Gino Rago  Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt, ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma, con una Riflessione di Rossana Levati

(Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne – Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.)

Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  ragogino@libero.it

(ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma)

16 ottobre 1943. Al Ghetto si scatena la caccia agli Ebrei.
1024 anime nella catastrofe. Senza strepiti. Senza perché.
In tanti non trovano il tempo neanche di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.
15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.
Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.
Dentro le svastiche. Negli stivali sempre luccicanti.
Non dimenticano i fili di fumo che tagliano il cielo.
(…)
I migliori colori (Lefranc. Oxford. Taalens. Schminke).
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.
Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi sbiaditi.
Un mondo muore quel giorno con loro.
Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.
La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulla fossa.
Lo strazio delle separazioni. La babele di lingue.
(…)
Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.
Segatura impastata con colla di pesce. Stoppa. Smalti. Vernici.
Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.
I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
(…)
I materiali poveri della disperazione. Il disastro di un popolo
disastrosamente ingenuo di fronte ai fatti grandi.
Riparte da qui la Poesia. Da nuove parole di resti di stoffa.
Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue.
Su queste parole-cenci già piovono i fiori dai ciliegi.

(Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue)

Rossana Levati

I cenci cuciti alle intelaiature della Storia

Caro Gino, 
come potrebbe non piacermi la tua poesia? Ti ringrazio ancora tanto di avermela mandata e di esserti fidato del mio giudizio.
La tua poesia  ha la “densità” e lo “spessore” che hanno solo le grandi, le vere poesie, quelle che trasmettono subito al lettore un messaggio al tempo stesso etico ed estetico.

Ti allego il mio giudizio, ben poca cosa rispetto alla densità dei tuoi versi. Sono certa che chiunque la legga, come accade ai grandi testi, potrà trovarvi nuovi livelli di interpretazione e cogliere significati ed espressioni che a me magari sono sfuggiti:

Riflessioni di Rossana Levati sulla poesia “16 ottobre 1943” di Gino Rago

Non ho mai apprezzato le opere d’arte (poesie, film) con simboli troppo esibiti e troppo evidenti: ricordo di aver sempre trovato insoddisfacente un film assai famoso alcuni anni fa e dedicato alla questione ebraica: Schindler’s list, tutto in bianco/nero tranne un solo particolare, il cappottino colorato di rosso di una bambina ebrea deportata e poi finita in un mucchio di vittime: mi urtava quel particolare così esibito, così sfrontato e prevedibile.

A mio giudizio, le grandi opere d’arte, come le grandi poesie, devono conservare un tratto distintivo e peculiare: la sobrietà e la misura. Questa poesia possiede in modo esemplare queste qualità, insieme alla capacità di cogliere i dettagli, i particolari, densi di significato e di per sé soli proposti alla comprensione e decodificazione del lettore.

Quello che più mi colpisce, nel quadro funesto che il poeta traccia, sono nella prima strofa i suoni: suoni deformati nel ricordo dei sopravvissuti ai forni, suoni non-umani in un mondo che da quella data non è più umano per loro. Nelle loro orecchie soltanto “cani”, “cani che abbaiano”, sostituto metaforico degli aguzzini: al tempo stesso i “cani” evocano i messi infernali, il Cerbero dantesco, il clima da “tregenda” e da “sozzo trescone”, come nella “Primavera hitleriana” e come quei funesti “stivali luccicanti” sembrano indicare.

Persone-cose che perdono dietro di sé la loro natura umana, alle quali non è consentito conservare nulla del proprio io, arredi domestici, identità, affetti.  E’ la babele delle lingue che ci ricorda che da quel momento non solo è morto un mondo insieme a loro, ma gli esseri umani hanno perduto, forse per sempre, il linguaggio di Dio. Il linguaggio unico e assoluto, non più rintracciabile nella Babele delle nostre vite, nella violenza del quotidiano. Ma angosciosamente ci chiediamo se sapremo cogliere l’ eredità che ci hanno lasciato i sopravvissuti: non “oggetti senza vita” depositati in qualche luogo ma “cose”- tracce conclusive di una vita a metà: l’identità derisa, la coscienza calpestata, la memoria umiliata.

Poi c’è la grandiosa poesia-elenco della terza strofa: l’elenco di nuovi peccati, imprevisti nei dieci comandamenti, l’elenco delle nefandezze di una specie umana arrogante e perversa. L’elenco culmina con quel verso evocativo e indefinito al tempo stesso: “I cenci cuciti alle intelaiature della Storia”. Frammenti senza senso ma depositari, un tempo, di un senso: quei “numeri tatuati” erano persone, quei “cenci” erano vita. Gli smalti, le vernici, i tappeti, i lenzuoli, i sacchi: tutti oggetti di un quotidiano spezzato, resi irriconoscibili nelle loro funzioni, cose appunto senza più senso.

Purtroppo di Dio in quei momenti non si è più intravista nemmeno la suola delle scarpe. E questa angoscia del silenzio di Dio nella terribile gravità della storia può lasciare sbigottiti gli uomini comuni; è il poeta che tuttavia sa che da lì bisogna ripartire  in qualche modo. E se Quasimodo si chiedeva perplesso: “Come potevamo noi cantare?” Gino Rago sa che la poesia deve far tornare i conti che non quadrano, ripartire dai “grumi di quel sangue”, magari accennare un canto a voce più bassa, un canto rappezzato e cucito con i brandelli di quel dolore. Forse è in quel momento che è iniziata la  ”artrite” che deforma il nostro tempo. Il poeta non può che ereditare i cenci di quel mondo fatto a brandelli e trasformarli nella sua arte, nelle sue parole. Parole-cenci, le uniche a nostra disposizione. Ma i fiori dei ciliegi che piovono su queste parole sono ancora un emblema di vita e di speranza: solo così la pesantezza delle immagini, con uno scarto d’ala imprevisto, ritrova nel finale la leggerezza che solo la poesia sa dare al mondo. 

                                                              (Liceo Classico “V. Alfieri- Asti, 24 settembre 2017)

(la sopravvissuta di Theresienstadt amò parole che non riuscì a dire)

Caro Gino Rago,

penso che quando di una cultura letteraria non restano che stracci e cenci, allora vuol dire che quella cultura è definitivamente tramontata, che è degna di entrare nella dimenticanza. E allora ad un poeta non resta nient’altro da fare che ripartire da quegli stracci, rammendare, ricucire quei poveri cenci che rimangono, quegli stracci, per confezionarsi un abito, magari un cappotto per il grande freddo che verrà. Ma l’inverno è già qui, tra di noi, in noi. Già avvertiamo il freddo dentro di noi. Adesso lo sappiamo: «parlare è mancare», che significa che soltanto con la parola poetica possiamo accedere a quella «mancanza» che è l’abitazione più propria del linguaggio poetico. In fin dei conti, la parola abita la «mancanza», rende manifesto il «vuoto» che riempie il linguaggio…

(Giorgio Linguaglossa)

(fino al 7 del mese di maggio del ’45 sono stata meno di un’ombra. Sono stata senza Parole. Vissi nell’Ombra delle Parole )

Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt

Caro Signor K e, per conoscenza,
cari signori Rago, Linguaglossa, Cardelli, Tosi, Gabriele.
Cara Signora Schubert e, per conoscenza,
care Signore Ventura, Dzieduszycka e Giancaspero,
Dono, Mellace, Colonna e Levati, Catapano e Leone.
Vi scrivo dal confine svizzero. Fra Como e Lugano.
Da questo posto non mi sono più allontanata.
Qui ho lasciato l’anima.
Qui sono stata tradita dai “passatori”. Qui mi hanno arrestata.
Il 1° maggio 1944.
Liberata a Theresienstadt nel 1945.
Era di maggio. Per tutti fui la “sopravvissuta”.
La “scampata” al fumo dai forni.
Da Fossoli ad Auschwitz fino all’ultimo campo
fino al 7 del mese di maggio del ’45 sono stata meno di un’ombra.
Sono stata senza Parole. Vissi nell’Ombra delle Parole.
Vissi di Parole che non facevano ombra.
Perché mi rivolgo a Voi? Perché volete ridare la carne a nuove Parole.
Perché nuove saranno le parole che ripartono
da ciò che l’Armata Rossa trovò nei vagoni e nei magazzini
la mattina del 24 gennaio dell’anno 1945.
840.000 capi di abbigliamento femminile. 44.000 paia di scarpe.
400 arti artificiali. 7 tonnellate di capelli rasati ( compresi i miei ).
Montagne di occhiali. Denti. Spazzolini. Giocattoli.
Cenci di pigiami a strisce con la stella gialla nel fango…
(…)
Caro Signor K, cari Signori Rago e Linguaglossa, Cardelli, Tosi e Gabriele.
Cara Signora Schubert, care Signore Ventura,
Dzieduszycka e Giancaspero, Dono, Mellace, Colonna e Levati,
Catapano e Leone,
la sopravvissuta di Theresienstadt amò parole che non riuscì a dire.
Ditele voi per me. Pronunciatele voi. Nella nuova poesia.
Parole di quei cenci nel fango di pigiami con la stella gialla.
Versi nuovi da quegli stracci che ospitarono uomini.
(Che un tempo furono anch’essi uomini vivi).
Da quel confine svizzero la Storia non mi ha mai allontanata.

54 commenti

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54 risposte a “Gino Rago  Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt, ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma, con una Riflessione di Rossana Levati

  1. Una poesia rustica, scritta in ladino, di Adeodato Piazza Nicolai con traduzione in italiano:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-
    CATHOLA VECIA, NRUDINIDA

    Dedicada a dute le struture fate
    dai murador co na cathola

    Babéle, Gimle, Ghiza, Uruk, Sfinge, Rosetta Stone
    Sumeria, Smarcand, Isola de Pasca, Kalì, Partenone, Colosseo
    Stonhenge, Big Ben, Ponte dei Sospire, Reggia de Caserta
    Sagrada Fameja, Carrer de Provencia e la Pedrera de Gaudì
    (morto sote n tram).
    Ciese, catedrali inglesi francesi italiane e anche americanel
    l Taj Mahal, Bunker de Hitler, Empire State Building, Torri Gemelle
    Vajont, ghetto, preson e favelas, Dute i grattacieli e thimitére,
    sarcofaghe e monumenti, trincee e fortificathion eccetera eccetera …
    […]
    Sentha cathola niente sarae stou costruiu fato de père e de matoi,
    nissun palatho te duto l mondo
    e dute i scave fate da archeologi e dai manovai specialiste
    te ogni parte:
    Cina, Medio Oriente, Occidente e anche te le Americhe.
    A Roma e Ponpei sepelide dal tenpo sote la thendre; nuraghe
    castiei e palathe dei siore. Cuante cathole vecie, nrudinithe
    sarà ncora disperse sote tera …
    […]
    In Svithera me fardel Giuanin fasea l murador co na cathola
    betésta da parte da nostro pare. L’é morto dovin te n lago …
    Anche Livio me fardel la giustou mure de la soa ciasa e dela baita
    de Selva, co na cathola. Iò ei nparou a doràla par fei calche riparo
    sui salìn de pèra… no ei mai visto l pare dorà na cathola.
    […]
    Me piasarae tanto ciatàme na cathola doràda e nrudinida
    par fabricà ciase fate coi matoi e co la cathola: se ciata ncora
    massa confin che sèra sù duto l cosmo …

    CAZZUOLA VECCHIA, ARRUGGINITA

    Dedicata a tutte le strutture fatte
    dai muratori con una cazzuola

    Babéle, Gimle, Ghiza, Uruk, Sfinge, Rosetta Stone
    Sumeria, Samarcand, Menir sull’Isola di Pasqua, Kalì,
    Partenone e Colosseo
    Stonhenge, Big Ben Ponte dei Sospiri, Reggia di Caserta
    Sagrada Famiglia, Carrer de Provencia, e la Pedrera di Gaudì
    (morto investito da un tram). Chiese, cattedrali italiane
    inglesi, francesi e anche americane; Taj Mahal, Bunker di Hitler
    Empire State Building, Torri Gemelle, Vajont, ghetto-prigioni
    e favelas. Ogni grattacielo e cimitero, sarcofago e monumento,
    trincee e fortificazioni eccetera eccetera …
    […]
    Senza cazzuola nulla sarebbe stato costruito con pietre e mattoni,
    nessun palazzo in tutto il mondo, come tutti gli scavi
    degli archeologi e dei manovali specializzati
    di ogni parte del mondo:
    Cina, Medio Oriente, Occidente e anche nelle Americhe,
    a Roma e Pompei sepolte dalla furia del tempo, nuraghi
    castelli e palazzi dei ricchi. Quante vecchie cazzuole,
    arrugginite disperse tuttora sottoterra?
    [ …]
    In Svizzera mio fratello Giovanni faceva il muratore con la cazzuola
    messa da parte dal nostro padre. E’ morto giovane lassù dentro un lago …
    Pure Livio, fratello minore, ha riparato le mura della sua casa
    e della baita in Selva con la cazzuola. Ho imparato a usarla per
    riparare alcuni scalini di pietra… non ho mai visto papà
    usare la cazzuola.
    […]
    Mi piacerebbe tanto trovare una usatata cazzuola arrugginita
    per costruire case con dei mattoni usando la cazzuola: ci sono ancora
    troppi confini che incatenano il cosmo …

    © 2017 Adeodato Piazza Nicolai
    Vigo di Cadore, 17 ottobre, ore 10:02

  2. Per Rossana Levati:Leggo sempre con attenzione particolare quei testi letterari che sono anche una “testimonianza”evidente della storia,del passaggio dell’uomo sulla terra:L’immane ingiustizia subita dagli ebrei ha un solo elemento positivo:l’enorme mole di testimonianze che ne è scaturita.In questo il popolo ebreo ha dato un prova di grande forza morale e culturale.Mi colpiscono queste parole:”Purtroppo di Dio in quei momenti non si è più intravista nemmeno la suola delle scarpe”.Perchè vogliamo credere a un Dio caritatevole: come suggerisce, mentendo, la tradizione cattolica.

    • londadeltempo

      Cara Anna, nonostante le grandi sofferenze che mi ha riservato il destino, io “credo” in un Dio caritatevole e non dico una menzogna qando affermo: i “pensieri di Dio non sono i nostri pensieri” e “Deus Charitas est”. (e non sono nè una teologa nè una monaca). Uno o più eventi, sia pur crudelissimi segnati profondamente dalla soffrenza del singolo e di una collettività non vanno visti soltanto nella logica umana: la logica umana non comprenderebbe mai perché un Dio si fa uomo e soffre in tutta la sua umanità perrché l’uomo possa sollevarsi fino a Lui. Il dolore, lo ho sperimentato per testimonianza diretta, ha sempre un valore “redentivo” e, se viene accettato e abbracciato, non per masochismo, ma appunto con quel poco di amore che c’è ancora in noi, ci fa crescere e capire il dolore degli altri…e se arriva a farci morire sono profondamente certa che fa di noi uno strumento di salvezzai. Gli ebrei, nei campi di Sterminio, insieme anche ai non ebrei, hanno vissuto un drammaticissima esperienza storica legata alla loro missione nel mondo: misteriosa e tragica esperienza e missione che soltanto loro avrebbero potuto vivere, morire e trasformare in qualcosa di buono per se setssi e per gli altri esseri umani grazie all’altrettanto misteriosa Charitas di Dio. Io ho questa fiduciosa speranza e ve la voglio comunicare!
      A presto, Cara Anna
      Mariella

  3. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25395
    Seduta vicino al fuoco
    incredulo fantasma
    magra
    pallida
    estenuata
    una donna racconta
    il viaggio
    e l’angoscia
    l’impatto a cuore battente
    con un pianeta ostile
    la cella sordida
    invasa dalle pulci
    le notti senza sonno
    spiando il battito
    ritmato degli stivali
    lungo i corridoi
    il cortile ghiacciato
    dove sempre
    automi pallidi
    girare e rigirare
    i latrati
    gli ordini
    gli interrogativi
    lontani e vicini
    le grida
    i rantoli
    la fame
    il freddo
    e sempre
    la paura.

    Nella notte un treno, edizioni Il Salice

    I miei ricordi da bambina – Il ritorno di mia madre dalla prigione militare tedesca di Clermont-Ferrand nel 1944

    Bellissima la tua poesia, caro Gino. Ha toccato dei tasti per me sempre vibranti.

    • londadeltempo

      Carissimi Edith e Gino,
      sono profondamente commossa dallo sprofondamento con cui siete entrati a tutto corpo nella NOE, toccando con i vostri tasti poetici, pure così diversi, la tragica ballata con cadenze infernali e ancheliche , con i rimmbombi cosmici da cui è accompagnata: Edith, la tua fuga ritmata in modo assolutamente originale e reclinata sugli eventi di cui rivivi il momento dell’angoscia suprema coinvolge , fa entrare nel contesto poetico.
      E Gino, con questa rievocazione splendida dell'”unica sopravvissuta” è storia che diventa Parola Nuova, con la cadenza del tempo raccolto, in modo incredibilmente forte nelle parole, nelle parole divenute tempo circolare che ci afferra tutti, nel cerchio magico che si apre verso prospettiva infinite, ma semza abbandonare mai il corpo vivo e sofferente della Storia. Grazie, amico, che mi hai ricordato di cantare insieme agi nostri amici poeti, anche per conto della grande sopravvissuta. E grazie anche da parte dei martiri di tutti i tempi.
      Grazie a tutti e due!
      Mariella

      • londadeltempo

        LA FRETTA E IL PC.Leggere, per favore in terza riga, “le esperienze infernali e angeliche” e, immediatamente dopo, “con i rimbombi cosmici”.
        M. C.
        Grazie

        • gino rago

          l”(…) la sopravvissuta di Theresienstadt amò parole che non riuscì a dire.”
          Mariella, dobbiamo dirle noi per lei. E tu ti sei già bell’e attrezzata per dirle,
          con pronunzia ferma e timbro riconoscibile.
          Gino Rago

          • londadeltempo

            Caro Gino,
            dopo quello che hai detto tu, chi può aprire più bocca o scrivere dell’unica sopravvissuta di Theresienstadt? Io no. forse parole di speranza e un “grazie di cuore” per chi le sa dire come fai tu: hai trovato un linguaggio scarno e povero che aderisce toto corpore al dramma dell’unica sopravvissuta in cui si raccoglie, in un solo cuore, la tragedia dei Campi di sterminio. Il Male metafisico si manifesta in forme sempre nuove e mostruose. Dobbiamo aiutare l’uomo a recuperare la propria umanità: è questo possiamo farlo soprattutto con la Poesia e con la Poesia della Vita che è pura creazione di un mondo nuovo, di una città materiale e immateriale, a cominciare da noi stessi.

  4. gino rago

    Edith, la tua dolente testimonianza vale più di un sorso
    d’acqua nel deserto che asseta. I tuoi versi vanno a intersecare i miei nella
    crudeltà della intelaiatura della Storia. E’ una prova dura la tua. Lo so e lo sento.
    Ti sono perciò doppiamente grato.
    Gino Rago

  5. Letizia Leone

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25397
    Ringrazio immensamente Gino Rago e Rossana Levati per la profonda e drammatica testimonianza di questo post. Ciò che apoditticamente ha affermato Adorno riguardo ad un certo modo di fare poesia dopo aver toccato il grado zero della storia non riguarda il portato spirituale del quale si fa carico la Poesia in generale ma solo una certa modalità del fare arte e poesia: “La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”.
    Ciò che si rifiutava era un modo di operare artistico de-responsabilizzato che nella particolare contingenza storica del tempo coincideva con la sottrazione delle categorie del “bello” e del “sublime”. Una cesura radicale nel modo di articolare la parola della poesia.
    Da questo momento in poi sarà rischioso concepire un’arte serena e contemplativa, osservare il mondo attraverso quella che Paul Celan chiamerà “la prospettiva dell’usignolo”: “Nessuna poesia dopo Auschwitz: qual è la concezione della poesia posta sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo oppure del tordo”.
    Ecco: ci colpiscono come frustate gli elenchi, i numeri, i fatti nudi e crudi, gli stracci, dei versi brevi o ipermetri di Rago e di Edith e la grande difficoltà nel trovare le giuste parole, “l’angolo d’incidenza della propria esistenza” con la memoria storica, la necessaria viva testimonianza. A tale proposito mi permetto di allegare un mio testo da un libro riguardante il processo ai medici nazisti di Norimberga dove ho trovato ancora e ancora testimonianze agghiaccianti:

    L’archivio ardente. Dodicimila
    pagine di febbre
    I fogli s’assottigliano in fessure
    Di fatti in controluce. Esperimenti.
    Mentre l’inverno ci divora.
    In risalita rantoli e lamenti.

    Questa parola spacca gli schedari.
    I documenti di Norimberga. Le ali

    Del più vorace voluminoso orrore.

    • gino rago

      Letizia Leone, interprete dotta del verso contemporaneo, dalla difficoltà di
      cogliere “l’angolo d’incidenza della propria esistenza”, si inoltra nella parola
      di Rossana Levati e in quella, cenciosa, dei miei versi cuciti alle intelaiature della Storia, per disvelare acutamente, soffrendone,( come con perizia e cultura ha fatto in precedenza Giorgio Linguaglossa, nella sua densa nota su ’16 ottobre 1943′), l’essenza di quello che anche per me è il “Regno delle pietre urlanti” come punto di convergenza e di fusione dell’osservare, del sentire, del capire del poeta del nostro tempo.
      Cui rimangono a malapena i cascami d’una realtà frammentata come materiale di costruzione di un verso. Brava Letizia Leone. Bravo Giorgio Linguaglossa.

      Gino Rago

    • londadeltempo

      Carissima Letizia…sento in te un’umanità profonda, una ricchezza umana che tu riservi per i momenti più intimi e coinvolgenti della tua esperienza di vita ed espressiva: così riesci ad essere poeta anche nella prosa, testimoniando una raffinata sensibilità al bello che riesce a coniugarsi e a prendere corpo nelle tue parole che sorrono sulla vita , ma spesso si fermano a toccarla, a farla propria, a trasformarla in te, mentre tu generosamente dai te stessa a tutte le tue parole. E’ tanto che volevo dirtelo…stamattina ti ho incontrato qui e …vorrei conoscerti anche meglio, sia pure on-line.
      Vorrei che tu mi dicessi quello che pensi sulla risposta che ho dato ad Anna: so che è difficile entrare nella mia logica, ma nasce da esperienze vive che mi hanno fatto sperimentare indicibili sofferenze e guardare in faccia la morte…molto da vicino, quindi, almeno per me, sono vere.
      Spero a presto,
      Mariella

      • Cara Mariella,Il tuo ottimismo è consolante, è consolante la tua fede.Ma la fede è un dono,che non tocca a tutti.Specialmente a chi, come me, ha fatto molte scelte di ragione.Troppe:Ma ormai, per me, è tardi per rimediare

        • londadeltempo

          Noooooooo…. non è tardi! Anche io ho fato un via vai di scelte tra ragione e cuore. Ma il messaggio del Vangelo entra come una spada dentro l’anima e lascia il segno! E poi ci sono “il Magistero della Chiesa e i (forse pochi) fedeli che credono ad una Chiesa di veri credenti, piccola povera e nascosta, come quella delle origini. Dove si condivideva tutto e nessuno moriva di fame o di solitudine. Beh, mi accorgo che sto cercando di convertire proprio te!, esempio di un laicismo in perfetta armonia con i principi evangelici! Perdona la mia intromissione. E sempre grazie per la tua poesia!
          Mariella Colonna

          • Cara Mariella, hai detto una cosa bellissima,attribuendomi un “laicismo in perfetta armonia con i principi evangelici”.Da sola non sarei arrivata ad una definizione tanto puntuale; te ne sono veramente grata.Un concetto alto come quello che tu esprimi lo avevo intravisto, un volta, in una scena di un film di Bunuel, dove due amici dormono in due letti paralleli; uno recita il rosario, l’altro legge un giornale.Il primo dice: ” Io vedo la Madonna”; l’altro ,continuando a leggere,risponde:”La vedo anche io.”

            • londadeltempo

              Grazie, Anna, per la tua splendida risposta. Credo che possa succedere anche a noi qualcosa di analogo, anche se non dormiamo in “letti paralleli”!
              Mariella

      • Letizia Leone

        Grazie infinite, carissima Mariella, per la tua costante e profonda condivisione poetica e umana sulle pagine dell’Ombra e non solo! Ma mi convochi ad un compito difficilissimo, quello di rispondere in merito alla fede e, diciamo così, al “ruolo” di Dio (e già mi è difficile raggiungerla l’idea di Dio, se non in modo elementare come energia intelligente o amorosa che se la spassa e spasseggia nel cosmo, figurati un po’..!) dunque, data per me l’inattingibilità razionale ed espressiva di Dio, mi risulta impossibile definirne un ruolo, soprattutto nei momenti di massima coagulazione del Male sul pianeta. Se non come assenza. Il ruolo dell’assenza, del ritirarsi, della sparizione quasi totale del Bene/Amore/Intelligenza cosmica. Sconfinando nell’etica, e per come oggi si rivela incivile e violenta la nostra specie, forse basterebbe che ognuno sviluppasse anche la sola propria humanitas, se il concetto di Dio risultasse troppo ambizioso. Un affettuoso saluto e a presto, Letizia

        • londadeltempo

          Carissima Letizia,
          prima di tutto sono molto in sinergia con te per le scelte critiche e le profonde intuizioni con cui ti avvicini e ci avvicini alle poesie più significative che presenti sull’Ombra…i tuoi commenti a Giorgio Linguaglossa e, negli ultimi tempi, a Chiara Catapano mi hanno fatto sentire quasi con i polpastrelli delle dita lo sfioramento dell’Immagine poetica nuova a cui tu dedichi la tua riservata e penetrante attenzione, con il relativo superamento dell’EGO che uccide la poesia. Tornando al mio argomento iniziale, credimi, anche per me è difficile far sopravvivere “l’idea di Dio” in un mondo barbaro e totalmente privo di valori morali come quello in cui siamo destinati a vivere! Ma vedi, a me è venuta in mente un pensiero che ha preso corpo con grande naturalezza rileggendo, nella sofferenza tragica del popolo ebraico, simbolo di ogni possibile Male perpetrato dall’uomo contro l’umanità innocente, che il quel Male potesse nascondersi un “valore” certo impensabile per noi esseri umani: il disgusto, la nausea, l’orrore, l’impossibilità di rimediare sul piano materiale…mi hanno fatto pensare ad un mistero di redenzione del “popolo di Dio”, del “Deus absconditus” che , ha portato sulle spalle un sacrificio non dico simile, ma analogo per a quello del Dio fatto Uomo in un ebreo disposto a morire d’infiniti tormenti pur di aiutare l’umanità a risollevarsi dall’abisso del Male. Ti comunico questo pensiero…è la prima volta che mi nasce dentro ed è grazie a voi amici dell’Ombra che lo condivido, non certo per convincervi a farlo vostro, ma per il desiderio di comunicare con voi. Anche perché trovo molto triste pensare all’Olocausto soltanto in termini di orrore e di disperazione senza riscatto. L’amore che risveglia dentro di noi profondi sentimenti di com-passione per il popolo ebreo vittima dello Sterminio… è qualcosa che va ricordato e coltivato tanto quanto l’orrore, se non di più.

          Mariella

        • londadeltempo

          Carissima Letizia,
          ti rispondo dopo sull’Olocausto che mi ha preso molto profondamente in questi giorni rinnovati della “Memoria”. Ora ti confermo che anche io sento Dio come ASSENZA, non per quanto riguarda la mia persona, ma per
          l’ intero pianeta: ma chi ha praticamente eliminato Dio dalla vita dell’uomo se non l’uomo stesso? Abbiamo voluto un mondo senza Dio: ed ecco il risultato. Parlo di un’esperienza di Amore fisico e metafisico che non ha nulla a che vedere con l’isteria di alcuni santi, ma si appoggia sulla nostra “buona volontà”, sulla solidarietà, sulla gioia che proviamo quando (raramente) facciamo qualcosa di buono per gli altri!. Per me Dio è soltanto questa Forza nel bene che, a volte, ci sottopone a gravi sofferenze per staccarci da un modo di vivere senza senso, vuoto, o dall’idolatria del denaro, delle cose, delle passioni che pure dobbiamo vivere e conoscere per “dare corpo” ad una vita. Perdona se ti ho coinvolto in un argomento così delicato,, ma è perché ho molta stima della tua persona.
          Mariella

  6. carlo livia

    FUGA DI MORTE
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25398
    Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
    lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo
    scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
    Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
    che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
    lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
    fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
    ci comanda ora suonate alla danza.

    Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
    ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
    beviamo e beviamo
    Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
    che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
    I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti

    Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
    impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
    spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza

    Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
    ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
    beviamo e beviamo
    nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
    i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti

    Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
    lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
    e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti

    Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
    ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
    ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
    la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
    ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
    nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
    aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
    gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

    i tuoi capelli d’oro Margarete
    i tuoi capelli di cenere Sulamith

    Paul Celan

    Questa è una delle testimonianze poetiche più laceranti della persecuzione ebraica, con l’agghiacciante anafora del nero latte dell’alba, l’elemento vitale, frutto dell’amore materno, che si trasforma in oscuro segno di morte ( l’ebreo Celan, rinchiuso in un campo di lavoro rumeno, aveva appena saputo della morte della madre in un campo di sterminio ). Il mosaico d’immagini surreali suscita commozione e sgomento ( il maestro che scava una tomba nelle nubi, dove finalmente non si giace più stretti, e comanda di suonare e danzare, come facevano i soldati nazisti mentre conducevano i prigionieri nelle camere a gas). I due piani narrativi sovrapposti e quasi confusi, quello della memoria dello sterminio e quello della sopravvivenza dell’uomo che scrive all’imbrunire ( L’abendland di Holderlin, la terra della sparizione degli Dei) sembrano alludere alla scomparsa di confini psichici, ad un deserto post-umano in cui parole e pensieri perdono forma funzione senso valore.

  7. donatellacostantina

    “È necessario continuare a ricordare i crimini dei campi di concentramento del passato, ma anche quelli del presente. Ricordarli con la speranza, la volontà e la responsabilità di vederli scomparire. Un’utopia?”
    Luigi Nono (1924-1990)

    Nella composizione “Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz” (1966), Luigi Nono ripercorre, attraverso il linguaggio della musica elettronica, gli orrori dei campi di sterminio nazisti.
    L’opera non comporta l’impiego di un testo. I mezzi utilizzati dal compositore, nastro magnetico, coro, voce di soprano e materiale elettroacustico, producono un impasto sonoro di tale intensità e spessore drammatico, da poter significare quella che conosciamo come la più feroce tragedia umana della Storia.

    Le parti della composizione sono così articolate:
    1) Il canto dell’arrivo ad Auschwitz
    2) Il canto di Lili Tofler (donna della resistenza, assassinata ad Auschwitz)
    3) Il canto della sopravvivenza.

    • gino rago

      Ringrazio Costantina Donatella Giancaspero per la scelta di integrare la parola di poesia al suo grado zero con le laceranti meditazioni musicali di Luigi Nono. Anche così si entra nell’ormai arcinoto e ben praticato Spazio Espressivo Integrale inventato da Giorgio Linguaglossa.
      Gino Rago

      • donatellacostantina

        Grazie a te, Gino, per l’attenzione e l’impegno costruttivo con cui partecipi ogni giorno alla crescita della nostra rivista.
        Buon lavoro!!

        • londadeltempo

          Ottima scelta, Costantina, sei sempre aggiornatissima e animi i nostri incontri…Grazie…ti aspetta una meravigliosa scarpetta e una sorpresa nel nostro Carnevale poetico!
          Mariella

  8. gino rago

    I versi di Gino Rago al grado zero del dicibile.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25401
    “(…)Come potrei aggiungere un solo rigo al penetrante ed esaustivo giudizio critico di Rossana Levati sulla tua “Lettera dalla sopravvissuta di There- sienstadt” ..?
    Ma i dieci anni dedicati allo studio dell’universo concentrazionario mi collocano in una particolare sintonia con il tuo testo poetico e con l’animo che lo ha ispirato e tento un mio balbettio ..
    La poesia si presenta come una apparente narrazione a grado zero ma con l’intento -credo – di adeguare lo stile espressivo alla suprema spoliazione costituita dall’Olocausto; sono versi-gradini che scandiscono questa catabasi verso l’annientamento, prima psichico che fisico, parole-corteo di una tregenda di morte. Anche i “salvati”, che sopravvivono, sembra rimangano sempre “sommersi” da un annichilimento assoluto.
    Gino Rago si fa messagero e lucido cantore, per colpi di sillabe anche scarne, un metallo di parole che fa rivivere il komos tragico. Eppure l’agghelos nero lascia il suo annuncio, il grido di giustizia che sale più alto del filo di fumo, e varca il tempo per ritrovare l’integrità di una denuncia ardente ed asciutta al contempo.
    Colpi di pennello, atomi espressionistici di versi che compiono l’effetto di sentirci parte di questa testimonianza martoriata, combusti quanto le vittime e quanto la condensazione raggelata delle parole del poeta, giunto al degré zero del dicibile, per risalire, Fenice di poesia, di nuova e corale vita acceso, nel “respiro di un’alba che domani per tutti/ si riaffacci, bianca ma senz’ali di raccapriccio”

    Gabriella Cinti

    Inviato sulla mia e-mail, copio, incollo e condivido il cristallino commento di
    Gabriella Cinti che, con nitida scrittura, entra nella polpa delle meditazioni di Rossana Levati e nell’anima-osso dei miei versi.
    Gino Rago

    • https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25406
      Molti sono i nomi rimasti sconosciuti nel casellario di Auschwitz, e che a volte emergono attraverso la rievocazione storica di qualche scrittore, come ad esempio Edgarda Ferri, che narra la biografia su Etty Hillesum, autrice di un denso diario, dove sono riportate riflessioni spirituali sull’umanità, e su Dio, morta ad Auschwitz nel 1943. .Di questo report ce ne parla Cristina De Stefano su- Robinson- ,La Repubblica, sezione libri- pag. 27 del 4 giugno 2017- Editore- La nave di Teseo, 16 Euro, pag. 192. Ecco alcuni stralci: “Etty vede il terrore che si stringe intorno a lei, nella città dove non può più usare la bici, salire sul tram, dove i vicini vengono portati via di notte, e gli amici partigiani torturati dalla Gestapo. Per un anno lavora come volontaria nel campo di transito di Westerbork, dove gli ebrei vengono ammassati in condizioni pietose prima di partire per Auschwitz. Riesce a restare se stessa anche lì, tra il fango e i topi, e passa il tempo a correre da un prigioniero all’altro. Un partigiano riesce a entrare nel campo e fa un ultimo tentativo per convincerla a evadere, ma lei ribatte”non mi nuovo da qui”. Tra il marzo del 1941 e il settembre del 1943 Etty Hillesum, ventisette anni, studentessa in lingue slave ad Amsterdam, tiene un diario che cambierà la sua vita, e quella di generazioni di lettori in tutto il mondo” Un altro significativo diario, come quello di Anna Frank.

      • londadeltempo

        Molto interessante, Mario, questa testimonianza così poco nota che tu riporti aiutandoci ad entrare nelle pieghe di una realtà storica ma ormai non conoscibile se non in termini di profondità della “memoria” in cui anche noi siamo immersi e dove mettiamo la nostra parte di pietà e indignazione umana. Dalle parole del diario Di Etty Hillesum abbiamo conosciuto i momenti da lei vissuti con estremo coraggio e determinazione e ci è più facile anche se più doloroso rivivere e con-dividere. Cito di nuovo
        dal Diario della giovane:
        “Etty vede il terrore che si stringe intorno a lei, nella città dove non può più usare la bici, salire sul tram, dove i vicini vengono portati via di notte, e gli amici partigiani torturati dalla Gestapo. Per un anno lavora come volontaria nel campo di transito di Westerbork, dove gli ebrei vengono ammassati in condizioni pietose prima di partire per Auschwitz. Riesce a restare se stessa anche lì, tra il fango e i topi, e passa il tempo a correre da un prigioniero all’altro. Un partigiano riesce a entrare nel campo e fa un ultimo tentativo per convincerla a evadere, ma lei ribatte” non mi nuovo da qui”.
        Esempi di quel valore umano che è anche dovere, per noi, di ricordare.
        Grazie,

        Mariella

  9. anna levantino

    e lo sterminio degli zingari, e quelli sotto i nostri occhio dei palestinesi?

  10. Informazioni date da Pierre Daix a Yvonne Humblot, cugina di Camille de Hody, riguardanti il convoglio di deportazione e le sei prime settimane trascorse a Mauthausen
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25409
    Erano in 1800 in quel convoglio. Il viaggio durò quattro giorni. Erano nudi dalla frontiera. Quando arrivarono nevicava. Ebbero due minuti per coprirsi. I vestiti formavano un grande mucchio; ognuno si precipitava per prendere qualche cosa a caso. Per arrivare al campo hanno dovuto camminare sette chilometri a piedi. Una volta arrivati, hanno dovuto aspettare parecchie ore prima di passare sotto la doccia, poi vennero rasati. Nuova attesa nella neve a piedi nudi. Chiamata di cinque ore in calzoni e camicia. Dal momento della partenza da Compiègne non ricevettero nessun cibo.

    Prima avevano ricevuto un pacco dalla Croce Rossa, ma era stato detto loro di consegnarli affinché fossero riposti insieme ai bagagli, dicendo loro che sarebbero stati ben contenti di ritrovarli all’arrivo nel campo; ma di quei pacchi non sentirono più parlare. Durante quell’appello nella neve bisognava rimanere in piedi, sennò si veniva picchiati, e così parecchi morirono per il freddo e l’esaurimento.

    In seguito furono condotti al block. Quello assegnato a Pierre Daix e a
    Camille de Hody era una baracca di legno divisa in due dormitori da 350 persone, con in mezzo uno spazio per i gabinetti. Speravano di poter finalmente dormire, ma dovevano stringersi in sei per pagliericcio di un metro e venti a un metro e cinquanta. Per riuscirci si sdraiavano con la testa contro i piedi del vicino e di lato, e il capo a furia di colpi di manganello riusciva a farli ammassarsi gli uni contro gli altri in modo incredibile. Avevano una coperta per due, ma malgrado il freddo all’esterno non ne avevano quasi bisogno tanto erano stretti. Appena uno alzava la testa o i piedi al di sopra del livello normale o se si parlava, il guardiano dava colpi di bastone. Era praticamente impossibile alzarsi di notte, giacché chi si allontanava non poteva materialmente ritrovare il suo posto, gli altri non riuscendo a riallargarsi per renderlo, e così si doveva rimanere in piedi.

    Una epidemia di difterite si dichiarò. Il block che era in quarantena di arrivo vi rimase molto di più. L’epidemia venne lasciata svilupparsi in circolo chiuso con i malati non curati. Quelli ancora più o meno validi vedevano morire i compagni e siccome erano chiusi insieme, pensavano che non ci sarebbe stato scampo per nessuno. Almeno la morte degli uni faceva posto agli altri : rimasero appena 500 su 700.

    Alla fine della quarantena, ci fu il lavoro alle carriere : bisognava trasportare pietre di 2 o 3 chili per una scala con i gradi troppo alti e disuguali poi per una strada pietrosa. Ma Camille de Hody non rimase lì a lungo e Pierre Daix lo perse di vista. Lo conobbe poco ma lo trovava simpatico e servizievole.

    Ultime notizie su mio padre. Credo non ci sia bisogno di commenti.

    • donatellacostantina

      Non si possono commentare questi fatti. È una testimonianza sconvolgente, questa di Edith: lascia muti, senza respiro.

  11. donatellacostantina

    Arnold Schönberg (1874-1951)
    A Survivor from Warsaw, op. 46
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25410
    Con l’avvento del nazismo, Arnold Schönberg, a causa della propria origine ebrea, è costretto a rifugiarsi prima in Francia, poi negli Stati Uniti, dove resterà per il resto della vita.
    Profondamente angosciato dalle notizie dello sterminio degli ebrei, e, in particolare, addolorato per la morte di un suo nipote in un lager nazista, tra l’11 ed il 23 agosto del 1947, compone l’oratorio dodecafonico “A Survivor from Warsaw” (“Un sopravvissuto di Varsavia”) per voce recitante, coro maschile e orchestra.
    L’opera si avvale della testimonianza di un giovane ebreo scampato allo sterminio nel Ghetto di Varsavia, in una mattina del 1944. Una voce recitante narra in inglese, con brevi frasi in tedesco, il dramma degli ebrei brutalmente strappati dalle loro abitazioni per essere condotti nelle camere a gas.
    La musica è di forte impatto emotivo: squilli di trombe, percussioni, aspre dissonanze, bruschi cambiamenti di dinamica, con rapidi crescendo, accompagnano la drammaticità del testo. L’ascoltatore si sente coinvolto in prima persona e ne esce sgomento.
    Nel finale, la tensione tragica sfocia nel canto “Ascolta Israele”, una preghiera ebraica eseguita all’unisono dai condannati a morte.

    I cannot remember everything.
    I must have been unconscious
    most of the time.
    I remember only the grandiose
    moment when they all started
    to sing, as if prearranged,
    the old prayer they had
    neglected for so many years –
    the forgotten creed!
    But I have no recollection
    how I got underground
    to live in the sewers of Warsaw
    for so long a time.
    The day began as usual:
    reveille when it still was dark.
    Get out! – Whether you slept or
    whether worries kept you awake
    the whole night. You had been
    separeted from your children,
    from your wife, from your parents;
    you don’t know what happened
    to them – how could you sleep?
    The trumpets again – Get out!
    The sergeant will be furious!
    They came out; some very slow;
    the old ones, the sick ones;
    some with nervous agility.
    They fear the sergeant.
    They hurry as much as they can.
    In vain! Much too much noise,
    much too much commotion – and not
    fast enough! The Feldwebel shouts:
    “Achtung! Stilljestanden! Na wirds
    mal? Oder soll ich mit dem
    Gewehlkolben nachhelfen? Na jutt;
    wenn ihr’s durchaus haben wollt!”
    The sergeant and his subordinates
    hit everybody: young or old,
    quiet or nervous, guilty or innocent.
    It was painful to hear them groaning
    and moaning. I heard it though
    I had been hit very hard,
    so hard that I could not help
    falling down. We all on the ground,
    who could not stand up were then
    beaten over the head.
    I must have been unconscious
    The next thing I knew was a soldier
    saying: “They are all dead”,
    whereupon the sergeant ordered
    to do away with us. There I lay aside
    – half-conscious. It had
    become very still – fear and pain.
    Then I heard the sergeant shouting:
    “Abzählen!”
    They started slowly and irregularly:
    one, two, three, four – “Achtung!”
    the sergeant shouted again, “Rascher!
    Nochmal von vorn anfangen!
    In einer Minute will ich wissen,
    wieviele ich zur Gaskammer abliefere!
    Abzählen!”.
    Thein began again, first slowly: one,
    two, three, four, became faster
    and faster, so fast that it
    finally sounded like a stampede
    of wild horses and all of a
    sudden, in the middle of it
    they began singing the Shema
    Ysroël.
    Shema Ysroël
    Adonoi, Elohenu,
    Adonoi echod;
    Vehavto et Adonoi elohecho
    bechol levovcho,
    uvchol nafshecho
    Uwechol meaudecho.
    Vehoyù had e vorim hoéleh
    asher onochi metsavacho hajom al levovechò
    veshinantòm levonechò
    vedibarto bom
    beschitechò, bevetecho
    uv’lechetecho vadérech
    uvshochbecho
    evkumechò.

    ***

    Non posso ricordare ogni cosa.
    Devo essere rimasto privo di conoscenza
    per la maggior parte del tempo.
    Ricordo soltanto il grandioso
    momento quando tutti cominciarono
    a cantare, come se si fossero messi d’accordo,
    l’antica preghiera che essi avevano
    trascurato per tanti anni –
    il credo dimenticato!
    Ma non so dire
    come riuscii a vivere nel sottosuolo
    nelle fogne di Varsavia,
    per un così lungo tempo.
    Il giorno cominciò come al solito:
    sveglia quando era ancora buio.
    Venite fuori! – Sia che dormiste
    o che le preoccupazioni vi tenessero svegli
    tutta la notte. Eravate stati
    separati dai vostri bambini,
    da vostra moglie, dai vostri genitori;
    non si sapeva che cosa era accaduto
    a loro – come si poteva dormire?
    Di nuovo le trombe – Venite fuori!
    Il sergente sarà furioso!
    Vennero fuori; alcuni molto lenti;
    i vecchi, gli ammalati;
    alcuni con agilità nervosa.
    Temono il sergente.
    Si affrettano quanto più possibile.
    Invano! Molto, troppo rumore,
    molta, troppa agitazione – e non
    svelti abbastanza! Il sergente urla:
    “Attenzione! Attenti! Beh,
    ci decidiamo? O devo aiutarvi io
    con il calcio del fucile? E va bene;
    se è proprio questo che volete!”
    Il sergente e i suoi aiutanti
    colpivano tutti; giovani e vecchi,
    remissivi o agitati, colpevoli o innocenti.
    Era doloroso sentirli gemere
    e lamentarsi. Sentivo tutto sebbene
    fossi stato colpito molto forte,
    così forte che non potei evitare
    di cadere. Eravamo tutti stesi per terra,
    chi non poteva reggersi in piedi era allora
    colpito sulla testa.
    Devo essere rimasto privo di conoscenza.
    La prima cosa che udii fu un soldato
    che diceva: “sono tutti morti”,
    al che il sergente ordinò
    di sbarazzarsi di noi. Io giacevo
    da una parte – mezzo svenuto. Era
    diventato tutto tranquillo – paura e dolore.
    Fu allora che udii il sergente che gridava:
    “Contateli!”.
    Cominciarono lentamente e in modo irregolare:
    Uno, due, tre, quattro – “Attenzione!”
    il sergente urlò di nuovo, “Più svelti!
    “Cominciate di nuovo da capo!
    Fra un minuto voglio sapere
    quanti devo mandare alla camera a gas!
    Contateli!”.
    Ricominciarono, prima lentamente: uno,
    due, tre, quattro, poi sempre
    più presto, sempre più presto tanto che
    alla fine risuonò come una fuga precipitosa
    di cavalli selvaggi, e tutto ad
    un tratto, nel mezzo del tumulto,
    essi cominciarono a cantare lo Shema
    Ysroël!
    Ascolta Israele,
    il Signore è il Dio nostro,
    il Signore è uno.
    Amerai il Signore tuo Dio
    con tutto il tuo cuore
    con tutta la tua anima
    e con tutte le tue forze.
    e saranno queste parole
    che io ti comando oggi, sul tuo cuore e ripeterai ai tuoi figli
    e ne parlerai con loro,
    stando nella tua casa
    camminando per la via,
    quando ti coricherai
    e quando ti alzerai.

    ***

    • londadeltempo

      Carissima Costantina, condivido profondamente questa tua citazione che getta una luce di speranza sull’Orrore dei Campi di Sterminio:
      https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25592
      “Fu allora che udii il sergente che gridava:
      “Contateli!”.
      Cominciarono lentamente e in modo irregolare:
      Uno, due, tre, quattro – “Attenzione!”
      il sergente urlò di nuovo, “Più svelti!
      “Cominciate di nuovo da capo!
      Fra un minuto voglio sapere
      quanti devo mandare alla camera a gas!
      Contateli!”.
      Ricominciarono, prima lentamente: uno,
      due, tre, quattro, poi sempre
      più presto, sempre più presto tanto che
      alla fine risuonò come una fuga precipitosa
      di cavalli selvaggi, e tutto ad
      un tratto, nel mezzo del tumulto,
      essi cominciarono a cantare lo Shema
      Ysroël!
      Ascolta Israele,
      il Signore è il Dio nostro,
      il Signore è uno.
      Amerai il Signore tuo Dio
      con tutto il tuo cuore
      con tutta la tua anima
      e con tutte le tue forze.
      e saranno queste parole
      che io ti comando oggi, sul tuo cuore e ripeterai ai tuoi figli
      e ne parlerai con loro,
      stando nella tua casa
      camminando per la via,
      quando ti coricherai
      e quando ti alzerai.

      Vorrei che meditassimo su questi versi che testimoniano la forza morale di un popolo che, vittima del Male e di un Odio delirante,ha saputo rialzare la testa e guardare in avanti senza attribuire a Dio il Male in tutte le manifestazioni della malvagità e follia umana… tali da dissacrare il senso stesso della vita.

      Mariella

  12. gino rago

    Grazie a Edith Dzieduszycka,a Gabriella Cinti, a Letizia Leone, a Costantina Donatella Giancaspero, a Carlo Livia, ad Anna Ventura, a Mario Gabriele, ad Adeodato Piazza Nicolai per i loro contributi e per le loro testimonianze con cui hanno arricchito di cultura e di partecipata vitalità linguistica questa pagina de L’Ombra delle Parole riservata a miei versi recenti.
    Grazie a Giorgio Linguaglossa per avere scelto di riservarmela e per la nota
    critica a corredo raffinato dei miei stessi versi.
    Grazie a Rossana Levati per gli appunti e le meditazioni su, intorno, dentro
    la polpa e l’energia interna delle mie parole. (Una densa lectio magistralis).

    Vi ringrazio daccapo, così, con le parole su un diario di una bimba israeliana di 13 anni, ri-visitate e ri-proposte (da me, estemporaneamente) in versi per voi, per la Redazione e per i frequentatori de
    L’Ombra delle Parole:

    Avevo una scatola di colori
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25421
    Avevo una scatola di colori brillanti. Decisi. Vivi.
    Avevo una scatola di colori. Alcuni caldi. Atri assai freddi.
    Non avevo il rosso per il sangue dei feriti.
    Non avevo il nero per il pianto degli orfani.
    Non avevo il bianco per i volti e le mani dei morti.
    Non avevo il giallo per le sabbie ardenti.

    Ma avevo l’arancio per le gioie del vivere.
    Avevo il verde per i germogli e i nidi.
    Avevo il celeste dei cieli splendenti.
    E il rosa dei sogni e del riposo.

    Mi sono seduto in faccia a Gerusalemme.
    Su una tela da solo ho dipinto la pace.

    Gino Rago

    • londadeltempo

      Anche per questa testimonianza non ci sono parole: una bimba israeliana ha dato il “via” alla vita. Grazie, Gino Rago, grazie di cuore.

  13. antonio sagredo

    l’unico augurio che possiamo fare farci è che certi misfatti non devono più accadere… ma la mia sfiducia verso l’uomo è senza limiti… non si può andare avanti sempre con testimonianze postume: il punto è che simili testimonianze non ci siano più: il che vuol dire la fine dei misfatti…

  14. Non la vedo vicina “la fine dei misfatti”, Antonio, anzi, non la vedo proprio

  15. vincenzo petronelli

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25431
    Sono letteralmente ipnotizzato dalla profondità e della profonda suggestione dei versi appena letti; non solo il brano propostoci di Gino Rago, ma anche i contributi di Edith Dzieduszycka (testimonianza preziosissima), Letizia Leone , Adeodato Piazza Nicolai (per me una grande rivelazione, poiché ammetto che non lo conoscessi prima di approdare sulle sponde dell’ “Ombra”) sono tutti creazioni di sublime levatura poetica. Per quanto riguarda Gino Rago mi affascina il modo in cui riesca a trasferire lo stesso magnetismo, la stessa evocatività, la stessa potenza icastica anche nelle poesie di “impegno” riuscendo a disegnare con i poveri cenci della sua (e mi permetto, con un plurale maiestatis “usurpante” di dire la nostra) poesia, anche gli abiti per le occasioni più solenni della storia. Ripeto lo stesso aggettivo da me utilizzato quando ho letto per la prima volta il brano “Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt”: poesia stre-pi-to-sa.
    P.S.Un ringraziamento a Carlo Livia per aver riproposto il grande componimento poetico di Paul Celan, sempre emoziante, nonché una della mie poesie preferite.

  16. gino rago

    Ringrazio doppiamente Vincenzo Petronelli, per la lettura stessa dei miei versi e per la capacità di penetrazione delle parole con cui li ho costruiti.
    Del resto, che lingua poteva il poeta impiegare di fronte a un’anima che
    in maniera martellante a ogni ora sentiva il cane urlare “Durch den Kamin”,
    per la sopravvissuta di Theresienstadt, e per i cittadini romani del Ghetto che,travolti da eventi non scelti e sovrastanti, come Ecuba alla caduta di Troia, in un istante perdevano tutto?
    Frammenti, cenci, scampoli, avanzi di stoffa… accanto all’espulsione definitiva dell’ “Io” poetante, alla rarefazione degli aggettivi, all’esaltazione
    dei sostantivi attraverso l’uso diffuso d’una punteggiatura fondata sui punti
    fermi.
    Gino Rago

  17. questo il commento che ci compete
    l’asfissia del silenzio.
    e le parti ora dormono.
    si fanno perenni i dolori
    per questa estetica che ci comprende.

    quanti ammanchi perdurano
    sono corazze le nostre carezze
    chiome inesistenti di un sudario
    straziato. questo occhio perenne,
    che vaga memoria e scortica

    sottrae l’esistente che è stato,
    ora canta di un Ombra fortuita
    quella luce che mai ci abbandona
    che saetta, che dardo, che muove.

    questo il punto che alla Storia sottrae.

    (neltrattocheognimattinacompioperrecarmialavoro,leggendovi.20.10.2017mauro pierno)

    • londadeltempo

      Mauro Pierno,
      trovo molto interessante la tua scrittura poetica. C’è molta sofferenza.Forte la conclusione sulla Storia.
      Mariella Caolonna

  18. grazie per le belle letture.

    • gino rago

      “Ma ‘i fiori dei ciliegi’ che piovono su queste parole sono ancora un emblema di vita e di speranza: solo così la pesantezza delle immagini, con uno scarto d’ala imprevisto, ritrova nel finale la leggerezza che solo la poesia sa dare al mondo.”
      Un “grazie”,
      dagli “appunti” di Rossana Levati (su “16 ottobre 1943”), a Francesca Dono, a Mauro Pierno, a Vincenzo Petronelli.
      Gino Rago

  19. donatellacostantina

    Accogliendo la gentile richiesta di una nostra amica lettrice, Wilma Minotti Cerini, posto qui una sua poesia dedicata a tutti i bambini vittime delle deportazioni naziste. La poesia è preceduta da una breve nota, in cui l’autrice descrive la circostanza in cui essa è stata composta.

    ***
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25466
    «Nel 1992 mi ero recata a Praga con mio marito. Tra le altre cose, andammo a visitare il cimitero ebraico e, all’uscita, il piccolo Museo degli oggetti ritrovati dei bambini morti nei campi di sterminio (piccoli disegni e bamboline di ferro contorto). Ne fui talmente colpita e sconvolta che quella sera stessa, con le lacrime agli occhi, scrissi questa poesia»

    ***

    Praga 1941 – 1992
    Dedicata a tutti i bambini ebrei di Praga che furono portati a Therezin e poi ad Auschwitz e non tornarono mai più.

    DISEGNI

    Mai più, mai più
    le farfalle
    dalle grandissime ali colorate
    che non possono volare
    di Hana e Lisa

    O i draghi neri
    di Doris e Berta
    che ringhiano e soffiano fiamme nere
    verso mondi di nuvola
    che rinchiudono
    bambine e principesse
    dai bei vestiti colorati

    Ma neppure
    il gatto nero
    dalla schiena arcuata
    di Heinz
    che, sulla carta,
    rivela ancora
    la sua ribellione

    e ancora no
    ai mondi di sola illusione
    di Gabi e Ilona,
    di Margit e di Marika,
    di Malvina e Gertrud
    di Franz, Joseph e David

    l’una con una grande tavola vuota
    e persone in attesa
    l’altra con una casa che ride
    della come il ricordo
    e l’altra ancora
    con una casa
    dove piccoli segni di tanti colori
    nascondono
    i più riposti segreti
    o le colline
    che nascondono l’”oltre”

    Potessi ricordarvi tutti
    piccoli, che partiste un dì
    a migliaia
    dando la piccola mano
    al padre o alla madre
    e con l’altra
    le matite colorate
    lasciando sulla placida Moldava
    e nei cieli di Praga
    a ricordo
    i vostri canti di allegrezza.

    E mentre i camini
    di Terezin gelavano
    lasciavate piccoli sogni
    grandi incubi
    a chi restava
    per non dimenticare
    insieme a bamboline
    di ferro contorto
    e un cane di pezza

    Ora a Terezin
    di Davide a migliaia
    piccole stelle
    guardano il cielo
    e, nel silenzio ombroso
    della Torah di Pinkas
    i vostri piccoli
    dolcissimi nomi
    scolpiti nella pietra

    Volate farfalle di Hana e Lisa
    colpite a morte
    i draghi di Doris e Berta
    perché la bambina e la principessa
    scavino un varco
    sulle colline senza oltre
    per ritrovare
    la terra promessa
    dove pioverà dal cielo
    la manna, per riempire
    la tavola vuota
    dove potrà mangiare
    il gatto dalla schiena arcuata
    di Heinz
    e dove vive
    la casa che ride

    Wilma Minotti Cerini

  20. Per Mariella Colonna, Cara Mariella, le risposta alle tue acute osservazioni circa il mio discorso poetico sono più sopra, collocate tra le molte che si susseguono nel ritmo veloce dell'”Ombra”.Devi avere la bontà di cercarle.Il dialogo con te mi è particolarmente congeniale,
    perchè privo di pregiudizi e di dogmi intoccabili, aperto all’esperienza e alla metamorfosi,al rispetto delle idee di ciascuno.Ti saluto caramente, Anna Ventura

    • londadeltempo

      Cara Anna,
      anche per me il dialogo con te è un dono, mi sento rassicurata dalla tua serena, forte lucida visione della vita. Ho trovato la tua email. Ti scriverò con vera gioia appena possibile (sono in cura con le radiazioni, ma le sto sopportando bene!). In privato possiamo anche scambiarci i numeri di telefono e parlare un po’ a voce.
      Ti sono vicina, a presto!
      Mariella

  21. gino rago

    Testimonianza per “16 ottobre 1943”
    di Alfredo de Palchi

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25563
    “Dalla nascita in dicembre 1926 al 1952 ch’io
    sappia non ho conosciuto una persona ebrea,
    e se l’avessi incontrata non l’avrei
    riconosciuta. Ma nella vasta tenuta dove mio
    nonno mi conduceva bambino in bicicletta alla
    domenica vidi incantato parecchi belissimi
    grandi cavalli appartenenti alla famiglia
    veneziana Treves. Fino al mio 14mo anno
    vidi quei cavalli e grandi attrezzi agricoli
    della tenuta marciare alle parate patriottiche.
    Mai udii menzionare ‘ebreo’ in famiglia, dai
    compagni, e da altre persone. E pensare che
    il paese di bifolchi sparlava con cattiveria di
    tutti, particolarmente della mia famiglia non
    religiosa.
    All’armistizio del 1943 con gli alleati i soldati
    tedeschi occuparono l’Italia. Voci di sicari
    avranno sicuramente riportato il loro odio
    alla gendarmeria tedesca, altrimenti per
    quale motivo un gendarme mi conduce in
    gendarmeria e là un ufficiale mi tocca la
    testa e la misura mentre comincio a ​
    ridacchiare incoscientemente.
    Mi lasciarono
    andare senza dirmi o chiedermi cosa
    volessero da me…
    Otto anni dopo queste e altre vicende
    razziali, ebbi l’atroce esperienza di sentirmi
    gridare “ Juif Juif “, la mia compagna dice
    con calma che è lei la vittima, non io. In quel
    momento capii che era ebrea, e per mano ci
    sposammo di sabato in un municipio di
    Parigi.

    Alfredo de Palchi

  22. gino rago

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25564
    Ho potuto leggere la testimonianza di Alfredo de Palchi soltanto pochi istanti fa sulla mia e-mail, la copio, la incollo, la rendo nota all’esigente, severo e competente pubblico de L’Ombra delle Parole, considerando ingiusto che
    restasse dormiente nella mia posta.
    Ringrazio Alfredo (de Palchi) e ammiro la sua scrittura scabra, essenziale,
    diretta e senza ombre retoriche né arzigogoli con la quale parla di un segmento lacerante della sua ‘storia’ personale immersa nella grande Storia.

    Gino Rago

  23. […]
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/18/gino-rago-lettera-dalla-sopravvissuta-di-theresienstadt-ricordando-il-16-ottobre-1943-al-ghetto-di-roma-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-25600
    – Un ristorante.
    – Guarda quante lampade! È un ristorante delle fate.
    – Oh, guarda le bambole in quella vetrina! Sembrano vive! Che strada è questa?
    – Il Nuovo Mondo.
    – Quanti alberi crescono qui… sembra un parco. E le signore con il cappello, come sono alte! Senti che profumo? Cos’è?
    – Lillà.
    – Arele, voglio chiederti una cosa, ma non arrabbiarti.
    – Cosa vuoi chiedermi?
    – Mi ami veramente?
    – Sì, Shosha, moltissimo.
    – Perché?
    – Non ci sono perché. Ti amo e basta.
    – Finché non c’eri, non c’eri. Ma se tu andassi via adesso e non tornassi, morirei mille volte.
    – Non ti lascerò mai più.
    – È vero? L’orologiaio una volta ha detto che tutti gli scrittore sono come i vagabondi, camminano dietro alle suole delle proprie scarpe. Leizier non crede che ci sia un Dio. Dice che tutto è venuto da solo. Com’è possibile?
    – C’è un Dio.
    – Guarda, il cielo è rosso, come se fosse un incendio. Chi abita in quelle belle case?
    – Gente ricca.
    – Ebrei o gentili?
    – Per lo più gentili.
    – Arele, portami a casa, ho paura.
    – Non c’è ragione di avere paura. Succede che dobbiamo morire, moriremo assieme -, dissi, trasalendo delle mie stesse parole.
    – È consentito mettere un ragazzo e una ragazza nella stessa tomba?
    – Non le risposi e Shosha mi appoggiò la testa sulla spalla.

    da Isaac Beshevis Singer, Shosha, romanzo, 1978, traduzione di Mario Biondi ed. it. del 2004 (supplemento a Famiglia Cristiana)

  24. gino rago

    Omaggio breve ad Antonio Debenedetti , autore del libro-testimonianza
    ’16 ottobre 1943′, e alla sua scrittura esplicitamente digressiva: perché la digressione è, forse, la forma espressiva che permette di incistare sulla narrazione il rovello dell’uomo che vorrebbe fornire una risposta logica agli interrogativi posti dalle tragedie della storia. Si vedano, come esempi, questi passi:

    1 – “Persuasi da secolari esperienze che il loro destino sia di essere trattati come cani, gli ebrei hanno un disperato bisogno di simpatia umana: e per accattarla, la offrono. Fidarsi della gente, abbandonarvisi, credere alle loro promesse, è appunto una prova di simpatia. Si comportarono così anche coi tedeschi? Sì, purtroppo.”

    2 – “Loro soli [i tedeschi] sapevano la ragione di quell’inferno. E forse la vera ragione era proprio che non ce ne fosse nessuna: l’inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò più intimidatorio”.

    Gino Rago

  25. gino rago

    Caro Gino,

    ti ringrazio per avermi linkato i tuoi versi. Scusa se ti rispondo in privato, ma non mi sento all’altezza dei commentatori che mi hanno preceduto.

    Il tuo inedito, ’16 ottobre 1943′, è immenso.
    Le parole giuste al posto giusto. Come fossero state sempre lì, come se una combinazione lievemente diversa delle stesse parole o l’utilizzo di un solo sinonimo fossero tassativamente esclusi dalle leggi della fisica.
    La tua opera, sebbene inedita, è già secondo me un monumento, è come il Colosseo: nessuno ha mai visto nulla di simile e nessuno può immaginarselo diverso da come è. Direi che è il Monumento della Memoria. I tuoi versi mi fanno venire voglia di tornare indietro nel tempo per evitare -non so come, forse a mani nude- che quelle pagine nere fossero scritte…

    Un caro saluto

    Francesco (Mundo)
    (copio, incollo e diffondo la testimonianza di Francesco Mundo, giovane autore di un importante racconto lungo, “Morte di ghiaccio”, Roma, 2008,
    inviata privatamente alla mia e-mail. Testimonianza da non tenere nascosta
    a dormire un sonno ingiusto e immeritato).

    Gino Rago

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