Константин Дмитриевич Бальмонт, Konstantin Dmitrievič Bal’mont, poeta, critico e traduttore, fu uno dei primi poeti simbolisti dell’Epoca d’Argento della letteratura russa. Nacque il 15 giugno 1867 nel villaggio di Gumnišci, nei pressi di Vladimir, da una nobile famiglia. Della sua infanzia e adolescenza egli scrisse nella sua autobiografia: «I miei migliori maestri di poesia furono la nostra tenuta, il frutteto, i ruscelli, le paludi, il fruscio delle foglie, le farfalle, gli uccelli e le aurore».
Nel 1884 fu espulso dal ginnasio per essere entrato a far parte di un gruppo rivoluzionario. Quando frequentava la facoltà di Legge all’Università di Mosca, partecipò a una rivolta studentesca e fu espulso anche da lì. Poco dopo fu riammesso agli studi, ma non li terminò. Nel 1889 lasciò l’università per la letteratura. Su ciò che influì maggiormente sul corso della sua vita, Bal’mont scrisse: «E’ difficile elencare le esperienze che hanno lasciato un’impronta nella mia vita, ma ci proverò: la lettura di Delitto e Castigo quando avevo 16 anni e poi I fratelli Karamazov a 17. Quest’ultimo libro mi ha dato più di ogni altro libro al mondo. Il mio primo matrimonio (quando avevo 21 anni, e che finì col divorzio cinque anni dopo), il mio secondo matrimonio quando ne avevo 28. I suicidi di molti miei amici quando ero giovane. Il mio stesso tentativo di suicidio (a 22 anni), quando mi gettai dalla finestra al terzo piano, riportando fratture multiple, ma che portò a un risveglio senza precedenti della mia mente e della volontà di vivere. La scrittura di poesie (la prima a 9 anni, poi a 17 e 21) e i viaggi in Europa (restai particolarmente impressionato da Inghilterra, Spagna e Italia).
Dopo vari tentativi falliti finalmente riuscì a pubblicare la sua prima raccolta di poesie nel 1890. Ma fu un fiasco e Bal’mont distrusse quasi l’intera edizione. Poi, anziché scrivere, si dedicò alla traduzione, sfruttando anche le sue straordinarie capacità linguistiche e la conoscenza di una dozzina di lingue. Tradusse così in russo, tra gli altri, Poe, Ibsen, Calderon, Verlaine, Baudelaire, Whitman, nonché opere di poeti armeni e georgiani. Nel 1893 pubblicò l’intera opera di Percy B. Shelley in russo. Ma tradusse anche da altre lingue slave, dall’indiano e dal sanscrito. Il successo conseguito come traduttore lo spronò a pubblicare altri suoi lavori, e così nel 1894 vide la luce la raccolta “Sotto i cieli del nord”, in cui cantava l’astratta bellezza di favolosi paesaggi boreali, seguita da “Il silenzio” nel 1898. Queste opere gli procurarono il riconoscimento e il successo tanto attesi.
La poesia simbolista di Bal’mont si esprimeva attraverso allusioni e ritmi melodiosi. Divenne l’impressionista della poesia, del suo mondo fatto di delicate osservazioni e fragili sentimenti. Nel 1903 uscirono le sue raccolta più belle: “Saremo come il sole” e “Soltanto l’amore”. La sua popolarità era ora all’apice. La sua poesia diventò la nuova filosofia che segnò l’inizio dell’Epoca d’Argento. Nella creazione successiva Bal’mont mutò l’intonazione lirica in un tono più aggressivo e alquanto sorprendente. Egli protestava contro l’ingiustizia in generale, ma il suo spirito ribelle esplose nella controversa poesia “Il piccolo sultano”, nella quale egli criticava lo zar, e questo gli procurò l’esilio da San Pietroburgo e il divieto di abitare nelle città sedi di atenei. Allora il poeta lasciò la Russia, divenne un esiliato politico e viaggiò molto nei vari continenti. Nel 1913, in occasione del trecentesimo anniversario della dinastia dei Romanov, a tutti gli emigrati politici fu concessa l’amnistia e Bal’mont poté tornare in Russia. Nel 1917 egli accolse con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma non mostrò lo stesso gradimento per quella di Ottobre. Soprattutto non poteva accettare la nuova politica volta alla soppressione dell’individualità. Egli ricevette un visto temporaneo e nel 1920 lasciò la Russia per sempre. Si stabilì a Parigi con la famiglia. Nell’esilio scrisse 22 libri dei circa 50 che costituiscono il suo patrimonio letterario. La sua poesia però era in declino. Inoltre non riusciva a inserirsi nella comunità degli immigrati russi e si isolò da essi. La nostalgia per la sua terra lo tormentava. Dopo il 1930 i segni dei suoi disturbi mentali si fecero sempre più evidenti, e le sue condizioni furono peggiorate dalla povertà, e soprattutto dal digiuno di scrittura. In realtà finì vittima della pazzia.
Morì il 23 dicembre 1942 nella Francia occupata dai nazisti, all’età di 79 anni e fu sepolto nella piccola città di Noisy-le-Grand. Sulla lapide fu semplicemente scritto: KONSTANTIN BAL’MONT, POETA RUSSO.

Grafica dei Frammenti di Lucio Mayoor Tosi
Bal’mont ebbe una grande influenza sulla letteratura e poesia russa, liberandole dai vincoli della vecchia scuola e creando nuovi mezzi espressivi. Egli aveva, tra l’altro, una straordinaria abilità di trattare i suoni, combinando le parole in modo da esprimere le impressioni poetiche in modo musicale. A questo proposito, Renato Poggioli, critico specializzato in letteratura russa e illustre studioso di critica comparata, ha scritto: «Egli riduce la poesia soprattutto a suono, ad “amore sensuale della parola”, o, per usare le sue parole, a una “illusione canora”». Il poeta Andrej Belyj lo definì un uomo solitario e vulnerabile, completamente fuori dalla realtà: «Non riusciva ad amalgamare e armonizzare i tesori ricevuti dalla natura, spendendo la sua ricchezza spirituale senza uno scopo preciso». Marina Cvetaeva disse di lui che “avrebbe dato a un bisognoso il suo ultimo pezzo di pane, il suo ultimo ciocco di legna”. Mark Talov, un traduttore russo che nel 1920 si trovò senza un soldo a Parigi, ricordava quante volte, dopo aver lasciato la casa di Bal’mont, egli si trovava del denaro in tasca; il poeta (egli stesso molto povero) preferiva aiutare in modo anonimo, per non mettere in imbarazzo un visitatore. Il poeta Valerij Brjusov scrisse di lui: «Regnava sulla poesia russa all’inizio del Novecento… Genio spontaneo, viaggiatore instancabile, idolo di tutta la sua generazione, distintosi per le sue avventure amorose e azioni stravaganti».
Appunto di Giorgio Linguaglossa
Nel saggio Sull’interlocutore degli anni Dieci, Osip Mandel’štam pone a confronto la poesia di un poeta «nuovo»: Baratynskij e quella di un poeta simbolista all’epoca molto noto: Konstantin Bal’mont. Lo scritto di Mandel’štam è una radicale stroncatura non tanto della poesia di Bal’mont quanto dell’intero simbolismo russo degli anni venti. Insomma, Mandel’štam colpisce Bal’mont ma il suo vero obiettivo è ridimensionare il simbolismo, ridimensionare l’influenza di Aleksandr Blok, il più grande e famoso poeta simbolista russo dell’epoca. Mandel’štam aveva ben chiaro in mente che l’affermazione dell’acmeismo avrebbe dovuto passare attraverso la stroncatura e il superamento del simbolismo. Delle due, l’una. Non c’era una via di mezzo percorribile. La grande intelligenza poetica di Mandel’štam mette a fuoco l’obiettivo del movimento acmeista.
Non posso non pensare alla analogia con la situazione della poesia in Italia, oggi: la nuova poetica della «nuova ontologia estetica» dei giorni nostri in Italia non potrà affermarsi se non a danno della poesia del minimalismo romano milanese e del post-minimalismo delle poesie «corporali» in auge ad esempio nella poesia «femminile» della collana bianca dell’Einaudi. Qui non ci devono essere possibili ambiguità, e lo dico a scanso di equivoci affinché i più timidi si ritirino dalla competizione. La conflittualità tra le due petizioni di poetica è frontale ed ineliminabile.
Scrive Mandel’štam:
“un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.
Bal’mont dichiara:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.
Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri.
Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.
E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Il penetrante sguardo di Baratynskij si volge verso la contemporaneità – ma nella contemporaneità ci sono gli amici – per fermarsi su uno sconosciuto ma determinato «lettore». E ciascuno cui capitino i versi di Baratynskij, sente di essere quel tal «lettore» scelto, chiamato per nome… Perché, dunque, non un concreto, vivo interlocutore, non un vivo interlocutore, non un «esponente dell’epoca», non un «amico nella contemporaneità»? Rispondo: rivolgersi ad un interlocutore concreto dissangua il verso, gli toglie aura, slancio. L’aura del verso è imprevedibile. Rivolgendoci ad conosciuto, noi possiamo soltanto dire ciò che è conosciuto. Questa è una imperiosa, irremovibile legge psicologica. Non si può sottolineare in modo sufficientemente forte il suo significato per la poesia”.1]
1] Osip Mandel’stam Sull’interlocutore, “Poiesis” n. 4 trad. Donata De Bartolomeo, 1994

Osip Mandel’štam
Poesie di Konstantin Bal’mont
*
Io libero vento, io soffio senza sosta,
Agito le onde, accarezzo il querceto,
Cullo i campi, cullo l’erba verde,
Tra i rami sospiro, e poi mi acquieto.
A primavera, come messo maggese,
Bacio i mughetti, del sogno infatuato,
L’azzurro muto ascolta il vento,
Io soffio, languisco, lieve, assonnato.
In amore infedele, mi muto in ciclone,
Spazzo le nubi, increspo il mare,
Sfreccio nelle piane con lungo lamento –
E nello spazio muto inizia a tuonare.
Come fata che altra fata accarezza,
Di nuovo lieve e felice sono io,
Mi stringo agli alberi, sul campo respiro
E, sempre libero, io soffio l’oblio.
Parole-stiletti
Sono stanco di tenere parole,
Di questi armoniosi conviti,
Di queste melodiche cantilene
E di questi elogi infiniti.
Io voglio strappare l’azzurro
Dei sogni tranquillizzati.
Io voglio edifici in fiamme,
Io voglio uragani infuriati.
L’ebbrezza della pace –
La ragione si assopirà.
Si accenda un mare di ardore,
E nel cuore tremi l’oscurità.
Io voglio suoni diversi
Per i miei diversi banchetti,
Esclamazioni prima di morire,
Io voglio parole – stiletti!
***
Voglio essere spavaldo, voglio essere audace,
Intrecciare grappoli di succo pieni.
Voglio ubriacarmi di uno splendido corpo,
Voglio il calore dei tuoi seni!
Voglio strapparti gli abiti di dosso,
Noi, due brame in una fonderemo.
O dei andate! O gente andate!
Mi è dolce che insieme staremo!
Domani sia pure buio e freddo,
Oggi il cuore a un raggio darò.
Sarò felice! Sarò giovane!
Io lo voglio! Io spavaldo sarò!
Rivali
Possiamo andare per vaste pianure,
Sempre per strade separate.
E resterà ciascuno signore assoluto,
Finché non spunterà la stella fatale.
Noi possiamo gettare ombre inquiete,
La luna le ingrandirà in lunghezza.
Nella stessa ascesa saremo i gradini,
E pari – finché non ameremo la stessa.
Allora noi mentiremo, senza aiutarci mai,
Allora il nostro dio scorderemo.
Noi possiamo, possiamo, molto,
O mio pari, ma solo se due resteremo.
A lei che fa giochi d’amore
Ci sono baci liberi come sogni,
Beati e lucenti, deliranti.
Ci sono baci freddi come neve.
Ci sono baci anche oltraggianti.
Oh, baci dati con violenza,
Oh, baci dati per rivalsa!
Quanto ardenti, quanto strani,
Con vampa di gioia e ripugnanza!
Fuggi con timore dalla frenesia,
I miei sogni immensi non hanno nome.
Io sono forte della volontà di amare.
Forte dell’arroganza – indignazione!
Fiore italiano
L’amore è la luce che viene a noi di là,
Dal regno stellare, dall’azzurra sommità,
Esso risveglia in noi la brama di prodigio,
E di bellezza.
E la bellezza è un raggio che annega,
Lungi dal sole, in un buio di ombre,
Quando esso lo versa
Nelle menti umane.
E, se lo spirito umano è saturo di luce,
Che una stella celeste gli manderà,
Esso avido si affretta in risposta,
Là, là.
Dare se stessi
Dare se stessi come preda,
Dimenticare le parole – tuo, mio,
Provare della tortura il tormento,
E amarlo come la luce.
Non provare né paura né rimorso,
Benedire la propria tristezza,
Benedire la propria disperazione,
Dire – nulla mi dispiace.
Essere pari ai miseri, ai differenti,
Prima del grido – essere come un sospiro:
Così si governano le forze possenti,
Così tra la gente tu sarai Dio.
La nascita della musica
Risonava il mare entro i limiti delle rive,
Quando giovani erano le forze del mondo,
Si formavano turbini di cori melodiosi,
Con mùgghio di corni e di corde un rombo.
Era musica il bosco e ogni fossato.
Enorme come luna ogni fiore sbocciava,
Quando la mente le corde sentiva.
Ma nei sogni un’altra campana sonava.
Soffiò il vento sulle canne come peana,
Attraverso i fori rinacquero i prati,
E il primo zufolo fu la sovrana
Dei venti e della libertà, che i lidi han spianati.
Perché vendetta e spada cantassero con ira,
Con le ossa del nemico io i flauti ho foggiati.
Alla gente
Oh, gente, a voi mi rivolgo, a voi tutti,
Sappiate che ero infelice e muto,
Ma, vista dei monti la maestà,
Io tutto ho amato e conosciuto.
Ho conosciuto col cuore, non con la mente,
So che il tuono zarista è beato,
Che il fulmine rovina uomini e animali,
Ma il nostro mondo da esso è accecato.
Amo tutto ciò che la terra mi diede,
Tutte le trame del bene e del male,
Tutto ho toccato, tutto io imploro,
Di un rivo ridevo, ma mi unisco al mare.
E di nuovo preda di raggi infocati,
Dall’alto scende il sonoro torrente.
C’è la saggezza, ma la vita è irrisolta,
Ai saggi e ai morti dico: «Ciò è niente!»
C’è qualcosa più alto di ogni scienza,
E io respingo ogni saggio sagace,
Io conosco e sento una cosa soltanto,
Che esso è ubriaco, il vino della pace.
Quando con questo vino mi ubriacherò,
Morirò e rinascerò e batterà il mio cuore,
Coi giovani sarò di nuovo mattino…
Oh, gente, io sento soltanto l’amore!
Cigno bianco
Cigno bianco, cigno immacolato,
I tuoi sogni sempre celando,
Tranquillamente argenteo,
Tu scivoli, l’acqua increspando.
Sotto di te – il baratro silenzioso,
Senza risposta, senza saluto,
Ma tu scivoli, immergendoti
Nel fondo di aria e luce intessuto.
Sopra di te – l’etere senza fine
Con la fulgida volta stellata.
Tu scivoli via, trasformato
Dalla bellezza rispecchiata.
Simbolo di affetto imperturbato,
Non del tutto espresso, timoroso,
Simulacro femmineo-armonioso,
Cigno bianco, cigno immacolato!
Una poesia di Konstantin Bal’mont
A lume di luna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/04/konstantin-balmont-1967-1942-dieci-poesie-inedite-a-cura-di-paolo-statuti/comment-page-1/#comment-23350
Quando la luna sfavilla nella notturna foschia
con la sua falce tenera e lucente,
la mia anima aspira a un altro mondo,
ammaliata da lontananze infinite.
Ai boschi, ai monti, alle candide cime
io mi affretto nei sogni come uno spirito infermo,
io veglio sul mondo tranquillo
e dolcemente piango e respiro la luna.
Assorbo questo pallido splendore,
come un elfo vacillo in una rete di raggi,
ascolto il silenzio loquace.
Mi è lontano il tormento del prossimo,
mi è straniera la terra con la sua lotta,
sono una nube, un alito di brezza.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/04/konstantin-balmont-1967-1942-dieci-poesie-inedite-a-cura-di-paolo-statuti/
Nel saggio Sull’interlocutore degli anni Dieci, Osip Mandel’štam pone a confronto la poesia di un poeta della precedente generazione: Baratynskij e quella di un poeta simbolista all’epoca molto noto: Konstantin Bal’mont. Lo scritto di Mandel’štam è una radicale stroncatura non tanto della poesia di Bal’mont quanto dell’intero simbolismo russo degli anni venti. Insomma, Mandel’štam colpisce Bal’mont ma il suo vero obiettivo è ridimensionare il simbolismo, ridimensionare l’influenza di Aleksandr Blok, il più grande e famoso poeta simbolista russo dell’epoca. Mandel’štam aveva ben chiaro in mente che l’affermazione dell’acmeismo avrebbe dovuto passare attraverso la stroncatura e il superamento del simbolismo. Delle due, l’una. Non c’era una via di mezzo percorribile. La grande intelligenza poetica di Mandel’štam mette a fuoco l’obiettivo del movimento acmeista.
Non posso non pensare alla analogia con la situazione della poesia in Italia oggi: la nuova poetica della «nuova ontologia estetica» dei giorni nostri in Italia non potrà affermarsi se non a danno della poesia del minimalismo romano milanese e del post-minimalismo delle poesie «corporali» in auge ad esempio nella poesia «femminile» della collana bianca dell’Einaudi. Qui non ci devono essere possibili ambiguità, e lo dico a scanso di equivoci affinché i più timidi si ritirino dalla competizione. La conflittualità tra le due petizioni di poetica è frontale ed ineliminabile.
Scrive Mandel’štam:
“un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.
Bal’mont dichiara:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.
Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri.
Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.
E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Il penetrante sguardo di Baratynskij si volge verso la contemporaneità – ma nella contemporaneità ci sono gli amici – per fermarsi su uno sconosciuto ma determinato «lettore». E ciascuno cui capitino i versi di Baratynskij, sente di essere quel tal «lettore» scelto, chiamato per nome… Perché, dunque, non un concreto, vivo interlocutore, non un vivo interlocutore, non un «esponente dell’epoca», non un «amico nella contemporaneità»? Rispondo: rivolgersi ad un interlocutore concreto dissangua il verso, gli toglie aura, slancio. L’aura del verso è imprevedibile. Rivolgendoci ad conosciuto, noi possiamo soltanto dire ciò che è conosciuto. Questa è una imperiosa, irremovibile legge psicologica. Non si può sottolineare in modo sufficientemente forte il suo significato per la poesia”.
Osip Mandel’stam Sull’interlocutore, “Poiesis” n. 4 trad. Donata De Bartolomeo, 1994
Balmont (con altri grandi poeti ) presente alla lettura del poema recitato dallo stesso Majakovskij.
————————————————————————————
dalla mia nota 184, pag. 149 –
( Corso di A.M. Ripellino del 1971-72 )
——————- commento di AMR >> “Il poema Uomo del 1916-17 è un poema tutto costruito sul Vangelo, con passaggi, come al solito di blasfemia, con un lessico fortemente ecclesiastico. Uno dei capitoli si chiama Il ritorno di Majakovskij. >>>
(segue mia nota 184)
“Veramente è l’ultimo capitolo s’intitola: “Majakovskij ai secoli”, poi segue l’epilogo “Ultimo”. Alla lettura che fece Majakovskij – ultimi giorni di gennaio del 1918 – del suo poema Uomo: “nell’appartamento del poeta A. Amari erano presenti K.Balmont, V.Ivanov, A.Belyj, Ju. Baltrušajtis, D. Burljuk, V. Kamenskij, I, Ehrenburg, V. Chodasevič, M. Cvetaeva, B. Pasternàk, A. Tolstoj, P. Antokolskij, V. Inber, il poeta indiano Sura-Vardi ed altri….Appena Majakovskij ebbe terminato di leggere dal suo posto si alzò A. Belyj, pallido dall’emozione…forse lo vedeva e udiva per la prima volta…V. Ivanov a volte annuiva con aria benevola, Balmont si struggeva visibilmente, Baltrušajtis come sempre era impenetrabile, Marina Cvetaeva sorrideva, mentre Pasternàk lanciava sguardi rapiti a Vladimir Vladimirovič. Belyj ascoltava non come ascoltano tutti, ma con ansia freneticamente… balzò in piedi così agitato da non poter quasi parlare. La maggior dei presenti condivideva il suo entusiasmo. Eppure Majakovskij si adirò per un appunto freddo, cortese, uscito di bocca a qualcuno. Gli accadeva sempre così: pareva non accorgersi delle rose, andava a cercare le spine (Ehrenburg)”. In V. Katanian Vita di Majakovskij, op.cit. pgg. 64-66. Se ricordo bene nella stessa serata (dai Cetlin?) la Cvetaeva lesse il suo Zar-fanciulla. Qui vale la pena di riferire un incontro tra la Cvetaeva e Majakovskij riportato dalla biografa Viktoria Schweitzer in Marina Cvetaeva –I giorni e le opere, Mondadori 2006, n. 74 p. 546. Recita: [ ”Questo è quanto la Cvetaeva scrisse a Majakovskij sul quotidiano Evrazija del 24 novembre 1928: A Majakovskij – Il 28 aprile del 1922, alla vigilia della mia partenza dalla Russia, la mattina presto, per un Kuzneckij most completamente deserto incontrai Majakovskij: Allora, Majakovskij, che cosa devo dire all’Europa da parte vostra? [risposta di Majakovskij]: Che la verità è qui.] – Il 7 novembre 1928, a sera tardi, uscendo dal Café Voltaire. Alla domanda: Che cosa vuol dire della Russia dopo aver sentito Majakovskij? Ho risposto prontamente: Che la forza è là – Marina Cvetaeva]. Anni dopo la Cvetaeva subì un attacco davvero molto feroce (“una cosa da disprezzare”) da parte di Majakovskij il 26 settembre del 1929 intervenendo all’Assemblea plenaria della RAPP (Associazione degli scrittori Russi Proletari). Vedi i particolari nel Corso su Mandel’štam, 1974-75 di A.M.Ripellino, n. 115 p. 40. Mancavano pochi mesi al suo suicidio, sentiva, presentiva, presagiva la fine della sua storia personale e di poeta: era in una fase finale sempre più iconoclasta e di ripiegamento su se stesso. Ma prima di Majakovskij e dello stesso Mandel’štam lo aveva compreso il visionario Blok! Questi, acceso da preveggenza, comprese come sarebbe andata a finire in Russia! Nei suo Taccuini scrive a più riprese: ”Non so se ci sia stata una rivoluzione(25/5/1917);”Se addirittura non ci fosse stata rivoluzione, cioè, se ciò che è accaduto non fosse s tata una rivoluzione e se il popolo rivoluzionario si fosse in effetti solo sbracato intorno a quello stesso dolce presso cui si era adagiata la burocrazia, ciò renderebbe più profonda la tragedia russa”. (26/5/1917), in Carte Segrete, n. 31, 1976, p.54 (trad. Rita Giuliani). Pure Majakovskij (10 anni dopo Blok) nella sua visita a Varsavia nel maggio del 1927, parlando coi “futuristi” polacchi, in specie con Aleksander Wat (definito” letterato e traduttore”), non faceva che ripetere: “Aveva ragione Blok! Aveva ragione Blok!”, già intendendo e intuendo che anche per lui s’avvicinava la resa dei conti con la burocrazia del potere sovietico. “