(grafica degli “strilli” di Lucio Mayoor Tosi)
Giorgio Linguaglossa
31 agosto, 2017
C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. È il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime, quale suo luogo naturale, in metafore e in immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana – ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Un aneddoto, circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», redatto, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla, ormai la poesia-comunicazione ha invaso ogni pertugio di buon senso. All’epoca, avevo pubblicato (1995) sul n. 7 di Poiesis il «Manifesto della nuova poesia metafisica», che andava in direzione diametralmente opposta.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).
Due poesie di Ryszard Krynicki
[Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.
Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia. Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.]
Il poeta è pudico
Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.
Effetto di estraniamento
Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta
sento meno la spudoratezza della mia confessione.
(traduzione di Paolo Statuti)
Due poesie di Pavel Arsen’ev
[Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a San Pietroburgo, dove vive tuttora. È ricercatore presso l’Ateneo pietroburghese (cattedra di teoria della letteratura). Pubblica versi e articoli nel sito http://www.polutona.ru, su riviste russe e straniere. Dal 2009 organizza il festival di poesia sull’Isola Kanonerskij a San Pietroburgo. È il redattore capo dell’almanacco “Translit”. Ha pubblicato le raccolte To, čto ne ukladyvaetsja v golove [Quello che non si ripone nella testa] (2005), Bescvetnye zelënye idei jarostno spjat [Idee verdi incolori dormono furenti] (2011). Suoi versi in traduzione italiana sono apparsi in Tutta la pienezza del mio petto (Lietocolle 2015)].
quando è giunta l’ora di pagare il vino
tutti in un attimo sono ritornati sobri
hanno spento la loro trasgressione francese
hanno acceso il razionalismo francese
e con zelo improbabile hanno cominciato
a contare la quota di partecipazione di ciascuno
nelle follie brille
Secondo la costituzione
il presidente risulta
il presidente conduce
il presidente introduce
il presidente è a capo
il presidente ha il diritto di fermare
il presidente viene eletto
il presidente emana
il presidente ha il diritto
il presidente può essere eletto
il presidente può avvalersi
il presidente può consegnare
il presidente insignisce
il presidente designa
il presidente non può occupare
il presidente provvede
il presidente possiede
il presidente promulga
il presidente si rivolge
il presidente determina
il presidente libera
il presidente realizza
il presidente revoca
il presidente porta
il presidente presenta
il presidente accetta
il presidente firma
il presidente conferisce
il presidente inizia
il presidente interrompe
il presidente scioglie
il presidente decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente emane
il presifentr decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente
forse
(Traduzione di Paolo Galvagni)
Giorgio Linguaglossa
19 giugno 2017 alle 15.44
Scrivevo qualche tempo addietro:
“… c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo). Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale»”.
GiuseppeTalia (ex Panetta)
11 novembre 2014 alle 22:02
.
Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).
Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:
Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.
Quello più intrigante? Quest’altro:
Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.
Giuseppe Talia (ex Panetta)
12 novembre 2014 alle 20:17
Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.
da Salumida (2010)
I vicoli di pietra sussurravano
E tu padre germogliavi d’urla
Un cerotto alla morfina piano
Cambiava i grumi delle tue pupille
Il limone giallo t’assomigliava
Magro come un gambo di nebbia
Si nasce e il mondo cambia colore
L’infanzia verde il sole giallo
Arancione in quei tramonti
Che dicono tutto
Si cresce, non si finisce mai
Di crescere, rosso, olivastro
Con gote di quel che non sai
Una caduta in bicicletta
La ferita e il sangue porpora
Nessun ideale se non il bucaneve
Il tempo carico di luce
Pieno di odori e di sapori
Sapessi dove sono anima mia
Sono dove il sole mi sbatte
Sulle rocce che si sfaldano
Sono dove il vento costruisce
Le rocce con nuovi granelli
E la pioggia solidifica e lava
Sono dove il falco fa il suo nido
E volteggia per sempre portando
Un insetto una lucertola o niente
Dove i pesci saltano sull’onda
E s’affondano nei sabbiali
Coralli ancora teneri
Sapessi a volte come il fumo
Il vapore della terra sale in aria
In piccole gocciole trasparenti
Dove la montagna erutta fuoco
Fonde l’acciaio e l’agape
La gemma che non ha valore
Ci insegna a ricordare tutto
Quando saremo fluttuanti
Fra metafore spente
Su una nave spaziale
Strapiena di gente
Notte di tuoni acqua e vento
Un finimondo finito in fretta
Un frantoio unto e dilavato
Di nuovo il sole brucia
Della frescura temporalesca
Con vigore si vendica
Stelle nella lavastoviglie
Sassi stellari e navicelle
Di sapone nello scarico
Della discarica dei gabbiani
Ingorghi di clacson e polveri
Sottili nelle viscere di Eva
Con un Adamo dal pomo torto
Nel secchio del riciclaggio
Anche oggi i passerotti
Hanno beccato le briciole
Sul balcone
Venuti a luce d’autunno
Sono volati via di colpo
Non appena la finestra
È un finale interrotto questo di Giuseppe Talia che ci richiama alla mente la poesia di Petr Král per certi suoi aspetti psichici. Il poemetto di Talia è del 2010, ha una vitalità che deriva a mio avviso dal pochissimo spazio concesso ai verbi, l’azione verbale è del tutto assente; similmente, è assente la copula «è», anch’essa messa in castigo. Il fatto è che così priva di verbi la poesia di Talia sta come slegata, sciolta, le parole sono come tanti palloncini che vanno verso il cielo e lì si perdono; prive della gravità esercitata dai verbi le parole acquistano leggerezza e gassosità, sembrano non raggiungere mai la stabilità (apparente) del significato. Una Musa last minute tanto cara a Giuseppe Talia, appesa alla improvvisazione del momento, quasi una esecuzione jazz.
(g.l.)
da La Musa last minute (inedito)
Guido Oldani
Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Detenuto nel container come scontenuto
Betoniera terminale del poeta mantenuto
Cementizzato nell’ars poetica, oldaniano
Realismo militante, con antologie allappanti
Per l’infelice vita di codeina e di camomilla.
Due poesie di Adeodato Piazza Nicolai
Tu luna
Lassù come ti senti?
Sverginata allunata
calpestata espropriata
sembri perfino dimagrita.
Cosa direbbe Leopardi?
Scivolerebbe forse
una lacrima
sulle sue guancie?
Non saprei dire ma soffro
una pena infinita…
Se fossi un barbone
itinerante ti amerei
con occhi sognanti
però non lo sono.
Spreco così
parole malconcie
a lenire un poco
questa ferita.
©2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 13 luglio, ore 5:00
dall’ontologia estetica di Ajvaz
In piena umiltà inseguiamo il paradosso
della classica meta-poesia un po’ dimenticata
o messa in cantina poiché (la crediamo)
sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
spuntano sulla superficie, ma solo come frammenti
e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
dappertutto …
E il teorema di Zeno ha ancora qualche
valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
sulla barca mai costruita dalle mie mani,
chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30
Giuseppe Talìa
13 luglio 2017 alle 22.18
A proposito di luna, eccone tre scritte parecchi anni fa.
La prima, calza a pennello a proposito degli ultimi atti vandalici commessi all’istituto Falcone (e tutti questi “strani” roghi che bruciano in Campania, in Calabria, in Sicilia ?)
Morto il chiarore
la luna incanutita
rotola giù e si scioglie
come un’aspirina
S’acquieta il fragore
nell’aria ammutolita
si ferma sulle soglie
e scoppia come mina
E’ strage nel furore
la Torre dei Pulci ferita
Roma Milano le spoglie
e quel sospetto che affina.
La seconda, una luna che si specchia nel danno ambientale.
Dove sei?
In fondo a quale pozzo
Galleggi nel percolato?
Un cerchio di luce ! Morta?
Uno spicchio
Forse specchio
Madre?
Faccia butterata
Inguaribile
Cuore di lupo
Con ciaspole e piccone
Il biancore di neve
Candrama
Forgi il falcetto
Mieti i gambi storti.
La terza, un primo quarto (di luna)
una
sono una
non certo trina
mi vesto di crinolina
e cresco da notte a mattina
deambulante dea creta dell’universo
sono la luna di quando crescono le fragole
la luna di quando i cervi perdono le corna
minimo falcetto lievito nel sommerso
madreperla nell’immenso concesso
e porto fortuna porto sfortuna
sono di fiume e di laguna
nel cielo di china
non sono trina
sono una
una
Poesia di Antonio Sagredo
Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.
La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.
È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.
Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?
Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.
Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.
(marzo, 2016 à la maniere di Milosz)
Poesie di Gino Rago
La conchiglia senza polpa resta vuota
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23236
Sei dipinti numerati. Da uno a sei.
(Sembrano moti di un passo di danza).
La prima figura è protesa verso l’esterno.
La seconda verso l’interno.
Una si schiaccia si può dire a terra.
L’altra si libra senza peso verso l’alto.
La quinta si rilassa. La sesta si erge in piedi.
(…)
Per anni l’arte ha tentato la stasi.
Ora cerca di mettere tutto in movimento.
I sei dipinti ornano i sei pilastri
della sala da pranzo d’una azienda.
Figure fluttuanti. Distesa di cielo
visibile appena dalle finestre alte della sala.
(Il mondo e la carne. O la Parola che comprende entrambi).
(…)
«Siamo tutti coscienti del fatto che…»
L’amministratore delegato non risponde.
Ignora l’artista. Che insiste: «Siamo tutti coscienti del fatto
che se la polpa cade la conchiglia si svuota?
Chi o cosa riempirà questo vuoto…»
Emilio, Edoardo, Armando.
(Rondine. Rendici eguali al tuo giugno).
(…)
Da un angolo della mensa aziendale rispondono:
«Se la polpa fugge la conchiglia resta vuota.
Il vuoto lo riempie la parola nuova del poeta».
L’amministratore delegato non si scompone.
Pensa da solo soltanto al profitto.
La conchiglia senza polpa resta vuota.
(Le immagini sono il silenzio inquinato).
Gino Rago
Dedico questi versi recentissimi, ora nella loro forma definitiva,
a Lucio Mayoor Tosi che a ogni sua elaborazione artistica, di ritratti o di versi,
sempre ci sorprende, e ci incanta.
Invito Giorgio Linguaglossa a riesumare, riproponendolo anche in parte,
quella monografia della rivista POIESIS dedicata, con testi poetici e testimonianze critiche di alto valore, interamente ad Armando Patti.
Purtroppo, non ne ricordo né l’anno di pubblicazione né il Numero.
Ma ricordo assai bene il gran rumore che fece nella stagnazione morale
ed estetica della nostra poesia di quegli anni…
Ad Anghiari, lo ha confidato a me una assai nota poetessa meneghina.
“Ma lo sai che a Milano in tanti vi odiano? Ma lo sai che a Milano Giorgio
Linguaglossa conta tanti nemici…?”
Ottimo segno…
Gino Rago
caro Gino,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23237
l’odio dei mediocri è un ottimo segnale, mi dispiacerebbe la disistima dei pochi che valgono…
Per le poesie di Armando Patti, le riproporrò in un post prossimo venturo. grazie della segnalazione.
Posto qui una poesia di un giovane poeta: Massimiliano Marrani, con video
Massimiliano Marrani
Cosa vuoi che sia, un anno.
Ieri gli alberi non avevano rami
oggi sono cadute le foglie
pollice e indice che si toccano
mio figlio che stava su una mano
I dodici fogli del calendario
dalla cucina si sono spostati
all’ingresso di un’altra casa
e Adriano è invecchiato di colpo,
quando si è tolto gli occhiali
ho rivisto suo padre
trascinarsi nell’odore forte di bollito
fuori dalla camera piena di letti
con non so quante estati sbracciarsi
tra la ringhiera
e la siepe sempreverde
Tu guardi avanti ma non sai dove
tu guardi indietro ma non sai quando
tu guardi e vedi
solo le tue mani vuote
che hanno preso e lasciato
gli oggetti impastati
alla carne dei dinosauri
all’acqua, di un lungomare
che non abbiamo mai visto insieme,
che ci ha raggiunti
nel diluvio al ristorante
il penultimo giorno
che deve ancora arrivare
E per allora sarò più vecchio
e tu una bambina
che starà tutta sulla mano di tuo padre
che deve ancora nascere,
e ti passerò vicino
in una piazza convertita a campo
al cielo avranno dato un altro nome
agli amici traditi
cadrà la stessa biro
con la quale ti scrivo
sul tavolo in noce
andato distrutto durante il trasloco
Tu all’epoca avevi un altro viso
tra i tanti ammassati
contro la parete di fondo
nel fondo della gola in fondo
alle centinaia di cassetti in cui
ho trovato il sole intermittente
rifugio, nell’odore del mio cane
che stringevo sul divano
tra il ronzio delle maledette zanzare
in compagnia del gufo sull’abete
il treno che faceva tremare, l’architrave
puntata dove lo sguardo finisce
nel morto che ci dorme accanto
col quale facciamo l’amore
pensando che un anno è trascorso
e cosa vuoi che sia un anno
pollice e indice che si toccano,
a breve poteranno gli alberi
ma tu sei più avanti,
molto più avanti
nel passato.
Massimiliano Marrani
http://www.massimilianomarrani.com/
complimenti a tutti
copio e incollo due poesie inedite di
Mariella Colonna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23240
Quella notte a Montmartre
volavano libri dalle finestre.
Madame di Trèves faceva le carte
nei giardini di Versailles sotto un ombrello rosso.
Lo zio Giovanni si misurò sei volte la pressione
dopo uno spettacolo delle Folies Bergères.
La vie en rose la cantavano le signorine
di buona famiglia e le cameriere
a spasso con i marines.
Durante la guerra
non si trovavano caffè olio e formaggi.
La gente mangiava gallette e patate.
«Ho paura del vento…e spesso ho fame».
Marlene fa la dieta e ha visto
dieci volte Via col vento…
Quella notte a Montmartre
con i libri facevano i falò e così, per salvarlo,
ho preso a volo l’Ulisse di Joyce
ma non sono mai riuscita a leggerlo
oltre pagina dieci.
Che avranno detto gli uccelli vedendo i libri volare?
Non so, allora gli uccelli non parlavano
cinguettavano in lingua straniera.
Adesso le signorine per bene
non cantano più “La vie en rose”.
L’Africa per non morire sbarca in Italia.
La borghesia educa gli animali.
Adesso gli uccelli parlano molte lingue,
anche i cani e i gatti di buona famiglia.
Ma nessuno crede più ai libri che volano,
dicono che è una leggenda metropolitana.
Un antenato “preistorico” di Crystal
deve essere stato un uccello.
Forse un uccello del paradiso.
Fin da bambina il desiderio di sollevarsi in volo
la spingeva giù dalla collina vicino casa
con le braccia aperte in movimento.
Mario Pietro Roberto e Malvina
giocavano col pallone, in basso, sulla spianata.
E lei su e giù felice, convinta che prima o poi
si sarebbe sollevata da terra e nella corsa così agile
che sembrava volare davvero.
A giugno, in campagna, faceva un gran caldo.
«Chris vai con Malvina, Pietro e gli altri
a fare un bagno al fiume!» «Mamma, non sono un pesce,
sono un uccello, guarda!» E agitava le braccia come ali
adorne di piume di gallina incollate su strisce di carta
di tutti i colori.
Da grande, Crystal cominciò a volare fuori e dentro.
Usava le parole prendendole a volo, raggiungeva le nubi.
In gara con le rondini solcava il cielo
con il silenzio imitava il canto degli uccelli.
Si ammalò. Non poteva più camminare.
Tanto meno correre. Gli amici, robusti ed agili,
la portavano su e giù per la collina, ma lei
non riusciva più ad essere felice.
Perché “lei”ero io. Ed io volevo soltanto
inventare una storia che avesse le ali.
E le mie parole non avevano la forza
di liberarsi nel volo.
Un giorno accadde l’impossibile.
Si staccò dalla collina e si lanciò per le vie dell’aria.
Era diventata, come il suo “preistorico” antenato,
un Uccello del Paradiso?
Non so, ma da quel volo non tornò mai più.
No, quella volta “lei” non ero io.
Io sono qui.
Copio e incollo l’unico e intenso e per me commovente commento ai miei versi:
Salvatore Martino 3 settembre 2017 alle 18:52
Mi erano sfuggite in questo procedere di versi , i due testi di Mary Colonna notevoli, soprattutto il secondo, personalissimi e densi di pathos e di kommos. Una profondità del dettato poetico,, in un disperato anelito di libertà, sottolineato da folgoranti immagini .
copio e incollo una poesia inedita di
Francesca Dono
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23241
siamo davanti al fiorista. Le auto vergano chilometri di bitume
al quinto secondo di un anno mancato. Così folto il vivaio irrigato.
Addirittura una cartomante vicino al bouquet di rose.
Ho infilato la mano tra le foglie di cordalyn black .
Pure gli Angeli nel poster del rimpasto.
Il Matto in fila è nudo. Intanto un vaso muta . Oggi la prima ora
di nuovo ripetuta. Sul banchetto il presagio
dei tarocchi secondo l’atterraggio delle carte. Mi sono
ferita con le spine congelate che volavano dall’insidia naturale
dei lunghi steli. Scimmie cosmopolite a pezzi.
(Prendi i migliori colori appassiti. Fai una smorfia per la borsa difettosa.)
La papessa rovesciata milioni di volte.
Poi tu dici in un minuto : abracadabra e lei sparisce.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23242
eh, qui è frammentismo in avanscoperta. La vita scorre alla velocità della luce, ma lentamente se paragonata alle parole inconsce che Francesca sa assemblare. Una cacciatrice di spazio-tempo: diventerà un’icona. E siamo solo agli inizi. Però stiamo traghettando poesia, e qui serve il contributo del lettore intelligente ( noi, come Giorgio, siamo tutti ciabattini) senza il quale i versi potrebbero sembrare meteore. Ma Francesca è visiva e, pare incredibile, senza deformare la realtà. Quindi…
Cara Francesca, si nota un continuo cambiamento in meglio nelle tue poesie, la ricerca di un linguaggio nuovo, e anche un livello più alto di comunicazione: questo è importante perché il messaggio della poesia deve essere originale ma anche arrivare al lettore.
Carissima londadeltempo, veramente noto un sostanziale miglioramento in tutta la poesia NOE. Devo riconoscere il merito di Giorgio che (su questo blog) ci arricchisce di suggerimenti e di cultura. Comunque, immagino che molti poeti, qui conosciuti, fossero in cammino già da molto tempo. Anch’io , ad essere sincera , e con tanta dedizione per la ricerca. Poi, fino a che punto e a quali livelli non saprei….. Cari Giorgio e Lucio mi aggiungo alla bottega dei ciabattini. Complimenti vivissimi a tutti , nessuno escluso.
copio e incollo da FB la poesia di
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23244
Donatella Costantina Giancaspero
Una Poesia (letta al Castello di Sorci il 26 agosto 2017)
Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi
Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi.
I minuti oscillano sul medesimo punto interrogativo.
Di scorcio, una parete a quadri spalanca la finestra,
che dà ormai sul giorno fatto. Il punto cade giù, nel vuoto.
Tutto è rimandato, compresa la perturbazione da Nord-Ovest
e chi ascolta da un’altra direzione. Ma non sa la stanza
come si trascina fino alla porta, se la mano traccia il segno della resa.
Alle spalle, una campitura di rosso pompeiano
vigila il corpo contratto dentro un quadrante senza numeri.
La lancetta spezzata.
Un ritmo cieco batte a tentoni negli angoli.
Commento di Lucio Mayoor Tosi
Queste io le chiamo poesie della percezione. Sono rare, sono un avvertimento anche per chi ne scrive, sono il modo in cui avviene la comprensione delle cose. Procedendo con questa comprensione, senza sostare troppo nell’intellettualità, le cose ci arriverebbero dentro con il loro particolare “essere” e ci toglierebbero dall’angoscia. Complimenti a Donatella, è una bellissima poesia.
Commento di Mariella Colonna
è una poesia esemplare per la NOE…gli oggetti diventano “cose”, eventi, diventano te, DONATELLA, per quello di te che riesci a riversare sulle cose, sulla quotidianità: e poi quel punto interrogativo che cade nel vuoto! Immagini molto nuove, originali.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Acutamente Lucio Mayoor Tosi definisce la poesia di Costantina «poesie della percezione». Le poesie sono la prosecuzione degli occhi, sono delle sonde gettate nel mondo di cui avvertono i minimi trasalimenti, le minime fenditure… in tale accezione sono poesie psicologiche in senso moderno, che avvertono il lettore e l’autore di un agguato imminente, di «un punto interrogativo» sospeso «nel vuoto»; è anche una poesia ontologica, che scandaglia l’essere dell’esserci… una sorta di periscopio che osserva e vigila… dal di sotto, ciò che appare e accade sopra l’orizzonte del mare aperto…
Quello che noi scorgiamo al di sopra dell’orizzonte, non è la «realtà» ma è il «reale» che noi abbiamo costruito con il nostro immaginario e il nostro simbolico e, in base al quale distinguiamo e interpretiamo la «realtà». La cosiddetta «realtà» la vediamo sempre «di scorcio», non è possibile la percezione frontale della «realtà». La poesia ci consente di girare attorno all’oggetto, di investigare sulla natura della «realtà» e di tradurla in «reale», di comprenderla:
Di scorcio, una parete a quadri spalanca la finestra…
Ma questa comprensione è opera dello «sguardo», della posizione di chi guarda che è posta di sbieco, a latere rispetto alla «realtà»; ma, è paradossale, è proprio grazie a questa postazione s-centrata che è possibile avere uno «sguardo». Il «reale» che noi vediamo è quindi il prodotto di uno «sguardo» s-centrato. Non potrebbe essere diversamente, e la s-centratura interviene nel momento in cui agisce il significante: la metafora. Infatti, nella poesia non è detto che è «la finestra [che] spalanca una parete», ma il contrario. Il contrario appunto in quanto l’atto dello «sguardo» è s-centrato. Il «reale» ricoperto dall’immaginario dà il senso di realtà alla «realtà» ed Essa è precisamente l’effetto di questo ricoprimento immaginario del reale. La castrazione originaria rende possibile il significante originario, il significante del Padre, e quindi l’accesso alla realtà. La «realtà» non è il «reale» per Lacan. La realtà è il «reale» coperto dall’immaginario e dal simbolico. La freccia che va dall’Immaginario al Simbolico è la freccia del senso. La dimensione della verità implica il rapporto tra immaginario e simbolico. La verità si dà come simbolizzazione dell’immaginario. Ogni volta che accade la simbolizzazione dell’Immaginario c’è effetto di verità, c’è processo di disidentificazione. Ogni volta che mettiamo in evidenza le identificazioni inconsce che governano la vita di un soggetto l’effetto di questa interpretazione è un effetto di disidentificazione. In tal senso le poesie di Donatella Costantina Giancaspero sono una rete fittissima di segnali semaforici, segnali che lampeggiano e danno evidenza agli ordini semantici dei significanti; ordini di Alt, Verde, Giallo; ordini di divieti e di permesso. Ordini minacciosi, intimidatori che angosciano. Il simbolico di questa poesia è costellato di ordini, di divieti e di censure, sono le metafore che zampillano in fibrillazione continua…
*
posto qui una poesia di una poetessa molto diversa da Villa Dominica Balbinot, Luigina Bigon, con una sua poesia paesaggistica, en plein air. Non siamo certo all’interno della «nuova ontologia estetica», Luigina è impegnata in una poesia di stampo tradizionale nel migliore senso della parola:
Luigina Bigon nasce a Padova, dove risiede. Ha svolto attività nell’ambito della progettazione dell’ornato artistico dell’Alta Moda della calzatura femminile. Sue creazioni sono esposte nella Saletta Egizia del Museo della Calzatura d’Autore di Villa Foscarini Rossi di Stra (VE). Ha pubblicato le raccolte “Barattare Sogni”, Clessidra 1989; “Lucenenèra”, Maseratense 1995. “Cercando O”, Panda 2001 e “Diacronicità, ponte Sottomarina / Cina”, Cleup 2009, entrambe tradotte in inglese da Adeodato Piazza Nicolai. Ha ideato e curato “Vajont, Padova e i suoi artisti”, Imprimenda 2003, e altre antologie. È membro direttivo del “Gruppo letterario Formica Nera” e del “Gruppo poeti Ucai” di Padova, di cui è stata fondatrice nel 1989.
Notturno londinese
Questa notte Londra è più lugubre del solito
con quei suoi angeli neri,
li ho visti volare dappertutto
poi scendere con il paracadute.
Le sirene gridano lungo le corsie di sinistra
le auto saltano sui corpi morti degli sbirri,
un ton-ton che sferra l’asfalto
e lo ingrigisce più delle catene.
È un labbro opaco che si sporge
una carezza di corvo l’ala
un gracchio di rana il canto.
Le auto roteano incurvandosi
insieme alle bow windows vittoriane
un barocco quasi quasi cimiteriale
con i giardinetti pieni di sterpi
e cose vecchie. Londra dei gentelmen
riposa sontuosa intorno a Piccadilly Circus
là dove tutto è massimo fulgore, ma qui
in questo quartiere riposa il terzo mondo
che ancora sorride e fa pena.
Chissà dov’è la verità, forse a Brixton
insieme agli afro così poveri, ricchi di dignità.
Anche la mano si è fatta nera, fa paura.
La testa si sgretola come un vaso di cotto
il corpo si ritrae istintivamente.
La notte è lunga.
Carissima Luigina! Finalmente ti sei convinta a venire qui con tutti noi sull’Arca della NOE! Forte, drammatica la tua poesia. hai colto l’aspetto meno visibile, l’immagine più povera e disadorna, di Londra: quella dove vive la povera gente…ma anche dove hai visto “gli angeli volare dappertutto / poi scendere col paracadute! Sempre la tua nota originale, divertente, anche in un paesaggio lugubre. Brava , RIESCI SEMPRE AD ESSERE TE STESSA! E questa è una dote rara.
Mariella
copio e incollo da la scialuppa di Pegaso, FB la poesia di
Serenella Menichetti
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23245
LA REGINA E’ NUDA
Niente gabbiani né tramonti adamantini
nel plumbeo cielo.
Sospesi sopra un mare di pece
spelacchiati corvi neri.
Dal ventre sterile della terra
s’alzano flebili lamenti.
Tutto ammorbato e infetto intorno.
Tronchi d’ulivo cupi e anchilosati, piegati
su se stessi come vecchi artritici.
Con il gelo nel cuore:
ascolti i rantoli delle stremate palme.
Mentre coaguli d’angoscia ti ostruiscono le vene
Il lugubre rintocco della campana del silenzio
batte i suoi colpi.
-La morte si è infiltrata ovunque- mi racconti.
-La senti, è lei che ulula.
Adesso la fa da padrona –
-Vecchio, tu stai delirando-rispondo
-Non voglio ascoltare le tue fandonie-
Concludo.
Mi copro le orecchie con le mani e fuggo.
Mi fermo, quando la tua sagoma rimane
ai miei occhi, solo un minuscolo bruscolo nero
che non c’è verso di scacciare.
Vado alla ricerca di farfalle,
e gabbiani.
Niente, non riesco a trovare più niente
di ciò che c’era prima.
I lunghi tentacoli della piovra che avviluppano
la vita, cercano di spegnere il mio canto.
La campana del silenzio continua a muovere
il suo batacchio con sordi rintocchi di morte.
Sfinita, delusa mi addormento.
Un risveglio senza gabbiani,
un foglio accartocciato.
Una poesia
scabra.
Né trucchi
né orpelli.
La regina è nuda.
THE QUEEN IS NAKED
No seagulls nor adamantin sunsets
in the steelgrey sky.
Hanging above a sea of tar
black featherless crows.
From the sterile belly of the earth
Rise up feeble moans.
All around is pestiferous and infected.
Dark and twisted olive trunks, bent
on themselves like artritic old men
with ice in their heart:
You hear the rantle of exhausted palm trees.
As knots of anguish obstruct your veins
thefunereal sund of the bell of silence
beats its notes.
-Death has filtered in everywhere- you tell me
-Do you hear it, it is she who moans.
Now she is the boss .
-Old man, you stand in delirium- I answer
-I don’t want to hear your lies
I conclude.
I plug closed my ears with my hands and run off.
I stop, when your shape remains
in my eyes, only a tiny black mole,
there is no way to trow it away.
I go searching for butterflies,
and seagulls.
Nothing, I can no longer find anything
that was there like before.
Long octopus arms are wrapping up
life, trying to put out my song.
The bell of silence keeps on moving
the striker with stupid sounds of death.
Exhausted, deluded, I fall asleep.
(traduzione di Adeodato Piazza Nicolai)
Commento di Giorgio Linguaglossa
cara Serenella, ma questa è la poesia che un poeta colto e raffinato come Gino Rago definisce “adamitica”!, si avverte la tensione verso un nuovo linguaggio, la sintassi franta, la paratassi, lo stile nominale…
l’idea di tutti i poeti adamitici è scrivere nel linguaggio delle api «in cui un linguista non può vedere altro che una semplice segnalazione della posizione dell’oggetto, in altre parole una funzione immaginaria più differenziata delle altre» «Ma una tale comunicazione non è mai trasmissibile in forma simbolica» (Lacan, Scritti, I Einaudi, 1970, p. 15)
Oh, questi bellissimi versi di Antonio Sagredo mi hanno commosso:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23246
Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.
L’aria di cambiamento arriva senza fare distinzioni e ciascuno ne respira, quasi non fosse della critica ma di un tempo che spira ancora di là da venire. Segnali positivi, come se i versi della propria maniera venissero considerati con rinnovata attenzione. Quindi la preziosità di ogni verso, come in questi di Sagredo, più scarni, si mostrano nella sostanza ancora più umani e tragici.
Gino Rago
Per anni l’arte ha tentato la stasi
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23266
Per anni l’arte ha tentato la stasi.
Ora cerca di mettere tutto in movimento.
I sei dipinti ornano i sei pilastri
della sala da pranzo d’una azienda.
Figure fluttuanti. Distesa di cielo
visibile appena dalle finestre alte della sala.
(Il mondo e la carne. O la Parola che comprende entrambi).
(…)
«Siamo tutti coscienti del fatto che…»
L’amministratore delegato non risponde.
Ignora l’artista. Che insiste: «Siamo tutti coscienti del fatto
che se la polpa cade la conchiglia si svuota?
Chi o cosa riempirà questo vuoto…»
Emilio, Edoardo, Armando.
(Rondine. Rendici eguali al tuo giugno).
(…)
Da un angolo della mensa aziendale rispondono:
«Se la polpa fugge la conchiglia resta vuota.
Il vuoto lo riempie la parola nuova del poeta».
L’amministratore delegato non si scompone.
Pensa da solo soltanto al profitto.
La conchiglia senza polpa resta vuota.
(Le immagini sono il silenzio inquinato).
Gino Rago
Dedico questi versi recentissimi, ora nella loro forma definitiva,
a Lucio Mayoor Tosi che a ogni sua elaborazione artistica, di ritratti o di versi,
sempre ci sorprende, e ci incanta.
*
Art for years attempted stasis
Art for years attempted stasis.
Now it tries to put everything in movement.
The six paintings adorn the six pilasters
in the dining room of an agency.
Floating pictures. A spread of sky
Barely seen from the high windows in the room.
(World and flesh. O the word that comprehends both).
(…)
«We are all conscious of the fact that …»
The delegate administrator does not answer.
Ignores the artist. Who insists: «Are we all conscious of the fact
that if the pulp drops out the shell gets empty?
Who or what will fill up this void …»
Emilio, Edoardo, Armando.
(Swallow. Make all of us equal to your June).
(…)
From a corner of the agency’s hot table they reply:
«If the pulp runs out the shell remains empty.
The void is filled by the poet’s new word».
The delegate admnistator is not upset.
He only thinks of the profit.
The shell without pulp remains empty.
(The images are polluted silence).
© 2017 Gino Rago. American translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem beginning with the verse “Per anni l’arte ha tentato la stasi.” All Rights reserved for the original poem and for the translation
Grazie, che onore mi rendi, caro Gino!
Parole e immagini si cercano da sempre, ma nemmeno quando si incontrano riescono a compenetrarsi. Sembrano appartenere ad animali simili ma diversi nella specie. Chissà se ci aiuteranno i rumori, come il galoppo nei film western o nell’opera di Cage; solo che dovrebbero essere parole: come se sospiro sospirasse, colpire colpisse, amare amasse…
… fai bene a mettere il copyright. Ora, ad esempio, sto pensando che se l’autore sentimentale di turno fosse in cerca di un buon titolo, con “Se amare amasse” potrebbe mettersi a posto per un bel po’. E sarebbe solo colpa mia. Comunque io di titoli ne sforno ogni giorno. Ne ho a migliaia. Con dieci titoli si può scrivere una poesia. Da che la scrittura è in pubblico non ha più segreti.
… intendo dire: da quando la scrittura si è modernamente involgarita, ma avete capito.
posto volentieri dal sito di Lucio Mayoor Tosi questa poesia:
Washo in cerca dei suoi discepoli.
di Lucio Mayoor Tosi
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23277
Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese: una compressa
col campanile, nei secoli mai dissolta tra le Langhe
e la pianura Padana. Lungo il tragitto si divertì
a fare abbaiare i cani segregati dietro i cancelli delle case;
anche se quella mattina, perché era di mattina, Doly
quasi non si avvide del suo passaggio. Anzi,
proprio non gli rivolse neppure lo sguardo.
«Doly! » disse con voce alta Washo voltandosi indietro
dopo che fu passato. E quella finalmente abbaiò.
Cane sentimentale, pensò Washo.
«A cosa stavi pensando?»
Più avanti toccò al dobermann. Ma anche questi si limitò
a guardarlo da sotto i ferri del suo cancello; il lungo muso
sembrava quello della BMW del suo padrone, solo con gli occhi
più mansueti. Ma nemmeno il dobermann abbaiò. Giusto
un abbaio in risposta a Doly che nel frattempo si era svegliata.
E più avanti il meticcio; che, sì, era tanto bruttarello
ma aveva un bel cortile da sorvegliare. Il meticcio erano mesi
che aveva smesso di abbaiare al passaggio di Washo.
Ah, pensò Washo, la prossima vita ti prenderò io. Perché siamo
oramai amici e ti ricorderai di me.
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo, almeno per l’uomo che vuole mantenersi rude
come stesse in famiglia. E c’era un altro avventore.
Quindi Washo provvide a mettersi coi gomiti bene appoggiati
sul banco, con il bagliore dei muscoli in vista per dare prova
di sicurezza interiore. Quindi pensò: ecco, che lo si sappia o meno
questo è l’istante fuggevole della meditazione. Il tempo
che la signora impiega per caricare il caffè dentro il filtro
della Faema ed erogare nella tazzina.
Zucchero di canna.
Complimenti a Lucio per questo racconto dall’andamento quieto e scanzonato con l’eroe Washo che sembra replicare, nella sua passeggiata, le gesta dei filosofi peripatetici, mentre invece si tratta di una becera passeggiata tra i caseggiati di un quartiere borghese alla periferia snob di una qualunque città post-industriale dell’Europa di oggi.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23280
Si dice che Aristotele, ma tempo prima anche Lao Tsu, avevano l’abitudine di pensare camminando. Di LauTzu, l’autore del Tao, si racconta che aveva un amico il quale talvolta lo accompagnava nelle sua passeggiate nei boschi; e una volta gli chiese di poter portare con se’ un ragazzo, perché aveva tanto insistito per poterci essere… Lao acconsentì. Così si addentrarono insieme nel bosco. Tutto bene. Ma un paio d’ore più tardi, verso il ritorno, accadde che il ragazzo, il quale durante tutto il tragitto se n’era stato zitto, sentendosi in dovere di ringraziare disse: grazie Maestro, è stata una bellissima passeggiata! Eppure, quando Lao Tsu fu solo con il suo vecchio amico, gli disse di non portarlo più. Parla troppo, gli disse. Questa storia mi ha sempre fatto ridere: Lao Tzu avrebbe sicuramente cacciato anche me!
bravo Lucio!
Anche noi siamo dei peripatetici. Oggi abbiamo Internet, L’Ombra delle Parole, è quello il luogo nel quale passeggiamo… Inchierchia!, vienici in aiuto!
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23300
cita la Treccani:
Peripatetici I membri della scuola aristotelica, che s’intrattenevano a discutere nel Peripato, quella parte del giardino del Liceo, in Atene, in cui Aristotele era solito tenere le sue lezioni.
L’indirizzo della scuola, subito dopo la morte di Aristotele, è prevalentemente erudito e naturalistico (Teofrasto di Ereso, Eudemo di Rodi, Aristosseno di Taranto, Dicearco di Messina, Clearco di Soli, Demetrio di Falero). La tendenza empiristica si accentua nei primi tempi dell’ellenismo (Stratone di Lampsaco), mentre gli studi eruditi sono proseguiti da Ermippo, Sozione, Satiro, Eraclide, Lembo, Antistene di Rodi, Agatarchide, Demetrio di Bisanzio, e la conciliazione con altre correnti è tentata da Ieronimo di Rodi, Critolao, Diodoro di Tiro ecc. Più tardi l’erudizione si volge verso le opere stesse di Aristotele (Andronico di Rodi); tra i commentatori eccelle Alessandro di Afrodisiade.
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Critolào di Faselide
Critolào di Faselide. – Filosofo peripatetico (prima metà sec. 2º a. Critolao di Faselide); successore, pare, di Aristone di Ceo nello scolarcato, fece parte, con Carneade e con Diogene di Seleucia, dell’ambasceria mandata nel 155 da Atene a Roma. Pur combattendo lo stoicismo, il suo aristotelismo non …
Diodòro di Tiro
Diodòro di Tiro. – Filosofo peripatetico, vissuto tra il 2º e il 1º secolo a. C. Successe nello scolarcato a Critolao. Risentì fortemente di influssi stoici ed epicurei nella determinazione del concetto di virtù e in quello di sommo bene come assenza di dolore.
Sàtiro
Sàtiro. – Scrittore greco di Callati sul Ponto Eusino, ma vissuto ad Alessandria verso la fine del sec. 3º a. C. Di tendenza peripatetica, scrisse biografie di antichi uomini illustri, tra cui una Vita di Euripide, a forma di dialogo (se ne hanno frammenti da un papiro di Ossirinco), con le caratteristiche …
Aristòsseno di Taranto
Aristòsseno di Taranto. – Filosofo (4º sec. a. C.); pitagorico, scolaro poi di Aristotele; sviluppò nella scuola peripatetica le sue attitudini alla ricerca naturalistica e matematica; è il massimo teorico greco di ritmica e di musica. Gli Elementi di armonia (᾿Αρμονικά) eccellono per l’esattezza della …
Diodòro di Tiro
Diodòro di Tiro. – Filosofo peripatetico, vissuto tra il 2º e il 1º secolo a. C. Successe nello scolarcato a Critolao. Risentì fortemente di influssi stoici ed epicurei nella determinazione del concetto di virtù e in quello di sommo bene come assenza di dolore.
Leggo che i filosofi peripatetici erano di tendenza empirica. Tuttavia devo alla tua poesia se ho perso ogni remora ad entrare nei discorsi filosofici. E’ che a me piace varcare, se non tutte le soglie, almeno quelle che mi attraggono. Anche se di volontario in me c’è principalmente l’accondiscendenza: troppo poche sono state le mie letture in questo campo; capisco facilmente ogni cosa ma preferisco restare nell’esperibile.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23301
La poesia di Lucio Mayoor Tosi sopra postata è il racconto della «ricerca della identità». Il protagonista, Washo, ha perduto tempo addietro, «qualcosa». Questa «perdita» lo guida. Washo prende a passeggiare, oziando.
Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese.
Washo non sa chi è. Prende a passeggiare perché non sa chi è e deve capire chi egli sia veramente; deve percorrere un tragitto (che lui conosce molto bene), questo tragitto è la sua personalissima Odissea mattutina. Va al bar per prendere un caffè. Il narratore è una terza persona che sta fuori della dimensione entro la quale vive e vegeta il protagonista Washo. Passeggiare, quindi, è il modo proprio del protagonista per capire se stesso, per mettersi alla prova.
Il dramma di Washo è che lui non sa chi è:
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo…
Washo è un personaggio colpito da amnesia, e quindi da cecità. Egli non vede ciò che vede e non ricorda ciò che non può ricordare, infatti tutta la poesia è svolta al presente. Washo ha perduto qualcosa ma non sa che cosa sia questo qualcosa e non sa neanche di stare cercando questo «qualcosa». Tutta la vicenda di Washo è esemplare di questa condizione di non consapevolezza. Washo è stato colpito da un colpo apopolettico, da una alienazione originaria, ma lui non lo sa e non lo sospetta nemmeno. Il dramma di Washo è che lui vive unicamente nell’Immaginario, vive tra le immagini. Il suo mondo è stato «ridotto» all’Immaginario del presente, egli non ha più la capacità di ordinare il suo mondo tramite il Simbolico, vive in un flusso di eventi immersi in processi di de-soggettivazione che sono anche processi di assoggettamento. La de-soggettivazione va di pari passo con l’assoggettamento della coscienza alienata.
L’uomo è un ente che “nasce” alienato ab origine, perché da sempre è costretto a «giocare in difesa». L’universo rappresentazionale attraverso il quale significa il mondo è la conseguenza di uno «smarrimento» mitologico, la «perdita» della das Ding , che lo aliena da se stesso e lo pone in una condizione psicologica difensiva.
Il soggetto alienato ab origine della nuova poesia psicologica, ovvero, la «nuova ontologia estetica» (penso alla poesia di autori come Donatella Costantina Giancaspero, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Steven Grieco Rathgeb e altri), si occupa di questo: di rappresentare, oggettivare l’universo simbolico e immaginario proprio di questo soggetto alienato che «non sa chi è». Il «suo» oscillare esistenziale è il tentativo di gestire il trauma dello smarrimento originario. Questo trauma origina quell’apertura di senso che ci contraddistingue, quel serbatoio unico di senso attraverso il quale produciamo le nostre rappresentazioni…
Viviamo in una società post-televisiva, che ha sostituito il registro Simbolico con quello Immaginario, ci muoviamo in un ordine di icone e di simulacri.
copio e incollo dal blog di Paolo Statuti:
https://musashop.wordpress.com/2017/09/02/walt-whitman-ottimismo-e-felicita/#respond
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23302
Nella mia biblioteca conservo un libro prezioso. Si tratta di una raccolta di 20 conferenze del filosofo e psicologo William James (1842-1910) che ha per titolo “La coscienza religiosa” (Fratelli Bocca Editori, Torino, 1904, con prefazione di Roberto Ardigò). Nella conferenza “La religione del perfetto equilibrio mentale”, là dove si parla di scrittori con un temperamento organicamente formato per la gioia, e che non può fermare la sua attenzione sugli aspetti più tristi della natura, William James scrive: «In certi individui l’ottimismo può divenire addirittura semi-patologico. E’ come se non fossero capaci di provare una amarezza anche transitoria o un’umiltà momentanea, e ciò, per una specie di anestesia congenita. Il più splendido esempio contemporaneo di una simile inabilità a sentire il male è naturalmente quello di Walt Whitman:
“La sua occupazione favorita” – scrive lo psichiatra canadese R.M. Bucke, autore di un libro sul poeta – “era quella di andare girovagando o oziando all’aperto, solo, guardando l’erba, gli alberi, i fiori, gli effetti di luce, i vari aspetti del cielo, ascoltando gli uccelli, i grilli, le rane canterine, e i mille suoni della natura. Era evidente che tutte queste cose davano a lui un piacere ben maggiore di quello che esse diano agli uomini ordinari. Prima di conoscerlo non mi era mai capitato di vedere un uomo trarre un piacere, una felicità così assoluta da simili cose. Egli era innamorato dei fiori, tanto selvatici che di giardino, di qualunque specie fossero. Egli ammirava, credo, le siringhe e i girasoli quanto le rose. E forse nessun uomo al mondo ha amato tante cose ed è stato indifferente per un così scarso numero di esse quanto Walt Whitman. Tutti gli oggetti naturali possedevano, secondo lui, una grazia speciale. Tutte le viste, tutti i suoni gli aggradivano. Sembrava che amasse (e io credo che li amasse davvero) tutti gli uomini e tutte le donne e tutti i bambini che vedeva (sebbene non lo abbia sentito dire che ne prediligesse alcuno), ma ognuno che lo conoscesse sentiva di essere amato da lui, non meno che gli altri. Non l’ho mai sentito arrabbiarsi o discutere, né mai l’ho inteso parlar di denaro. Egli trovava sempre una giustificazione, talvolta scherzosa, talvolta seria, per quelli che parlavano duramente di lui e dei suoi scritti, e spesso mi parve che l’opposizione dei nemici gli facesse piacere. Quando lo conobbi la prima volta, pensavo che egli si sorvegliasse, non volendo dar seguito al risentimento, all’antipatia, al rimprovero. Non potevo capacitarmi che un individuo potesse essere assolutamente privo di certi stati d’animo. Ma dopo una lunga osservazione, compresi che una tale indifferenza o una tale incoscienza erano cose perfettamente reali. Non parlava mai con asprezza di alcuna nazionalità o di alcuna classe di persone, né di alcuna epoca della storia del mondo, né di alcun mestiere o di qualche occupazione commerciale, neppure di alcun animale, di alcun insetto, né di cose inanimate o leggi della natura, né di alcun effetto di queste, quali le malattie, le deformità, la morte. Non si lamentava mai, né brontolava, sia del tempo, sia dei dolori, delle malattie o d’altre cose. Non imprecava mai. Non l’avrebbe potuto, infatti, poiché mai parlava irritato. Mai mostrò di aver paura, né credo l’abbia sentita mai” (1).
Walt Whitman deve la sua importanza nella letteratura all’avere sistematicamente espulso dai suoi scritti ogni elemento contrattile. I soli sentimenti che egli si permetteva di esprimere erano di ordine espansivo; e li esprimeva in prima persona, non come lo potrebbe fare un qualsiasi individuo mostruosamente pieno di sé, ma in nome di tutti gli uomini, per modo che tutte le sue parole sono pervase da un’appassionata e mistica emozione ontologica, e finiscono per persuadere il lettore che uomini e donne, vita e morte, come ogni altra cosa, tutto è divinamente buono.
E adesso tre poesie di Mario Gabriele da Ritratto di Signora (2014):
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Priscott, ricordi le donne di Venosa
con i piumini gialli e rossi,
come serpenti intorno al collo?
le carezze di Miniù, e la sosta nei metrò:
valigie di panni e di cartone,
con il freddo nei motel
come certi geli di dicembre;
la ragazza che sbirciava
da sotto lo specchio belvedere
le nostre ali d’angeli e di dèmoni,
gli oblò troppo piccoli per vedere il mondo,
e pensare che era una fuga dalla terra
come quei senza nomi sui barconi;
perduto ho il ricordo dei miei cari,
il Longines da tempo non lo metto più,
non s’apre l’azzurro dentro il cuore;
dillo a Betty che il mondo è già cambiato,
che non bastano i cigni dentro il lago
a destare le sirenette sugli scogli,
a riportarci indietro le donne di Venosa.
*
Coprilo di terra il passo mai fatto. Sognalo,
di rimpianto in rimpianto, il lampo che non verrà.
Un freddo balcanico si è fermato
alle porte di Minsk, così che l’inverno
è stato davvero amico delle foglie.
A sentire Wilson non c’è alba
che sia più oscura della sera,
né attimo che duri più di un ricordo.
Cadono a pioggia i giorni del Capricorno.
Si nutrono di terra gli umidi inganni.
Ma ti pare, Wilson, che tutto questo
sia soave tempesta?
Dura l’ombra delle querce
sui nudi rami di gennaio
e sull’epigrafe di Isabel e Oliveira:
– Que Seya Eterno! Meu Amor!-
Così si ricordano i morti,
il mistero della separazione,
l’infanzia e l’esilio spirituale.
A volte rinascono nell’ampolla dei nostri sogni.
Oltrepassano guadi e canyions.
Se ne stanno muti come Cecil
e i pallidi ghosts nell’oscurità dell’assenza,
dove fanno lumicino Fanny e Annabel,
e la Granduchessa di Swedenborg
Ed è grazia sottile rivedere le erbe d’aprile
lungo il fiume salato dei vivi,
fino alla bottega di Wanderbitt e di Edwards,
ultimi writers e poeti,
troppo vecchi per parlare di Dio.
*
Il tuo sorriso non risuona nelle stanze,
e il fiore di Taquinia è un segnalibro nel Codice da Vinci,
più non c’è riparo al volo di pipistrelli,
un giglio dura ancora nel giardino:
errante amore chi ti salverà dalle piogge del mattino?
pure ci abbandonano i velari del passato,
ricordiamoci di Spandau, le fisarmoniche nei cortili,
come serenate al chiar di luna,
nessuno fu mai sé stesso, né visse più d’una farfalla,
fazzoletti di carta ai porti e ai treni, e Schindler’s list,
quel Muro, Dimitrov, troppo lungo di vedette e fil di ferro
ha lacerato il corpo e l’anima, il nostro Novecento;
i villaggi del Mekong, come lumi a mezzanotte,
il male nel codice genetico,
chi l’ha spenta la lampada votiva?
Dal fondo del viale, ecco Witold con le chiavi.
Da Ritratto di signora, Nuova Letteratura, 2014
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In tutto questo fluire di versi, peraltro abbastanza modesti a mio avviso, mi erano sfuggite le tre poesie di Gabriele: non so se NOE o no , non mi interessa dico soltanto che sono poesia vera, piena di immagini folgoranti, ma anche di pathos e di kommos, in un tracciato dalla morte a Dio. in un andamento da mareggiata, da musica travolgente, e una serie di versi memorabili. Dopo le letture precedenti mi sono riconciliato con il Verso, le serenate al chiar di luna,le fisarmoniche nei cortili,, il male nel codice genetico,il mistero della separazione,, l’infanzia e l’esilio spirituale, così si ricordano i morti,gli oblò troppo piccoli per vedere il mondo…voi capite che senza troppi giri di parole qui siamo pienamente nella costellazione poesia..
Tre sonetti di Salvatore Martino con un saggio di Donato Di Stasi
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Da Nella prigione azzurra del sonetto (2002-2009) pubblicata nel 2010
VI
Scivola inerte il piombo nella sera
sopra la carta incisa dalla voce
se la sentenza è solamente atroce
il colloquio di un uomo che dispera
se sfuggire non è che una chimera
la condanna diventa più feroce
l’inganno fu scoperta assai precoce
apparsa sullo schermo veritiera
Quest’inverno incantato che declina
e una scala sull’albero appoggiata
un tradimento intriso di carezze
vanamente una strada d’incertezze
è corenice dal tempo scardinata
nel mare di papaveri in rovina
LIV
Un gabbiano trovai sopra il suo mare
poche miglia distante dalla riva
un ferro l’incagliava e lui soffriva
a un pontile per farsi medicare
I marinai lo sentono tremare
dalla sua bocca il sangue fuoriusciva
nella febbre violenta che saliva
sulla pietra si lascia abbandonare
Ma tornò d’improvviso nel suo cielo
l’oceano era approdo senza fine
nell’illusione d’essere immortale
Non sa che niente al mondo può restare
soltano l’acqua è terra al suo confine
che tramontiamo liberi davvero
XCI
Il tempo che a noi due fu destinato
di viverla morendo una passione
è stato solamente una finzione
un attimo di pietra immortalato
Incontro al tuo delirio ho respirato
ricercando nel nome un’iscrizione
che fermasse un istante l’emozione
la musica fuggita dal tuo fiato
E’ stato così lieve il nostro andare
e così atroce la dimenticanza
la stagione crudele del ricordo
Nella musica suona un solo accordo
l’incanto ha demolito la speranza
nel letto che ha paura di tremare
5. A raccogliere i frantumi eliotiani di questo primo scorcio di secolo, a puntellare le nostre rovine letterarie, sopraggiunge un cavaliere della scrittura, un Alonso Chisciano di origine siciliana, il quale intraprende la folle operazione di mettere insieme 122 sonetti13, incatenati al rimario ABBA ABBA CDE EDC, imponendo a se stesso un ascetico rigore, per riuscire a un’epica quanto maniacale rivitalizzazione del sonetto. Fingendosi attore in un teatro vuoto, Salvatore Martino affida al suo uditorio sei stazioni purgatoriali e paradisiache (Meditatio mortis, L’officina della guarigione. Il viaggio, Politeismi del dio unico, Locus Amoenus, Nel tuo aggrovigliato labirinto, Meditatio Erotikè) per lasciarci ascoltare nel pathos delle strofe assonanze e dissonanze della nostra malandata esperienza, il costituirsi faticoso di memoria e divenire. La forma chiusa richiama costantemente la responsabilità etica dell’autore, il quale costringe liberamente il suo respiro a scandire con profonda consapevolezza le undici battute endecasillabiche, a rispettare il rigido variare delle rime e a dimorare all’interno delle quartine e delle terzine come nei luoghi più avanzati della postmodernità. Altro che passatismo, Salvatore Martino infiamma i territori poetici numerando ogni suo passo, proprio perché non può ignorare l’ossessione numerologica dell’attualità (siamo costantemente indicati e limitati da numeri, attraverso carte bancarie, d’identità e quant’altro). I numeri organizzano l’esistere e i numeri rappresentano una trista prigione, allo stesso modo il sonetto esplica la sua natura carceraria (l’impossibilità di sfuggire al suo schema) e il suo bisogno di rompere la monotonia dell’uguale per avversare il nichilistico eterno ritorno di marca nietzscheana. Se la postmodernità sacrifica l’armonia al rumore, rendendo afasica la voce e infondato il linguaggio, se la postmodernità annega l’individuo nel conformismo e nella ipermassificazione, all’estetica spetta il dovere di avversare l’impero del falso e di ripristinare le condizioni per riappropriarsi della fisicità delle parole e della significante concretezza delle persone:
1
A mezzanotte l’ospedale chiude
s’accettano soltanto moribondi
le porte i corridoi sono profondi
una gabbia che tutto cui preclude
La bonaccia che al porto ci conduce
col vento immaginario la confondi
il futuro è avvitato nei ricordi
Per seguire la chiglia che ci illude
Aspetteremo a torcere la brina
a coprire di nebbie la ragione
la vita immersa dentro il suo ritorno
Verrai con me nell’alba di quel giorno
che i malati saranno un’illusione
una fiumana scesa alla collina14
Salvatore Martino ri-musicalizza una lingua prosaicizzata, detonalizzata: dal suonorumore al canto si dispiega l’evento-voce che partecipa della realtà intima dell’essere. Musicalità come significazione matura, riflessione sulle regole della composizione, fenomenologia dell’armonia possibile fra la carne dell’individuo e le pulsioni collettive astratte.
Salvatore Martino concede poco al lettore disattento, né tenta di fornire salvezze di comodo; come Prometeo si espone alla rupe caucasica per farsi divorare il fegato e assumere su di sé tutte le ingiustizie che subiamo. Se ricorre a eros non è per macerare il dolore nell’estasi sessuale, ma per evidenziare le forze oscure che
possono parlare solo attraverso la poesia: eros come potenza in lotta con se stessa e con il desiderio che sale dalle viscere e attraverso la gola si fa canto; eros con le sue sonorità oscure, ombrose, palpitanti, che graffiano rabbiosamente la coscienza e il corpo (chi crede di denigrare il sonetto come edulcorata poesiola in rima per anime belle, è servito); eros come necessità dolorosa di uscire da sé, di negare se stesso nel vasto corpo della realtà (“le tue labbra o il torace o le parole/l’incontro delle cosce o il tuo sorriso?/erano il mio perverso paradiso”)15. Tutto pur di sfuggire al desiderio agonizzante e contiguo alla morte e alla cancellazione, tutto pur di portare ancora una volta con le mani bianche del poeta lo slancio invocatorio che nella corporeità cerca la bellezza distrutta.
Abile fabbricatore di stanze, aggettivabili come epiche e narrative, amorose e parnassiane, mai statiche, in virtù di un aspro e rotondo uso dell’enjambement. Di
strofa in strofa si intrecciano rime e discorsi, fonicamente, lessicalmente e metricamente vincolati a determinare la conciliatio oppositorum di artificio prosodico
e libertà espressiva, di didascalie esplicative e oscure allusioni alla maniera andalusa, di sequenze ineccepibili e ambigue indicazioni narrative. L’intento
poematico si rivela da sé, ça va sans dire, in una corona di significati tragicamente composti e regolari, secondo il progetto di un parlato alto, che raccoglie un coerente impegno etico, una dolente ripresa metafisica e una caduta pilotata nella purpurea buca di eros. Salvatore Martino non vatesca, né gluisce, nemmeno barigatta strofe come se fosse a una commemorazione dei defunti, al contrario vivifica e rinnova: in mezzo ai succhi gastrici delle sue quartine e terzine digerisce e assimila un’epoca intera. Nella prigione azzurra del sonetto possiede la forza propulsiva per un nuovo inizio della poesia.
Nereidi, 24 dicembre 2009 Donato di Stasi
a proposito dell’innominabile nella «nuova ontologia estetica»
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Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende, ma che ogni tanto, viene
inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò
quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere
inteso,
disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient’altro.
(Thomas Bernhard – Perturbamento)
La rappresentazione poetica è quanto scompone letteralmente il soggetto parlante, quanto lo pone cioè nella condizione costitutiva che possiamo definire di impotenza alla nominazione, molto simile a ciò che accade nella teologia apofantica. Perché Das Ding è lì, dentro, al centro del soggetto come un “vuoto causativo”, oltre la regolazione omeostatica del principio di piacere e dei suoi tracciati; sta lì come un vuoto tangibile e innominabile. Sta lì cioè come testimone della delusione del desiderio, del suo non avere pace, delusione che si esprime in una ripetizione del bisogno che è un bisogno di ripetizione. E quando Lacan indica nella sublimazione l’operazione che eleva un oggetto alla dignità della Cosa, non fa altro che denunciare, insieme a Freud, l’effettiva illusione di cui il desiderio e, più in generale, il percorso della civiltà sono intrisi.
L’oggetto, per quanto sia bello, non è tuttavia mai questo, non è mai la Cosa. Ecco a cosa mira Lacan.
Esso arriva sempre dopo o in anticipo rispetto al compito che gli si domanda di assumere.
«Crediamo che le cose siano lì, al centro, solide,
stabili, in attesa di essere riconosciute, e che il
conflitto sia ai margini. Ma che cosa insegna
l’esperienza freudiana, se non che ciò che accade nel
cosiddetto campo della coscienza, cioè sul piano del
riconoscimento degli oggetti, è altrettanto ingannevole
rispetto a ciò che l’essere cerca? Benché sia la libido
a creare i diversi stadi dell’oggetto, gli oggetti non
sono mai questo […]. Il desiderio, funzione centrale di
ogni esperienza umana, è desiderio di niente di
nominabile»1]
L’ordine della rappresentazione prodotto da vuoto causativo della Cosa segue la via del significante, e cioè si installa nella dialettica della presenza e dell’assenza. Più il poeta nomina e introduce la presenza, più egli scava l’assenza. Più il desiderio del soggetto scava in direzione dell’innominabile e più fa esperienza del suo annichilimento, si trova scalzato, allontanato dal nucleo del suo essere. Annichilimento che riguarda in primo luogo la parola, in quanto desiderio di nominare, di nominarsi. Ma una volta in prossimità dell’innominabile non c’è che silenzio e ammutolimento. Per questo, come sovente si dice, la bellezza “lascia senza parole”.
1] J. Lacan Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti I, p. 278
Mi erano sfuggite in questo procedere di versi , i due testi di Mary Colonna notevoli, soprattutto il secondo, personalissimi e densi di pathos e di kommos. Una profondità del dettato poetico,, in un disperato anelito di libertà, sottolineato da folgoranti immagini .
Caro Salvatore Martino, lei mi sa incantare
quasi quanto il Pascoli.
Grazie, caro Salvatore…ti ho risposto verso la fine degli interventi. Comunque ripeto:la tua presenza è importante, tu sei un vero poeta e amante della Poesia!
Mariella
mi associo a Salvatore Martino pe l’entusiasmo con cui ha accolto le poesie di Mario Gabriele qui postate. Un verso come questo racchiude un universo di immagini e imprigiona per donarlo un pezzo d’anima del poeta e uno stato dell’anima di tutti:
“gli oblò troppo piccoli per vedere il mondo,”
e poi, l’ineluttabile, ciò che avremmo potuto e voluto fare che ormai no sarà più…mai più. E il lampo di vita che non verrà, ma che possiamo sognare:
Coprilo di terra il passo mai fatto. Sognalo,
di rimpianto in rimpianto, il lampo che non verrà.
Un freddo balcanico si è fermato
alle porte di Minsk, così che l’inverno
è stato davvero amico delle foglie.
e il ricordo dei morti delicatamente associato alla vita della natura e ricordare l’amore attraverso le parole di un’epigrafe mortuaria:
Dura l’ombra delle querce
sui nudi rami di gennaio
e sull’epigrafe di Isabel e Oliveira:
– Que Seya Eterno! Meu Amor!-:
E la grazia della parola nel ricordare le erbe d’aprile “lungo il fiume salato dei vivi”:
Ed è grazia sottile rivedere le erbe d’aprile
lungo il fiume salato dei vivi,
fino alla bottega di Wanderbitt e di Edwards,
ultimi writers e poeti,
troppo vecchi per parlare di Dio.
e l’ironia mista a tenerezza, a pietà, nell’ultimo verso.
Non ho altre parole, caro Gabriele, soltanto “grazie”!
Mariella
Caro Mario Gabriele, per me è una gioia leggerti!
…la ragazza che sbirciava
da sotto lo specchio belvedere
le nostre ali d’angeli e di dèmoni,
gli oblò troppo piccoli per vedere il mondo,
e pensare che era una fuga dalla terra
come quei senza nomi sui barconi;
perduto ho il ricordo dei miei cari,
il Longines da tempo non lo metto più,
non s’apre l’azzurro dentro il cuore;
dillo a Betty che il mondo è già cambiato,
che non bastano i cigni dentro il lago
a destare le sirenette sugli scogli,
a riportarci indietro le donne di Venosa.
Le tue parole creano una tensione lirica, dove la percezione del vissuto si smaterializza, diventa quasi metafisica, eppure sembra che si possa sfiorare con le dita. Sei magico, Gabriele: la nostalgia è tenerezza, i sentimenti prendono corpo, evitano qualunque caduta nel già detto, le parole rinnovano le cose le riempiono di te, della tua vita che invano tenti di nascondere per pudore delle tue emozioni. Quando parli dei morti, poi! Non li metti da parte, non cerchi di dimenticarli perché non turbino i tuoi sogni, anzi:
A volte rinascono nell’ampolla dei nostri sogni.
Oltrepassano guadi e canyions.
li tieni stretti nell’anima associandoli ai vivi:
“Ed è grazia sottile rivedere le erbe d’aprile
lungo il fiume salato dei vivi,”
….la “grazia sottile” è nella tua anima, Mario, nella tua poesia.
Grazie. Mariella
Cara Mariella,sei veramente una speleòloga della poesia.Tu scavi nel fondo di un tunnel per portare in superficie il senso dei versi..Questa dote è pari alle tue poesie, che trovano una giusta misura all’interno della NOE. Ti ringrazio sinceramente per questo tuo contributo interpretativo, che d’altronde svolgi anche nei confronti di altri poeti.Un caro saluto. Mario.
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Adesso capisco la mia indifferenza verso il poeta de Foglie d’erba. Mi meravigliò non poco quando lessi che Osip Mandel’stam amava le poesie di Whitman. non ho mai amato i poeti “ottimisti”, e Whitman era affetto da una sindrome di inguaribile ottimismo. Amo l’ombra delle cose, ciò che sta in ombra, l’ombra delle parole.
I poeti come Whitman non sono solo ottimisti.
Hanno anche il difetto di riuscire a vedere bellezza
in ogni cosa che guardano.
Detto questo, a me Whitman diverte
tanto quanto un fumetto.
Cito Giorgio Linguaglossa, caro maestro e amico:
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“non ho mai amato i poeti “ottimisti”: beh, questo mi dispiace, perché io sono un poeta ottimista, cioè lascio sempre aperta una benché piccola- luce di speranza: perché lasciare nel lettore una scia di amarezza, di visione negativa del mondo? Essere ottimisti non significa non amare l’ombra delle cose e delle parole: ricordi i bellissimi versi, pieni di malinconia di Borges in “Elogio dell’ombra”:
“…Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglia e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e di tutti gli ieri del mondo,
la ferma spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti, il condiviso amore, le parole,
Emerson e la neve e tante cose.
Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono…”
Anche io, pur essendo moderatamente ottimista, amo l’ombra delle cose e delle parole…e anche la penombra che fa sognare…
Mariella
Caro Martino, ti ringrazio del commento che ho gradito moltissimo. Capisco il tuo DNA poetico proveniente dall’inconscio e dal subconscio o da qualche altra stanza junghiana che apre le porte alla poesia come tu la intendi e alla quale, nelle mie esperienze precedenti non mi sono sottratto. Fare poesia oggi è estremamente difficile e non ti nascondo il pensiero che perseverare ancora con questo stile, si corre il rischio di non essere più ascoltati. Tu potrai anche dire che la poesia quando è tale rimane un gioiello. E’ vero! Nella mia più recente proposizione poetica cerco di non disarticolarmi completamente dal mio precedente modo di scrivere, abbinandolo ai canoni già galvanizzati dalla NOE. Bisogna andare avanti. Creare altri sistemi perché la poesia, sin dal suo primo nascere nella Scuola siciliana, passando per i secoli, e fino ai nostri giorni, ha subito trasformazioni eccezionali. “Per fare importante un poeta basta un’importante dote poetica: ma per fare un grande poeta anche un’importante dote poetica è poco: occorre un’equivalente dote di personalità, della mente, dell’anima, della volontà: e l’indirizzamento di tutto questo insieme verso un obiettivo definito, ossia un’organizzazione di tutto l’insieme”. Sono parole di Marina Cvetaeva, tratte da l’Almanacco dello Specchio n. 4, 1975, pag. 39, che definiscono molto bene il fare poesia. Un cordiale saluto.
Caro Martino, quando ho scritto questo mio commento non avevo letto i tuoi sonetti, che confermano quando ho scritto, e che Giorgio, con acuta sensibilità, ha voluto esporre.
Rettifico: Caro Martino quando ho scritto questo mio commento non avevo letto i tuoi sonetti che confermano il mio giudizio sulla tua poesia ecc. Scusami.
Ti ringrazio per le tue parole caro Gabriele. Anch’io comunque cerco di andare avanti con la scrittura, ovviamente non produco più sonetti.,tornato al verso libero. In passato ho molto scritto secondo canoni che si avvicinano al frammentismo della NOE, e in seguito ho attraversato cammini diversi. Non posso giudicare dei miei risultati ovviamente,, di una cosa soltanto sono sicuro :l’assoluta fedeltà al mio mondo interiore, alla mia visione del mondo.Tutti noi speriamo di essere visitati dalla poesia e se questo talvolta accade dobbiamo esserne felici.
Caro Salvatore, sei unico in tante cose: in come sai esprimere poeticamente i tuoi intensi e profondi sentimenti, nella tua sincerità e lealtà verso te stesso e verso gli altri…qui, stasera, mi accorgo che oltre ad essere unico, sei l’unico che ha detto parole (e che parole!) sulle mie due poesie, gentilmente pubblicate da Giorgio senza che io ne sapessi nulla; in questa ritrovata stagione di poesia la tua presenza mi aiuta a dimenticare tanti addii a persone care scomparse, tante freddezze e mancanze d’amore in persone presenti (e assenti). Grazie, Salvatore. Sonetti come i tuoi…mi fanno pensare a scrigni che contengono oggetti preziosi: c’è un senso di compiutezza che però lascia liberi i pensieri d’inseguire luci, ombre, sogni, cose persone ricordi che sono forgiati con sapiente passione, ma non imprigionati dalle parole e dalla scansione rigorosa dei versi.
Grazie ancora, Mariella
Ringrazio Mariella per la sua forza spirituale, unificante e quanto mai stimolante, l’entusiasmo attento e intelligente in cui convivono l’acuta e puntuale lettura critica e l’adesione sentimentale, la capacità rara e discreta di cogliere in ognuno lo specifico, la scrittura poetica semplice ma cristallina con cui cerca sintesi di purezza narrativa ed espressiva, infine la generosità esemplare a cui dobbiamo tutti essere grati. Oltre le sterili dispute su presunti primati poetici o culturali, è salutare lasciarsi attraversare dall’onda del tempo. Come un bagno di Natura, che accende la coscienza di essere solo creature.
Carissimo Claudio, il buono e generoso sei tu ad attribuirmi tante belle qualità: stai proiettando te stesso sul mio ritratto psicologico. Comunque grazie di cuore: spero che Giorgio decida la programmazione del mio commento ai tuoi scritti poetici su “L’ombra delle parole” così ne parliamo insieme agli altri, anche in presenza di Salvatore Martino, di Chiara Catapano, di Mario Gabriele e di Letizia Leone e tutti i poeti che vorranno partecipare.
Grazie ancora, Mariella
Per chi è interessato alle traduzioni in francese della poesia italiana, allego questo link:
http://www.recoursaupoeme.fr/essais-chroniques/amont-d%C3%A9vers-5/j-ch-vegliante
Piùcheframmenti epicolirici di
Mariella Colonna
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Quando Evelyn fuggì
dalla poesia di Mario Gabriele
il mare si agitò con onde fino a tre metri
vento e tempesta, ci furono terremoti
in varie parti della terra. Uno sconvolgimento
apocalittico mai avvenuto prima.
Poi tornò la calma e scese la notte,
ma soltanto perché la giovane donna Liberty
confessò ad Odette che la sua era una fuga d’amore.
Odette allora la fece entrare dalla “finestra del corvo”.
“Peccato, stavi così bene nella poesia di Mario!
Una vera signora del Destino. Sembravi felice…
Raccontami tutto.” “Adesso no, aspetta”
disse l’evanescente “sono troppo scossa.
Cerca di capire. Mi sentivo così sola”
la voce di Evelyn scorre lieve come un ruscello
“e poi amo questa casa con la galleria di quadri
…e poi” – la voce si fa profonda – “Il Signor K
mi fa impazzire” “Vieni, Evelyn, andiamo in galleria”.
Incontrano il Signor K. Evelyn si appoggia al tavolo
si sente svenire: “Guardate il mare” grida “esce
dalla cornice del quadro!”, il mare sta per travolgerla.
Il Signor K, il volto coperto da una maschera da Signor K,
accorre, la difende con il proprio corpo… il mare esce
dalla finestra, rumoreggiando. Scena di pura follia surreale
come in un quadro di Magritte, anche perché,
d’un tratto, è il sole a schizzare fuori dal quadro:
una palla di fuoco, che il Signor K non può trattenere,
il quale a sua volta esce dalla finestra a velocità inimmaginabile
e si colloca al giusto punto del cielo: la notte diventa giorno
e fuori splende blu-cobalto, il mare.
Entra in scena Lucio Mayoor. Odette dice,
ancora un po’ sconvolta: “Salutiamo l’autore
dei quadri viventi!”.
“Veramente io vengo qui in qualità di poeta!”.
“Ma come, Lucio” esclama Odette “non siete voi
l’autore di questo quadro?” – “No, cara Odette,
è Giorgio Linguaglossa!”, “Il poeta?”
“E critico, sì, proprio lui.” – “Ma è anche l’autore
della poesia in cui ci troviamo?” – “Più precisamente
della poesia nella poesia! sì, è proprio lui.”
Evelyn (tra sé). Che ci sto a fare io, qui? Il Signor K
non ha alcun interesse per me!
“Sbagliato! Io sono qui per voi, Evelyn.
“Come avete fatto a leggere nei miei pensieri?”
“Mia cara, qui tutto è possibile!”.
I due si baciano e volano via dalla finestra
tenendosi per mano, come gli Innamorati di Chagall.
“Evelyn… che c’è? Mi sembri turbata. Non sei felice?”
“Vede, Signor K, lei mi piace molto ma…” – “E allora, parla
Dimmi tutto..” “insomma, io, in realtà, io non la conosco,
non so chi è lei!”
Il Signor K si toglie la maschera da Signor K…
“E invece mi conosci! Sono Mario Gabriele,
colui che ti ha dato un nome!”
Mario Gabriele cerca di sostenere Evelyn
che svolazza verso il basso,scossa dalla rivelazione.
Alla fine caddero in mare. Quel mare che era fuggito
dal quadro di Giorgio Linguaglossa: tornò nella cornice
insieme a loro. E così fu ristabilito
l’ordine cosmolinguistico. Soltanto il sole
non volle tornare indietro, disse che di mari ce n’erano tanti
di soli uno (solo) e restò inchiodato in cielo
nella sua posizione di sempre.
Tutto questo avvenne nella poesia di Mariella Colonna ispirata a poeti, personaggi e “cose” della storica NOE.
Commento improvvisato di Giorgio Linguaglossa
Beh, cara Mariella Colonna, qui hai raggiunto l’apice della leggerezza della «nuova ontologia estetica»! Come in un vaudeville, in una commedia degli equivoci, nella poesia ci sono persone vive in carne ed ossa: ci siamo io, tu, Lucio Mayoor Tosi, Mario Gabriele, un mio personaggio: il Signor K.; un personaggio di una poesia di mario Gabriele: Evelyn; c’è un innamoramento; sembra di stare in un ballo in maschera!, non ci si capisce più nulla, sembra di stare tra Colombina e Pierrot e Arlecchino!, e c’è anche Odette, che è un personaggio di romanzo e di una tua poesia!, e c’è una gran confusione, tutti sembrano andare a passo di danza… e poi c’è il «quadro» di una mia poesia, e il «mare» che entra ed esce dal «quadro», e il «sole» che, invece, se ne sta lì al centro a brillare… insomma, siamo tra l’onirico e il fantastico, siamo in un tempo senza tempo e in uno spazio senza spazio.
Poesia esilarante ed entusiasmante!
Cara Mariella,
ne verrebbe un bellissimo cartoon. Sul finale ci sta benissimo Giorgio Linguaglossa, sommerso dalle carte. E il mezzo panino.
L’arte del riciclo letterario è oggi possibile (e forse anche auspicabile).
E vada per il cartoon! Mi diverte l’idea del finale con Giorgio Linguaglossa alla scrivania in un mare di carte! Però non mi dici quasi mai che cosa pensi delle mie poesie…
Mariella
Cara Mariella,
senza dubbio le voci che ti abitano sono molte e canterine. A volte mi fai sentire in un mondo incantato, ma similvero quando come tutti noi approdi sul terreno di un significato (da sfidare). Perdona ma in questo periodo sto proprio considerando queste voci, che sento anch’io, perché mi arrivano troppo repentine. Finanche aggressive nella loro innocenza. D’altra parte, di qua dal vuoto sembra regnare un sentimento inespresso; a cui si tenta in mille modi di porre rimedio scartando la consolazione e sua sorella la speranza… Ecco dove osservo la mancanza delle parole: vorrei che apparissero malgrado le voci. Giorgio dice che non possiamo sottrarci al logos e al simbolico, ma io mi trovo in sosta su questo terreno. Per questo non commento tanto, come pur facendo complimenti sinceri a Mario Gabriele mi trattengo dal commentare le sue poesie; anche perché nelle sue mi arriva forte l’ombra scura di quel sentimento oscuro. Il quale si presenta indiscutibile…
Caro Lucio, non so perché in questo periodo non fai che punzecchiarmi: “voci canterine”, poesia “da cartoon” etc. etc. Io , a dire il vero, non ti capisco, ma non importa, siamo tutti molto molto diversi e questo è il bello nella NOE. Tu, nelle mie poesie non trovi significati da sfidare come (si trovano) in tutti voi (voi chi?). Ma quante mie poesie conosci? Insomma io sarei l’unica che non scrive poesie con significati da sfidare.
Prima di tutto non si tratta di un duello né di una guerra.
In secondo luogo i significati non si trovano se non ci si apre ai significanti e messaggi che si leggono nelle poesie. Tu non li trovi perché non li cerchi CERCANDO DI METTERTI NELLA PROSPETTIVA DI CHI SCRIVE. Comunque io credo che la poesia NON DEBBA fare nulla per partito preso: la poesia è come una sorgente che scorre misteriosamente attraverso noi. La poesia è un nobile “gioco” molto serio anche se fa sorridere perché l’ironia, se sappiamo leggerla e percepirla, è uno degli esercizi più alti della mente umana. Trovo il tuo commento alquanto oscuro e poco comprensibile. Se vuoi i significati cercali nelle risposte che ti do. Per esempio nel commento su quanto hai detto sulla “scrittura lineare” del Rinascimento e del Barocco, in relazione alle grandi novità della NOE.
Caro Giorgio, mi sono molto divertita a scrivere questa poesia e il mio pensiero era, soprattutto, diffondere un sorriso tra noi della NOE impegnati in una lotta senza quartiere per riaccendere il lumino (non dico la luce) della ragione nelle menti delle persone frastornate dai media e dalla pubblicità televisiva, per non parlare del P.U. (pensiero unico).
Quanto alla mia leggerezza e ai giochi di fantasia , molto è dovuto a te, alla tua lirica “Un corvo è entrato dalla finestra” che mi ha colpito e l’ho anche commentata per la dinamicità delle situazioni e quegli oggetti che diventano non soltanto “cose”, ma “cose animate”. Poesia con una forte componente surreale la tua, che potrebbe essere illustrata da de Chirico, Savinio e, naturalmente, da Lucio Mayoor che ha già avuto una bella idea su un possibile cartone animato che si conclude con te alla scrivania, sommerso dalle carte. La NOE, se liberiamo ironia, mente cuore e immaginazione, può diventare una fucina di idee: è affascinante navigarci dentro! Poi devo molto alle poesia di Mario Gabriele: vedi, il personaggio di Evelyn, nasce da una serie di raffinate connotazioni, direi pennellate che Mario sa dare con grande maestria non soltanto ai personaggi, ma anche alle atmosfere, ai climi sociali e letterari in cui si muovono, a volte ho impressioni di “dejà vu”, di stare insieme alle dame che lo accompagnano nei pomeriggi e nelle sere dell’intrattenimento mondano, tra the e Mostre d’arte, dame tratteggiate con simpatia, ma talvolta sferzate ben bene con l’arma, sia pur gentile,dell’ironia con cui si difende perfino da impercettibili sfumature di sentimentalismo..
Grazie, Giorgio, del tuo stimolante e anche divertente commento! e Grazie a Gabriele, che spero gradisca l’interesse di Evelyn per lui! Mi raccomando, Mario, non farla soffrire, se ne hai l’occasione, offrile almeno un the freddo…
Mariella
Mariella, sei insuperabile con le simpatiche raffigurazioni di Evelyn. Sai, proprio oggi, al Caffè Bonnard ho rivisto Evelyn e l’ho invitata a prendere un Whisky e Soda. Nella conversazione che ne è nata, alla fine lei mi ha detto, prima che cominciasse a far foschia:”many a day has passed since then,” frase che ti confesso, subito ho riportato in una mia nuova poesia.
Caro Gabriele, credo che tu sia entrato nella forma più alta del gioco poetico, quella in cui non si comprende se il gioco è gioco o è realtà. Ti confesso che non oso scegliere per l’una o l’altra ipotesi, comunque validissime tutte e due perché formulate da un’intelligenza sottile e ipercreativa che non vede poi differenze così grandi tra immaginazione e realtà.(A volte la realtà supera l’immaginazione. Solo a volte, però.)
Gabriele…ma davvero incontri questa Evelyn al caffè Bonnard?
Domanda sciocca…perché so che non mi risponderai.
Che bello stare insieme nella NOE!
Nella poesia che si fa oggi vale un unico motto: Loquor ergo sum,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/01/antologia-n-2-nuova-ontologia-estetica-poesie-inedite-di-pavel-arsenev-1986-e-ryszard-krynicki-1943-adeodato-piazza-nicolai-e-giuseppe-talia-traduzioni-di-paolo-galvagni-e-paolo-statuti-co/comment-page-1/#comment-23380
parlo dunque sono. L’«io» si auto produce per partenogenesi e si riproduce come una metastasi invincibile: la poiesis è diventata una metastasi che si autoproduce e si diffonde il tutto il corpo della poesia. Non è neanche di plastica la «poesia» che si scrive oggi, è un chewingum che si mastica e si mastica e sta sempre lì… Magari si avesse il coraggio di fare una «poesia di plastica» come quella che confeziona Gino Rago!, ma lì occorre del talento!, e invece ci si accostuma a fare una poesia-chewingum…
Certo, la grammatica garantisce un ordine, una ratio, una civiltà.
Essa può essere da tutti adottata. La sintassi è la legislazione della lingua, è il patto che tutti i cittadini devono rispettare. Sempre più spesso, leggendo la poesia dei miei contemporanei, mi chiedo se la «poesia» voglia veramente essere compresa da tutti. Il vero problema è se mai si potrà continuare ad esprimere nello pseudolatino internazionale del minimalismo dei nostri tempi i drammi dei tempi nuovi, la vita delle nostre città, i conflitti interpersonali tra gli uomini, la moltiplicazione dei conflitti armati, la mutazione indotta dalla rivoluzione mediatica in atto, l’esodo di intere popolazioni. Le idee e i conflitti di questa età devono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine costituzionale di Augusto l’aveva trovato in Virgilio e il volgare di Dante aveva espresso i conflitti della civiltà delle città-stato.
Ma c’è oggi un nuovo «ordine»?,
c’è una lingua da adottare come linguaggio poetico?, non è già diventato l’italiano poetico in auge una lingua artificiale?, mi chiedo se non siano diventati anche i linguaggi poetici in idioma altrettanti linguaggi artificiali. Impossibile – mi si risponde – perché essi affondano nella matrice matria, radicati, «prima» di ogni parola nella nostra infanzia. Dobbiamo davvero credere a questa leggenda? Dobbiamo ancora credere alla deità di una lingua inconsapevole dell’infanzia?, dobbiamo ancora credere alle tesi prescientifica espressa da Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia secondo il quale insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami?. Non c’è nessuna forma locutionis che ci è data per legato testamentario o per eredità, ogni nuova generazione deve lottare, ogni giorno, contro i conformismi della propria cultura e contro i truismi della propria lingua per potersi esprimere con un linguaggio forte e autentico.
Il problema della poesia di oggi è che abbiamo a disposizione, gratis e disponibile a tutti, un medio linguaggio poetico che è diventato un linguaggio artificiale, conformistico, clericale, creato da clerici per altri clerici, non idoneo ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo; ci si accontenta di translitterare le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, i reumatismi dell’io, le tematiche edulcorate del cuore, il paesaggismo trito e triviale, il quotidiano più becero, la corporalità. E a tutto ciò si dà il nome di poesia.
E’ partita la typeart di Lorenzo Marini, un genere innovativo al punto da poter segnare un’epoca (da “ROBINSON”, l’allegato domenicale di La Repubblica) e con essa sta dando i primi, già sicuri passi, il
MOVIMENTO PER LA LIBERAZIONE DELLE LETTERE
1. Le lettere sono nate libere e come gli uomini sono creature sociali ma anche individuali. E’ tempo di celebrare la bellezza della geometria che le
compone e lasciare il gregge della tipologia alfabetica.
(…)
4. Le lettere possiedono una loro bellezza intrinseca, che va celebrata, evidenziata, resa manufatto artistico. Ogni lettera deve diventare un’opera
d’arte, coniugando design e istinto, tecnica e ironia, cartoon e associazioni spontanee.
5. Le lettere sono frammenti di un caleidoscopio immaginifico e rutilante.
Il sempre eterno movimento, che solo gli occhi capaci di stupirsi possono cogliere. Esse sono la nostra rivincita sul grigio della malinconia, sul nero
della logica, sula nebbia delle percezioni…
(Seguono altri punti )
Liberando le lettere, liberiamo le parole. Liberando le parole libereremo la poesia “nuova”. ..
E quando Giorgio Linguaglossa nel suo commento precedente sostiene che
“Il problema della poesia di oggi è che abbiamo a disposizione, gratis e disponibile a tutti, un medio linguaggio poetico che è diventato un linguaggio artificiale, conformistico, clericale, creato da clerici per altri clerici, non idoneo ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo; ci si accontenta di translitterare le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, i reumatismi dell’io, le tematiche edulcorate del cuore, il paesaggismo trito e triviale, il quotidiano più becero, la corporalità. E a tutto ciò si dà il nome di poesia.”
tocca il midollo della crisi della nostra poesia.
Segnalo a me stesso con gioia che Mary Colonna nei suoi nuovissimi versi su Evelyn in fuga sta prendendo coscienza del fatto che le lettere e di riflesso le parole non sono più delle “semplici api operaie” destinate a restar per sempre tali, ma possono farsi tutte api regine per un miele poetico nuovo.
Su questo stesso sentiero si stanno muovendo in tanti/tante della NOE, in particolare Edith Dzieduszycka. nel poema Loro, Francesca Dono, Donatella Costantina Giancaspero la quale, nel corso della lettura della sua poesia “Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi” al Castello di Sorci, in Anghiari, nell’ambito della Rassegna poetica magistralmente curata da Vito Taverna, seppe addolcire i nostri sguardi, aprendoli e spingendoli verso un
mondo “nuovo”.
Gino Rago
Sono disorientato, non per il racconto che colpisce ed è ben scritto, ma al pensiero che della poesia sia rimasto l’andare a capo, quasi che questa sia rimasta la sua ultima impronta, la sua solo visibilità tra i generi; cosa che per altro abbiamo ereditato…
E così, alla fine, una antologia, la numero 2, è passata quasi inosservata. Forse è mancato, da parte dei poeti presentati, un inizio o indizio di discussione. Mettiamola pure così. Tanto che a seguire, nei commenti, si è sentita la necessità di rinforzare la discussione con altri testi di altri autori. E come d’incanto, ecco che le lucciole si sono illuminate: “grazie per essere stato/stata attenzionato/a”.
Posto che, per quel che mi riguarda, la selezione “lunare” voluta dall’amico Giorgio, con quel non so di “presa per i fondelli” della beneamata luna, che ben ci sta nelle corde della NOE, sia giustamente passata inosservata (esercizi di somministrazione di bevande edulcorate), la sestina dedicata a Guido Oldani (poeta che stimo) avrebbe forse meritato una certa occhiata, in quanto essa sestina si inserisce pienamente nella discussione aperta da Giorgio circa l’uso degli aggettivi. E a questo punto chiedo ai poeti, ma “Flacco”, nell’incipit del testo, è un aggettivo oppure è un nome?
Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Ora io leggo FIACCO. Sarà stato corretto. Ma forse Giudo Oldani non è stimato altrettanto da tutti. Un po’ te lo devi aspettare, Giuseppe, che a prescindere dalla preziosità delle sestine si guardi alla scelta degli autori. E’ sbagliato ma così, penso, farebbe anche il lettore medio, sempre ammesso che esista. Almeno fintanto che non entra nel libro.
Ho messo negli strilli colorati “Cambiava i grumi delle tue pupille / Il limone giallo t’assomigliava / Magro come un gambo di nebbia”.
Quel “gambo di nebbia” secondo me vale mille aggettivi.