
Sara di Terach e della lettera yod diede tarda discendenza E risalendo inversamente la scala del tempo, dalla famiglia Passò a Sur sulle ventose coste del Libano
Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Alcune collaborazioni:
Museo Storico del Trentino (riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine, http://fondazione.museostorico.it/index.php/Pubblicazioni/Libri-e-produzioni-video/Libri/Discorsi-militari); Casa editrice Pataki (http://www.patakis.gr/), e con la poetessa greca Aghatì Dimitrouka; Mincione Edizioni, per cui traduce e tiene i contatti con la Grecia (https://www.mincionedizioni.it/).
In passato ha collaborato con la rivista Anthropos de l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL, con Thauma edizioni di Pesaro; con Rec Movie nella realizzazione del corto “Alìmono”. Ha pubblicato con Thauma edizioni e con Perrone. Sue poesie e testi sono apparsi in antologie e riviste italiane ed internazionali.
Sono in calendario:
Giovedì 9 novembre 2017, La militarizzazione della vita civile
Conversazione sul libro Discorsi militari di Giovanni Boine; a cura di Andrea Aveto, con scritti di Chiara Catapano e Claudio Di Scalzo (Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2017;
14/15 Dicembre 2017, Centenario boiniano, in collaborazione con il Comune e la Biblioteca di Imperia, per l’organizzazione di Franco Contorbia e di Andrea Aveto.

Chiara Catapano, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Erbario minimo triestino
Val Rosandra e Costiera
Campanula piramidale – Campanula pyramidalis L.
(Durante i mesi freddi queste piante perdono la parte aerea, ricominceranno a germogliare la primavera successiva)
Sara di Terach e della lettera yod diede tarda discendenza.
E risalendo inversamente la scala del tempo, dalla famiglia
Passò a Sur sulle ventose coste del Libano:
Baciò i cedri sacri e fondò la guarigione iniziatica
Attraverso l’abbandono d’ogni negozio.
Messa al rogo come strega
Un lembo bruciato della sua veste ancora
Venerano le vergini e le anziane come reliquia.
Meno conosciuta di Tiresia
Vibrò decisa in terra il nodoso bastone di ciechi e indovini
E sulle sue orbite divorate dal fuoco
Dio calò un drappo perennemente bagnato.
Dolina
Elleborina verde – Hacquetia epipactis
(Il decotto di elleboro veniva usato dagli antichi come potente veleno)
Sostavano sull’uscio, era imperativo il loro sostare:
impietosi, osavano quell’incertezza – sfoggiare era dominare.
Da quella posizione non se ne comprendeva il numero,
fuori la stanza delle attese: personalmente ne contai una decina,
ma certo dal trambusto di ferraglia che cozzava intorno le cinte,
le punte di ferro che sgusciavano tra le cosce, erano molti di più.
Avrei giurato di averne riconosciuti un paio, visti giù al paese,
o dentro i sogni in cui ti inseguono con gambe e braccia di piombo
e se ti giri, loro svaniscono;
a quei sogni di solito presto attenzione, suggeriscono il Vero.
L’ultima volta pigiati all’interno delle ossa non li vedevo
ma li percepivo perché ad ogni movimento
lanciavano un garrulo grido: ridevano di me.
Poi degli ubriachi hanno sostato sotto la mia finestra
fino alle prime luci dell’alba ch’è durate ore, non dormii più.
Questo per dire che non sono sicura delle facce, o dei miei ricordi.
Potrebbero essere inquisitori anche se manca loro l’altezza
(la stazza è importante in certi mestieri).
Poiché si era creato grande imbarazzo per la loro presenza
ci concentrammo tutti sotto i muri della stanza delle attese.
La carta da parati ormai spenta presentava strappi
intorno alle poche aperture da cui filtrava luce,
ogni tanto un guizzo di colore combaciava
con una qualche lontana realizzazione:
per la prima volta riconobbi l’elleborina verde
in formato grande su sfondo azzurro.
Dalla sua bocca squamosa piccoli capezzoli gialli
stillavano il vile veleno, raggiro del corpo;
l’insolita fragranza del desiderio privo d’oggetto.
Ma non era un dio a cercarci?
Non stavamo dunque tutti lì, in attesa
con questi petali d’intorno a contenerci
a proteggerci col loro veleno dagli altri,
dal loro e nostro imbarazzo
per le prossime esecuzioni?
Nessuna pressione, nessun sussulto sotto il silenzio della pelle.
Erano ali, sottili affilate per fendere nell’intima corteccia dell’umano;
era la resina ai nostri piedi fino alla fonte di dolore,
l’epicureismo delle fibre, la vita rivoltata dentro sé.
Così uno dopo l’altro ci sciogliemmo in versi,
palpebre tremule dentro un concerto di sillabe;
miele di suoni invertebrati ancestrali, impronunciabili
se non per una volta. Suoni privi di ritualità.
Era il peso dell’atomo che cantavamo, e fuori
lo stridere di spade e strade senza mistero.

Chiara Catapano con Agathì Dimitrouka Atene, 2017
Landa e boscaglia
Orchide maschia – Orchis mascula
(I fiori della maggior parte delle specie di Orchis non producono nettare)
Sopra le tombe di due sconosciuti elleni
Accanto, noti con dispetto, ecco
la forma precisa di cui siamo fatti: solido fumo.
Lì dove indicavi: due statue, vette d’Olimpo
nel bianco poroso del marmo, e venature
strette rughe di divina bellezza. Le nostre tombe.
Noi non siamo né belli né eterni,
ma lo specchio convesso dei nostri pensieri
vedi come ne riflette le posture, i modi, le intemperanze?
Siamo già parte di questo immaginario: la città salva,
la sdegnosa ferita. Oltre, ancora statue.
Un Ermes fluido come mercurio, dall’anca flessuosa
ripiegato giunco, osserva di sbieco l’entrata, la valuta.
Egli sa che da lì prima o dopo dovrà passare.
Pare effeminato perché gli hanno esagerato la dolcezza
della spalla, la lunghezza delle dita;
accennano alle ventose cime, ai luppoli flessi dal loro stesso peso
le curve femminee eleganti. I giganti di terra:
pure impenetrabili senza l’ala di Ermes.
Cosa sono queste statue? Le nostre memorie, i destini?
Le gradevoli ineffabili intermittenze,
alter ego affidati a uno stato senza tempo?
Sto, mi fasciano i polsi bende ricoperte di canfora,
è notte fonda e siccome non riesco a dormire mi porti al museo.
Credo tu mi voglia abbandonare, forse scambiarmi
con un simulacro che mi rappresenti
ma perfetta, senza ferite.
Parlo con Ermes. Con lievi mani
ho sfilato dal baccello dell’orchidea il sorriso del dio.
Ibico risuona dentro lo stesso sorriso,
raggelato ecco si scioglie alle prime luci dell’alba:
“Insonni lucidi albori dèstino usignoli.”
E come ferraglia cantano i nostri cuori.
Il mio più del tuo stona. Oh! abbandoniamo il museo,
la sua storia ci fa ancora più piccini, soffio d’inutilità:
solido fumo, come dicesti. I nostri usignoli erano desti,
vegliavano tutta notte il ritorno
hanno perduto ogni bellezza per salvarci.
Allora lascerò cadere le vesti, permetterò ai turisti
di scambiare jeans e pullover con un solo, lungo peplo.
Prima mi farò detergere d’olio di sandalo
e il dio-donna dominerà in me ogni istinto
con il suo fallo di pietra.
Pigiata al suo cospetto di vergine, mi farò dominare.
Tu ormai non ci puoi fare più nulla: è pronto il talamo saffico
e il suo fallo, aperto e roseo come l’orchide maschia mi reclama.
Poi torneremo a casa, e se lo vorrai, potrai avermi.
Attraverso me, la purificazione.
Dolina
Rosa Canina – Rosa Canina L. 1753
Di dove cadono le rose, mi suggerì un giorno il verso scarno – scabroso verso –
nell’ululato tardo del mare, quando scura l’ora ed ogni minima et fecunda
sfocia in giusto brivido prima di infilar la chiave e scomparire nell’ombra della casa.
Di dove cadono, senza mutar stagione o tempo, senza scroscio o strepito: nell’indifferenza.
Sarebbe a dire, e così è, che la bellezza odia il fermento e quando si consuma – se si consuma –
non dà nell’occhio, non fa pettegolezzo della sua condizione, né freme: non sgrana o diminuisce.
Tace tutt’al più pure la morte: la propria, dico, quasi fosse un che da benedire.
Così misuro il petalo cadere con strepito di pancia, col dolore viscerale del bimbo
nel primissimo giorno di scuola: con quell’attesa di nulla, quella animale
istinto che nulla crede possa accadere. È attesa, punto, di un vago piacere:
dell’amore o del perdono. Che mi vengano a prendere fuori da scuola
al termine del litigio o della festa, dove non esisto. All’estremità opposta della rosa
su quell’equilibrio di spine, nella sospensione tra due dolori.
Nel ventre di questa ferocia ch’è vita. Tornino qui, alla mia età di uomo,
alla quintessenza della forza, all’età che spezza regole e tormenti.
Tornino alla fonte risalendo la corrente, facendosi piccoli
come io son stato. Tornino e m’accarezzino la fronte, dentro la febbre
a cercar conforto. Dunque forse (forse) comprenderanno
l’insolidità di questo male e il suo contrario, così assimilabili e ondosi.
Senza titolo
“E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva“
Quel modo, un’illusione.
Noi dentro-tirati, noi fasci d’onde;
Dove mi hai lasciato, quando non mi conoscevi?
Sotto la rosa dei venti, dentro un concetto
Tra Nord e Nord-Ovest.
Dunque sono, leggero stormire di schiume
Se imparo la ripetizione delle cose
Come atto unico dell’anima.
La tua e la mia antichità non hanno voce:
Solo onda dopo onda dopo onda: senza un poi.
Interposta frequenza mio tuo nome,
Tuo mio risorgere e inabissare;
Mio tuo cristallo tra due suoni
Tuo mio spezzare con forza il baccello.
Mio tuo crescere decrescere
Tuo mio abbattere
Mio
Tuo.
Fresco d’alba, l’attimo
Aperto sopra un prima e un dopo,
Tuo mio battito, mio tuo ristoro
Mio tuo fruttificare, tuo mio assimilare.
Lo sanno le famiglie dei pesci
Dentro i più cupi abissi inviolati
Dalla sottilissima qualità della luce.
Sciacquarsi sempre a riva è
Una qualità non più azione
Agìta nello spazio di separazione.
Tra due io distinti. La tua quasi dissoluzione
Avverte l’etere in fiamme, ribalta
L’abisso indistinguibile dentro la luce.
Quando tornai era sera
E il mio nome cantava le tue rinascite.

da sx, Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano e Franco Di Carlo, Roma 2017
[La poesia prende l’avvio da un verso di “O Maistros – all’Epiro – Vento e asfodelo” , di Steven Grieco-Rathgeb]
Autunno D’agosto
(2017-08-10)
Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
Sole quadrupede acceso, un sole di resina, alza aghi di soffio, vento soffio su polvere accesa.
Ora vedi il sole d’agosto, sole agostano riverbero suono. In Piazza Vittorio gli alberi son tutti carcasse: vibrano in cima il riposo dell’ombra, lo zufolo-ombra s’acquatta nell’alto, ritira l’onda d’abbraccio, sbreccia l’opale ferroso di luce che agguanta la terra.
È pura solitudine il guanto che avvolge le cose.
Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
E culla il tiglio in Viale Aventino i pianti d’ipsofillo, latte accartocciate d’abbandono. È un autunno d’agosto, stagione dentro stagione
– dici –
Piovono grappoli d’ombra senza più linfa, piovono secche radure.
Frinire di linfa,
crepita piano.
Un autunno d’agosto che vive sotto le chiome, che impazza dall’alba al tramonto e impenna la notte in rivoli-foglie,
in rivoli giallo-marrone,
in sacche d’asciutto vibrare.
Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
Quaggiù è un autunno d’agosto, un lento soffrire di luce.
Osserva il silenzio del ramo: l’ala acuta, il protendersi ingenerato.
Non rami ma il loro protendersi:
di questo parliamo quando parliamo degli alberi,
e il loro lento vibrare la luce, insinuarla al compianto dell’acqua.
Ora tutto è suono. Di seta e fuoco sotto le scarpe. Suono d’ancoramento, suono-fittone al ramo di retina,
dove tutto s’illumina il suono.
Dove tutto s’acquatta, diminuisce. E il risveglio lento fluisce dai muscoli al cuore, tutto l’essere contaminato di luce.
I suoni sono luce. Un concerto d’agosto. Un frinire di suono ingenerato.
E ti tengo dentro il mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
*

Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra
Luce solida, polvere di carta.
Luce solida-attesa, fittile presenza. Ruspe in lontananza.
Polvere natante, plasma disgregato, sgorgato da una ferita di luce.
Le ruspe silenziano il paesaggio.
Alberi d’osso, pallidi dentro il passaggio silenziato dei motori,
ti agguanta fermo la luce, il suo suono immobile. Lievemente oscilla occipitale
la testa febbrile d’agosto cosparsa di foglie secche acquattate,
di rintocchi feroci dalle chiese cinguettanti
nella breccia tra due suoni di luce.
Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
Quattro sbuffi di nuvole inchiodate ai rami. Il ferro del chiodo nella docile carne del tronco, ombra luminosa in retina accesa.
La terra ribolle di polvere viola, polvere grigia-autunnale, polvere cicala che frinisce dentro l’ascolto.
Verdeggia altrove il pensiero.
La nuvolaglia dei pensieri-ortiche.
È una notte di giorno il miracolo dell’insondato pensiero, snodato tra cielo e terra, suono riverberato e tattile. Il cuore autunnale nell’astro d’agosto che pompa luce alle periferie.
La notte non arriva, l’appena rugiada del giorno.
Silenzio completo tra i rami che coperchiano il fragile azzurro. Silenziano il fragile azzurro.
Dove nasce il pensiero?
Nasce sospeso. Non dove, ma chi.
Non chi, non quando.
Le valve del tempo nel tempo intimo, tra luce e suono.
Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
Ed entra il giorno dentro la notte, penetra piano.
L’immagine sbriciola se stessa, niente è più come appare.
Un guado nel nuovo cammino, l’immagine ferma si attende.
L’aria sterile, aria fasciante di carta,
lassù un piccione.
Tutti francobolli ritagliati nel suono e nella luce.

Quattro sbuffi di nuvole inchiodate ai rami
Commento di Giorgio Linguaglossa
cara Chiara Catapano,
qui, in questa poesia [“Autunno d’agosto”], si può parlare di un salto qualitativo e quantitativo più che di evoluzione o di crescita della tua poesia… si vede che l’impatto con la nuova ontologia estetica ha avuto su di te un effetto travolgente, direi che ti ha liberato dalle zavorre epigoniche, dagli impressionismi paesaggistici, ti ha dato la spinta giusta per correre con tutta la forza delle tue gambe, di inoltrarti nella nuova poesia… ma l’hai fatto con le tue corde e i tuoi strumenti, questo è significativo. Direi che hai fatto un balzo prodigioso ben oltre l’ultimo Bacchini de I canti territoriali (2009), dove però lo spettro lessicale e tematico del poeta parmense resta tutto nel cono di luce della poesia parmense e, retrospettivamente, post-bertolucciana. In questo poemetto invece c’è uno spettro lessicale amplissimo che coniuga toponimi romani e gestualità esistenziali… anche gli oggetti, con quei tuoi composti verbali tipici della tua manifattura (cielo-utero, luce solida, polvere di carta, sbuffi di nuvole inchiodate ai rami, etc.), diventano irriconoscibili e si mescolano alle tonalità espressionistiche diffuse a piene mani in un metro disarticolato e irregolare che non si lascia irreggimentare né tantomeno suturare da interventi esterni. Apprezzo particolarmente, infine, il tuo non cedere alle tentazioni di irrorare il tessuto della poesia con effetti medicamentosi e oggetti facilmente accessibili e riconoscibili. Di fatto, la poesia si presenta estranea e refrattaria ad una semplicistica ubicazione critica, è fatta per depistare i facili idioletti critici rendendoli inutili e fuorvianti. Questa tua poesia richiede un nuovo tipo di ermeneuta, un ermeneuta che ancora non c’è, oserei dire.

Tace tutt’al più pure la morte…
Lettura di Letizia Leone a Erbario minimo triestino
Il mestiere del poeta è questo “portare alla presenza” sembra ricordarci Chiara Catapano con il suo appellarsi alla natura, all’eidos del fiore, alla sua forma intatta lungo il flusso inarrestabile del tempo.
La natura è poesia, poiesis, in quanto in essa la Forma viene alla luce spontaneamente: “qualsiasi causa capace di addurre una cosa dal non-essere all’essere è ποίησις” (Platone, Convito, 205b).
Eppure qui il richiamo viene subito riposizionato nei limiti minimi e omeopatici di una possibile terapia per il nichilismo post-moderno perché appare evidente come queste erbe e queste piante siano organismi complessi. Oltre la clorofilla possiedono la proprietà interna della memoria e irradiano l’energia poetica della loro durata storica. Sono erbe antropizzate dalla registrazione dell’esperienza. Una esperienza storico-letteraria s’intende, dato che Proust ci convince del fatto che la vita vera sia la letteratura in quanto “vita registrata, fissata in un documento, e resa quadrimensionale…”
Se in ultima istanza insieme al lungo, al largo e al profondo c’è anche il passato, come afferma il filosofo Maurizio Ferraris, “per l’osservatore proustiano c’è un istante privilegiato, il presente, il punto dello spaziotempo in cui l’osservazione avviene. (…) Una scia quadridimensionale, una connessione con il passato che favorisce l’integrazione di percezione e memoria”.
Il fiore è avvento, attimo, “punto dello spaziotempo”, presente caduco già svanito nella sua traccia. In questo “Erbario minimo” sfilano i fiori. Fiori strappati alla dimenticanza grazie alla “terza dimensione della poesia” come la chiama Elytis: lacerti, disiecta membra, numinose figurazioni la cui nominazione è la cruna d’accesso ad un immaginifico e stratificato discorso poetico. Si potrebbe dire, parafrasando O. Mandel’štam, che questi cursori vegetali siano input, “segnali-onde semantici” che una volta compiuta la loro funzione si defilano: mettono in atto una particolare strategia compositiva dell’ “immagine esteriore esplicativa” che avvia “il proprio comando programmatico nel processo di genesi della parola”. Avviano la costellazione delle digressioni poetiche.
L’autrice stessa in una nota chiarisce il senso di queste figurazioni che magnetizzano l’orizzonte di certi passaggi lirici assemblati in fotogrammi e associazioni analogiche: “Erbario minimo, ovvero ogni pianta o fiore qui citato mi suggeriva incursioni e suggestioni cui ho dato liberamente voce.”
Oltre i precisi riferimenti floreali e simbolici, l’immersione nella memoria collettiva.
“Risalendo inversamente la scala del tempo” recita un verso della Catapano, ma un tempo non euclideo, un tempo fluido oscuro dove galleggiano impressioni, registrazioni, frammenti di Storie e acuti di tragedia. Il velo dell’allusione vegetale è lacerato immediatamente.
Questi “Eterni sussurri” del dolore lanciati nell’etere da un coro afono rimbombano in una cavea vuota, con-fusione di voci plurali, intime, interiori intercettate dall’ orbitale largo del verso ipermetro della Catapano.
Così uno dopo l’altro ci sciogliemmo in versi,
palpebre tremule dentro un concerto di sillabe;
miele di suoni invertebrati ancestrali, impronunciabili
se non per una volta. Suoni privi di ritualità.
A sottolineare la scissione definitiva tra testo letterario e società, tra lingua della poesia (sulla quale grava il peso dell’incomunicabilità) e la lingua massificata del gergo mediatico dell’industria culturale, dato che il fantasma più inquietante è il lettore. La scomparsa del destinatario del messaggio poetico. Scriveva a proposito Vincenzo Consolo: “…ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi”. Scrive la Catapano: “senza scroscio o strepito: nell’indifferenza”
Di dove cadono le rose, mi suggerì un giorno il verso scarno – scabroso verso –
nell’ululato tardo del mare, quando scura l’ora ed ogni minima et fecunda
sfocia in giusto brivido prima di infilar la chiave e scomparire nell’ombra della casa.
…bellezza odia il fermento e quando si consuma – se si consuma –
non dà nell’occhio, non fa pettegolezzo della sua condizione, né freme: non sgrana o diminuisce.
Tace tutt’al più pure la morte…
Un archivio umanistico giace nella dimenticanza, o per meglio dire nell’impossibilità di una trasmissione viva e vivificante “il passato ha perso la sua trasmissibilità, e, finché non sarà stato trovato un modo nuovo di entrare in rapporto con esso, può d’ora in poi essere soltanto oggetto di accumulazione”. (Agamben) La poesia di Chiara Catapano vorrebbe uscire da questa impasse post-moderna, vorrebbe tentare una impossibile riconciliazione: vorrebbe ri-fondare “il presente (attimo caduco del fiore) come rapporto tra passato e futuro”. Mediare la minaccia di una fruizione distratta di una civiltà umanistica in cui l’uomo moderno non si riconosce più. Là dove, svanita la memoria, anche l’autore è morto nell’avvento di un presente storico che opera con altre strutture di pensiero, quelle della civiltà virtuale e mediatica.
Il poeta ormai parla una lingua morta, come il greco o il latino? Figura anacronistica, custode inascoltato della “casa dell’Essere, di certo arriva da un altro tempo e deve riseminare il terreno con i semi di un’epica senza trama. È un naufrago: Ritrovai il poeta steso sopra una roccia, le braccia aperte / E palpebre rovesciate da cui scaturiscono cieli.”
Il testo che apre questa prima sezione è dedicato alla “Campanula piramidale – Campanula pyramidalis L.”, della quale ci vengono fornite informazioni botaniche: la campanulacea, fiore dalla sinistra nomea di “campana dei morti” puntella il testo da un episodio di lutto (che irrompe con l’evocazione della scultura di Antonio Corradini situata nella Chiesa di san Giacomo Apostolo ad Udine) liberando un ricco materiale di suggestioni, di sensi interni, tracce e solchi emotivi profondi. Le materie sepolte cercano luce e presenza. Dalla messa a fuoco di un dettaglio i fatti/le storie irrompono come fantasmagorie (o simulacri, come li chiama Linguaglossa):
La carta da parati ormai spenta presentava strappi
intorno alle poche aperture da cui filtrava luce..
I Fiori come forme di un eterno presente. Come le Campanule che “Durante i mesi freddi …perdono la parte aerea” per ricominciare a germogliare la primavera successiva. Il fiore è il logos, memoria cosmica, monumento vivente di un portato simbolico di folklore e civiltà, di tempi sacri o biblici:
E risalendo inversamente la scala del tempo, dalla famiglia
Passò a Sur sulle ventose coste del Libano:
Baciò i cedri sacri e fondò la guarigione iniziatica…
Soprattutto i fiori fragranti di queste poesie riescono a tenere il tempo aperto: successione tramutata nella simultaneità. E ci confermano che la migliore poesia di oggi è sempre un metatesto.

A questo non troverai rimedio in nessuna religione
Chiara Catapano
traduzione di Steven Grieco Rathgeb
Selezione da Alimono
IV
Perdona giovane barbara creatura, se pronunciare il tuo nome
Ancora mi crea sconforto: perdona la nostra bianca disperazione d’uomini.
Danza sull’amara lingua delle lettere, M-E-D-E-A
senza sforzo l’approssimarsi del dolore.
È come rompersi di guscio deglutito nel becco-pellicano
La tua ombra sul mio capo.
Da questi lidi, partire e tornare sempre da stranieri
Corrompe la natura tua non meno di quella del falco
Che nuota nella luce sopra le nostre teste.
Medea, fil di voce piegato come pallida guancia sulla spalla dell’amato
Perduto,
E sulle carni dei teneri figli,
Andati anch’essi come navigli senza timoniere.
Per come vanno le cose nel solco della vita,
Per come vi si conficcano, eterne:
A questo non troverai rimedio in nessuna religione.
Il tuo corpo è il ciborio che andavi cercando, gli schiavi da liberare i sensi
Prostrati sotto veli di dubbi.
Ci hanno ascoltati tutti gli dei del poeta,
Ascoltati ed esauditi eppure
Brancoliamo esauste nello stesso buio:
Tu ed io, Medea, scortate dalle falangi d’Alessandro
Il cuore afflitto come terra dopo il temporale.
Non comprendiamo il perché certi giorni di così cupa disperazione.
VI
Allora entrai nella mia casa vuota. (Seferis)
Torna Ulisse dopo cent’anni.
Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti:
Morto Telemaco, intonaco d’infiniti viaggi in cerca del padre,
Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio;
Morti i Proci e nessuno ricorda più tirannia o l’odore di schiavitù.
Morto anche il fido Eumeo ed Argo, che mai più rivedrà il suo padrone.
Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo: nessuno ad attenderlo, nessuno
Che infine imparò ad addomesticare la morte.
Sono di vento le stanze: la luce gli scuce le palpebre.
Dietro i gradini imperlati di notti antiche, la nostra memoria;
Dietro i vagiti di statue corrotte come bambini alla guerra,
Lì sorge la nostra dimora. Mia gioventù…
Non sono solo, sotto l’arco dell’uscio: con me cupi trafficanti di schiavi
Stringono in pugno qualche piuma di palpitante cutrettola,
E i loro palmi graffiano al cuore la viva mia porta.
Mie stanze.
Una sordità puerile incide latte sui capezzoli ad Artemide;
Un’età che vale quanto una vita intera, affilata falce dell’incomprensione.
Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli, fiocco di neve che sposta l’equilibrio del mondo.
Questa sorte mi son tirato in grembo e filo e fuso
Perché vi sia chi un giorno recida ogni mia conoscenza.
Così Maria Nefèli dispiega sulle sue gambe le minute ali della cutrettola.
Parla ad un’ombra. Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.
Non esiste destino che possa alloggiare nell’immobile gesto del tempo
Come in questa mia casa.
Questo rifugio, non porta neppure ricordo di guerra.
Ah, non poter morire! Mentre ogni cosa cara ci viene a mancare.
La casa come chiusa palpebra, trema.
Quale l’oscurità nell’assenza?
Qualcuno ha acceso dei ceri nelle stanze disabitate,
Attende lo schiudersi minimo, un’inflorescenza
Dopo tanto vagare.
Ecco la prima radice dell’uomo, suggerisce Maria Nefèli:
La prima radice è di sale.
A questa altre seguono, e come solide dita agguantano
Della terra resurrezione.
IV
Forgive me, barbarous young creature, if I am still distressed
when I utter your name: forgive us humans for our white despair.
Dance on the bitter tongue of the letters M E D E A
Pain’s effortless approach.
Your shadow on my head
Is like swallowed shell breaking in pelican-beak.
To leave these shores and always return to them like strangers
Corrupts your nature no less than it does the hawk’s,
Now swimming in the light above our heads.
Medea, thinnest voice bent like a pale cheek on lover’s shoulder
Lost,
And on the children’s tender flesh,
They too departed like vessels without a helmsman.
By how things go in life’s furrow
How they are lodged inside there, eternally –
In no religion will you find a remedy to this.
Your body is the tabernacle you sought, the slaves to be set free
Your senses weighed down by veils of doubt.
All the gods of the poet listened to us,
Listened and fulfilled us, and yet
We grope tiredly in the same darkness:
You and I, Medea, escorted by Alexander’s phalanxes
The heart afflicted like the soil after a storm.
We fail to grasp the reason for days of such deep despair.
VI
Then I entered my empty house
Ulysses comes back after a hundred years.
Returns to his empty house where all have died:
Telemachus dead, the stucco of endless journeys in search of his father,
Penelope dead, hanging from the wood of the loom-cross of waiting;
The Suitors dead and nobody to recall any tyranny or smell of slavery.
The trusted Eumaeus also dead; and Argo, who won’t see his master again.
One hundred years, and he’s fresh, vigorous as ever: nobody waiting for him, nobody
Who at last learned how to tame death.
The rooms are of wind: light unstitches his eyelids.
Behind the steps beaded with ancient nights, our memory;
Behind the mewling of statues as corrupt as children to war,
There stands our dwelling. My youth…
I am not alone under the archway: beside me grim slave traffickers
Grasp in their fist a few feathers of the quivering wagtail,
And their palms scratch my live door to the heart.
My chambers.
A childish deafness cuts milk into Artemis’ nipples;
An age that’s worth a lifetime, incomprehension’s sharp scythe.
There, I see Maria Nefeli come forward, a snowflake that shifts the balance of the world.
This is the fate I’ve pulled onto my lap together with the thread and the needle
So that one day somebody may cut off my entire knowledge.
Thus Maria Nefeli unfolds the wagtail’s tiny wings upon her legs.
He speaks to a shade. The sea has corroded all inside him.
There is no destiny that can dwell in time’s motionless gesture
like in this my home.
This shelter: it doesn’t even carry memories of war.
Ah, to be undying! While all we cherish goes missing.
The house, like a closed eyelid, quivering.
In absence, what darkness?
Someone has lit candles in the uninhabited rooms,
He waits for the least opening, a flowering
After wandering so much.
Here is man’s first root, it suggests Maria Nefeli:
The first root is salt.
Others follow it, and like solid fingers they grasp
earth’s resurrection.
rispondo alla carissima Chiara con questi versi, quando ancora non c’era e che mi sono molto cari
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al figlio non-nato (1)
Negli occhi turchesi di moli atterriti
l’ombra gialla dei canali da Patmos
cancella gli orizzonti della Luce,
alta, finché Ariadna perse la ragione
vagando tra fichi e canti di bronzo.
L’estate ionica chiuse le imposte
e la leggenda nascose ai noti labirinti.
Come sposare agosto con l’Ombra di un non-nato?
Alla vigilia di un canto fra le vigne?
Che mi fermi un dio con altri canti, allora!
Che urli l’ala sugli ulivi e sui tamburi!
Ho visto un gesto infame e bizantino: un dio
non può dividere la pietra e – sorridere!
L’anfora di carne fu colma dell’assenza
e testimone fu un mare di mirtillo.
L’oscurità rigira la Sorte alla tempesta
gettando il suo pensiero nella trasparenza.
antonio sagredo
Roma , 24 gennaio 1982
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al figlio non-nato (2)
Strozzata al collo di un’anfora
l’Ombra in fuga visita
le note epoche e lo specchio,
l’antico asilo e l’eterna identità.
Nel desiderio calmo delle acque
iniziava l’Historia il non-nato:
acciaio al passaggio di una gola
curvava il terzo occhio del principio.
Era sottratto al gioco e al moto, sbigottite
le ossa primigenie, e non di rosa ancora
le mani tese verso il grande mare.
La sua presenza o il divieto nella quiete?
Aveva già un pensiero o un futuro?
Aveva la musica uccisa – nelle note!
Aveva la musica uccisa – dalle note!
antonio sagredo
Roma, 25 gennaio 1982
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e coi versi di Imeropa quando già c’era e in lei la Poesia respirava…
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IMEROPA
“dal pozzo aspetto la risposta
dalla luce taurina la domanda”
Tessere volevo con l’ombra la mia mente
sotto i portici della ragione estrema,
là, dove l’essere s’incarna non generato
da pensieri. E nel passaggio, sola,
sospeso il gesto, mi venivi incontro
privata al canto: unico mestiere
il tuo freddare nella mano, rotta
al volo, il nucleo intemporale.
È il disegno a simulare l’Opera!
La nota è in corsa con la lingua
se il mercurio scorre ancora tra universi
e tumuli di grida. Non più scarniti
spirito o fantasmi attendono la voce.
Oltre sei dovunque, e al di qua
del fatuo orrore che ci governa.
E io mi so più tenera che viva
nel battito del tasto e nella frode
asettica… e so come nessun dio
fermare il mio futuro sulla soglia.
Spio il silenzio della particella
viva e il mio corpo vinto dai capricci
e dall’orecchio, che al panico non presta
sibili e promesse. O ponti, una volta
arcobaleni! Ora ho nelle mani solo
il disegno di un gesto – non le muovo!
E nego alla nota il suono che mi deve.
Alla gola nego la bianca fusione,
lo spettro che dalla torre in giù
è lo zero assoluto nel verso dell’evento.
La pietra lima i passi, e io svanisco!
Lauri, cembali e clamori, schizzi
in noi d’energia, miti
e la ragione cercheremo, vili!, in una bolla
e nelle tracce che neri suoni
pensano. In gramaglie ti seguirò
forgiato da miraggi reali o immaginari:
numeri incurvati in cerca di una teoria
e di un cuore inattuale. E nella stanza vuota
dei proscritti c’è il punto, il limite
di un principio. Sento la smorfia del tuo canto,
sembiante, io, senza voglie e trucchi!
Altari vi aspetto, capezzali, meridiani e dita
per misurare i tempi con cifre immaginarie,
spazi espansi confusi dalle rotazioni,
fuochi animosi, traiettorie, collassi.
Quale sorte le mie mani nell’offerta?
Ai suoni il centro e il principio
quando il gesto non era il canto,
l’idea di un dio l’immaginario che ci opprime.
E tu m’insegni la musica e l’orrore,
la domanda nel caos priva della mente
la risposta in cui derisi siamo ciechi.
E chiusi nei quadranti le radici,
il dubbio strazio e il riso ellittico,
l’ostile dimensione che travasa il corpo.
Nell’acrostico giocasti sofferente, serio,
col mio sorriso vinto da nastri funebri.
Debutto manovre d’escrementi…
ti trasformi sedotto ai cardini.
Tu, morto, Padre, mi fai vivo!
antonio sagredo
Roma, 20/26/28 marzo 1990
Sono profondamente commossa sia perla lettura delle poesie di Chiara , che mi sembra abbia compiuto un lavacro sacrificale della sua poesia nella trasparenza della luce ellenica.
E questo anche grazie alla NOE che ha questa singolare caratteristica: di risvegliare in ognuno di noi le più intime e misteriose pulsioni dell’anima e riversarle nelle parole, senza imporci in alcun modo il frammento con il punto alla fine del verso o qualsivoglia consiglio grammaticale sintattico filologicoretorico…e senza pretendere di rivoluzionare dalla a alla zeta il modo di fare poesia(come credono alcuni che si rifiutano di accogliere il messaggio dei Maestri. (questa mia espressione è stata criticata, ma io la voglio mantenere perché Maestro è non è soltanto colui che insegna, ma soprattutto chi riesce a far emergere dall’interiorità di un’altra persona pensieri, immagini, idee che appartengono soltanto al “discepolo”.)
Caro Antonio, i versi al “non-nato” li ricordavo, che son tutti “mare color del vino”! Imeropa no, non li ricordavo. se li avevo già letti. E mi sono stupita per un tuo dettato così vicino agli antichi, ombre mitologiche. Un grazie, per la tua stima e il tuo affetto.
Scrive Carlo Sini:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24911
«i nostri bambini, non poi tanto diversi da quelli di 4000 anni fa, non appena imparano a scarabocchiare, disegnano con ostinazione la casa, l’albero, il cielo e il sole che brilla; cioè la terra e il cielo nella loro essenziale relazione, l’aperto che li contiene. La casa come la terra: ora forse comprendiamo meglio gli egizi e il buffo parallelepipedo che doveva raffigurare l’universo… »1]
Chiara Catapano è un po’ come i bambini di tutti i tempi, con la matita in mano disegna casa, cielo, albero, il sole che brilla… e di nuovo: casa, cielo, albero, il sole… c’è in lei questa tendenza allo sguardo panoramico in cui il «quadrato» heideggeriano si rinnova: cielo e terra, i mortali e i divini… di qui forse quella sua predilezione per i greci antichi, perché presso di essi dimora ancora l’antica magia della parola come canto tra i mortali e i divini. Nella sua essenza, la poesia è parola che i mortali si scambiano con i divini. Chiara lo sa bene. Le parole provengono dalla infinità del periechon, dalla infinità del divino, quella dimensione dove c’è la «luce solida», dove le parole sono «solide». Il poeta non può che narrare di nuovo e sempre di nuovo la vicenda di Odisseo e del suo ritorno ad Itaca:
Torna Ulisse dopo cent’anni.
Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti:
Morto Telemaco, intonaco d’infiniti viaggi in cerca del padre,
Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio;
Morti i Proci e nessuno ricorda più tirannia o l’odore di schiavitù.
Morto anche il fido Eumeo ed Argo, che mai più rivedrà il suo padrone.
Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo: nessuno ad attenderlo, nessuno…
1] Carlo Sini, Passare il segno
Giorgio, la tua lettura è così aderente al mio modo di scrivere. Così chiaro, e semplice, il tuo commento. Sì. Al sole cicladico guardo, con ostinata presenza. E hai illuminato una parte così delicata, che deve – dovrebbe – poter accedere ad un modo più ampio, dove brilli la sola scrittura.
Ed ecco una poesia di Anna Ventura apparsa di recente su questo blog:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24913
La vergine di Norimberga*
La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.
*notizie storiche sulla Vergine di Norimberga
La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.
La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.
Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).
*
Per tornare al nostro discorso, intendevo dire che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica di chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di naufragi. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.
Riprendo fiato per dire il perché della mia profonda commozione:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24915
lo splendore “ellenico” dei versi di Chiara ha provocato uno shock, forse più sensibile e vivibile in termini di vissuto poetico, di quello che ha sottolineato ieri Deodato Piazza Nicolai nel suo incandescente commento alla mia -drammatizzazione della poesia di Giorgio Linguaglossa “Il bacio è la morte di Dio” Allegoria della condizione infernale dell’uomo sulla terra, con notevoli squarci sulla tragica presenza del male fisico e morale che angoscia l’umanità d’oggi (e noi poeti). Ai versi di Chiara, di cui vorrei parlare a lungo e dopo averli letti e riletti ma che da soli già splendono come le onde mediterranee al sole dell’amatissima Grecia (“Né mai più rivedrò le sacre sponde del greco mar….”…e questo è anche un mio timore…), si succedono le parole calibrate e forti e chiarificatrici , profondamente attinenti alla struttura del testo e scelte di linguaggio di Giorgio Linguaglossa che questa volta è stato ben fermo sul testo di Chiara perché ce n’erano, eccome, di “cose nuove”da commentare!
“…In questo poemetto invece c’è uno spettro lessicale amplissimo che coniuga toponimi romani e gestualità esistenziali… anche gli oggetti, con quei tuoi composti verbali tipici della tua manifattura (cielo-utero, luce solida, polvere di carta, sbuffi di nuvole inchiodate ai rami, etc.), diventano irriconoscibili e si mescolano alle tonalità espressionistiche diffuse a piene mani in un metro disarticolato e irregolare che non si lascia irreggimentare né tantomeno suturare da interventi esterni….”
A seguito la trasparente e acuta e scritta con l’insostenibile leggerezza dell’essere che è dentro di lei, interpretazione di Letizia Leone, quando parla dei “fiori” dell’Erbario minimo”, che incide con forza equilibrata nell’elaborazione dei pensieri che si avvicendano, intrecciandosi quasi tra testo di Chiara e commento di Letizia:
Il fiore è avvento, attimo, “punto dello spaziotempo”, presente caduco già svanito nella sua traccia. In questo “Erbario minimo” sfilano i fiori. Fiori strappati alla dimenticanza grazie alla “terza dimensione della poesia” come la chiama Elytis: lacerti, disiecta membra, numinose figurazioni la cui nominazione è la cruna d’accesso ad un immaginifico e stratificato discorso poetico.” E ancora
“…L’autrice stessa in una nota chiarisce il senso di queste figurazioni che magnetizzano l’orizzonte di certi passaggi lirici assemblati in fotogrammi e associazioni analogiche: “Erbario minimo, ovvero ogni pianta o fiore qui citato mi suggeriva incursioni e suggestioni cui ho dato liberamente voce.”
Oltre i precisi riferimenti floreali e simbolici, l’immersione nella memoria collettiva.”
Cara Mariella, certo ne parleremo da vicino, e anche d’altro, d’altri versi… Sono tornata da Atene da pochi giorni, una commozione così grande nel ripercorrere le strade che erano casa, molti anni fa, oramai… E l’icontro con Agathì Dimitrouka, che con gioia vedo qui, nella foto che ho girato a Giorgio. Una donna, Agathì, forte, di quella forza che la vita dona ai nobili di cuore: guardo e desidero sia questo uno dei miei orizzonti poetici, umani e poetici.
Ti ringrazio vivamente per queste parole, che certo ci uniscono in un luogo che è fisico, ma pure vivo nel “pneuma” che insufla l’anima.
Volendo commentare con un brano musicale ad hoc i richiami ai lirici greci antichi, così vivi nei testi di Chiara Catapano (“perché presso di essi dimora ancora l’antica magia della parola come canto tra i mortali e i divini”, cit. Giorgio Linguaglossa), posso semplicemente affidarmi alla ricostruzione che della mousiké greca hanno fatto gli studiosi. Infatti, com’è noto, quella musica sopravvive solo in pochissimi frammenti e in una notazione assai imperfetta. Eppure non può dirsi del tutto perduta. I musei conservano gli strumenti musicali con i quali veniva eseguita e molti dei pezzi mancanti possono essere ricostruiti esaminando le loro numerose raffigurazioni nell’arte. Inoltre, esistono testi teorici, che forniscono informazioni di base sulla melodia, sulle scale e soprattutto sul ritmo. Lo studio di tutto questo e di molto altro ancora – che non starò qui a dire – è compito degli specialisti del campo, veri e propri archeologi della musica antica, sia greca che romana. La discografia offre varie interpretazioni, ma poco si può dire sulla loro attendibilità. Il dibattito resta aperto, con particolare riguardo alla esecuzione canora. In conclusione, penso che i brani registrati traggano per lo più solo ispirazione dalla musica originaria, destinata a rimanere per sempre negli abissi della Storia.
Costantina, ti rispondo con il mio brano preferito:
Molto bene, Chiara! Uno degli Inni di Mesomede di Creta (II sec d.C.), tra i pochi documenti giunti fino a noi in notazione scritta.
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver proposto la mia”vergine di Norimberga”,così dissonante dagli splendori ellenici del momento,così (forse spiacevolmente) allusiva al tormento che accompagna ogni esperienza che ricordi l’amara radice di tutti i sentimenti forti:il dolore.
Questo è per le poesie di Sagredo a Chiara
Dopo aver accennato all’esplosione di poetica gioia e consapevolezza dei due primi critici mi riservo di parlare, sottolineando che, pur essendo l’ultimo in ordine di tempo, ha un primato per aver aperto il sul grande cuore di poeta a Chiara dedicando i suoi versi ad un evento doloroso che l’ha colpita.
Sagredo, come non sentirci dentro al tuo cuore quando ci racconta con le pieghe della carne e gli occhi di un seme generato che vorrebbe vivere, ma non riesce a levarsi con i rami e vibra dentro le vene del poeta tutto teso a diventare ondadimare che avvolge quelle manine tese e radice di un “fiore” mai nato, sottratto alla vita:
“…Era sottratto al gioco e al moto, sbigottite
le ossa primigenie, e non di rosa ancora
le mani tese verso il grande mare.”
Versi che entrano con le radici e il fiore non ancora sbocciato nell”anima e quasi nel corpo di chi legge, lo inonda di poesia e lo fa diventare diventando pura percezione. Grazie anche a te per queste emozioni vere
Antonio Sagredo!
Mariella Colonna
terzultima riga: non “lo inonda”, ma “lo inondano”. Sorry.
E, per adesso, concludo con questi tuoi versi, Chiara: scritti nel tempo risuonano di eternità, ponte tra il nostro povero nulla e l’essere-cielo che ci ospita e circonda ma è dentro di noi:
“…Ti tengo nel mio utero cielo.
Ti tengo sollevato, dentro la terra.
Quaggiù è un autunno d’agosto, un lento soffrire di luce.
Osserva il silenzio del ramo: l’ala acuta, il protendersi ingenerato.
Non rami ma il loro protendersi:
di questo parliamo quando parliamo degli alberi…”
Difficilmente si può arrivare a tanta purezza di linguaggio: qui la NOE intravede una nuova forma di bellezza…e viene da Oriente!
Grazie a te, Chiara, chiara come la luce del Mediterraneo che ha fatto nascere Arte Poesia Filosofia, e l’Idea di Democrazia, lievito della Storia!
Mariella
un dono alla grecista ecc. Chiara Catapano e a tutti
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Insonnia. Omero. Le vele tese.
Io ho letto sino a metà l’elenco delle navi:
questa lunga nidiata, questo treno gruesco
che sopra l’Ellade un tempo si è levato.
Come un cuneo di gru in confini (contrade) stranieri –
sulle teste dei re c’è la schiuma divina –
ma dove navigate? Se non ci fosse Elena,
a che servirebbe Troia da sola, uomini achei?
E il mare, e Omero – tutto questo è mosso dall’amore.
Chi devo ascoltare? Ed ecco, Omero tace,
e il mare nero, perorando, risuona
e con un pesante tonfo si avvicina al capezzale.
agosto 1915
(trad. di A. M. Ripellino – dal Corso su O. Mandel’stam del 1974-75)
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segue il commendo dello slavista a questa poesia:
—
” È straordinaria l’estrema densità con cui viene concentrato in 3 quartine tutto l’intreccio dell’intera Iliade. E dentro di questo, tutta una sintesi di epoche, di cicli, di culture come fa sempre Mandel’štam. Ed è una lettura del II° libro dell’Iliade, del catalogo delle navi, di Omero fatta prima di dormire, per vincere l’insonnia. E alla fine l’insonnia è vinta, perché il mare nero si alza, come un personaggio, perorando, rumoreggia e giunge sino al capezzale.
Un poeta acmeista dell’emigrazione G. Adamovič, forse esagerando, ha scritto che:
Una simile musica non c’è mai stata in nessun poeta dai tempi di Tjutčev, e tutto quello che ricordi a paragone ti sembra acquerugiola.
Notare la languida atmosfera di sonnolenza, questo semi-veglia, questo senso soporifero, il sonno che diventa come il mare, e poi questa domanda: ”Dove navigate?”.
È un’inserzione colloquiale tipica degli acmeisti che subito rompe l’aspetto austero della poesia, che è continuamente spezzata da questa domanda, e poi dall’ultimo verso:
Troia, a che vi servirebbe, se non ci fosse Elena?
Qui è la modernità della Poesia. ”
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Un rivolo di miele indorato colava dalla bottiglia
così viscosamente e così lungamente che la padrona fece in tempo a dire:
qui, nella malinconica Tauride, dove la sorte ci ha sbattuti,
noi non ci annoiamo per nulla – e guardò oltre la spalla.
Dappertutto riti di Bacco, come se al mondo ci fossero solo
guardiani e cani – cammini, non scorgi nessuno –
come pesanti botti, tranquilli rotolano i giorni:
lontano in una capanna le voci – non capisci, non rispondi.
Dopo il tè noi uscimmo nell’enorme giardino marrone,
come ciglia sulle finestre sono abbassate le cupe tendine,
accanto alle bianche colonne noi andammo a guardare il giardino,
dove nel vetro dell’aria si bagnano i sonnacchiosi monti.
Io dissi: la vigna come una vecchia battaglia vive,
dove ricciuti cavalieri si battono in un ordine frondoso.
Nella Tauride pietrosa la scienza dell’Ellade – ed ecco
nobili rugginose aiuole, di ettari d’oro.
Ebbene, ma nella stanza bianca come una conocchia sta il silenzio.
C’è odore di aceto, di tinta e di vino fresco dallo scantinato.
Ricordi, nella casa greca: una sposa amata da tutti –
non Elena – un’altra – come a lungo ricamava?
Vello d’oro, dove sei, vello d’oro?
Per tutta la strada mormoravano le pesanti onde marine,
e abbandonato il vascello, che aveva stancato nei mari la tela,
Odisseo ritornò, pieno di spazio e di tempo.
1917
(trad. di A. M. Ripellino)
(dal Corso su O. Mandel’stam del 1974-75)
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Si sta progettando per il 21 aprile 2018 – per il 40° della morte dello slavista (21/04/1978, a 54 anni) una serata in suo onore all’Aleph…
seguiranno informazioni più dettagliate… grazie
a.s.
«Amate l’esistenza della ‘cosa’ più della cosa stessa. Amate il vostro ‘essere’ più di voi stessi».
E’ il più grandioso direi precetto mandel’stamiano de« Il mattino dell’acmeismo».
Come dire, usando le parole di Giorgio Linguaglossa nel saggio “L’acmeismo, la prima avanguardia postuma del Novecento” (POIESIS, N. speciale 33, anno 2005) che « (…) la verità della poesia si trova fuori dalla poesia, riposa nell’atteggiamento che il poeta deve avere verso il mondo. La verità della poesia risiede nello sguardo che essa rivolge al mondo…».
«[…] la bellezza non è capriccio da semidio / ma l’occhio avido e preciso di un concreto falegname». Con la costante volontà di superamento delle “idealizzazioni simboliste”, con Mandel’stam sullo sfondo, insieme stiamo costruendo una nuova figura di poeta. Non trova più posto nessuna ispirazione divina nella sua scrittura, che viene per questo ri -considerata,
ri-apprezzata secondo un diverso punto di vista. Il poeta è un ” falegname “, o un ” calzolaio “, o un “architetto”, incline a giocare con le parole come se fossero il suo vivo e concreto materiale di lavoro.
La sua è una costruzione che richiede tempo, ingegno, e che ha il suo punto di partenza nell’aspetto fenomenico del reale, nella materialità degli oggetti e degli eventi, senza nulla concedere all’autobiografismo, a quell’Io sconfitto su ogni fronte.
Mi pare che questa prova poetica di Chiara Catapano, ben sostenuta
dalla nota di accompagnamento di Letizia Leone, si muova con passo autonomo lungo questo sentiero.
Possente l’immagine “di fiori e sangue” che si mescolano alla punta delle lance nella ‘Vergine di Norimberga’ di Anna Ventura.
Gino Rago
Gentile Gino Rago,
le chiedo come si incastra questa esigenza artigiana della poesia che parte dalla materialità degli oggetti con questo estratto di Giorgio Linguaglossa:
“Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.”
http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica40
Gentile Cataldi,
ecco il link ove troverà le Sue soddisfazioni. Mi fermo qui
perché, è bene che ce ne ricordiamo, questa pagina de ‘L’Ombra’ è dedicata
al grande poema di Chiara Catapano e non dobbiamo, in nessun caso e in nessun modo, apparire indiscreti intrusi…
Gino Rago
grazie
“I cavalli zoccolano su divani,
calpestano i cuscini,
incedono sui tappeti.
Stai in sella
e ti senti in tasca
un biglietto d’invito a casa di Tamerlano”.
Questo deve arrivare a scrivere il “poeta” se sprofonda nell’abisso
del linguaggio poetico. Altrimenti, resterà un ‘continuatore’ in grado,
al più, di scrivere qualche verso ben riuscito.
Parlo per me, solo per me, naturalmente.
Gino Rago
“L’acmeismo, Mandel’štam, Gorodeckij, Gumilëv, Achmatova, la prima avanguardia postuma”
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24947
di Giorgio Linguaglossa
(…)
‘Nel 1919 viene pubblicato il terzo manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’štam, intitolato Il mattino dell’acmeismo, che tenta di raccogliere le file delle posizioni che si erano profilate e di cementarle in uno zoccolo unitario. Ne riassumo i punti fondamentali:
a) in primo luogo il problema della parola poetica, che si contraddistingue per una straordinaria «densità» e non mero segno, rappresentante di qualcos’altro estraneo, il denotatum; un complesso di molti elementi che non costituisce un «valore» in sé ma che ha senso soltanto nella «architettura» verbale come materiale da costruzione. b) Il poeta è l’architetto che costruisce un edificio di parole. c) Come nella cattedrale gotica una pietra, pur conservando la sua specificità, non ha valore se non nell’insieme della totalità architettonica. La parola è la pietra della costruzione architettonica, che entra «in gioiosa interazione con i propri simili». d) Si costruisce soltanto nel mondo tridimensionale, il quale costituisce «la condizione di qualsiasi architettura». Non è possibile creare un’opera poetica se non nel mondo reale, secondo le regole del tempo e dello spazio. «Costruire significa lottare contro il vuoto… Non c’è uguaglianza, non c’è rivalità, c’è una partecipazione di tutti gli enti alla congiura contro il vuoto e il non essere». L’acmeismo ritorna al concetto di «fisiologia». e) La formula «a realibus ad realiora» deve essere sostituita con l’equazione A=A; tutti i fenomeni fisici sono equiparabili nella loro comune opposizione al non essere’.
da “Il mattino dell’acmeismo” del 1919 di O. M., racchiuso in 6 punti, magnificamente sintetizzati e commentati da Giorgio Linguaglossa, ha iniziato a dare i suoi primi passi la NOE.
Gino Rago
Un verso di Chiara Catapano:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24959
«Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli, fiocco di neve che sposta l’equilibrio del mondo».
Mi vorrei soffermare su questo verso, che ritengo significativo. Viene detto di un «fiocco di neve» «che sposta l’equilibrio del mondo». Incredibile. Detto così c’è tutta la poetica e la concezione che Chiara ha della poesia: è sufficiente un «fiocco di neve» perché il mondo cambi rotta. E chi è questa cosa che può cambiare il mondo? È Maria Nefèli (un personaggio della poesia di Elytis), è la poetessa che col suo canto può cambiare il corso del mondo.
Mi sembra che in questa breve frase sia condensata la poetica della Catapano. Una poetica vigorosa, piena di fiducia verso le possibilità della poesia di far cambiare il corso del mondo.
Ascoltiamo dalla voce dell’autrice chi è Maria Nefèli:
” Maria Nefèli, la nuvola, il fàntasma, vaga tra Oxòpetra e Itaca. Accompagna le voci dei cento e cento ritorni, gli echi nelle vuote case, di chi scoprì, partendo, di non essersi mai allontanato.
Quale inganno, e chi ingannò, in fondo?
Elena fu sostituita da un fiato modellato da Era, per confondere i Greci; e Ulisse, giunto in patria dopo più di cent’anni scorge, attraverso la solitudine, la propria giovinezza ormai inutile. Mai mai siamo partiti, nessuno di noi.
Maria Nefèli è fuoco, il Logos di Eraclito. E nel suo specchio, nelle profondità da lei indicate (nel suo condensarsi fiato nel fiato del mito), tornano a vivere Elena, Medea, Ulisse; si intersecano alla mia biografia come aghi che ricamino un percorso. Questo percorso io indico a chi mi ascolterà. Non sarà giusto o sbagliato, o non completamente giusto o sbagliato: vuole essere una misura con la quale attingere, ognuno a suo modo, dal proprio specchio.
«Viaggio (la Grecia per me è una condizione dello spirito, come racconta Elytis) rivissuto attraverso il mito. Ho “adottato” Maria Nefeli, personaggio e alter ego di Elytis nel suo poema omonimo, a mo’ di Beatrice per i personaggi che si intersecano nel poemetto» “.
*
Mi sembra indubitabile che qui siamo fuori dalle poetiche di questi ultimi decenni del minimalismo nostrano del piccolo corporativismo dei «poeti» privi di poetica. Qui c’è una voce che richiama all’ordine, all’appello, che vuole rifondare il discorso poetico. Una voce fondazionale.
Ho scritto in un mio precedente commento alla poesia di Chiara Catapano:
C’è in Chiara Catapano il richiamo esplicito alla poesia epica di Elytis, la consapevolezza che «nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità». Parole grandi che la Catapano pronuncia con la tranquilla consapevolezza di chi ha della poesia un concetto di alta nobiltà denominativa, la «chiara» cognizione che occorra ritrovare il coraggio di una dizione forte, alta, impegnativa, lontana mille miglia marine dalle poetiche acriliche del minimalismo, che occorra ricostruire una tradizione poetica, quella italiana, ormai esausta ed esangue. «Siamo vivi per puro caso», scrive la Catapano. Ed è questo il senso profondo del «frammento simbolico» che è il senso profondo della operazione poetica della poetessa e che noi ci sforziamo di veicolare nelle pagine di questa rivista.
Un «frammento» in rovina, è ovviamente questo poema di Chiara Catapano:
«A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita».
COPIO E INCOLLO QUESTA POESIA SCRITTA IN LADINO di
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/10/chiara-catapano-poesie-inedite-autunno-dagosto-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-una-lettura-di-letizia-leone-su-erbario-minimo-triestino-un-estratto-dal-poemetto/comment-page-1/#comment-24967
Adeodato Piazza Nicolai
PAR COLPA DELA STRIA
Boil and bubble
boil and trouble …
Atto 1, Shakespeare, “Macbeth”
Par colpa dela stria ei la goba storta,
son vestida de negro e jolo de nuote
sula scoa proprio vecia: da bonora
ala sera anche sote l tò lièto
e te la ciaudièra; visìn ala luna piena
e cuanche l’é vuoita vado nsieme
al me giato coi pele pien de spine,
le ongie longhe, la coda erta
color del ciarbon. Tela nuote
de halloween
jolo sora le tonbe e fetho paura
ai vive e senpre ai morte –
òmis e bocie, ale femene dovin
cussì dute se scònde sote le cuerte
par preà ala beata Vergin Maria
ché la cativa stria no i pòrte via,
spethialmente ladò te l’inferno
aonde fa fredo e massa ciaudo
par duto l tenpo finché rua
l’eternità.
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 11 ottobre, ore 02:10
Giorgio Linguaglossa ha commentato proprio il verso che – oltretutto – regge l’equilibrio della struttura del poema. E lo ritengo anch’io un verso molto importante, credo il più bello che si possa incontrare in tutto “Alìmono”. E perfettamente il suo commento si concentra sul mio cercare, ancora e ancora, proprio la “luce solida” di cui più sopra ha parlato.
caro Alfonso Cataldi,
100 anni sono trascorsi dalla stesura del 3° Manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’stam e la nuova ontologia estetica. 100 anni è un tragitto lunghissimo durante i quali abbiamo visto il mondo sconvolto da tre guerre mondiali, crisi economiche, crollo di imperi, dissoluzione del cristianesimo, la nascita dei fondamentalismi, l’islamizzazione dell’Occidente… la Cina quale potenza mondiale, la nascita della consapevolezza del quadridimensionalismo… senza il quale ogni ricerca artistica rischia di rimanere sul piano del kitsch… oggi, e ce lo ha insegnato Tranströmer con quei due versi mirabili che hanno cambiato la poesia europea:
le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
oggi, dicevo, non si dà poesia moderna senza la consapevolezza della quadridimensionalità dell’inconscio e che tutta la poesia di qualità di questi ultimi decenni è soltanto quella che pesca in queste abissali profondità…
Secondo l’algebra lacaniana, il fantasma risponde alla formula: $a, e cioè: soggetto barrato in rapporto all’oggetto a. Sta di fatto che il fantasma, ed è questo l’orizzonte della nostra analisi, accoglie in una sola scena le due facce del linguaggio, la tensione tra dicibile e indicibile.
Il soggetto barrato è nel linguaggio lacaniano il soggetto tout court, il soggetto così come si profila all’interno dell’articolazione del desiderio.
L’oggetto a, è invece il nome che Lacan destina alla Cosa in quanto all’oggetto perduto; rappresenta, ma sarebbe il caso di dire “indica ”, allude, al venir meno stesso, alla mancanza costituente e al vuoto lasciato dall’intervento del significante ai danni della Cosa, in ragione cioè dell’azione letale del significante.
Ecco così che il fantasma annuncia una sorta di schibboleth del linguaggio, la scena in cui la rappresentazione viene a toccare la mancanza, “la
beanza aperta dall’effetto dei significanti ”.
È così che il fantasma introduce nel discorso filosofico la questione dell’inconsistenza del soggetto parlante; denuncia che parlare è mancare. Ed è questa è la tesi di fondo della «nuova ontologia estetica». La poesia di Chiara Catapano si volge istintivamente in questa direzione. A mio avviso, non c’è dubbio.
Scrive Freud nella Metapsicologia (1915):
«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali». Quindi, sono i «residui» «delle percezioni verbali» quelli che consentono che una parte dell’inconscio e delle sue rappresentazioni «cieche» affiorino alla superficie del sistema Conscio. Non c’è dubbio che la forma-poesia è la più idonea a recepire i messaggi «ciechi» provenientei dall’inconscio organizzandoli entro le strutture del discorso pubblico qual è una tradizione letteraria, una petizione di poetica, e, in fin dei conti, una soggettività creatrice.
A questo ppunto sorge la domanda: che cos’è l’Io?
Nella seconda topica Freud affronta il problema e si chiede se l’io sia veramente solo un nucleo facente parte del sistema percezione-coscienza:
«Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io era legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la censura onirica».
La forma-poesia sarebbe una modalità o modo, il più elitario, che consente la trascrizione di un contenuto inconscio che dormiva nelle abissali profondità («le posate d’argento» transtromeriane) in un linguaggio evluuto al massimo grado di sublimazione e sofisticazione culturale qual è la poesia.
La forma-poesia è un progetto come orizzonte di eventi e di intenzioni che si realizza anche contro e a lato delle aspirazioni e intenzioni umane; il progetto è una apertura dinanzi alla insondabile profondità del linguaggio. Ciò che sta oltre il linguaggio non appartiene al linguaggio. Voglio dire che l’essere che sta al di là del linguaggio è quello stesso essere che condivide il linguaggio al suo interno, per ciò non mi convince l’idea di una separazione netta e assoluta tre essere e linguaggio, la separazione c’è, ma c’è anche un «ponte» che unisce le due sponde (lontanissime), ma questo ponte non potrà essere mai percorso…
La questione è di cruciale importanza. Qual è il rapporto tra essere e linguaggio? Lacan direbbe «nessuno», per Heidegger, basterebbe citare la celebre affermazione
secondo cui «il linguaggio è la dimora dell’essere». Eppure, il senso dell’essere, nonostante l’Heidegger della Khere ne abbia accentuato la vicinanza, non
passa per il linguaggio, non si definisce per un rapporto interno al linguaggio, bensì per la sua condizione di «trascendens puro e semplice».2] Anzi, sottoposto aristotelicamente alla logica della predicazione, l’essere è quella parola il cui senso resta indeterminato e che non trova collocazione all’interno del linguaggio se non come suo presupposto. Non dunque l’essere presuppone il linguaggio ma il linguaggio presuppone se stesso.
L’essere cioè, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non rientra nel linguaggio nel quale sembra tuttavia anche risiedere. Eppure una simile condizione di fuggevolezza rappresenta allo stesso tempo la sua centralità. È in questo senso che Derrida può dire: «Lo si consideri come essenza o esistenza […] lo si consideri come copula o posizione di esistenza […], l’essere dell’essente non appartiene al campo della predicazione, perché è già implicato in ogni predicazione in generale e la rende possibile».
«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di tale dimora» (Lettera sull’«umanismo»)
La poesia è «il linguaggio originario di un popolo», «il fondamento che regge la storia» (Heidegger)
Se ci soffermiamo sul nesso tra essere e linguaggio, l’ontologia diventa ermeneutica, esercizio di interpretazione di enunciati verbali. Ma se l’interpretazione
rappresenta l’unica via per pensare l’essere — e se la storia dei significati di una parola coincide con la storia dell’essere — ne segue che l’etimologia diventa una componente necessaria dell’ontologia. Di qui l’etimologismo heideggeriano, che si sviluppa di preferenza su parole greche e tedesche. L’ermeneutica dell’ascolto di Heidegger si configura come un’ermeneutica «in cammino», che scorge, nell’essere, un appello inesauribile e mai totalmente esplicitabile. Infatti, il filosofo pensa l’interpretazione come Erörterung, come un esercizio di «localizzazione», cioè di porre in un luogo il discorso che, invece di limitarsi a prendere atto di ciò che è stato detto, colloca il detto nel «luogo» (Ort) che gli è proprio, ossia in quel non-detto che lo nutre e lo regge.
S. Freud, L’io e l’es (1920) trad it. Boringhieri, Torino, 1976 p. 476
2] M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tubingen 1927; trad. it. a cura di Volpi F., Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1990 (2005), p. 69.
3] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 172
Voglio ringraziare e complimentarmi con Chiara Catapano per averci offerto buona testimonianza del suo attuale percorso artistico. Quel che avrei da dire è già stato detto da altri – Linguaglossa segnala giustamente Autunno d’agosto come poesia della svolta, Letizia Leone mette in chiaro che “Chiara Catapano vorrebbe uscire da questa impasse post-moderna, vorrebbe tentare una impossibile riconciliazione: vorrebbe ri-fondare “il presente (attimo caduco del fiore) come rapporto tra passato e futuro”. Mediare la minaccia di una fruizione distratta di una civiltà umanistica in cui l’uomo moderno non si riconosce più. – A me sembra, da lettore, che Chiara sia un’autrice potente, dal lungo respiro, quindi capisco quali laceranti dubbi (non di critica ma espressivi e stilistici) debba avere in merito al frammento. Nella propensione al periodo lungo è però già ben presente la sua attitudine alle continue ripartenze. Si trattava solo, non di abbreviare ma frantumare; così facendo si ottiene tra l’altro un cambio di ritmo, più accelerato, che impegna diversamente il lettore: risultato imprevisto e imprevedibile che però mi sento di confermare.
Attento lettore, Lucio, non posso che ringraziarti per questo tuo volo sui miei versi. Sguardo chiaro, il tuo. Significativo e significante. Buon lavoro anche a te, dunque!
Voglio anch’io complimentarmi con Chiara Catapano per il percorso di affinamento della sua versificazione e che in effetti proprio per questa continua evoluzione apprezzo e sto metabolizzando sempre di più. Condivido appieno l’analisi di Lucio ed è esattamente in questa capacità di “ripartire” continuamente durante la scrittura che mi sembra, si precisi l’adozione da parte di Chiara degli indirizzi della NOE. A ciò bisogna aggiungere che Chiara è indiscutibilmente una grande poetessa per la potenza, suggestione, ricchezza compositiva e concettuale della sua poesia. Congratulazioni!!
Grazie Vincenzo. Nel confronto aperto con molti poeti, ho potuto – posso – come dire… aggiustare il tiro, imparare a reimparare. Così ciò che pulsa fresco sgorgante, trova approdi concreti.
Un caro saluto a te, e buon lavoro!