Lucio Mayoor Tosi Sponde
Mayoor Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri Zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili). Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie. Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombra delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016).
Lucio Mayoor Tosi, Composition
Poesie di Lucio Mayoor Tosi
By night
Una luce chiara gli entrò, da dietro, negli occhi.
Subito lui pensò: io sono due che si sono amati.
Poi anche: Non avrai altro…
Ma qui s’interruppe.
La gente intorno cantava
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
per meee…
E lei, guardandolo negli occhi:
– Mi accorgo di non avere più risorse
(insieme) senza di teee.
Più tardi lui le sussurrò anche:
– Sai di Leocrema.
Uno sciame di neutrini
stava attraversando le ombre del corridoio.
*
Alla gara di memoria vinse l’insegnante
della scuola media di Vercelli.
L’anno prima vinsero quelli di Casale.
L’anno prima ancora, non so.
– Chi vinse tre anni fa?
– Per questo è nata la scrittura.
Ma dove l’hai presa quella camicia rosa?
Una notte scura e silenziosa serviva ai tavoli.
Ma fuori già stava piovendo.
*
La donna seduta di fronte ha sul volto la bocca.
Quella di fianco un occhio.
Dal treno all’Università seguendo la linea
marcata dalla biro.
Una sottile cascata di azzurro.
Alberi e rumore di passi.
Il vuoto è alle spalle e un po’ mi sento colpevole.
Ma è solo il terzo capitolo.
C’è anche chi muore nei libri.
Di solito la salma viene fatta scivolare di lato.
Direttamente nel buio che scorre
fuori dalle finestre.
*
Vedete anche voi quel poeta
che sta fuori dalla finestra
e picchia sui vetri?
Che vorrà?
Mi avvicino
ed è già volato via!
Ho l’ufficio al 60° piano.
E’ un largo tappeto persiano.
Lucio Mayoor Tosi
22 settembre 2017 alle 19:12
Andersen sappiamo tutti chi è, ma forse non tutti sanno di Eckersberg. Era un pittore danese, arrivato dopo il neoclassicismo di Bertel Thorvaldsen e prima di quel meraviglioso pittore che fu Vilhelm Hammershøi. Fantastica la storia dell’arte danese! Direi che è la culla del nichilismo. Eckersberg dipinse dei nudi memorabili, paragonabili ma più raffinati rispetto al noto quadro di Courbet. L’origine del mondo. Fermo restando che senza Courbet saremmo ancora qui a levigarci le pettinature.
Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.
Lucio Mayoor Tosi
22 agosto 2017 alle 19.43
In qualche modo, l’aver letto queste poesie di Wallace Stevens ha condizionato nella forma il mio tentativo di stamane. Ma ci sta che sul finire di agosto si scriva con un diverso ritmo interiore, calmo, quasi rassegnato, sui bordi della metrica.
Apocalisse
Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?
Il grigio tormento di un verso attraversa il cortile.
Inossidabile. Giace la rana sepolta dai diserbanti
le spire del vecchio serpente si rilasciano nell’acqua
tiepida di agosto. Il tempo precipita nelle cave
su Andromeda. Segnali di luce, mattini come perle
quando passa l’onda sui frammenti. E mancano
i volti.
Sillabazione mattiniera, nella compostezza
un po’ come aggiustarsi le vesti nell’ordinario
di una ramaglia sul bordo della statale. In confine.
Passeggiare lungo le strisce bianche per Vercelli
o Alessandria.
Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.
Tanto vicino che la sua mancanza d’aria si è fatta sentire.
Un lampo simile allo spegnimento, al giornale chiuso
sull’ultima pagina. – Non conosco i nomi delle stelle.
Francesca dice “Buongiorno poeta”, qui è presto-tardi.
Sulle guance piccolissime gocce di sangue. Lamenti.
Un vento contrario scalfisce le strade per canali
nuovi corsi d’acqua. I Dominanti s’aggiustano
su poltrone riservate. Sulla scacchiera tante ruspe.
Da sobrio non saprei come cavare un grammo di lattice
stellare dal brefotrofio Divino. Forse una mangusta
amica, due paesani in gabbia. Non un chicco di grano.
Così s’accende il passato: una sterminata pietraia.
L’orizzonte in alto, sul finire delle stelle al tramonto.
Come bere un bicchiere d’acqua, frizzante e salata.
In piedi
sulle Birkenstock.
Giorgio Linguaglossa
23 agosto 2017 alle 11.07
La legge dell’entropia della forma-poesia di Lucio Mayoor Tosi
Il punto di partenza di Lucio Mayoor Tosi non è Cogito ergo sum bensì Dubito ergo cogito. Ed infine, il momento centrale è: Dubito ergo non sum. Lucio Mayoor Tosi dubita della propria esistenza e dell’esistenza di tutto ciò che circonda il proprio io, o meglio, non crede affatto che quello che gli altri vedono sia eguale a quello che i suoi occhi vedono. Per esempio, in questa poesia scopre le «tracce» dell’entropia dell’universo, del suo sgretolamento progressivo, che altro non è che il suo impulso vitale; questa moltiplicazione all’infinito della trasformazione della «materia» dell’universo porta con sé anche la trasformazione della forma-poesia, dell’entropia della forma-poesia che la disgrega dal suo interno e che, disgregandola, produce nuove modalità di esistenza della forma-poesia. Quello di Lucio Mayoor Tosi è lo sguardo stupefatto e meraviglioso di un bambino che, dubitando, osserva il mutare delle cose e pone delle domande ai genitori. Lucio Mayoor Tosi si chiede con una ingenuità disarmante:
Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?
Una domanda senza senso, direi, in quanto domanda piena di senso, essa domanda ha finito col perdere alcun senso, nel senso che non è ragionevole e, come tutte le domande dei bambini non procede con il principio di non contraddizione perché tutte le cose si contraddicono e precipitano nell’imbuto della trasformazione dell’energia e dell’entropia.
Ad esempio, che significa questo verso?
Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.
Io credo che il suo significato vada oltre il significato grammaticale, direi che è un significato di un universo post-simbolico, Lucio Mayoor ha perduto definitivamente i «simboli», non li riconosce più, epperò non può non procedere che per simbolizzazioni, perché la corteccia cerebrale dell’homo sapiens non può che produrre a getto continuo simbolizzazioni… la simbolizzazione è una funzione del cervello umano. Lucio Mayoor Tosi procede per simbolizzazioni progressive in accordo con la seconda legge della termodinamica che ha individuato nell’entropia la legge fondamentale di organizzazione e trasformazione dell’universo. La sua poesia obbedisce a questa legge, adatta la forma-poesia alle nuove organizzazioni entropiche che vanno da stati di bassa entropia a stati ad alta entropia.
Carlo Rovelli scrive: «L’intera storia dell’universo è questo zoppicante e saltellante aumentare cosmico dell’entropia. Non è né rapido né uniforme, perché le cose restano intrappolate in bacini di bassa entropia… fino a che qualcosa non interviene per aprire la porta di un processo che permette all’entropia di crescere ulteriormente. La crescita stessa dell’entropia apre occasionalmente nuove porte attraverso le quali l’entropia ricomincia a crescere».1]
Francesca dice “Buongiorno poeta”.
Chi è Francesca? Non lo sappiamo e il poeta non si perita di dircelo. Chi sia Francesca non ha importanza, può essere nessuno o chiunque, la cosa non cambierebbe ai fini della poesia. La poesia non si preoccupa di «illustrare», di «rappresentare», di fornire una «spiegazione», non si occupa né di significanti né di significati (come la poesia del novecento), non si preoccupa di «simboli», ma semmai di surrogati, di emblemi, di engrammi, di icone, di segnaletiche, di segni… siamo ormai in un universo post-simbolico, e chi non l’ha capito continua a scrivere come se ci fosse davanti a noi un universo di simboli simbolici. Il neo-realismo dei lirici e degli anti lirici della stragrande poesia che si fa oggi in Italia e in Occidente, la poesia da toponomastica, è semplicemente fuori tempo, non parla di noi…
1] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 140
Lucio Mayoor Tosi, grafica
Lucio Mayoor Tosi
2 settembre 2017
Washo in cerca dei suoi discepoli
Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese: una compressa
col campanile, nei secoli mai dissolta tra le Langhe
e la pianura Padana. Lungo il tragitto si divertì
a fare abbaiare i cani segregati dietro i cancelli delle case;
anche se quella mattina, perché era di mattina, Doly
quasi non si avvide del suo passaggio. Anzi,
proprio non gli rivolse neppure lo sguardo.
«Doly! » disse con voce alta Washo voltandosi indietro
dopo che fu passato. E quella finalmente abbaiò.
Cane sentimentale, pensò Washo.
«A cosa stavi pensando?»
Più avanti toccò al dobermann. Ma anche questi si limitò
a guardarlo da sotto i ferri del suo cancello; il lungo muso
sembrava quello della BMW del suo padrone, solo con gli occhi
più mansueti. Ma nemmeno il dobermann abbaiò. Giusto
un abbaio in risposta a Doly che nel frattempo si era svegliata.
E più avanti il meticcio; che, sì, era tanto bruttarello
ma aveva un bel cortile da sorvegliare. Il meticcio erano mesi
che aveva smesso di abbaiare al passaggio di Washo.
Ah, pensò Washo, la prossima vita ti prenderò io. Perché siamo
oramai amici e ti ricorderai di me.
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo, almeno per l’uomo che vuole mantenersi rude
come stesse in famiglia. E c’era un altro avventore.
Quindi Washo provvide a mettersi coi gomiti bene appoggiati
sul banco, con il bagliore dei muscoli in vista per dare prova
di sicurezza interiore. Quindi pensò: ecco, che lo si sappia o meno
questo è l’istante fuggevole della meditazione. Il tempo
che la signora impiega per caricare il caffè dentro il filtro
della Faema ed erogare nella tazzina.
Zucchero di canna.
Giorgio Linguaglossa
3 settembre 2017 ore 17.00
La poesia di Lucio Mayoor Tosi sopra postata è il racconto della «ricerca della identità». Il protagonista, Washo, ha perduto tempo addietro, «qualcosa». Questa «perdita» lo guida. Washo prende a passeggiare, oziando.
Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese.
Washo non sa chi è. Prende a passeggiare perché non sa chi è e deve capire chi egli sia veramente; deve percorrere un tragitto (che lui conosce molto bene), questo tragitto è la sua personalissima Odissea mattutina. Va al bar per prendere un caffè. Il narratore è una terza persona che sta fuori della dimensione entro la quale vive e vegeta il protagonista Washo. Passeggiare, quindi, è il modo proprio del protagonista per capire se stesso, per mettersi alla prova.
Il dramma di Washo è che lui non sa chi è:
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo…
Washo è un personaggio colpito da amnesia, e quindi da cecità. Egli non vede ciò che vede e non ricorda ciò che non può ricordare, infatti tutta la poesia è svolta al presente. Washo ha perduto qualcosa ma non sa che cosa sia questo qualcosa e non sa neanche di stare cercando questo «qualcosa». Tutta la vicenda di Washo è esemplare di questa condizione di non consapevolezza. Washo è stato colpito da un colpo apoplettico, da una alienazione originaria, ma lui non lo sa e non lo sospetta nemmeno. Il dramma di Washo è che lui vive unicamente nell’Immaginario, vive tra le immagini. Il suo mondo è stato «ridotto» all’Immaginario del presente, egli non ha più la capacità di ordinare il suo mondo tramite il Simbolico, vive in un flusso di eventi immersi in processi di de-soggettivazione che sono anche processi di assoggettamento. La de-soggettivazione va di pari passo con l’assoggettamento della coscienza alienata.
L’uomo è un ente che “nasce” alienato ab origine, perché da sempre costretto a «giocare in difesa». L’universo rappresentazionale attraverso il quale significa il mondo è la conseguenza di uno «smarrimento» mitologico, la «perdita» della das Ding , che lo aliena da se stesso e lo pone in una condizione psicologica difensiva.
Il soggetto alienato ab origine della nuova poesia psicologica, ovvero, la «nuova ontologia estetica» (penso alla poesia di autori come Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Steven Grieco Rathgeb, Mariella Colonna ed altri), si occupa di questo: di rappresentare, oggettivare l’universo simbolico e immaginario proprio di questo soggetto alienato che «non sa chi è». Il «suo» oscillare esistenziale è il tentativo di gestire il trauma dello smarrimento originario. Questo trauma origina quell’apertura di senso che ci contraddistingue, quel serbatoio di senso attraverso il quale produciamo le nostre rappresentazioni…
Viviamo in una società post-televisiva, che ha sostituito il registro Simbolico con quello Immaginario, ci muoviamo in un ordine di icone e di simulacri.
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
22 agosto 2017 alle 19.43
Si dice che Aristotele, ma tempo prima anche Lao Tsu, avevano l’abitudine di pensare camminando. Di LauTzu, l’autore del Tao, si racconta che aveva un amico il quale talvolta lo accompagnava nelle sua passeggiate nei boschi; e una volta gli chiese di poter portare con é un ragazzo, perché aveva tanto insistito per poterci essere… Lao acconsentì. Così si addentrarono insieme nel bosco. Tutto bene. Ma un paio d’ore più tardi, verso il ritorno, accadde che il ragazzo, il quale durante tutto il tragitto se n’era stato zitto, sentendosi in dovere di ringraziare disse: grazie Maestro, è stata una bellissima passeggiata! Eppure, quando Lao Tsu fu solo con il suo vecchio amico, gli disse di non portarlo più. Parla troppo, gli disse. Questa storia mi ha sempre fatto ridere: Lao Tzu avrebbe sicuramente cacciato anche me!
*
Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende, ma che ogni tanto, viene inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò
quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso,
disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient’altro.
(Thomas Bernhard – Perturbamento)
A proposito dell’innominabile nella «nuova ontologia estetica»
La rappresentazione poetica è quanto scompone letteralmente il soggetto parlante, quanto lo pone nella condizione costitutiva che possiamo definire di impotenza alla nominazione, qualcosa di molto simile a ciò che accade nella teologia apofantica. Perché Das Ding è lì, dentro, al centro del soggetto come un «vuoto causativo», oltre la regolazione omeostatica del principio di piacere e dei suoi tracciati; sta lì come un vuoto tangibile e innominabile. Sta lì cioè come testimone della delusione del desiderio, del suo non avere requie, delusione che si esprime in una ripetizione del bisogno che è un bisogno di ripetizione. E quando Lacan indica nella sublimazione l’operazione che eleva un oggetto alla dignità della Cosa, non fa altro che denunciare, insieme a Freud, l’effettiva illusione di cui il desiderio e, più in generale, il percorso della civiltà sono intrisi.
L’oggetto, per quanto sia bello, non è tuttavia mai questo, non è mai la Cosa. Ecco a cosa mira Lacan. Esso è sempre posticipato, o in anticipo rispetto al compito che gli si chiede di assumere. L’oggetto non è un dato, l’oggetto è un investimento, un serbatoio di nostre proiezioni psichiche e affettive.
«Crediamo che le cose siano lì, al centro, solide, stabili, in attesa di essere riconosciute, e che il conflitto sia ai margini. Ma che cosa insegna l’esperienza freudiana, se non che ciò che accade nel cosiddetto campo della coscienza, cioè sul piano del riconoscimento degli oggetti, è altrettanto ingannevole rispetto a ciò che l’essere cerca? Benché sia la libido a creare i diversi stadi dell’oggetto, gli oggetti non sono mai questo […]. Il desiderio, funzione centrale di ogni esperienza umana, è desiderio di niente di nominabile».1
Sappiamo da Lacan che l’ordine della rappresentazione prodotto dal vuoto causativo della Cosa segue la via del significante, si installa nella dialettica della presenza e dell’assenza. Più il poeta nomina e introduce la presenza, più la parola pone la Cosa in presenza della presenza, più egli scava l’assenza. Più il desiderio del soggetto scava in direzione dell’innominabile e più fa esperienza del suo annichilimento, si trova scalzato, allontanato dal nucleo del suo proprio essere. Annichilimento che riguarda in primo luogo la parola, in quanto desiderio di nominare, di nominarsi. Ma, una volta in prossimità dell’innominabile non c’è che silenzio e ammutolimento. Per questo, come sovente si dice, la bellezza «lascia senza parole», la bellezza è innominabile.
1 J. Lacan Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti I, Einaudi, 1970, p. 278
Caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24588
hai fatto un balzo da Owens. Se rileggo le tue poesie prima di queste la differenza è notevole. Ma già c’era nell’aria un movimento di garbino.Si nota un impegno che ha dato i suoi frutti. Non giudicarmi avaro di commenti. Mi basta dire che le poesie di oggi sono un lavoro di autentica griffe. Sempre in progress. Questa della NOE, ormai non è più una officina, ma una industria.
Caro Mario,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24590
senza nuova critica staremmo a rigirare la polvere. Se c’è del merito lo devo a voi tutti.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24591
Fra le innumerevoli anime vaganti che ho incontrato nelle infinita diaspora virtuale a cui ci siamo assuefatti, quella di Tosi mi suscita particolare simpatia e vicinanza: mi è in qualche modo familiare, abbiamo varie cose in comune, la stessa età, simili attitudini creative e qualche eterodossa esperienza di formazione: anch’io ho frequentato a lungo i centri di meditazione di Osho, ma senza mai convertirmi; ci andavo per motivi molto più seri: tentare, quasi sempre senza successo, di rimorchiare ragazze. Ma in quel crogiolo di irregolari, borderline, potenziali ubermensh ho incontrato le personalità più ricche e affascinanti; quell’atmosfera di transito, di mutazione, di totale disponibilità verso una nuova configurazione dell’io, la ritrovo in parte nella scrittura di Tosi, ironica, iconoclasta, poliprospettica, sempre sopra le righe e soprattutto definitivamente immunizzata contro ogni forma di intransigenza e conformismo.
Per lui una poesia dei bei tempi allucinogeni.
Onde di luci e suoni
continuano a crescere prorompendo
dalle cisterne spalancate della notte
Qualcosa che temo senza conoscerlo
sta per accadere
L’Enigma si agita ferendo i cieli
e tuonando contro le tempie
Nessuno può udire la voce
della donna ferita che grida
dal fondo del pozzo del passato
L’uomo spezzato in due da una risata
appena uscito dal suo corpo
sta pregando la Vergine di restituirgli
la mente che custodiva in paradiso
Le falene dalle grida verdi che mi spiano
fingono di non vedere
il sangue che sgorga da ogni pensiero
Qualcuno dovrebbe fermarsi
in mezzo a questo vortice
di insetti e peccati
Bere ad una di quelle
aureole di nostalgia
Il tempo si ingorga nel vortice
di tutte le possibili esplosioni
delle menti che lottano per tacere
Fra tutte le altre
quella che sorride svanendo
al vento della lacerazione
Una preghiera volteggia incessante
fra le meduse ingioiellate
di riflessi di vertigine crescente
Se qualcuno potesse spezzare
quelle vecchie minacce di corallo
Camminare in quello sguardo
che è un errore di vento e fantasia
A ondate sorgono mondi invisibili
dominati da volontà crudeli
fra i quali non posso esistere
Mi spingono verso precipizi
dai quali è appena fuggita la morte
Stremato devo avanzare
dentro un cunicolo di roccia
che si restringe fino a soffocarmi
Infine sono un triste rigagnolo
in cupe cantine sconfinate
Fra gli squarci della notte s’intravede
la deliziosa fanciulla crocifissa
Per la sua folle tristezza d’arpa sepolta
il cosmo è stato divelto
Poter riposare almeno un istante
fra i sospiri di bosco
dove le statue femminili nascondono
scrigni d’eternità e di sonno
Il fragore insopportabile che scende
dagli infiniti universi dietro il sogno
ha distrutto le cristalliere della memoria
Qualcosa che mi apparteneva
svanisce per sempre dietro inferriate
oscillanti nella tenebra
Il cupo richiamo dell’eternità
nel giallo afrore di serpente
Un grido in una selva d’echi
dai bordi fiammeggianti
A frustate il tempo agonizzante
viene scagliato nella gola
spalancata del serpente cosmico
Rinchiuso nelle dimore degli angeli
il panico rende livido l’orizzonte
Intorno al mostro appena partorito
belve tenebrose divorano frammenti d’angelo
caduti dagli abbaini del sogno
L’uomo senza braccia grida
e vomita un luccicante serpente di terrore
che scivola nel sesso della donna arancione
Alcuni alberi diventano anime
di gente felice da far paura
Solitudini abbracciate
si aggirano nei viali
La ragazza distesa ha sfiorato
il cielo con un dito e subito
sono piovute lacrime di bambini
Le teste recise abbandonate
muoiono dal ridere
quando la vecchia dai capelli di tragedia
si strappa gli occhi e l’anima
L’eternità col capo grigio chino
stormisce tristemente all’orizzonte
nutrici dai merletti grigi
mostrano lontananze d’amore
da dimenticare per l’ultima volta
SEGNALO A lUCIO QUESTO “STRILLO”:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24603
Fra gli squarci della notte s’intravede
la deliziosa fanciulla crocifissa
Per la sua folle tristezza d’arpa sepolta
il cosmo è stato divelto
Predo nota. Ho da poco scaricato da internet “Luci del desiderio” di Carlo Livia. Devo dire la verità, faccio un po’ fatica per la sovrabbondanza di quel che a me sembra surrealismo – se ho ben capito, ancora devo approfondire – ma le immagini sono davvero tante, copiose, inesauribili…
Caro Livia, mi sento contento e grato per la dedica. Questa tua poesia mi riporta nel clima delle meditazioni attive che ho tanto frequentato. Non so quanto altri la possano capire, ma tu con il tuo linguaggio e l’immaginario, riesci a trasformare quello che io posso vedere realmente: dov’eri e cosa stavi facendo. E non credo di sbagliare.
Sulla conversione hai già detto quanto basta e nel migliore dei modi:
Solitudini abbracciate
si aggirano nei viali
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24592
Caro Lucio, la poesia ti arride, sotto la spinta materna delle prime nebbie.Segnalo, come sempre,il verso che più mi ha colpita:”I Dominanti s’aggiustano su poltrone riservate”.Dice più di un comizio tenuto alle masse dei diseredati.I quali così nascono e così restano, tranne qualche rara eccezione.Qualcuno crede (bontà sua) che a loro sarà riservato il regno dei cieli.Le bugie non fanno un danno maggiore di quello che fa la verità.Complimenti sinceri,e auguri per l stagione fredda,che, finalmente, viene.ANNA VENTURA
Grande Lucio.
Cara Anna,
invece io la stagione fredda la temo, sai com’è: le spese per il riscaldamento e tutto il resto… Quanto ai dominanti: sono nato da persone giuste e comuniste. Quasi senza parlare mi insegnarono a tenere gli occhi aperti. Ma io sono Washo, lo sono sempre stato, solo ancor più campato in aria. Anche poesia mi ha aiutato in questo, a ritrovarmi.
Sono molto lieto di poter apprendere anche da te, Anna. Vorrei leggere più spesso tue poesie su questa rivista. Non farti attendere.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24594
Pietra dopo pietra, Lucio Mayoor Tosi costruisce le sue cattedrali gotiche in un plurilinguismo (possiamo dirlo alla Joyce?) e in una metafisica oggettiva
(possiamo dirla alla Eliot?) verso ciò che Giorgio Linguaglossa nella sua nota
ha acutamente definito Das Ding, La cosa, nel vuoto, che Washo non sa che sia perché Washo (il poeta?) dal suo canto non sa “chi” sia.
Questi risultati poetici sono il frutto che matura nel clima e nell’atmosfera
etica ed estetica dell’Ombra delle Parole.
Il grande scrittore russo lo ammise:”Veniamo tutti dal Cappotto di Gogol”.
Si parva… Possiamo dire:”Veniamo tutti dall’Ombra delle Parole”.
E dall’azione tenace di critica letteraria del suo fondatore e coordinatore
Giorgio Linguaglossa, ben supportato da molti/e collaboratori/trici, a partire
dall’ottimo Mario Gabriele che già, diciamolo, possedeva e praticava
un suo “frammentato” stile poetico, personalissimo e riconoscibile.
Gino Rago
Caro Gino Rago,
https://lombradelleparole.wordpress.com/wp-admin/comment.php?action=editcomment&c=24625
riconosco i meriti di voi tutti – ragione per la quale mi trovo ad essere qui – ma tengo a dire che ho seguito un onesto percorso, non facile ma appassionante che considero del tutto personale. L’approfondimento e la lettura dei testi NOE mi è servita a togliere articoli, aggettivi, a sondare gli infiniti modi di poter stare nel frammento, dalla scansione più elementare (il punto) al quello più complesso del periodo lungo. Ho anche netta l’impressione di aver partecipato fin qui a un lavoro collettivo, comune a tutti. Alcuni sono arrivati prima, altri MOLTO prima, come Alfredo De Palchi. Per me si è trattato di un passaggio naturale, una sorta di aggiustamento di quello che scrivevo fino a un anno fa. Sto rileggendo – mi sono deciso a preparare una raccolta che spero di poter pubblicare – nel 2014 ad esempio, non ero ancora devoto a Thomas Tranströmer, e si sente. La NOE credo abbia compiuto solo adesso il suo primo anno di vita (forse due, oh come passa in fretta il tempo!)… Forse nemmeno tu scrivevi come adesso, non so, qualcosa deve essere cambiato in tutti. Forse solo Giorgio Linguaglossa, l’inventore della NOE, e Mario Gabriele con L’erba di Stonehenge avevano già capito tutto. Ora servono interpreti, interpreti autori e nuovi maestri. Caro Gino, quanto ho appreso dai tuoi insegnamenti, le acute osservazioni, i riferimenti culturali… Non me ne sono perso uno. Ti sono davvero molto grato.
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La mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Lucio ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… e la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza e il linguaggio poetico si è rivitalizzato di colpo. Quella che era la poesia in crisi, quella crisi della poesia si è rivelata una autentica fortuna: la crisi della poesia ha prodotto una nuova forma-poesia. Incredibile.
Qualunque sia la via prescelta, sovrarazionalità o irrazionalità o razionalità in senso stretto e largo, bisogna prendere atto che la ragione non fonda più alcunché e non può fondare nemmeno se stessa. Il funzionamento della tecnica, il fatto che «la cosa funzioni», si ritrova allo stesso livello filosofico di un qualsiasi luogo comune o dogma religioso. Non c’è una razionalità originaria che funzioni da giustificazione, è soltanto il fine che fonda se stesso e la giustificazione. Così, sia la filosofia che la poesia si sono trovate prive di norma, prive di normatività, a diretto contatto con l’impensato e l’impensabile…
Ecco perché la poesia che va di moda oggi è quella proposizionale, assertoria, cioè fondata sul proposizionalismo, poiché ogni proposizione si giustifica da sé, ha in sé una propria organizzazione razionale e non ha bisogno di cercarla altrove. È una proposizionalità linguistica che qui ha luogo.
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Bello il commento di Giorgio: puntuale, rigoroso, attento al testo: anche lui ha tagliato un po’ di filosofia e di psicanalisi e parlare di “entropia” collegandola al testo è un procedere intenso e formativo. Lucio sta correndo, ma, secondo me la legge dell’entropia corre meno veloce di lui, o più veloce, non lo so. ormai è una navicella spaziale diretta verso mete infinite, incalcolabili,e porta con sè tutto quello che ad un terrestre serve per restare un uomo, i ricordi, le presenze, i palpiti seppure nascosti del cuore. Anche io mi sento sulla strada di Lucio…ho cominciato più tardi a correre dentro lo spazio infinito della poesia, ma sto quasi volando (dentro). Ci sono strane interferenze tra me e Lucio nelle scelte degli argomenti e delle parole: per esempio proprio stanotte ho scritto una poesia sugli uccelli che si collega al senso nascosto di alcuni versi di lui molto forti. E poi L’apocalisse, i neutrini, lo spazio, i gatti. C’è però una differenza fondamentale molto marcata: quel punto di partenza che siamo noi. Il suo e il mio fantasma si assomigliano quanto sono diversi i due “io”. Il mio “io”, forse, resiste all'”entropia o si è già dissolto nell’autoanalizzarla e macerarla dentro la carne e l’anima. Invece Lucio vi si abbandona con sofferenza, ma soprattutto con la fiducia di un bimbo verso la madre: è un “cupio dissolvi” in cui realtà e desiderio stanno quasi sempre per raggiungersi…e dal dolore della separazione nasce lo stacco netto del poeta dai suoi sogni e la difesa nel sarcasmo e nell’assurdo.
Quanto a me forse l’ “entropia” mi ha già divorato e dissolto, ma io sopravvivo: e questo è il miracolo. Sopravvivo perché , in realtà, io ho già guardato “oltre” l’entropia…ho visto il mondo rinnovato, limpido, innocente. Diceva de Andrè, che abbiamo ricordato da poco nell’anniversario della sua morte: “Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior.” Io vedo i fiori e so che all’ombra dei fiori si nasconde un piccolo grande mistero.
E adesso grazie a Giorgio e a Lucio per avermi dato il là…anche questa mattina: nell’universo stamattina… si lavora alla grande con le parole!
Mariella
Cara mariella,
bene se siamo, come si suol dire, collegati. All’Apocalisse, ai neutrini e ai gatti dovresti aggiungere anche quell'”ormai è una navicella spaziale” che appartiene al mio immaginario – di lettore affezionato a Philip Dick: cosa piuttosto insolita per un poeta ma dove mai altrimenti avrei potuto trovare una via d’uscita?
Quindi bene; non sono d’accordo sul mio abbandonarmi con sofferenza, e nemmeno su “la fiducia di un bimbo verso la madre” ma pazienza. Forse non ho ben capito.
La sofferenza è nelle cose, riguarda il nostro voler essere autentici. Il tuo “io” e il mio: ma io ne ho mille e tutti presi in prestito. Di solito vivono per trenta, quaranta versi, quanto basta per essere… Però riconosco nella tua fantasia una somiglianza in quantità. Ritengo inoltre che tu sappia scrivere assai meglio di me, io solo in poesia e non sempre. Ma qui stiamo de-condizionando, de-strutturando, quindi, penso, dovrebbe essere più difficile per chi scrive con metodo. Però ci riesci e i risultati si vedono. Impari in fretta, oltretutto su una maniera difficile da ricondurre a frammento: quella della forma racconto, che devo dire ti riesce molto bene.
Caro Lucio,
ti prego di leggere con attenzione quello che ho scritto sopra, anzi te lo incollo qui così vedi che non ho dimenticato “la ormai famosa” navicella spaziale”!
“…Lucio sta correndo, ma, secondo me la legge dell’entropia corre meno veloce di lui, o più veloce, non lo so. ormai è una NAVICELLA SPAZIALE diretta verso mete infinite, incalcolabili,e porta con sè tutto quello che ad un terrestre serve per restare un uomo, i ricordi, le presenze, i palpiti seppure nascosti del cuore”
Non capisco perché con me sei sempre…o severo o condiscendente. Sento la tua resistenza al dialogo con me e mi mette un po’ a disagio, vorrei superarla. Siamo diversi, come tutti gli esseri umani, ma è proprio nella diversità che si raggiunge un completamento e un equilibrio.
Tu dici ad Anna Ventura che “vieni da una famiglia giusta e comunista”, per completare il quadro delle nostre somiglianze-differenze, io vengo da una famiglia “giusta” non comunista ma fedele ai principi di giustizia che si radicano nella Dottrina sociale della Chiesa , quella fondata da Gesù Cristo, non quella istituzionale che è più politica della classe politica. Mio padre Architetto, ha sempre lavorato per realizzare i suoi ideali di artista poco più che povero ed è morto a Caracas prima che il Venezuela si disgregasse per l’incapacità totale dei suoi psaudogovernanti: è morto dopo aver fatto cosruire, con l’aiuto dell’esercito, agli stessi contadini che vivevano nelle palafitte, (nella zona interna bonificata dalla malaria), molti villaggi di casette in “terra cemento”che hanno trasformato la vita di quella povera gente.”I dominanti” non hanno nulla a che vedere con noi artisti o poeti, ma la gente giusta sì: e la giustizia c’è in ogni essere umano che la coltivi a qualunque famiglia o classe sociale appartenga. Allora non essere prevenuto nei miei confronti, Lucio. Qui dobbiamo andare avanti…anche per me l’inverno si presenta con molte difficoltà di tutti i generi, ma c’è Qualcosa, una forza importante che mi sostiene, io lo chiamo Dio o Amore, che per me sono sinonimi. Quella forza misteriosa sosterrà anche te e noi tutti, e riuscirà a farlo purché ci vogliamo bene, cioè vogliamo gli uni il bene degli altri. Io, per me, sono felice che tu abbia raggiunto vette così alte nella poesia. E so che, in fondo, anche tu hai momenti di fiducia nei miei confronti. Partiamo da quei momenti per un’amicizia senza riserve che nascono, forse, dalla nostra storia e di cui è difficile prendere coscienza. Vedi che non ho lesinato il mio tempo per te?
Mariella
Ammiragliato
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Nella nordica capitale un pioppo si tormenta polveroso
si confonde nel fogliame un quadrante trasparente
e nel verde scuro una fregata, o un’acropoli,
luccica a distanza, consanguinea dell’acqua e del cielo.
Leggero vascello con l’albero scontroso
filo a piombo per i successori di Pietro
esso ci istruisce: la bellezza non è capriccio da semidio
ma l’occhio avido e preciso di un concreto falegname.
Ci sono benevoli i quattro elementi
ma l’uomo libero ne ha creato un quinto.
Non nega forse la supremazia dello spazio
quest’arca costruita castamente?
Fragili meduse si incollano rabbiose
arrugginiscono le ancore come aratri abbandonati;
ed ecco, spezzati i nodi delle tre dimensioni,
si spalancano i mari di tutto il mondo.
Osip Mandel’stam
Il penultimo verso regge tutto il componimento mandel’stamiano
“(…) spezzati i nodi delle tre dimensioni” e immette nella metafora tridimensionale che spalanca “i mari di tutto il mondo”; mentre l’altro,
“l’occhio avido e preciso di un concreto falegname” sancisce
definitivamente l’idea di poeta come artifex, come costruttore di versi
pietra su pietra…
Immergendo me stesso in questi versi, segnalati da Giorgio Linguaglossa già ai tempi di POIESIS sul finire degli anni ’90 del Novecento, ho sentito
la spinta di dare una svolta ai miei versi. Ed è la stessa spinta che abbiamo sentito tutti, da Lucio Mayoor Tosi a Giueseppe Talìa, da Steven Grieco-Rathgeb a Mariella Colonna, da Edith Dzieduszycka a Costantina Donatella
Giancaspero, da Francesca Dono a Chiara Catapano, da Letizia Leone
ad Anna Ventura, e di recente da Luigina Bigon a Gabriella Cinti a Carlo Livia e a Giancarlo Baroni, aggregandoci, al di là degli esiti estetici e stilistici, intorno all’Ombra e nella NOE.
Non cito nel gruppo di prima né Mario Gabriele né Giorgio Linguaglossa perché i due sono stati
gli “apripista” già padroni com’erano d’una avanzatissima Musa, frammentata e tridimensionale.
Se mi sbaglio vorrei essere contraddetto e soprattutto perdonato.
Gino Rago
Altro che contraddetto, Gino! Tu (e un po’ anche io, almeno ci provo,), sei il terzo apripista e la nostra coscienza collettiva: e poi lo siamo tutti “apripista”, ognuno verso la sua meta e il cammino da percorrere, spesso ignoto anche a chi lo sta facendo i primi passi…”Non hay camino” dice Antonio Machado “se hace camino al andar”. Quindi il tuo entusiasmo, caro Gino, sempre sul filo d’equilibrio che impone la tua mente corroborata dagli studi scientifici, trasporta tutti, anche senza che se ne accorgono: ma il problema-chiave è che tutti leggano e rispondano (non sempre, è chiaro!) a chi pone domande o mette sulla pagina virtuale argomenti nuovi o di comune interesse. Oppure che si esprimano sulle poesie! A presto, Gino…grazie e sempre ad maiora!
Mariella
Copio et incollo il mio commento da “Patria Letteratura” di ieri (per ringraziare – nella ‘mia’ maniera – Gabriella Cinti, Mario Gabriele,
Mary Colonna)
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“Amate l’esistenza della ‘cosa’ più della cosa stessa. Amate il vostro ‘essere’ più di voi stessi».
E’ il più grandioso direi ‘ precetto mandel’stamiano’ de Il mattino dell’ameismo. Come dire, usando le parole di Giorgio Linguaglossa nel saggio – su Poiesis N.speciale 33 dell’anno 2005 – “L’acmeismo,
la prima avanguardia postuma del Novecento”, che “la verità della poesia si trova fuori dalla poesia,
riposa nell’atteggiamento che il poeta deve avere verso il mondo. La verità della poesia risiede nello
sguardo che essa rivolge al mondo…”, con tutto ciò che ne consegue, dalla metafora tridimensionale
al frammento della Nuova Ontologia Estetica, nel nuovo fare poetico di cui Mario Gabriele (da sempre), Mariella Colonna (soprattutto a partire dai versi recenti per ‘Berenice’, versi bellissimi) e la Gabriella Cinti della sua recente esperienza di poesia, sono sicure colonne periptere del tempio di questa poesia che si sta edificando pietra su pietra quotidianamente. Come faccio a non dire perciò il mio grazie sentitissimo
a Gabriella Cinti, a Mariella Colonna e a Mario Gabriele per le loro testimonianze dotte e pertinenti sui miei versi (di “Sei poeta”).
(da Commenti, Patria Letteratura, 4 ottobre 2017)
Gino Rago
Approfitto per inserire l’ultima poesia di Lucio Mayoor Tosi pubblicata sul suo blog personale. A me sembra un altro risultato eccezionale del nuovo modo di concepire la scrittura poetica.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24601
Tutto l’immaginario sul ballatoio.
Messo alla rinfusa. Davanti al tragico orizzonte.
Scendendo le scale si arriva al cortile
– di casa a ringhiera ristrutturata –
poi all’androne dove non si può uscire.
L’impedisce un portone di legno
alto fino al soffitto. Sempre chiuso.
Eterno e infinito.
Eppure è soltanto una metafora, una meteorite.
Manca il sole, non si vedono uccelli in volo,
nessuna anima viva e nemmeno fantasmi.
I pensieri hanno occhi di luce bianca.
Spariscono quando compare la pupilla.
Mentre penso non posso (imbracciare il fucile).
Penso, quindi penso. E non so, quindi non so.
(Nessun fucile).
Ci sono parole nei libri che vivono clandestine,
in incognito. Merce sottobanco. Sottovoce.
Senza voce.
Si sa di loro che vivono in qualche giardino.
Ci si immagina una selva.
Trasparenti e muti filosofi. A che vale tanta fatica?
Chi sa di pensare può smettere in qualsiasi momento.
Tutti i pensieri hanno inizio e fine.
Quando la loro ultima parola se ne va
di solito lascia inudibile la coda di una vocale
che si allontana.
Dentro il motore del tempo
tra un secondo e l’altro c’è lo stare in eterno.
Non si ha bisogno di cibo e bevande,
non si teme l’inverno. Non si nasce
e nemmeno si muore una volta.
Eternità gioisce se mi preparo del tabacco.
La diverto, si diverte. Mi diverto.
Torno sul ballatoio, metto in ordine.
Guardo l’orizzonte e penso. Scrivo.
Sette rovine di paglia da allineare.
Soli nell’universo. Ricettacoli.
Cose mai scritte.
Da dove viene l’inconscio
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24602
«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l'”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]
1] Michel Meyer Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183
(…) E io pensavo: non occorrono discorsi.
Non siamo profeti e nemmeno precursori,
non amiamo il paradiso, non temiamo l’inferno,
e nell’opaco mezzogiorno ardiamo come ceri.”
Osip Mandel’stam
(versi da ‘Il luterano’, trad. di Serena Vitale)
Gino Rago
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faccio i miei complimenti convinti a Lucio Mayoor Tosi, queste sue poesie sono di alto profilo; senz’altro il lavoro collettivo chiamato NOE ha dato i suoi frutti. Devo dire che anch’io da quando frequento l’Ombra delle Parole, ho capito molte cose e ho approfondito il significato profondo di pensare in frammenti e pesare le parole in termini di tempo interno, tutte cose di cui prima non ero consapevole, e la mia poesia ha fatto un indubbio salto di qualità. Ho dovuto modificare anche la lunghezza del verso e ripensare la stessa organizzazione frastica dei versi. E’ stata una scuola non solo di retorica ma anche una scuola di pensiero.
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grande piacere di trovare poesia di Lucio Mauor Tosi che leggerò non appena il computer mi lascerà stampare articoli poesie e commenti.
Per il momento auguri entusiastici.
Grazie, carissimo Alfredo
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24648
il parere di chi ha iniziato ben prima di me questo percorso ha grande importanza. Lei qui è ormai di casa. Così è stato deciso, penso, all’unanimità. E io ne sono molto contento.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24643
E’ domenica. Passa un funerale.
Le campane della chiesa protestante hanno un timbro scuro.
Ma il dolore ipocrita non è nella bara.
L’ipocrisia del dolore circola tra i vivi.
Appare d’un tratto una corona.Sono rose autunnali.
(…)
Piangono tutti i parrocchiani.
Si sente qualcosa in lingua straniera.
(Forse un discorso in onore del morto?).
Occhi umidi. Sotto i veli un pianto di donne luterane.
Il cocchiere arresta il cavallo.
Un silenzio cade sopra il selciato.
I ferri non consumano le pietre.
Il poeta barba-bianca
fa un balzo raffinato sulla scena:
“Ci sono poeti fra i parrocchiani che piangono?
Ricordatevi sempre dell’inconoscibile.
Non sprecate parole nel delirio annebbiato.
Gettate lo sguardo sul paesaggio.
Smarritevi pure nella memoria.
Tre parole. Soltanto tre. Tempo. Spazio. Eternità.
Da Notre-Dame a Santa Sofia passando per San Pietro.
A Roma. Per udire sull’Appia la voce dei cesari.”
(…)
Un parrocchiano piangente domanda: “Chi sei?”
Risponde sparendo un fiato nel fumo:
“Mi chiamavano Ubaldo… Ubaldo De Robertis”.
Su tutti si spande una calda carezza.
Gino Rago
caro Gino,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24647
grazie per aver postato questa tua ultima composizione. Come è giusto in una vera officina dove ognuno sottopone il proprio lavoro all’esame incrociato di tutti per trarne suggerimenti e consigli.
Un grande pensiero per il nostro amico, il poeta Ubaldo De Robertis, che ci ha lasciato prima del tempo, purtroppo quando Ubaldo era in piena evoluzione stilistica e stava ragionando sulla «nuova ontologia estetica». Così, ci è venuto a mancare una intelligenza competentissima e una voce fuori dal coro ipocrita dei letterati. Per noi tutti è stata una perdita incalcolabile, è stato lui che, insieme a Mario Gabriele, mi ha spinto ad approfondire l’indagine delle nuove categorie estetiche; Ubaldo aveva capito che era necessario imprimere una svolta alla poesia italiana ancora ancorata ad un discorso lineare elegiaco alla Bacchini o alla Cappello, un genere di poesia che sa di antico e di finito, di conchiuso. In email private Ubaldo mi aveva espresso questa sua convinzione.
Sulla tua poesia io ti suggerirei di togliere tre aggettivi: “piangente, ipocrita e raffinato”, di tagliare l’ultimo verso e anche quest’altro: «Piangono tutti i parrocchiani». La poesia se ne gioverebbe.
Per il resto, è una grande poesia, una composizione scaturita dal cantiere della NOE. Ha un motore in più. Non concede nulla all’elegia, alla rimembranza, ai trucchi, alle manomissioni…
La tua poesia è l’elenco di un insieme di eventi; vengono esposte delle situazioni che meglio sarebbe chiamarle «eventi». La poesia è questo insieme di eventi narrati in modo oggettivo, impersonale, con una sintassi lineare, con numerosissimi punti di interpunzione, con divisioni nette e marcate.
Cito non un letterato o un filosofo ma uno scienziato, Carlo Rovelli:
«funziona pensare il mondo come rete di eventi. Eventi più semplici ed eventi più complessi che si possono scomporre in combinazioni di eventi più semplici. Qualche esempio: una guerra non è una cosa, è un insieme di eventi. Un temporale non è una cosa, è un insieme di accadimenti. Una nuvola sopra una montagna non è una cosa; è il condensarsi dell’umidità dell’aria man mano che il vento scavalca la montagna. Un’onda non è una cosa, è un muoversi di acqua, l’acqua che la disegna è sempre diversa. Una famiglia non è una cosa, è un insieme di relazioni, di avvenimenti, sentire. E un essere umano? Certo non è una cosa: è un processo complesso, in cui, come nella nuvola sopra la montagna, entrano ed escono aria, cibo, informazioni, luce, parole, e così via… un nodo di nodi in una rete di relazioni sociali, in una rete di processi chimici, in una rete di emozioni scambiate con i propri simili».1]
37 anni fa entrai negli uffici di una Banca a Pistoia per chiedere notizie intorno ad un prestito che volevo contrarre. Ed entrai in una grandissima sala d’attesa per clienti di riguardo (di un palazzo del Quattrocento) dove non c’era nulla tranne un tavolo. Rimasi sbigottito e intimidito. Per tanti anni questo ricordo mi è tornato alla memoria, tant’è che non sono sicuro se sia veramente un ricordo o un sogno-incubo partorito dalla mia mente. Stamane, mi sono svegliato ed è nato questo frammento di poesia:
La grande sala illuminata. Solo un tavolo, al centro.
Dal soffitto, il lampadario di cristalli spande una luce intensissima,
bianca, come nel primo giorno del creato.
[…]
Non so in quale circostanza capitai in quel luogo.
Forse ci sono entrato insieme ad un sogno, che ho continuato
a sognare anche dopo. Un incubo, per anni
lunghi e contorti come il tunnel ferroviario del San Gottardo.
[Il marmo lucidissimo rifletteva la luce bianchissima].
Dopo trentacinque anni ho rivisto la stessa sala.
Era affollata di persone. Io stavo tra di loro
Carlo Rovelli L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 pp. 88-89
Caro Gino,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24651
spesso ci dimentichiamo dei poeti morti, non so se per paura o per altri fattori psicologici. Tu oggi hai postato un medaglione poetico che non fa altro che riportare l’a presenza dei morti nella voce dei vivi, come già fece Eliot in What is a classic, e che personalmente non ho mai abiurato ritenendoli un’unica famiglia. Ecco quindi il senso delle citazioni, l’importanza delle relazioni con le poesie di altri autori perché coloro che non sono più con noi con i loro pensieri e il loro amore, sono in realtà in mezzo a noi come inesistenti a rappresentare l’esistenza.
Non badate a l’a con l’apostrofo. E’ la solita maledetta manina.
Udaldo De Robertis sapeva entrare nei tecnicismi della nuova poesia con intuito e istinto da esploratore, o meglio da scienziato qual era. Lavorò molto sulla scarnificazione del verso lungo (il suo) per renderlo essenziale e più efficace. Non era poeta da haiku e nemmeno avvertiva influenze del nostro ermetismo, per questo il suo apporto fu utilissimo nell’individuare spunti di collegamento con la brevità del linguaggio odierno. E’ stato un buon compagno d’avventura, lo ricordo per la gentilezza d’animo e la capacità di volare, per un’opera di pittura o una musica, attraversando il tempo e le idee. Aiutava a vedere e sapeva emozionare. E’ stato anche per me un validissimo interlocutore e un amico. Bene ha fatto Gino Rago a ricordarlo.
E’ domenica. Passa un funerale.
Le campane della chiesa protestante hanno un timbro scuro.
Ma il dolore non è nella bara.
L’ipocrisia del dolore circola tra i vivi.
Appare d’un tratto una corona.
Sono rose autunnali.
(…)
Si sente qualcosa in lingua straniera
(forse un discorso in onore del morto?).
Occhi umidi. Sotto i veli un pianto di donne luterane.
Il cocchiere arresta il cavallo.
Un silenzio cade sopra il selciato.
I ferri non consumano le pietre.
Il poeta barba-bianca
fa un balzo sulla scena:
“Ci sono poeti fra i parrocchiani che piangono?
Ricordatevi sempre dell’inconoscibile.
Non sprecate parole nel delirio annebbiato.
Gettate lo sguardo sul paesaggio.
Smarritevi pure nella memoria.
Tre parole. Soltanto tre. Tempo. Spazio. Eternità.
Da Notre-Dame a Santa Sofia passando per San Pietro.
A Roma. Ma per udire sull’Appia la voce dei cesari.”
(…)
Un parrocchiano domanda: “Chi sei?”
Risponde sparendo un fiato nel fumo:
“Mi chiamavano Ubaldo… Ubaldo De Robertis”.
Gino Rago
(Ecco i versi per Ubaldo De Robertis nella loro forma definitiva, raggiunta
grazie ai consigli di Giorgio Linguaglossa, da me accolti senza resistenze, come son solito fare con Giorgio. Si registra un indiscutibile guadagno estetico.
Ringrazio di cuore Mario Gabriele per la sua importante
adesione all’idea di omaggio al poeta morto,sì, ma morto soltanto per l’anagrafe, come Mario ben coglie).
G.R.
complimenti
Preferisco le brevi, caro Tosi.(illuminanti,est, est, est.)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24644
Se non fosse per brevità di visione che gli smart offrono.(approfondirò,leggerò,studiero’…
leggerò,approfondirò,studiero’…😊)SIGNORI SI NASCE.
@ Mauro Pierno
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A pesca sull’Himalaya.
Entra nel buio della cucina spenta,
s’accorge di quanto effimera sia la sua presenza,
esce e ci ritorna.
Scrive In un catalogo di stelle e A pesca sull’Himalaya.
Si accorge di una matita pericolante.
La mette al sicuro.
Sottolinea
Il futuro in quella notte soltanto.
Dove non si vedono stelle, riflessa nei vetri
compare la sua sagoma scura del terrestre.
Tutto testa e braccia.
L’isola piena di vento.
L’arsenale delle reliquie.
Il giorno dopo.
E Buddha rispose:
Un guaio dopo l’altro.
oh, mi accorgo ora di averla presa da una versione non corretta. Mi scuso.
Caro Lucio, di ritorno da Atene agguanto il post. Ma devo rileggere. Però anch’io preferisco la laconicità geniale in cui – stretto stretto – a volte ti racchiudi.
Però, ripeto, qui devo tornarci. Un caro saluto.
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Caro Lucio, il dialogo con te mi è sempre stato facile e congeniale;sei un uomo schietto, sincero,come dovrebbe essere un vero comunista(quelli di una volta, lettori entusiasti dell'”Unità”.)Non propongo spesso miei testi poetici all'”Ombra”,perchè non voglio essere invadente,e credo di dover dare spazio ai giovani.Tra poco pubblicherò una raccoltina nuova, di cui si potrà leggere qualcosa sull'”Ombra”, al momento giusto.Avverto il peso del tempo ,un padrone inesorabile.Avverto la solitudine dei vecchi:per fortuna, sotto casa, si stende l’Adriatico selvaggio, che è veramente verde, come diceva D’Annunzio.Tu hai il verde delle risaie, che certamente ha un suo fascino. Noi occidentali non subiamo il fascino della natura, nè ci rendiamo conto di quanto perdiamo.Ti saluto con tanto affetto e stima, Anna Ventura
Cara Anna,
mi accodo a Francesca Dono chiedendoti di pubblicare, ogni tanto, qualche testo.
Un saluto
cara Anna, sarebbe opportuno tu le pubblicassi. Io soffro del tuo stesso problema: l’invadenza. Sei molto brava . Un caro saluto.
Mi associo a quanto scrive Francesca. Non ho la stessa preoccupazione di essere invadente perché seguo ritmi naturali, ma è lo stesso: “poesia scaturisce dall’assenza di attività: è ciò che Lao Tzu ha chiamato wei-wu-wei. Significa lasciare che accada qualcosa attraverso di sé”, così diceva il mio Maestro.
caro Lucio, l’invadenza per me consiste nell’imporre i miei scritti agli altri forzandoli alla lettura . L’attività ,che intendi tu, è uguale alla mia. Scrivo solo se c’è qualcosa che scaturisce… altrimenti faccio altro. Un caro saluto a tutti .
Cara Francesca…io non ho davvero questo problema! A quanto pare nessuno si sente “costretto” a leggere quello che scrivo, l’atto di leggere è una scelta. Si può saltare una lettura come si può spegnere la TV quando diventa noiosa violenta o volgare. Alcuni saltano la lettura delle mie poesie o dei commenti, oppure li trovano privi di interesse. Chi legge gli scritti degli altri impara di più: a me interessa tutto quello che trovo scritto e da tutti imparo qualche cosa, perciò scrivo, rispondo…e forse sarò giudicata invadente. Trovo poco gentile, quando la persona ne invita un’altra a rispondere ad una domanda o le pone un problema, che la persona interpellata non risponda…E’ come non rispondere ad un saluto. Comunque ognuno ha le sue ragioni e non si può esigere una risposta e neppure essere simpatici a tutti.
Scrivi ,Francesca, io ti leggerò sempre senza sentirmi costretta!
Mariella
credo sia un problema mio. Fortunatamente non vale per tutti. Va bene. Grazie cara.
Cara Francesca Dono,
quando componi testi come il tuo ultimo che ho letto qui, invadi tranquillamente questo spazio.
va bene. Ti ringrazio molto ,caro Alfonso Cataldi.
Altra colonna del tempio periptero della nuova poesia verso altri esiti estetici,
Lucio Mayoor Tosi è un altro mio fedele compagno di viaggio.
Con Lucio ( e con altre importanti voci, compresa quella di Giancarlo Baroni ) bene insieme sappiamo che la più alta aspirazione del poeta è esistere, per dirla con Mandel’stam…
Che altro paradiso il poeta non vuole al di fuori del vivere. E dell’amare.
Per scrivere. Ma pensando agli altri.
Gino Rago
E adesso un sorriso ci sta bene come un buon bicchirino di grappa Slivovitza quando fa freddo:
L’ autobus 2006
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Mi hai mandato un messaggio
dall’autobus che hai preso
un paio d’anni fa
per venire a trovarmi
e ancora non sei sceso.
Distratto come sei, scommetto
che avrai sbagliato autobus:
altro che 26!
E dire che t’avevo avvertito:
attento a non finire
sul 2600, che fa capolinea sulla luna.
Per quei due zeri in più
ti sarai perso nell’universo.
Vuoi un consiglio?
Chiedi un passaggio alla cometa di turno
oppure ad una stella cadente.
Dai, casa mia è a due passi dal cielo,
dai che ti aspetto!
Ti aspetto al solito angolo
di via delle nuvole
e lì finalmente
parleremo di cose leggere.
Mariella (prima della NOE)
cara Mariella,
è una poesia molto bella. Ha la leggerezza delle tue dita sottili. Una poesia di tale lievità solo tu sai scriverla. Complimenti. Anche se l’hai scritta prima della NOe la poesia può stare benissimo nella raccolta che stai preparando!!! eri già nello spirito NOE!!!
“Parleremo di cose leggere”. che bel programma.!All’università fiorentina, Giuseppe De Robertis (nelle notte dei tempi),ci raccomandava la stessa cosa.”Portate le cose con mano leggera”,e ci raccomandò di vedere un film,”Grandi manovre”,un esempio di quanto grande,e tenace)sia la forza della leggerezza. Gli piaceva il colore di un mio golf verde.Ero sempre in prima fila, ma, se cambiavo posto, lui chiedeva:”Dove sta quella col maglione verde?”
Caro Mayoor,
per me tu sei
da sempre
un mondo dentro il mondo.
Il pianeta Mayoor… Grazie Vim.
non cogito ergo sum ma cogito ergo non sum e dubito ergo cogito
POESIA ITALIANA DI OGGI
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Cari amici,
vi ringrazio per l’attenta lettura, i commenti generosi e le preferenze che avete espresso. Sono tutte utili indicazioni per meglio continuare.
Amo scrivere divertendomi con nonsense e strette diavolerie, ma a volte mi va di cimentarmi in poesie più complesse dove cerco di prendere possesso di un’idea, anche filosofica malgrado non sia questa la materia su cui mi sono formato. In realtà leggo, non per fare conoscenza ma per allenare il linguaggio, in modo che al mattino possa scrivere agilmente, senza intoppi. Ho quindi scoperto che i filosofi sono tra i migliori coach che si possano trovare. Però la mia esperienza, e il pensiero, sono rivolti al silenzio; che oggi è silenzio senza pensiero, quindi senza linguaggio. Giorgio ci è andato molto vicino quando scrive:
Il punto di partenza di Lucio Mayoor Tosi non è Cogito ergo sum bensì Dubito ergo cogito. Ed infine, il momento centrale è: Dubito ergo non sum.
Giorgio è davvero un essere straordinario!
Non sum: conta l’osservazione e l’io è soltanto un luogo, l’osservatorio. Poesia è di casa in questi istanti, ha bisogno di questo vuoto e l’assenza. Io li uso come intermezzo: scrivo e mi silenzio. Non sono. Ma in silenzio sono vivo, vivo e nel mondo (non mi assento) anche se nel vuoto di pensiero. Non è una cosa spaventosa, come se d’improvviso senza pensieri mancasse l’aria, è solo arte della solitudine che, come ogni altra arte, si può apprendere. Esistono tecniche precise anche per questo.
Ora mi accade naturalmente. Di sicuro è silenzio che porta a un netto miglioramento dell’ascolto. E c’entra con la NOE perché favorisce gli stacchi, i cambiamenti repentini di pensiero e immagini. A volte, un verso va lasciato lì anche se pare assetato di altre parole. Lasciarlo per pochi secondi o un anno non fa alcuna differenza. Può accadere che due versi, tra loro inconciliabili, portino ad altri due, tre dello stesso tipo e anche più. Ma questo è divertente: è tutto lavoro per il giorno dopo. La regola è pulire, cercare di non essere sciocchi, oppure esserlo in modo assurdo come talvolta faceva Beckett. Però quel che aspetto più di frequente sono versi come “Uno sciame di neutrini / stava attraversando le ombre del corridoio”. Sono versi di poesia che vengono incontro per risolvere. Senza questi non mi pare di scrivere poesia. A volte mi sorprendo a cercarla nei lavori di altri autori, anche tra gli amici; mi chiedo se non sia poesia anche un’atmosfera o un pensiero compiuto; e deve essere così, però poi vado a cercare tra due versi un collegamento che sia fatto di parole, quelle che sembrano involontarie o dettate, come pensassi che poesia possa accadere meglio se per nostra distrazione; e non mi pare epifania, perché anche questa è tecnica (ma voi sapete meglio); tecnica che richiede lungo apprendistato, se non una forte predisposizione. Tutte cose che ritrovo immancabilmente quando leggo Tranströmer. Da qui la mia preferenza.
Spero così di aver condiviso utilmente. Con tanta stima e affetto.
Mayoor.
Non avevo dimenticato “La navicella spaziale”! Ti ripeto per la 2° volta quello che ho scritto nel commento “a caldo” sui tuoi versi:
““…Lucio sta correndo, ma, secondo me la legge dell’entropia corre meno veloce di lui, o più veloce, non lo so. Ormai è una NAVICELLA SPAZIALE diretta verso mete infinite, incalcolabili,e porta con sè tutto quello che ad un terrestre serve per restare un uomo, i ricordi, le presenze, i palpiti seppure nascosti del cuore”
Sorrido pensando che ti sei ribellato quando ti ho detto che:
“…Lucio vi si abbandona con sofferenza (si parlava di “entropia”), ma soprattutto con la fiducia di un bimbo verso la madre: è un “cupio dissolvi” in cui realtà e desiderio stanno quasi sempre per raggiungersi…e dal dolore della separazione nasce lo stacco netto del poeta dai suoi sogni e la difesa nel sarcasmo e nell’assurdo…”
Forse ti ha dato fastidio l’espressione: “si abbandona come un bimbo?” per me dire “come un bimbo” è un grande complimento, vuol dire “sinceramente, con impeto…e poi il concetto è completato nelle parole successive.”. E adesso basta. Il dialogo è interessante se si è almeno in due a parlare.
Mariella
Cara Mariella,
la tua è un’interpretazione psicanalitica, volta all’esistenziale.
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Diciamo allora che la ricerca di ordine mi viene data dalla poesia, ora nelle modalità della NOE. Non so dire se senza questa opportunità sarei naufragato non so dove, probabilmente sì. Oppure, col tempo, avrei fatto come Mario Gabriele; perché secondo me si tratta principalmente di un problema di linguaggio, che sfugge se posto in relazione a un ordine superiore o stabilito ( la madre?). Questa tua riflessione, e ti ringrazio, pone in evidenza quella che un tempo – cinquant’anni fa era il ’68 – veniva letta come differenza di classe e generò disordine, anche linguistico, come sai, se pensiamo alle poesie dello sperimentalismo. Su questo non mi soffermo, però faccio notare che la nuova ontologia estetica nasce come fattore di disequilibrio nei confronti di un vecchio ordinamento, considerato ormai defunto (non perché l’abbiamo deciso noi, per ribellismo come nel ’68, ma perché riteniamo che un vecchio modo di intendere la poesia e il linguaggio oggi non trova riscontro nella realtà). Ci sono poi altri fattori che andrebbero considerati, e questi sì sarebbero da ricondurre a un discorso di classe. Rispetto allo sperimentalismo si tenta un diverso modo di ricostruire lo stile. E’ un atteggiamento forse più costruttivo del precedente, anche se passa attraverso forme disgreganti del linguaggio; ma poi, si tratta davvero di linguaggio? No, anche se permane la questione irrisolta del brutto, che alcuni ancora vorrebbero contrapporre al bello (poveretti) mentre invece sarebbe questione di autenticità e semmai di raggiungere il sublime. Se fossero questi i nuovi obiettivi, allora la differenza di classe non avrebbe più alcuna importanza. C’è sempre la possibilità di adottare un travestimento, la qual cosa davvero mi fa ridere perché è impossibile che un linguaggio plebeo possa davvero nascondersi. No, qui bisogna fare balzi da gigante! E dentro ci siamo tutti.
Ci sono luci nel mio percorso, che inseguo continuamente. Ognuno di noi insegue una propria luce. Non andrebbe cercata negli altri, o dobbiamo accettare il fatto che solo pochi ci riescano? Nessun poeta fa le cose per sé soltanto.
Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.
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L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia della parola poetica. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua o sussiegosa che rifugge da una petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.
Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano di una espressione comune.
Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità
Divani del passato pieni di verbi.
di Lucio Mayoor Tosi
Ancora in mano la tazza dei partigiani.
L’impiccato e le ragazze.
A guerra è finita
molti ragazzi innamorati
si dissero l’addio.
Senza oggi.
Il cane partorì mentre erano a spasso.
Il fantasma del grappolo d’uva.
A cena col vuoto incolmabile.
Morivo di fame prima che tu nascessi.
Qualcuno col gesso per le distanze.
Giorni contenti se arriva la morte.
La notte scorsa sta finendo.
L’intruso che si fece amare.
La spazzatura raccolta settimanalmente
a un passo dalla Svizzera.
Un calcio di neve.
Nell’università della salute un bistrò.
Il mandarino di legno.
Il rossetto valzer.
Dai vetri della casa in viaggio
il cartone delle insegne.
Il centrino sulla mensola
sopra le fotografie.
Ott 2017
Il centrino della mensola
sopra le fotografie.
A guerra finita
molti ragazzi innamorati
si dissero l’addio.
Ecco,
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questi sono dei versi che possono diventare memorabili, io penso, solo che, caro Lucio, dovrai lavorarci attorno. Come quando uno scultore fa una scultura per agglutinazione, per strati sovrapposti. Il fatto è che tu pensi in frammenti, tanti frammenti, così tanti che poi devi fare una selezione di essi e attorno ad essi devi costruire una composizione. È un lavoro lungo, occorre tenacia e pazienza, molta pazienza. Ma è questo il metodo di composizione della nuova poesia per frammenti…
Il mandarino di legno.
Il rossetto.
Dai vetri della casa in viaggio
il cartone delle insegne.
Il centrino della mensola
sopra le fotografie.
La notte scorsa sta finendo.
Sì, grazie, ci sto lavorando. Ci sono dei problemi nel montaggio, oltre naturalmente al fatto che alcuni versi andrebbero sistemati.
Ho voluto comunque condividere l’esperimento perché credo si tratti di una novità assoluta, per il modo di concepire lo svolgimento del testo e, ve l’assicuro, anche per il modo in cui questi versi sono stati concepiti. Lo stato di trance, ipnotico, che serve è assoluto; come pure l’attesa, che avviene osservando il corpo morto di uno scritto precedente (comunque già predisposto allo scopo). Una fatica immane se si considera che l’intero percorso non passa dalla razionalità.
ci credo Lucio
hanno tutti un mantello nero
il bruciaprofumi ai lati della bocca . Nell’insieme la calca scomposta.
_ Due fidanzati varcano l’entrata elettrica.
Distrattamente io è a sinistra delle suole di gomma.
_____L’uomo numero 8 non ha la camicia.
Divertente _ dico al figlio del macellaio e all’altro condannato
in corsa per il grande autunno.
Ci sono arance sedute
Fermacapelli- leone tra le maniglie piegate
_______________________________________Lo speaker ha la voce metallica
una cerchio di spine strizzato sul grembo
_______Alla terza stazione gli schizzi serrano
le palpebre emorragiche. Non un ricordo del metrò .
Le sagome immobili e sciupate. Un libro di poesia nel tunnel
volante. Allora immagino di essere morta con la coda -leopardo
attaccata fino all’altro vagone .
__________________ Il rimbombo si è arrampicato per
ogni colletto. Aria criminale in movimento.
cara Francesca,
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anche per te vale quello che ho detto a Lucio. Però nel tuo caso ti vorrei spingere a curare i lacci emostatici tra un verso e l’altro. Va bene che tu togli le consequenzialità logiche, questo è un bene e un grande vantaggio rispetto alla poesia comprensibile di oggi (Lamarque, Cappello, Bacchini, poetesse del cuore esulcerato, etc.), però non devi esagerare con l’incomprensibilità. Ad esempio io intravvedo nei tuoi versi-frammenti delle possibilità di sviluppo. Solo che ci devi ritornare con calma dopo un po’ di tempo. È un lavoro lungo e faticoso, lo so, ma devi (dobbiamo farlo)…
si vero . Di solito ci ritorno nel tempo. Ho notato che se si lasciano fermentare.. dopo migliora il tutto. Però io vorrei raggiungere il pensiero primario dell’uomo. Quello che scaturisce dalla memoria genetica e dall’inconscio dove il linguaggio si delineava attraverso le immagini. Ogni volta che provo a pronunciare le parole ,queste non riescono ad esprimere esattamente l”origine del pensato. Ovvio l’insieme della mia ricerca è anche musicale e comunque secondo la domanda fondamentale dell’uomo. So che dobbiamo farlo. Grazie Giorgio.
Caro Giorgio,
a me capita ultimamente di sentire improvvisa sintonia tra versi di composizioni che si passano anche qualche anno. Non forzando nulla. È solo il tempo che fa il suo lavoro.
Ad esempio le parentesi di collegamento (sdraiate)
Fermacapelli- leone tra le maniglie piegate ⌒ Lo speaker ha la voce metallica
bello quel segnetto Lucio…
Posto una poesia già postata, appena scritta.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/05/lucio-mayoor-tosi-poesie-inedite-con-commenti-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-24760
37 anni fa entrai negli uffici di una Banca a Pistoia per chiedere notizie intorno ad un prestito che volevo contrarre. Ed entrai in una grandissima sala d’attesa per clienti di riguardo (di un palazzo del Quattrocento) dove non c’era nulla tranne un tavolo. Rimasi sbigottito e intimidito. Per tanti anni questo ricordo mi è tornato alla memoria, tant’è che non sono sicuro se sia veramente un ricordo o un sogno-incubo partorito dalla mia mente. Stamane, mi sono svegliato ed è nato questo frammento di poesia:
La grande sala illuminata. Solo un tavolo, al centro.
Dal soffitto, il lampadario di cristalli spande una luce intensissima,
bianca, come nel primo giorno del creato.
[…]
Non so in quale circostanza capitai in quel luogo.
Forse ci sono entrato insieme ad un sogno, che ho continuato
a sognare anche dopo. Un incubo, per anni
lunghi e contorti come il tunnel ferroviario del San Gottardo.
[Il marmo lucidissimo rifletteva la luce bianchissima].
Dopo trentacinque anni ho rivisto la stessa sala.
Era affollata di persone. Io stavo tra di loro.
Costantina Giancaspero mi ha detto che secondo lei gli ultimi due versi chiudono troppo in fretta il componimento. È possibile. Ma per vedere cosa manca devo lasciare qualche tempo la poesia in stand by. Il tempo (che è un fattore attivo della poesia) mi rivelerà cosa eventualmente aggiungere.
io la lascerei così. E’ una poesia che apre e non chiude. Potresti continuare all’infinito o fermarti . Del resto si rivela incompiuta così come è il genere umano.
Forse il finale andrebbe riportato al presente. Ad esempio:
[Marmo lucidissimo e luce bianchissima]
Dopo trentacinque anni mi ritrovo nella stessa sala.
E’ affollata di persone. Vedo me stesso tra di loro.
Grazie a Francesca e a Lucio,
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in effetti la poesia non «chiude» alcunché, anche perché solo i poeti kitsch «chiudono» le loro poesie. La poesia non può mai essere «chiusa», in specie, credo, quella che noi andiamo cercando e che si chiama «nuova ontologia estetica», perché la poesia si riferisce a fotogrammi, a «presenze», a un «immediato», a una pluralità di «immediati»… Il poeta che vuole «chiudere» introduce se stesso nella poesia, ci fa il commentino sopra, fa il compitino con tanto di egolalia. Noi, no. Che li facciano loro i commentini nelle loro poesie. A noi non interessa, credo.
La mia poesia, infatti, procede per «aperture» progressive, un po’ come quella tua e quella di Lucio, la mia poesia contiene delle «istantanee». E infatti Lucio ha tradotto al presente indicativo i tempi verbali degli ultimi versi della poesia. Il che è possibile, è compatibile. Ci penserò.
Grazie cmq per i vostri consigli.
Con Francesca ci sentiamo spesso. Tempo fa le dissi che temevo il suo modo di scrivere. Ci capiamo, io scrivo anche in modi diversi ma capita come in questo caso che la mia ricerca si affianchi alla sua, nella stessa direzione. In questo mio esperimento tolgo ai versi ogni consequenzialità di senso. In pratica sono titoli. Significati e immagini-lampo. Su questo terreno per adesso siamo soli. Però gran parte della tua poesia, caro Giorgio, è fatta di questi momenti. Ci hai preceduti. Scrivendo “titoli” porto all’estremo questa esperienza, ma è quello che sta facendo anche Francesca.
si. E’ così Lucio.
La punteggiatura.
Ci sono limiti oggettivi nella tastiera, segni insufficienti… Lo sa anche De Palchi, non a caso nelle ultime composizioni ricorre ai punti di sospensione. Sarebbe divertente poter usare simboli matematici, molto semplici, come ⌣ ⎇ 〈 ⌒ ma andrebbero valutati, uno a uno. Fermo restando che è sempre meglio arrivarci con la poesia.
Voglio precedere Sagredo dicendo che già i futuristi: verbi all’infinito, segni matematici e musicali… anche se volevano l’abolizione della punteggiatura! Ma va bene, torniamo alle cose di sostanza 🙂
Donatella Costantina Giancaspero ha postato ne La scialuppa di Pegaso (FB) questa poesia di Kjell Espmark.
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È utile riproporla alla lettura di un pubblico qualificato, perché la ritengo consimile alla poesia che noi della nuova ontologia estetica stiamo cercando. Una poesia che apre gli spazi. E apre il tempo. Si narra di un destino umano saltando tutto ciò che è inessenziale e andando al nocciolo di quel destino. S’intende che in questa poesia non c’è nulla di ciò che si intende in Italia di «quotidiano» e di «privato», di «oggetti», nulla viene detto di quel «figlio di contadini che girò il mondo» perché, in fin dei conti, i dettagli di quella singola esistenza per noi sono inessenziali, non ci rivelerebbero nulla di essenziale a noi uomini del presente evanescente posti nel futuro. La poesia di Espmark va per salti e traslati, va per metafore e per metonimie come sa andare una grande poesia, come deve andare una grande poesia, fino al finale con quella mirabolante immagine:
Un abbozzo contenuto in una cartolina scolorita
dove il francobollo mostra un re che cade.
(Donatella Costantina Giancaspero)
(6 ottobre alle ore 23:08)
Questa è Espnäs. Qui aspetta una poco illuminata
locanda da un secolo
più predicanti e agrimensori.
Che boschi brulli, a nord del nord.
Che freddo anche nell’urna del padre
che abbiamo appena immerso nel burbero mormorio
del controllato cimitero di Strömsund:
il figlio di contadini che girò il mondo e divenne
una manciata di esitante cenere
fra la scala e il rumore dei piuoli
che si spostano sempre laggiù.
Non ci siamo mai incontrati.
Le nostre frasi insieme cercavano
come gira l’amo con la mosca in infelice attesa
e lo scafo – prova un nocchiero sconosciuto:
un goffo capitolo con odore di benzina.
Ma anche attraverso un padre non allenato
può arrivare il brulichio di voci:
una locanda sottoterra
con porte che sbattono nel sotterraneo vento
e ospiti che non vogliono dire il loro nome.
Fu nel paese vicino al lago
un divorzio cambiò la creazione.
Qualcuno rubò la stessa volta celeste
e sottrasse tutte e due le sponde.
Spiega poi ad un bambino di quattro anni
che purtroppo è andato in rovina.
E non deve toccare la parola «casa».
Un abbozzo contenuto in una cartolina scolorita
dove il francobollo mostra un re che cade.
Io vivo ancora in un abbozzo –
non ho mai sprecato un minuto sulla domanda
«Chi sono io?». Sopporto lo specchio della camera d’albergo
esattamente per quei secondi
che occorrono per annodare la cravatta nera.
Porte di cenere sbattono nella corrente.
Ospiti di cenere vanno e vengono.
Di sera aurora boreale: va inflessibile
avanti e indietro, senza spiegazione.
(Kjell Espmark, Quando la strada gira, Edizioni Bi.Bo. 1993. Traduzione di Enrico Tiozzo)
Non so quali difficoltà possa incontrare chi legge questa poesia –
penso a Cimarelli, sebbene sia un evidente caso a sé –. Quell’entrare morbido da una immagine all’altra di certo scombina le normali aspettative di chi legge poesia come si trattasse di narrativa. Eppure il senso è compiuto. Ma quel che conta è che è vivo l’istante.
SCRIVE TRANSTRöMER:
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Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
(da Tomas Tranströmer 17 Poesie, 1954, prima poesia che ha titolo: Preludium)
[a me sembra buona materia per uno Strillo]
Sì, è grande. Riesce a dare aggettivi a quello che piattamente chiamiamo reale. Il risveglio è un salto col paracadute… verso il reale, che per lui è lo spazio verde del mattino. Mai si dimentica di essere poeta.
“Lo spazio verde del mattino”
è un verso talmente conciso ed efficace che lo ruberei per metterlo al primo posto tra i miei titoli.
… per non dire del paracadute.
Ma, lo “spazio verde del mattino” è molto fauves!
E un poeta non smette mai di essere poeta.
Lotman, in La Cultura e l’Esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità (1993), dopo aver affermato che il sistema culturale è da sempre connesso con il sistema extraculturale, pone l’accento sulle dinamiche della cultura, la quale si muove sempre attraverso processi graduali di trasformazioni, prevedibili come imprevedibili, esplosivi. I processi prevedibili e i processi imprevedibili sono complementari, i primi non esistono senza i secondi e viceversa.
La poesia di Lucio Mayoor Tosi si colloca in un intervallo tra prevedibilità e imprevedibilità. I referenti letterari sono chiari, attingono linfa dalla surrealtà. Ma il dato caratteristico dei versi di Mayoor è precipuamente la simbolizzazione dell’assente, ovvero l’operazione storica che denomina l’assente. E ci si chiede, chi è l’assente?
Caro Giuseppe,
come puoi essere sicuro che si tratti di un CHI? Potrebbe anche darsi che il CHI sia soltanto un riflesso, una moltitudine di riflessi gettati nel tempo presente… Ma se c’è simbolizzazione, sta in CHI osserva. Che poi è l’assente, tal quale al regista che, tranne Hitchcock e Scorsese talvolta, mai si vede nelle storie che vengono raccontate.
Sì, certo, Lucio, Chi o Cosa, avrei dovuto aggiungere. Ma vedo che hai già risposto tu in precedenti post: scrivi titoli, manca l’articolo.
Nella poesia Tre Chiese che ho letto altrove, l’articolo c’e, ed è tutta un’altra storia.