poesia e della Musica (e nostra, naturalmente): hai detto parole piene di chiarezza e di generosa riconoscenza che condivido in pieno, anche nei confronti della NOE e di Giorgio Linguaglossa che è sempre molto disponibile nei confronti di chi crede nella Poesia. Grazie per la musica!!!
Mariella
Una interpretazione della poesia.
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Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.
Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.
Le parole «vengono» alla poesia, non la poesia chiama le parole. È proprio il contrario. Il luogo della poesia è quello per cui esso viene alla luce in quanto chiamato dalle parole, in questa pro-vocatio è il luogo delle parole come ordine simbolico. Il luogo fisico è la «stazione di Bologna della metro blu», ma il luogo mentale è un altro.
Si tratta proprio dell’inconscio, o meglio, di ciò che si eventualizza nel soggetto dell’inconscio, in questo porre «le ragioni» «scampate al giudizio» del Super-io, che annuncia il vacillamento, l’esitazione dell’io parlante, il voler-dire che è altro dal detto e altro dall’intenzionato. «La forma essenziale in cui ci appare inizialmente l’inconscio come fenomeno è la discontinuità – discontinuità in cui qualcosa si manifesta come un vacillamento».1]
Come un «anticipo» o un ritardo «sulla pioggia», dice la poesia. Ma qui non c’è nulla che indichi il predicato, nulla che indichi il soggetto che non c’è:
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
È il soggetto dell’inconscio che si manifesta tra l’«anticipo» e il ritardo, è qui che si apre «un varco». Quello che Lacan chiama la faglia, la beanza che divarica il soggetto, che lo allontana da sé nello stesso tempo in cui lo chiama in causa; e questo non è altro che la «mancanza», la nozione di manque à être entro cui si colloca la parola. La faglia, ricopre il soggetto da parte a parte, si presenta come una apparizione improvvisa; questa faglia, è l’inconscio, il luogo in cui la rappresentazione mostra il suo lato oscuro. Questo luogo è letteralmente pro-vocato dal linguaggio, è il luogo dell’Altro, reso possibile dalla dimensione dell’alterità intesa non più come altro da me, come l’altro che ho di fronte, bensì come la disunione, quella divaricazione che divide il soggetto perché lo ha significato, perché è stato nominato da altri.
Che significa quel «Qualcuno ha voltato le spalle»? È lo stesso soggetto diviso che ha voltato le spalle a se stesso… «Le ragioni», ovvero, il processo delle razionalizzazioni che l’io ha posto in opera come struttura dinfensiva, è caduto nel vuoto. «Inconfutate», quelle «ragioni» rientrano nell’inconscio, quello stesso che le ha prodotte.
La poesia sancisce l’ingresso nell’ordine simbolico e lo scacco dell’io.
1] J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Scritti I Einaudi, 1974., p. 26.
Non lo scintillio del bronzo appena fuso
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Non lo scintillio del bronzo appena fuso.
Né la sua patina magari artificiale
o la levigatezza del marmo immacolato.
(…)
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La rugginosità del ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli stracci.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
(…)
Ecco le parole della nuova poesia
(débris du futur seppe dirci Valéry)
perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie.
(…)
Platani. Fiumi. Uomini. Fiori.
Tutti bramano un suono che manca.
A meno che il suono non significhi niente.
Tutti vogliono un nome.
Perché ogni nome è una benedizione.
L’occhio che brilla di passato e futuro.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
Il mondo chiuso in un sacco di iuta.
Gino Rago
un componimento che farà parte del prossimo volume
“La gorgiera e il Delirio” ….
Nemesi
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Ancora la maschera languiva per un assolo di archi nell’orchestra,
la viola d’amore affilava gli occhi di Giuditta prima del misfatto,
ma la scena, senza parole, generava astragali e gesti virtuali
perché l’attore truccasse solo con gli sguardi il festino della sua rovina.
Non ci resta che recitare un calvario per sperare in una farsesca epifania,
la sue parole si sono aggrovigliate sulla lingua come una retorica antica.
Schiodati sono le fini e i principi su quel legno come una finta rivelazione,
non ho che da spartire e spargere la mia arte come sacramenti universali!
Sono giunto alla Stazione del Nulla dove i corvi beccano la mia apoteosi:
non ho voglia di altri succursali, mi basta un quadrante in fiamme per
cantare!
Mi hanno applaudito come l’unico evangelo della scena… per la mia liturgia
si sono spellate le mani! – per l’immacolato martirio della mia Voce!
Ho spezzato le mie carni in divini gesti come gli atti degli apostoli,
le parole ho sminuzzato come ostie per un rinascimento epicureo,
l’irregolare sostanza del mio delirio è pensiero e preghiera estrema.
La mia infanzia fu già un sacrificio di specchi, di maschere, e sembianti!
Bardonecchia, 31 dicembre 2007
(ore quattro del suo ultimo mattino)
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Carissimi Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo
e carissima Costantina Donatella Giancaspero (e cari tutti e care tutte
le voci poetiche de L’Ombra delle Parole),
che poesia può “fare” il poeta dei nostri giorni con parole ‘disabitate’ in un mondo racchiuso in un sacco di iuta?
Gino Rago
Titolo – Descrizione:
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Un pupazzo di neve giunto dalla Norvegia
sta impazzendo di caldo sulla piazza circondata da rondini.
Nel vicolo, una stella di molti triangoli tocca le persone sul cuore.
Sgorga una fontanella di sangue mentre non passa nessuno.
Le rose non possono farci niente.
Morire e vivere sono pensieri. Soltanto pensieri.
Prima che faccia notte avrò terminato il tabacco.
Qualcuno è stato qui! Il primo fantasma umano
in grado di indossare scarpe e maglia.
Il fantasma è ben visibile tra gli occhi.
Un cane attraversa la distanza. E se ne dimentica.
Il tempo sfreccia sulla via.
Sul bordo gli sterpi si sono dati adunanza.
Dev’essere ora di cena.
Parole disabitate, sì, ma indicano e vogliono nominare le cose; gli stracci del mondo… e come vi si sta evitando evitando anche tutto di sé.
Senza identificazione il mondo si rivela aperto. Non se ne vedono i confini.
Molto interessante, quasi un’esemplificazione originale e intensa di quanto detto con chiarezza adamantina da Giorgio Linguaglossa. Lucio, tu sorprendi sempre il lettore…peccato che non ti lasci sorprendere. Lo so che non è vero, ma se non ti provoco un po’…non dialoghiamo!
Un poeta che conosco da parecchi anni , Giovanni Francomacaro, mi ha mandato due poesie che, in apparenza, non hanno la novità di quelle postate qui dai filo-NOETICI (tra i quali mi annovero anche io). Ma voglio farvele ascoltare all’Ombra delle parole:
LUCIA
C’è una bimba che corre
Sul prato bagnato
E si chiama Lucia.
La madre, che è solo capelli
E ha la braccia trafitte dai chiodi,
si lega le ossa
per sfuggire al domani.
Lucia è felice
Una palla e due stracci
E la pioggia sottile
Che cade dal cielo
Che cade sui giusti
E su quelli sbagliati
Fa finta di niente
E gli bagna la veste.
Ma Lucia sorride
Al freddo e alla notte
E al ringhiare dei cani
E sorride alla morte
Che le si china vicino:
La dolcezza e il dolore
Di una madre sbagliata.
Lucia è felice
Per le stelle che brillano
Sui prati bagnati
E calpesta correndo
Le foglie ingiallite
Anche loro abbattute
Da una legge puttana
Che t’inganna col tempo
E alla fine t’uccide
Per fame per sete
D’amore.
LISETTA
Conosco una bambola di nome Lisetta.
ha gli occhi lucenti
come stelle di latta,
e un cuore di pezza
che non vale due soldi.
Lisetta t’abbraccia
stringendoti forte,
come fossi una bimba
o un mazzo di fiori,
e se per caso sei sola
rincorre il silenzio,
gioca col tempo
per non farlo morire
raccontandoti storie
che non sai più sognare.
E’ una bambola seria,
ma quando sei triste
ha un sorriso dipinto
e il profumo d’un tempo
fuggito lontano
come la piuma d’un passero
trascinata dal vento.
Conosco una bambola
di nome Lisetta.
Ha un piccolo cuore
fatto di pezza
e dietro gli occhi di vetro
un’anima di cartapesta.
Solo una volta
L’ho sentita parlare,
quando mi ha detto:
“amico -ricorda-
la tenerezza, se non è data,
si tramuta in dolore”.
Poesia che scorre veloce verso non si sa dove…e la sfumatura di mistero che lascia come traccia merita attenzione…
Mariella
Sono due belle poesie, grazie Mariella. Mi incuriosisce lo specchio (in questo caso bambola Lisetta), perché ne ho anch’io, un oggetto confidente che sa mutare d’aspetto…
Credo che Lacan e Derrida e similari già da tantissimi anni hanno fatto il loro tempo, e che citarli ulteriormente sia dannoso. Sono stati dei maestri subito superati e il loro pensiero è già nelle teche di un museo bibliografico. Inoltre
è meglio controbattere con un pensiero semplice, chiaro, da cui la poesia può trarne vantaggio immediato. Questo pensiero non deve contenere nulla che faccia pensare alla psicologia, sociologia ecc. che appesantiscono non poco i vari interventi… insomma che si proceda per ricerche di critica linguistica, ovvero analizzare ogni singola parola rapportandola con altre parole di altre lingue. Questo è detto per sommi capi.
https://www.bing.com/videos/search?q=musica+di+bertolt+brecht&&view=detail&mid=537D1A4B9CEBE17BC14C537D1A4B9CEBE17BC14C&FORM=VRDGAR
I “sommi capi” temono solo le pesantezze del Natale.
caro Gino Rago,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-25952
come posso risponderti? Ti posso rispondere soltanto con questi due “scampoli” di video di Bertolt Brecht musicati e cantati dai quali sporge una frenetica e chiassosa vitalità. Ecco quello che deve fare la «nuova poesia» (a prescindere se essa sia della nuova ontologia estetica o altro, figurati!, così facciamo contenti tutti i bempensanti che quando sentono parlare di «ontologia estetica» si spaventano…).
Chi legge i tuoi versi, o quelli di Antonio Sagredo o quelli di Lucio Mayoor Tosi o di Anna Ventura… non può non restare coinvolto dalla quantità di energia che si sprigiona dalle loro/vostre poesie. Qui non è neanche questione di bello o brutto, qui si tratta di appercezione immediata: la «nuova poesia» la si assaggia, e appena la si assaggia, come un buon vino, ci scatena dentro un aumento di vitalità. Abbiamo gettato alle ortiche e nella discarica tutta la poesia ben educata e ben confezionata di questi ultimi decenni! Bene così. Non se ne poteva più di leggere i versi dei letterati spocchiosi e vanitosi. Ed è bene dirlo subito e a chiare lettere, NOI facciamo una poesia di stracci, di plastiche, di resti, di avanzi di cibo, di detriti di rigatterie, di cornici spaccate, di specchi rotti… con le tue parole:
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli stracci.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Lo scorso anno è stato celebrato il sessantesimo anniversario della morte di Bertold Brecht, agosto 1956. Nel mese di febbraio di quello stesso anno, Brecht assisteva alla prima della sua “Opera da tre soldi” (in italiano), nello storico allestimento di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro di Milano, rimanendone entusiasta. Era la prima volta di Brecht in Italia, fino ad allora pressoché sconosciuto (almeno in teatro)…
Propongo qui il celebre brano “Jenny dei pirati” nella ineguagliata interpretazione di Milly
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Oh signori, voi mi vedete sciacquare le bottiglie
e rifare i letti
e mi date tre spiccioli di mancia
e guardate i miei stracci
e quest’albergo stracciato come me.
Ma ignorate chi son io davvero.
Ma una sera al porto grideranno e a chi mi domanderà:
“Tu quel grido sai cos’è?”
sorridendo,porterò un altro bicchiere,
si dirà “da ridere che c’è?!”
Tutta vele e cannoni
una nave pirata
al molo starà.
M’hanno detto: asciuga i bicchieri, ragazza
e m’hanno dato di mancia un cent
ed ho preso il soldino e fatto un letto
in cui nessuno stanotte tranquillo dormirà
e chi sono nessuno ancora sa.
Ma stasera al porto spareranno
e qualcuno griderà: “A chi sparano laggiù?”
Io, ridendo, apparirò a una finestra,
si dirà: “Da ridere che ha?”
E la nave pirata tutta vele e cannoni
raderà la città.
Oh signori, quando vedrete crollare la città
vi farete smorti.
Quest’albergo starà in piedi
in mezzo ad un mucchio di sporche rovine e di macerie.
Ed ognuno chiederà il perché di questo strano caso.
Poi si udranno grida più vicine
e qualcuno chiederà: “Come mai non sparan qui?”
Verso l’alba mi vedranno uscire in strada,
si dirà: “Ma quella dove va?”
E la nave pirata,
tutta vele e cannoni,
la bandiera isserà.
E più tardi cento uomini armati verranno
e nell’ombra tenderanno agguati,
poi faranno prigionieri tutti quanti.
Li porteranno legati davanti a me.
Mi diranno: “Chi dobbiamo far fuori?”
Si farà silenzio intorno a me e qualcuno chiederà:
“Chi dovrà morire?”
Ed allora mi udranno dire: “Tutti!”
Ed ad ogni testa mozza farò: “Oplà!”
Tutta vele e cannoni
la galera di Jenny
lascerà la città.
Ecco a voi, cari amici e interlocutori della nuova ontologia estetica, il Signor K., il re degli stracci… un Dèmone, se volete, o un Fantasma, se preferite:
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Il saluto del Signor K.
(alla maniera di Ewa Lipska)
«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…
Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più
possibile trovarsi, dove non c’è neanche bisogno
di cercare le scaturigini di alcunché.
Le parole, egregio Signor Linguaglossa,
in questo luogo sono del tutto fuori posto.
Mi perdoni questa ovvietà,
ma lei, mi dicono, è un poeta!
Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole
nella trappola della geometria euclidea.
Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi.
Tutto ciò che ci ha amato,
cari Rago e Linguaglossa, cari Gabriele e Tosi,
e quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…»
Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac. Arietta di Offenbach. Sorrise. La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano. «Professione?», «Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose. Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto. Cravatta blu a pallini gialli. Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda. «Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi… No, no, non parlo di voi, caro amico… parlo d’altro…».
«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi
nel suo stesso negarsi.
Che vuole, un gioco di prestigio!
Sì, mi attendo da Voi una risposta.
Una sola, però,
intorno alla decoincisione dell’essere dal nulla.
E sì,
anche intorno all’Assoluto.
Per questo vi dò il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà
al numero civico 777 piano terzo scala D,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».
frammenti le parole come sfingi
frammenti le parole come sfingi
sui deserti dei significati, la sabbia
fluisce fluida, cosparge arida,
la sostanza. perdurano ancora
lacrime di provenienza incerta.
A TUTTA LA VOSTRA GUITEZZA.
Lo squillo imperioso
di un cristallo di vento
sorge dalla profonda altezza.
Là cervi e nobili uccelli
dell’Altopiano intrecciano voli
verso i gabbiani nati stanotte
sulla riva del mare, lasciati lì a morire
sotto le stelle che piangono
da milioni di anni l’amore perduto.
Alleluia Alleluia Alleluia!
Nel mare i pesci cantano alla luna la loro disperazione
il freddo silenzio che li costringe all’oscurità
al gelo di tutte le stagioni. Sono belli i pesci
colorati nell’Acquario, ma il loro occhio tondo
è sgranato sul mondo di cui vedono piccoli frammenti
quindi non vedono perché il tempo li vuole
sognanti senza parole nel mare delle notti
dove risuona l’ALLELUIA cosmico
per questo segreto assurdo che la natura
non vuole rivelare. Perché siamo qui?
Perché ci sono pesci, gabbiani, galline topi
insetti, leoni serpenti rane virus… perché NOI,
se poi spesso ci facciamo tutti soltanto del male?
“Perché la terra è sola?” si domanda il Poeta.
Perché la terra e il sole?
Non c’è risposta se non c’è vera domanda.
Cosa possiamo domandare noi, apolidi, in un mondo
da millenni affollato da domande senza risposta
mentre bucano il cielo stelle spente?
E, se tra poco splenderanno stelle a fibre ottiche,
inchiodate da un Angelo che ama Dio alla follia
soltanto la Notte di Natale
ALLELUIA!
Mariella Colonna
Questa poesia è scritta con la creta il legno la pietra e l’anima che fonde tutto e dà nuova vita alla materia inerte. Il Signor K aspetta risposte da noi anche intorno all’Assoluto? Beh, ci si può provare, anche se l’ultima volta dire quello che penso al Sor Kappa mi è costato molto molto caro!
( bastonate alla Pulcinella, un dente saltato come una nocciolina etc. etc.) Naturalmente sto scherzando, ma non proprio del tutto. Staremo a vedere. Soltanto, caro Giorgio, a volte tu fai delle “gaffe”: io non mi riconosco nella “compagnia varia”…il mio “io” non ha dato ancora tutto il suo spazio poetico al Fantasma di Emme. Ci.!
Mariella
https://poetarumsilva.com/2014/11/05/mauro-pierno-pulcinella-addormentato-eduardiana/
(per il buon uso che ne fate!
Un caro abbraccio)
Poesia esatta. Densa. Concreta. Di classica nitidezza .
Giorgio Linguaglossa, in sé maturando la lezione acmeista con Mandel’stam in prima linea, anche in questi versi ci appare come un poeta greco o latino che però scrive in italiano…
Con particolari esatti, nomi precisi, quesiti laceranti, ferma nei suoi versi l’atmosfera oleosa d’un secolo nuovo ma anche l’atmosfera d’un paese.
Il nostro, in mano ai bugiardi, ai ladri, ai monatti, agli ammalati di narcisismo, agli abitanti di parole morte, a uomini chiusi dentro parole disabitate.
Poesia che sancisce il transumanesimo definitivo: l’uomo non è più al centro del mondo. “Tutto ciò che ci ha amato… non ha più ragione d’essere.”
Gino Rago
Giorgio Linguaglossa
Atto inquisitorio della Lubjanca
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-26130
Uno stridio insistente, ripetuto, simile al cra cra di un corvo.
Sotoportego del Canal Grande.
Gondole nere con maschere bianche sul volto.
Il campanello del portone. Squilli acuti, dissonanti.
“C’è sempre un corvo nella mia mente”, pensa nel dormiveglia Cogito.
Si alza di soprassalto.
«Chi è?», chiede al citofono.
«È il compleanno dei nati morti,
l’anniversario dei falsi vivi, faccia lei. È lei il Signor Cogito?»,
«Sì, sono io», risponde il filosofo ancora nel sonno.
«Non c’è nessun altro in casa?».
«Non c’è Nessuno».
[…]
La Lubjanka interroga il Signor Cogito.
«Veda, Cogito, le parole si sono indebolite,
e poi, quella questione, sì, quella della incontraddittorietà
del contraddittorio. E poi, quella questione del verso libero
figlio bastardo del nichilismo. – È sua questa tesi,
vero, Herr Cogito?
E poi la questione delle parole impossibili, quelle bandite dal tedio di Dio,
intendo».
[…]
Dice proprio queste parole il primo Commissario.
«Come avviene che la parola impossibile entri
nella gola e lì ristagni per mille anni, in attesa della resurrezione?
Come può avvenire?».
Dice proprio queste parole il secondo Commissario.
«Come avviene che le parole impossibili
prendano luce e si mettano a passeggiare di qua, di là… di sotto, di su…
dopo morte?».
(inedito, da Risposta del Signor Cogito)
Come avviene che, oggi, il parlar chiaro possa sembrare oscuro? Eppure si scrive obbligatoriamente (arrendevolmente) con parole deboli: “stracci, scampoli delle sartorie…”
Bellissima poesia, Giorgio, della serie: in poesia, anche la critica trasmuta e si fa effervescente.
Dobbiamo vivere come se la vita fosse in rosa, e dirci: “je ne regrette rien”…
Testi di due canzoni dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht – Kurt Weill
Moritat di Mackie Messer
Testo originale tedesco
Und der Haifisch, der hat Zähne
Und die trägt er im Gesicht
Und MacHeath, der hat ein Messer
Doch das Messer sieht man nicht
An ‘nem schönen blauen Sonntag
Liegt ein toter Mann am Strand
Und ein Mensch geht um die Ecke,
Den man Mackie Messer nennt
Und Schmul Meier bleibt verschwunden
Und so mancher reiche Mann
Und sein Geld hat Mackie Messer
Dem man nichts beweisen kann
Jenny Towler ward gefunden
Mit ‘nem Messer in der Brust
Und am Kai geht Mackie Messer,
Der von allem nichts gewußt
Und die minderjährige Witwe
Deren Namen jeder weiß
Wachte auf und war geschändet
Mackie welches war dein Preis?
Refrain
Und die einen sind im Dunkeln
Und die anderen sind im Licht
Doch man sieht nur die im Lichte
Die im Dunklen sieht man nicht
Doch man sieht nur die im Lichte
Die im Dunklen sieht man nicht
Traduzione italiana
Mostra i denti il pescecane
e si vede che li ha.
Un coltello, solo, ha Mackie
ma vedere non lo fa.
Su una sponda del Tamigi
giace un tale a mezzodì.
Poco prima, lo sappiamo,
Mackie Messer era lì.
Sbrana un uomo il pescecane,
molto sangue scorrerà.
Mackie indossa un bel guanto,
nessun segno lascerà.
A Schmul Meier, l’industriale,
un ignoto un dì sparò.
Mac ne spende tutti i soldi,
ma provarlo non si può.
Han trovato Jenny Towler
strangolata nel bidet.
Che sia stato Mackie Messer?
Testimoni non ce n’è.
Sei bambini son bruciati
nell’incendio di Soho.
Mackie Messer sa qualcosa
ma non parla e beve gin.
Sbrana un uomo il pescecane
ed il sangue si vedrà.
Mackie ha un guanto sulla mano,
nessun segno resterà.
Vedovella minorenne,
il cui nome ognuno sa,
dicci, dunque, il buon Mackie
dov’è andato, cosa fa.
Traduzione inglese
Oh the shark has pretty teeth, dear
And he shows them pearly white
Just a jack knife has MacHeath, dear
And he keeps it out of sight
When the shark bites with his teeth, dear
Scarlet billows start to spread
Fancy gloves though wears MacHeath, dear
So there’s not a trace of red
On the sidewalk, Sunday morning
Lies a body oozing life
Someone’s sneaking round the corner
Is the someone Mack the knife?
From a tug boat by the river
A cement bag’s dropping down
The cement’s just for the weight, dear
Bet you Mack is back in town
Louie Miller disappeared, dear
After drawing out his cash
And MacHeath spends like a sailor
Did our boy do something rash?
Sukey Tawdry, Jenny Diver
Polly Peachum, Lucy Brown
Oh the line forms on the right, dear
Now that Mack is back in town
Noi lo ricordiamo come interprete di canzoni di successo nel panorama della musica leggera italiana degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. E anche come testimonial pubblicitario nei Caroselli, come attore e protagonista di show televisivi… Insomma, sto parlando di Nicola Arigliano (1923 – 2010).
Dopo un periodo di silenzio dovuto al mutamento del gusto e delle mode musicali, tornò sulla scena alla fine degli anni ’70 lavorando con le Jazz Session dei più noti jazzisti italiani, tra i quali Franco Cerri, Enrico Rava, Gianni Basso.
In questo video, vi porpongo la sua interpretazione (in chiave cabarettistica con accompagnamento jazz) della Ballata di Mackie Messer.
E un finale a sorpresa…
Buon ascolto!!
La poesia di Costantina Donatella Giancaspero, per atmosfera, sentimento e incomunicabilita’, mi ha ricordato questa:
In a Station of the Metro
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The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.
(Guess who?)
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Steven carissimo, l’accostamento mi onora incredibilmente! Si tratta del distico di Ezra Pound, intitolato, appunto, “In una stazione della metro” pubblicato nel 1913. La metro è quella di Parigi.
In traduzione (più o meno)…
“L’apparizione di questi volti nella folla;
petali su un ramo, umido nero.”
Che grande poesia!!
Alla ricerca dell’innovazione: due parole su Kurt Weill
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Berlino, anni Venti: un giovane musicista cresciuto nel solco della tradizione tardo-romantica muove i primi passi come compositore. È nato a Dessau nell’anno 1900, figlio del primo cantore della sinagoga di quella città. Il suo nome è Kurt Weill. Si è trasferito a Berlino per completare gli studi di composizione con Ferruccio Busoni, maestro che ammira e stima profondamente. Sono gli anni della Repubblica di Weimar, il clima culturale è acceso, le contraddizioni enormi e tutto è in rapido e incerto divenire.
Weill frequenta gli intellettuali legati ai circoli espressionisti. Le convenzioni del teatro d’opera di stampo wagneriano gli stanno strette e suscitano in lui un desiderio di rinnovamento. Tuttavia, neppure gli esperimenti di musica dodecafonica, di moda in quegli anni, lo convincono. Kurt cerca una terza strada, qualcosa che possa calarsi nella realtà comune.
A 26 anni sposa Lotte Lenya, una ragazza austriaca che danza, canta e recita. L’affiatamento è forte, resteranno inseparabili per tutta la vita.
L’anno seguente arriva la svolta: l’incontro con Bertold Brecht e con la sua nuova concezione di teatro segna un momento determinante nella vita di Weill.
L’opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper), andata in scena per la prima volta il 31 agosto del 1928, fu il più grande successo teatrale della Repubblica di Weimar. Brecht sceglie di riadattare L’opera del mendicante (The Beggar’s Opera) dell’inglese John Gay a distanza di 200 anni esatti dalla sua rappresentazione. The Beggar’s Opera era un’opera popolare, sarcastica e sfrontata, che si prendeva gioco delle convenzioni sociali del tempo e proprio per questo attira l’attenzione di Brecht. Weill intuisce che la via per l’innovazione consiste in una sintesi tra forme classiche e musica d’intrattenimento: sceglie cantanti con esperienza di cabaret o di teatro di prosa, privi di una vera e propria preparazione musicale, che usano la voce in modo spontaneo e non “impostato” come invece avviene nell’opera lirica tradizionale; compone melodie orecchiabili e ritmi semplici; interrompe volutamente i brani a metà, per lasciare spazio all’azione; impiega piccoli complessi orchestrali e strumenti inusuali per la musica “colta”, come gli organetti. Questo nuovo approccio è considerato rivoluzionario e segnerà la storia del teatro in musica del Novecento.
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
ringraziamo sommamente Donatella Giancaspero che ci propone questi video: queste canzoni del tempo di Weimar che mandavano in visibilio Ripellino che a quel tempo era stato sempre così legato da farmi ascoltare a casa sua questi pezzi musicali… e a quel tempo gran parte della intellettualità russa era a Berlino tanto che si diceva “Berlino è russa”, non si fa che “incontrare russi in ogni vicolo”… poeti e artisti russi riempivano ogni sera quei locali, e anche io quei tempi weimariani…
sIgNoRi,
lo so, forse sono provocatorio ma io penso che
NON SI Dà ESTETICA SENZA UNA CRITICA DELL’ECONOMIA ESTETICA.
Forse sbaglio, forse sono all’antica, ma io la penso così…
https://www.bing.com/videos/search?q=musica+di+bertolt+brecht&&view=detail&mid=6812DBF15F44A23DFF9F6812DBF15F44A23DFF9F&rvsmid=537D1A4B9CEBE17BC14C537D1A4B9CEBE17BC14C&FORM=VDMCNR
Così si fa stessa l’attenzione
e come l’ombra che riappare essa svanisce.
A piedi uniti che la sostanza più adorna
Slega quel sacco di iuta.
E nello stesso ritornello, lo stesso ripostiglio
questa la dipendenza, intesa come fruscio
lo stesso frastuono, di case andate,
fracassate, lo stesso frastuono
questa volta è K che ci avverte.
La poesia che nell’angolo nascosto
riavvia un ripostiglio.
nell’angolo più bello del mondo. Di sempre.
Ancora ci sovrasta il bene eterno
di una discarica.
29102017
Navigazione costiera
Credetemi
fu la visione di occhi cantori
e raffiche di suoni, e di boschi, e mari,
e rive agonizzanti, e dissonanze di luci…
Storditi da rifrazioni di mattini insidiosi
ascoltavo sulle pietre salate
i lamenti dei remi, e i tramonti in fuga,
e dalle città-necropoli i polmoni slacciati
a perdifiato…
Gesti di tufo, e parole di gesso crollarono
come muraglie, i miei passi di cartapesta
sui crocicchi, e tutto il mio secco rifiuto dei passati!
Disinvolto viandante stampavo i ricordi
di zucchero, e maschere di deserti in fiamme,
e non un verso in dono, ma il Canto degli Occhi!
a.s.
Roma, dicembre 1969-gennaio 1970
Una sguaiata e magnifica Milva
Una magnifica cantante bionda come sarebbe piaciuta a Bertolt Brecht
Una severissima critica dell’estetica passa per una irrefrenabile ilarità
Una irrefrenabile ilarità passa per una sublime malinconia
Un nuovo linguaggio passa per una irrefrenabile gioiosità. Gettare il vecchio linguaggio professorale nella spazzatura…
Una nuova sensibilità nasce da un nuovo linguaggio…
Niente paura, buttiamo a mare tutta la poesia bene educata degli ultimi 50 anni…
Quando incontri una bionda, non perdere tempo, mettila alle strette…
Una formidabile gioiosità e ironia come nella poesia di Mario Gabriele…
Hot Head – Gunhild Carling and her big band goes wild at Circus
Gunhild Carling
Harald Juhnke – Mackie Messer 1992
credevo che l’aveste già buttata via quella brodaglia “bene educata”… mi devo ricredere… recentemente Milano a un poeta ben educato (ve ne sono parecchi a Milano) ha dedicato una sorta di funerale ufficiale a Palazzo Sormani
gentile Mariella Antonaci,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-26135
poche settimane fa una poetessa di Milano mi ha riferito che a Milano avrei «molti nemici». Davvero bizzarra città Milano. Ma anche a Roma, mi dicono, ho molti, diciamo, «avversari». Resta il fatto, che la cosa non mi riguarda, non ho nessun rapporto con queste persone… forse hanno «sentito» parlare di me e della «nuova ontologia estetica», così, per sentito dire… Quelle persone «bene educate» si guardano bene dal prendere posizione perché non hanno mai avuto nessuna posizione… la poesia è una cosa seria che presuppone molti e lunghi studi… e anche quella cosa che si chiama «talento»… che però non dipende da noi…
in requiem
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-26092
sono un ago.
L’ orologio della notte
dice: atomo del vuoto.
Lo stesso scorpione
nel buio allude a qualcos’altro
che non è ancora .
Sei tu o sono io l’ucciso?
Esatta(mente) in silenzio. Piccole diatomee
sotto un quasar in requiem duro e metallico.
Vedo il tuo rasoio riflesso. Lo specchio curvo.
Sono qui.
Sono Dio.
Stai zitto.
Devo annerire.
Forte…
E’ una poesia straordinaria: ma fa tremare…Francesca, sei grande! Altro che poeti milanesi ben educati! Che c’entra la buona educazione con la Poesia?
Forse a Milano lo sanno, ma a Roma, qui da noi, si crede nella Poesia , si vive di Poesia e…di Poesia si muore. Punto e basta.
Mariella Colonna
grazie Mariella. Sinceramente vi leggo e penso che voi siete veramente dei grandi poeti. Ho molto da imparare . In effetti Milano pullula di poeti ben educati ….fin troppo educati…..Aspetto tue notizie ,cara Mariella. Cari saluti.
Mi associo al coro dei consensi ammirativi. Poesia forte. Vera. È il tuo capolavoro Francesca.
So di essere ripetitiva,ma tutte queste bellissime letture mi mettono ko. A voi.
Sabino Caronia
Orfeo
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-26147
Un dio lo può, ma un uomo, dimmi, come
potrà seguirlo sulle sette corde,
potrà seguirlo sulla lira impari?
Non è ancora la morte questo vallo,
questa lugubre terra di nessuno,
ma non è più, no, non è più la vita.
Qui le strade non vanno in nessun dove,
qui non è canto, qui non è speranza,
e non c’è niente all’infuori di me.
*
Steven Grieco Rathgeb
Primavera nella valle dell’Acheronte
Salgo la strada che si aggrappa al versante franoso,
ed, ecco, sorge una domanda urgente –
si tratta di un albero vasto nell’intrico vertiginoso dei suoi rami,
l’albero che io pensavo sovrastasse ogni cosa,
genitore sulle cui fronde si posavano a miriadi
uccelli gorgheggianti;
e della sua nidiata senza numero, pargoli titanici
disseminati per tutto il mondo, ciascuno alto fino al cielo,
ciascuno che ripara un villaggio, una valletta;
attraverso il ramificarsi delle sue infinite direzioni
gli uomini videro la strada (il suo dolore e la sua gioia), e
ne previdero le possibili storture: e come la strada
sembra andare avanti.
Salgo più su, e quei giganti sono ancora lì, lungo la via,
nei boschetti ombrosi dove gli usignuoli cantano la luce
che si congiunge col silenzio; qui, sotto le bizzarre guglie
di roccia, dove un pastore nel suo macinino sospinge
il gregge:
e allora dove, dove in questo paesaggio, un segno
che il santo macellaio non ha più sogni, nessuna piuma
discesa sulla sua parete di icone: adesso quel corpo sordo
esprime solo ira repressa, e il caos che verrà –
dove, il segno che le sue miti bestie possano sopravvivere,
non smembrate, nello spavento della selva…
Ah, paradosso, coda di rondine! Follia di un crudele demiurgo
che mai permise al santo e all’agnello di giungere
già morti
alla strage del banchetto pasquale.
Ma loro sono ancora qui, i platani che si librano altissimi
sopra le piazze nei villaggi: i grandi sovrani – olivo nodoso,
tiglio e l’enorme quercia dalle chiome maestose;
subito di qua dai costoni nudi,
dove la via pericolosa del poeta va avanti incerta,
inciampando e scivolando sul pietrisco:
ancora qui, a proteggere queste case disabitate
dal ricordo primordiale di sismi e caduta di massi;
qui, a proteggere i cassonetti sventrati,
i cancelli rotti dell’oblio umano
da quelle più alte giogaie, più impietose.
Foglia di primavera, che scendi come una piuma
sui vecchi seduti, capovolti qua e là,
assorti in tutta quest’angoscia.*
trad. dell’autore e di Trinita Buldrini
* La poesia si riferisce alla valle dell’Acheronte, in Epiro (Grecia). Alla foce del fiume, vicino al paese di Mesopotàmi, non lontano dal Mar Ionio, c’era in antichità il luogo dove si interrogavano i morti (nekromantion), poiché qui si pensava stesse l’ingresso agli inferi. La valle sale poi verso la sorgente, tra le montagne del Pindo. Quelle stesse montagne che nel secolo scorso si sono sempre più spopolate, non solo per la natura sismica del terreno, ma anche per la povertà che da sempre affligge queste zone, per l’avanzare dell’era moderna, per la pura e semplice incuria umana.
Non sono assolutamente d’accordo con quanto è scritto sui versi della Dono: non si fa così la critica letteraria!
Qui ci vuole metodo critico e non parole senza senso che non spiegano nulla. NULLA!
Cosa significa “forte”?! (Pierno- Linguaglossa)
E cosa vuol dire “E’ una poesia straordinaria: ma fa tremare…” (se mai senza il “ma” sarebbe più logica la straordinarietà)..
Insomma, così per pochissimo, non vada ko signora Dono., non è il caso.
dai Sagredo, non fare il birichino!!!
Non è che ogni volta devo scrivere un saggio per spiegarti perché una poesia mi piace…
Mi dispiace per Lei, signor Linguaglossa, che m’abbia scambiato per Sagredo Antonio, ché di questi ho grandissima stima.
Sono Mariella Antonaci e ho insegnato all’università di Genova Storia della critica letteraria.
Facciamo una cosa cara Mariella Antonaci,
visto che lei ha insegnato “critica letteraria” all’università di Genova, perché non ci fornisce Lei un bell’esempio di critica letteraria?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/27/la-nuova-poesia-richiede-un-nuovo-linguaggio-critico-una-direzione-di-ricerca-dialogo-tra-gino-rago-giorgio-linguaglossa-lucio-mayoor-tosi-una-poesia-di-donatella-costantina-giancaspero-con-com/comment-page-1/#comment-26164
Complimenti Francesca! Immagini ipnagogiche, filtrate e trasfigurate da un codice segreto, inafferrabile, compongono un’incantata atmosfera metapsichica, densa di poliedriche prospettive metafisiche.
lei è molto gentile Signor Livia. Imparo da voi tutti…soprattutto. Grazie. Buona giornata.
Caro Giorgio,
quando scrivi:
“NON SI Dà ESTETICA SENZA UNA CRITICA DELL’ECONOMIA ESTETICA.”
non sei affatto provocatorio, ma il contrario, cioè dici o affermi un concetto antico e mai banale, infatti prosegui dicendo ” forse sono all’antica”…. e hai ragione.
Ma cosa significa esattamente Economia Estetica?
E’ il raggiungimento con pochissimi mezzi linguistici e sonori di versi “splendidi e arditi” – e una CRITICA è precisamente un rafforzamento di tale metodo, poiché una Critica della Economia Estetica è lo studio di una costruzione in progress, è dunque questa Crtiica l’Estetica stessa! e infine la stessa Poesia che si volge auto-criticamente- Poesia è dunque non più una Estetica fine a se stessa, ma il procedimento di una forma che poi sfocia in Stile.
Lo diceva Spitzer e lo diceva pure in altro contesto più specificatamente linguistico Roman Jakobson, ma anche, come fra tanti ultimi studiosi, Cesare Cases.
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E ricollegandomi alla signora Antonaci Mariella… che forse troppo perentoriamente conclude un giudizio negativo, che è poi sostanzialmente veritiero, e poi non è conclusivo.
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Quei versi della Dono dunque non alludono né a una estetica, né a un critica economica della Estetica stessa; e non devono trarre in inganno quei versi che sono brevi perché non sanno distendersi, ma soltanto perché sono insensati per la Critica, sia essa estetica che Economica.
E quanto ai vari sensi che vorrebbero esprimere, sono consunti.
Eppure la Dono in passato ci ha mostrato cose estremamente più valide.
grazie
Credo che quest’articolo sia in assoluto un dei più incisivi nell’affrontare in maniera esplicita e costruttiva, assertiva, la teoria della NOE da un punto di vista non solo concettuale, ma anche linguistico ed espressivo, con la perentorietà argomentativa tipica di Giorgio e l’autorevolezza dei contributi dei nostri grandi poeti, tanto di coloro attivi nel gruppo della NOE, quanto dei nostri punti di riferimento “numinosi”. Personalmente credo che il ritardo della critica rispetto all’evoluzione storica formale e strutturale delle varie forme d’arte, sia un dato immanente ed insormontabile, dovuto da un lato al condizionamento del peso della crosta superficiale delle appartenenze di “scuole” e correnti che finiscono per creare dei veri e propri potentati (basti pensare a tanta insulsa poesia che vediamo ogni giorno insignita del plauso corrivo di premi o di varie forme di consenso condiviso, laddove si annida il peso delle vari consorterie di potere) soggiogando una critica letteraria indipendente e credibile e dall’altro perché la maggior parte della critica, non riuscendo ad oltrepassare i limiti puramente esecutivi di chi si limita ad applicare in maniera volenterosa e disciplinata gli “strumenti del mestiere”, necessita la canonizzazione delle varie forme espressive per poterle apprezzare; è prerogativa solo di critici di particolare acume, con doti di “rabdomante” della poesia, saper valorizzare istantaneamente l’apparizione di voci poetiche innovatrici o pionieristiche.Così inevitabilmente la critica si rende corresponsabile, se non artefice unica dell’emarginazione di poesia di grande spessore; paradigmatica in questo senso è stata la vicenda storica del “nostro” Alfredo De Palchi. E’ stato davvero un piacere incommensurabile leggere, in unico contesto (oltre ai richiami dalle poesie di Espmark, Herbert e di Brecht) gli interventi dell’intera schiera delle voci della NOE: posso dire che sia stata davvero una carrellata emozionante, oltre che arricchente per i miei nuovi “cimenti poetici” leggere in successione i contributi di Giorgio, Antonio Sagredo, Gino Rago, Francesca Dono, Lucio Tosi, Steven Grieco Rathgeb, Sabino Caronia,Mauro Pierno, sperando di non aver dimenticato nessuno.Non è una dimenticanza invece il fatto di non aver inserito il nome di Mariella Colonna in quanto, avendo un po’ meno occasione di commentare le sue poesie, mi fa molto piacere evidenziare il mio apprezzamento per i suoi versi capaci (come credo di aver già evidenziato in un’altra circostanza) di coniugare poesia “alta” con un’immediatezza “popolare” (termine che mi è molto caro provenendo da studi antropologici ed in tal senso va inteso) in un’operazione quasi antropologica che personalmente rende affascinante la sua poesia, dotata di una freschezza in alcune pagine (come nelle poesie qui apparse) che mi ricorda l’approccio dei grandi cantautori.