LA MANTIDE E IL CAVALLUCCIO MARINO
di Chiara Catapano
La coppia più audace e longeva del mondo, Eros e Thanatos, come tutte le coppie del mondo, è soggetta al pettegolezzo. E più d’altre vi si espone, fraintesa, mal capita, erroneamente interpretata. Da psichiatri, filosofi, esteti, poeti. Non passa giorno che qualcosa sfugga o indebitamente vi si associ dell’altro, per eccesso di zelo, per narcisismo, per incapacità, per ostinata passione. Spesso sono le migliori intenzioni a tradire questa coppia.
Spinosissimo parlare di poesia erotica – spinoso in generale parlar di ogni cosa in arte, in tempi in cui il giudizio è sospeso, macchia d’olio nel mare del web. Ma bisogna provarci, con tutte le lacune che potranno rimanere aperte, o che si potranno – fresche – aprire; perché insomma un po’ d’ordine va fatto. Un po’ di chiarezza: così come non tutto ciò che viene scritto con audaci ‘a capo’ è poesia; e di quanto rimane nel setaccio, non tutto ciò che si denuda è erotico.
La poesia di D. H. Lawrence, tradotta da Trinita Buldrini e Steven Grieco-Rathgeb, ha accompagnato in noi tre considerazioni su cosa sia l’eros in poesia. Va chiarito da ben inizio che non su criteri di “bello” o “brutto” qui ci basiamo (che quelli già la fine dell’800 li ha – fortunatamente! – scardinati mettendoci tutti gambe all’aria), bensì ci appelliamo al sacrosanto diritto/dovere di riconoscere (e defenestrare) il banale in letteratura, il tossico nella vita. Il trito e ritrito. La scopofilia.
La banalità, sissignori, esiste. Striscia sempre sulla superficie, non s’immerge. Tanto più rischioso quando si associa il gesto artistico all’eros. L’atto carnale è di per sé solo una parte del movimento erotico; ridurre dunque un testo all’anatomia di un amplesso è proprio come ridurre, per riprender la metafora di sopra, una poesia ai suoi a capo.
Ma è la civiltà dei consumi, dove i corpi stessi vengono a loro volta consumati nella loro smania di realizzazione: corrosi, per raggiungere un’acme, una postura effimera – E Letizia Leone, nelle sue poesie erotiche mette in luce proprio questo aspetto. Come nel suo “La disgrazia elementare” chiarisce la natura esasperata dall’umano, la fine imminente, “la fossa tossica/e ai margini un orto/per insalate di malve e asfodelo”, altrettanto le sue poesie erotiche sono immersioni e riemersioni nel consumo della carne, indagine dentro l’umano che non si sente più parte di un tutto. Al limitar del bosco, dove la donna riesce a cantare con voce propria il tempo dell’amore di lattice.
Questa è poesia erotica che chiarisce i tempi in cui viviamo: l’essere umano con la sua distopica visione di sé, il suo collocarsi altrove rispetto al resto del mondo. Pezzi da usare. Ma dove queste immersioni non avvengono, dove i versi si dedicano alla parola eiaculata a forza come autoerotismo davanti ad un film porno, cade il palco, cade l’eros, cade ogni utilità. Banalità e cattivo gusto si sfiorano, e non mi si parli di gusto personale. Perché per carità, è lecito ci si dedichi anche al banale: basta saperlo.
Erotismo non è una questione di eiaculazioni e ditalini, per spiegarsi chiaro. Eros ha sempre la capacità di aprirci al mondo, e non ci chiude nel piccolo, angustissimo mondo delle scopate e dell’uso dei corpi. Della fermentazione dell’ego. Ciò che continua a stupirmi, nel leggere poesia erotica è la miope condiscendenza ai propri genitali: davvero la percezione è che sia tutto lì, l’eros? Che sia lì l’indicibile forza e la creatività? Davvero è così difficile comprendere che essa esiste prima di tutto nella natura di cui il nostro corpo è parte?
Ridurre il corpo al corpo è la deriva dell’inutilità cui ci ha condotti la schiavitù antiecologica dei consumi. Per denunciare, suvvia, non basta citare. Ho tirato in ballo Eros – Thanatos per riportare il punto alla partenza. Per iniziare con un punto: Eros non è – solo – propensione sessuale, ma sensualità contrapposta a Thanatos. Così mentre Thanatos distrugge per rimettere in circolo, Eros raccoglie e spinge verso la creatività, l’istinto creativo, la spinta a generare (che sia la propria discendenza o l’opera d’arte).
Nella poesia di D. H. Lawrence l’eros si realizza pienamente, e noi siamo portati, sollevati, eccitati alla corsa, a disperderci fiduciosamente nel mondo. Vi è la gioiosa affermazione del corpo naturale, degli sfioramenti, delle penetrazioni, del mistero. La cromatica gioiosa della sessualità, la naturalità che vive nelle fibre nostre, così come in ogni pertugio di vita nel mondo.
Così, nella poesia di D. H. Lawrence, non possiamo adattare il metro stolidamente umano e solo umano, che divide e rappresenta il frammento scollegato dal resto: quello dell’amore romantico, o sensuale, o sessuale… L’erotismo contiene in sé ogni categoria, mentre ogni distinzione è insignificante in natura. Non appannaggio dell’essere umano, in quanto apice di un processo evolutivo, è l’aver scoperto il sesso separato dall’istinto vitale, il corpo separato dal tutto: sono falsi problemi, strade chiuse. D. H. Lawrence lo proferisce così bene, in questa come in altre poesie cariche di erotismo, in cui ci riporta a far parte della meravigliosa creazione della vita.
Così qui ci nutriamo di buon pane, di pane sano, ci appaghiamo perché siamo trascinati dentro la vita e dentro ciò che la regola: il movimento. Mentre ci può capitare (ci sarà capitato) di leggere e rileggere e provar afflizione, disagio. O di aver morso un pezzo di quel pane bianco alla cui farina è stato tolto il cruschello, la crusca, la pula… ha tutto lo stesso gusto. Ci sazia, ci gonfia, ci appesantisce. Andiamo a schiacciare un pisolino per digerire.
Quando leggo poesia erotica, se sto leggendo davvero poesia erotica, non mi sembra di star a guardare dal buco di una serratura. Non mi siedo dentro una camera da letto spostando un po’ qua un po’ là le lenzuola per far spazio agli altrui amplessi. Non mi aggiro tra falli eretti come tra colonne doriche in un tempio. Se ciò accade, significa che devo aver sbagliato genere: ho acquistato un libro pornografico, ho aperto quel libro aspettandomi eros e mi sono trovata a leggere pornografia.
Non giudizio morale, ma delucidazione su due piani distinti, che spessissimo vengono beatamente fusi assieme. Oppure, ancora, sto leggendo di un modo per ridurre a grado zero la virilità maschile, praticando una sorta di castrazione per iper-sommistrazione d’immagini. E ciò accade anche, mi spiace dirlo, nella poesia erotica femminile. Basta fare un giro sul web, sfogliare qualche libro tra gli scaffali di una libreria.
Mi riferisco qui anche ad alcune poesie di Francesca Dono, apparse qualche tempo fa sull’Ombra delle Parole. Si è parlato, per le poesie della Dono, di una estetica della pornografia: mi chiedo se ne sentissimo davvero così tanto la mancanza. Non si va più in là del gioco letterario, anch’esso d’autocompiacimento.
Ci interessa qui il punto di vista di Elytis sulla figura del poeta: “Certo, all’epoca di Saffo o di Archiloco, come pure all’epoca di Dylan Thomas o di Neruda, dal momento che la separazione da qualsivoglia mito divino si era ormai compiuta, solo l’Io del poeta era chiamato ad avere un ruolo di primo piano. Soltanto che, entrando in questa, diciamo così, fase lunare del mondo occidentale, l’Io ha assunto toni talmente acuti che è venuta a mancare ogni possibilità di sottolineatura. Tuttavia, l’Io del poeta – insisto su questo concetto e dobbiamo accettarlo – non è il poeta quale si delinea al mondo; è il mondo quale si delinea al poeta. Il che vuol dire che se il poeta costituisce un’eccezione, questa eccezione in sé non ci interessa, ci interessa in quale maniera l’eccezione concepisca la regola.”
Tutto ciò che venga preso di per sé, isolato e ridotto a icona, frustrato nella sua appartenenza al flusso della realtà complessa, in arte non ha più valore e durata; di contro, si tramuta in balocco momentaneo.
Perché, mi riferisco ora in generale all’erotico femminile, facilmente si riconoscono un po’ di trucchetti, di pantomime, di maschere deformanti usate per denudarsi: la donna, che da secoli cerca la liberazione, indossa abiti sopra ad altri abiti e si proclama svestita. Se poi dal già detto, già fatto, già visto (perché di questo si tratta) avessimo ereditato davvero la parità sociale e psicologica, non ci ritroveremmo ancora oggi a proclamarci libere perché “sboccate”, mentre rimaniamo -noi donne- discriminate sul posto di lavoro per il fatto di poter portare avanti una gravidanza. Che anzi tracimazioni verso l’ego spinto alla massima proclamazione dell’uso del corpo sviliscono e aggravano le disparità ancora ahimè fortemente radicate. Non dimentichiamoci di quella branca del femminismo che nel ’68 ha dato l’opportunità ( a costo di durissime, giustissime lotte) anche attraverso l’arte, di abbattere un muro d’omertà sulla condizione femminile in Italia; ma quelli sono stati fondamentali approdi sociali, perché se qualche peso letterario avessero avuto, oggi ne rimarrebbe una qualche traccia.
Ciò che voglio dire è che a volte la donna, seguendo false vie, confonde parità e uguaglianza. E quando questo avviene, in arte, ci vien da sbadigliare. Va così a chiudersi nella gabbia di altri schiavi: se è erotismo che ci vuol regalare.
Di nuovo sacrificando il suo essere profondo, che rimane celato all’uomo – il quale la cerca, e vorrebbe infine conoscerla per ciò che realmente è. E si tratta, attraverso l’erotismo, molto semplicemente di svelare la propria segreta diversità. La gioia anche, di questa sofferta diversità.
Lo dico con dispiacere, perché mi accorgo che la strada è lunga, e che i tempi così detti moderni non ci hanno insegnato poco più se non nuove forme di matriarcato. E qui non sto toccando, non mi si fraintenda! nessuna delle libertà guadagnate con tanta fatica da parte di donne (e uomini che le hanno sostenute) nella battaglia per i diritti civili. È proprio lì che la lingua batte.
Perché, a titolo d’esempio, i versi di Saffo sono ancora così assolutamente moderni? Perché nella Grecia arcaica la sessualità era la voce della natura: percepita come tale, nel flusso e non fuori dal flusso vitale, era molto più naturale che non nella presunta spontaneità del neo-libertinismo contemporaneo. Insomma, siamo tra la mantide e il cavalluccio marino; tra uguaglianza e parità. Ci dibattiamo, noi donne, nell’Eros negato, voluto, oblito, confuso, esasperato.
Dunque se l’Eros ci contiene, se contiene la nostra immagine, perché rispecchiata nel mondo, avremo fatto un altro passo verso la librazione, quella totale, che ci ricorda in modo perentorio, con tono deciso, quanto l’atto creativo che ci appartiene è più di un segno riflesso. Più di una clonazione.
WHALES WEEP NOT!
(da D. H. Lawrence, Selected Poems, with an introduction by Kenneth Rexroth. The Viking Press, New York, 1959)
They say the sea is cold, but the sea contains
the hottest blood of all, and the wildest, the most urgent.
All the whales in the wider deeps, hot are they, as they urge
on and on, and dive beneath the ice-bergs.
The right whales, the sperm-whales, the hammer-heads, the killers
there they blow, there they blow, hot wild white breath out of the sea!
And they rock and they rock, through the sensual ageless ages
on the depths of the seven seas,
and through the salt they reel with drunk delight
and in the tropics tremble they with love
and roll with massive, strong desire, like gods.
Then the great bull lies up against his bride
in the blue deep bed of the sea
as mountain pressing on mountain, in the zest of life:
and out of the inward roaring of the inner red ocean of whale blood
the long tip reaches strong, intense, like the maelstrom-tip, and comes to
rest
in the clasp and the soft, wild clutch of a she-whale’s fathomless body.
And over the bridge of the whale’s strong phallus, linking the wonder of
whales
the burning archangels under the sea keep passing, back and forth,
keep passing archangels of bliss
from him to her, from her to him, great Cherubim
that wait on whales in mid-ocean, suspended in the waves of the sea
great heaven of whales in the waters, old hierarchies.
And enormous mother whales lie dreaming suckling their whale-tender
young
and dreaming with strange whale eyes wide open in the waters of the
beginning and the end.
And bull-whales gather their women and whale-calves in a ring
when danger threatens, on the surface of the ceaseless flood
and range themselves like great fierce Seraphim facing the threat
encircling their huddled monsters of love.
And all this happens in the sea, in the salt
where God is also love, but without words:
and Aphrodite is the wife of whales
most happy, happy she!
and Venus among the fishes skips and is a she-dolphin
she is the gay, delighted porpoise sporting with love and the sea
she is the female tunny-fish, round and happy among the males
and dense with happy blood, dark rainbow bliss in the sea.
LE BALENE NON PIANGONO!
Dicono che il mare è freddo, ma il mare contiene
il sangue più caldo (di tutti), il più sfrenato, il più pressante.
Sono calde tutte le balene nelle sconfinate profondità, mentre spingono
avanti, avanti, e si tuffano sotto i ghiacci.
Le balene franche, i capodogli, gli squali martello, le orche
lì soffiano, lì, lì – caldo bianco selvaggio respiro in alto sul mare!
E si cullano, si cullano attraverso le sensuali età senza età
sugli abissi dei sette mari,
e ondeggiano nel sale precipitando inebriate
nei tropici fremono di amore
e si rigirano nel massiccio desiderio, forti come dèi.
Poi il grande maschio si avvicina premendo la sua sposa
nel profondo letto blu del mare,
montagna che spinge montagna, nell’entusiasmo della vita:
e dall’interno scrosciare del più interno rosso oceano del sangue di balena
la lunga punta impennandosi intensa come punta di vortice si adagia
nell’abbraccio e nel dolce, selvaggio stringere del corpo di lei insondabile.
E sopra il ponte del forte fallo di lui, che unisce lo stupore delle balene
gli arcangeli di fuoco sempre passano sotto il mare, indietro e avanti,
sempre passano, arcangeli di gioia,
da lui a lei, da lei a lui, grandi Cherubini
che vegliano sulle balene in mezzo all’oceano, librati sulle onde del mare
vasto paradiso delle balene nelle acque, antiche stirpi.
Ed enormi madri balene giacciono sognando e allattano i teneri
balenotteri
e sognano con i loro strani occhioni cetacei nelle acque del principio e della
fine.
E i maschi radunano le loro femmine e i piccoli in cerchio
nel momento del pericolo, nella piena dei flutti incessanti
e si schierano, come grandi fieri serafini di fronte alla minaccia
rannicchiando in cerchio i loro mostri d’amore.
E tutto questo accade nel mare, nel sale
dove Dio è amore, ma senza parole:
a Afrodite è moglie delle balene
felice, felicissima lei!
E Venere fra i pesci guizza ed è una delfina
è lei l’allegra deliziata focena che gioca con l’amore e con il mare
lei il tonno femmina, rotonda e felice tra i maschi
e densa di sangue felice, oscuro arcobaleno di gioia nel mare.
(Traduzione: Trinita Buldrini, Steven Grieco-Rathgeb)
Commento di Steven Grieco-Rathgeb
Dopo che noi tre abbiamo deciso di proporre la la poesia di Lawrence con traduzione italiana, sono andato un po’ in giro su Internet a vedere la poesia erotica. Su L’Ombra delle Parole ho trovato quella di Letizia Leone, che conoscevo già, con le sue premesse radicate in un’istanza di emancipazione femminile del tutto convincente. Ho trovato altri esempi, fra cui una scelta di Francesca Dono, anche questa su L’Ombra. L’avevo letto nel maggio scorso: ha una forte volontà di emancipazione, ma per me è molto meno efficace. Di essa mi permetterò una critica decisa, ma senza alcuno spirito di polemica: il mio intento è più semplicemente dare un contributo ad un’ecologia della poesia in genere e quella erotica in particolare nei minacciosi tempi che ci troviamo davanti.
Sono sorte subito tre domande: cosa può essere la poesia erotica oggi? Quale il criterio per giudicare la poesia erotica, e più in generale un’opera artistica? Quale la base esistenziale su cui poggiano i primi due?
La prima questione è per me presto risolta dalla poesia postata qui: espressione stupefacente della modernità del sentimento erotico di Lawrence, tutto teso a sincronizzare il tempo umano con quello del mondo. Egli non ebbe figli, così non ebbe mai la reale esperienza del senso di continuità biologica e psichica di chi invece ne ha. In questo modo precorrendo i nostri tempi, di bassissima natalità nei paesi sviluppati e di fertilità decrescente (prima di tutto, a quanto pare nello sperma del maschio umano). Eppure la sua poesia è tutta protesa a celebrare la continuità delle cose.
Lascia perplessi invece poesia erotica come questa della Dono. E non a caso, proprio l’uso del Latino mette in evidenza il rapporto tra essa e l’oscurantismo religioso, teso per sua natura ad egemonizzare il corpo umano: volendo la sua poesia essere l’antitesi di quell’oscurantismo, finisce per esserne l’immagine speculare. Quest’ultimo infatti è una piovra ben radicata nella coscienza umana, oggi più invisibile di ieri.
L’eros in Lawrence è slancio profondamente “procreativo”: è questo il bellissimo “mistero” che egli ci dà: niente affatto misterioso, ma realtà alla luce del sole. “Procreazione” io la intendo come Eros: quella stessa enorme energia che a sua volta figlia altre forme di creatività: se per qualcuno sarà una famiglia con bambini, per altri sarà poesia, pittura, l’ascolto della musica, una passeggiata in campagna, qualsiasi attività svolta con una spinta creativa, con slancio “erotico”.
Da notare l’effetto quasi aleatorio con cui cambia di colpo il soggetto, “And Aphrodite is the wife of whales”: come senza preavviso egli passa dalle balene ai pesci, al delfino, alla focena, al tonno femmina, che serve non solo a sottolineare l’universalità e fremente vicinanza a noi degli abissi marini, ma anche a riprendere gli effetti sincopati della nuova musica classica contemporanea di quegli anni, i bruschi passaggi che creano un’armonia in realtà più alta e più soave dell’armonia consueta… Poiché quelle dissonanze SONO l’armonia della nostra contemporaneità. E infatti, quanto amore e pienezza per tutte le cose sentiamo nelle musiche di uno Stockhausen, uno Xenakis! (Del primo consiglio l’ascolto di “Oktophonie”, del secondo, “Bohor”.)
Con fervore vitalistico, Lawrence toglie al Dio cristiano ogni sacralità pseudo-spirituale: il suo pieno compimento è solo nell’amore, che per l’uomo può essere anche e in certi casi imprescindibilmente amore fisico, fondamentale esperienza umana (salvo tutte le importanti eccezioni) per raggiungere qualsiasi vetta esistenziale o spirituale, poetica, filosofica, o scientifica che sia. Ciò apparenta il ‘Dio’ di Lawrence, ad un altro, Krishna, il quale indica anche lui la pienezza dell’amore pluridirezionale: è anche e fortemente attraverso l’amore sensuale che l’anima individuale raggiunge la pienezza, il compimento.
E, “…lei il tonno femmina, rotonda e felice tra i maschi…” ci ricorda Draupadi, la moglie dei cinque fratelli Pandava nel “Mahabharata”: ci ricorda l’amore in gruppo, e dunque la liceità di ogni vertiginosa sessualità.
In Lawrence il senso dell’unione tra femmina e maschio sembra stare in questo movimento “da lui a lei, da lei a lui”, quando il “ponte” del fallo – desiderio carnale maschile – tocca il suo massima apice raggiungendo il “corpo insondabile” della femmina, che da sempre sembra consapevole di qualcosa di più (forse per il fatto della gravidanza, del parto…). Ma lo stesso anche avviene in tutti i rapporti intimi che hanno come base se non l’amore, comunque il rispetto dell’integrità fisica e spirituale dell’altro.
Ma Whales Weep Not! non serve solo come metafora di un supremo animale e umano amare: soprattutto ci ricorda che non è affatto nostro “sacro” diritto di fare tutto quello che vogliamo, anche negando o sottilmente degradando l’integrità della compagna/o. Oggi la poesia erotica di questo tipo stride in modo particolare, perché siamo arrivati ad un bivio, umanamente, socialmente ed ambientalmente. Le descrizioni capillari del “glande” denudato con egoistico furore, la “vulva” aperta a forza… ecco, questi sono tipici sintomi di quella rivendicazione di libertà di espressione che si apparenta al Nichilismo. Il tutto vicinissimo all’inquinamento dell’ambiente.
Nel suo commento, con qualche imbarazzo mi è parso di capire, L. Leone cerca di difendere le ragioni di questa poesia: “Una poesia che [assomma] su di sé il carico della rimozione storica di sessualità e corporeità femminili…” Ebbene, questo solleva le questioni centrali: la dignità umana, i diritti negati, la libertà di diventare fisicamente e psicologicamente quello che si vuole essere. Ma questo tipo di poesia erotica è una risposta appropriata? Non assistiamo invece all’ennesimo, rabbioso, futile tentativo di “desacralizzare” il corpo femminile (e quello maschile)? Ma il corpo umano non è mai stato “sacro”: e nemmeno “profano”: semplicemente, tutti hanno rivendicato l’egemonia su di esso. E così anche il singolo individuo, in questo caso il poeta, tenta di strumentalizzare il corpo per i suoi fini. Se per una reale emancipazione fossero serviti davvero 50 anni di questo impietoso smontare la fisicità umana in componenti disarmonici per offrirli allo sguardo del voyeur, allora ci troveremmo tutti d’accordo. Ma non nascondiamoci dietro un dito: sappiamo benissimo che non è così: i nostri corpi rimangono tra le merci più sfruttate che esistano oggi: sfruttati dalla religione, dalla medicina, dalla scienza, dall’interesse economico – e, quando possibile, anche dalla poesia. Alla faccia dell’emancipazione.
Vado avanti alla seconda questione. Nel suo commento, Letizia Leone dice: “In questi versi un immaginario a luci rosse viene elevato a categoria estetica…” Non in modo più preciso avrebbe lei potuto porre il nodo centrale della malattia che ancora oggi affligge la poesia in particolare. Esiste forse un’accademia della poesia che decide le “categorie estetiche”? Ecco l’inqualificabile ritardo della poesia rispetto alle altre arti!
La decostruzione di antiquati parametri estetici risale alla fine del XIX sec. E a chi la cosa non fosse stata chiara allora, Picasso dedica nel 1943 quella incredibile “Testa di toro”, costruita con un sellino e un manubrio di bicicletta. Joyce e i poeti modernisti hanno fatto almeno una parte del necessario in ambito letterario-poetico. Più lampante ancora è, in musica, la perfetta equiparazione tra “suono” e “rumore”, operata da Stockhausen ed altri musicisti nel secondo dopoguerra. Questa anche si rivela nel tempo essere stata una fondamentale tappa esistenziale: nel caso specifico, verso una ecologia della musica.
Tutto è potenzialmente “arte” oggi, non sono più le categorizzazioni a decidere, non esistono arbitri del gusto. Via gli assoluti, via i critici, via le scuole, via gli stessi artisti in quanto rappresentanti di un’arte che non esiste più. Rimane però l’eccellenza del singolo artista, che un fruitore con gusto estetico ben sviluppato, cultura profonda e un senso dell’ecologia delle cose, può riconoscere.
Nel 2009 sono andato alla Biennale di Venezia. Nello spazio di alcuni giorni ho visto diverse centinaia di opere. Mi è rimasto un quesito: tramontati tutti i criteri “assoluti” del valore di un’opera, quale poteva esserne una valutazione reale? Perché innegabilmente io vedevo lì opere “belle”, altre “brutte”, o “bruttissime”, qualcuna perfino “sublime” (l’installazione di luci e cavi di rame in uno spazio buio, opera di un’artista brasiliana). Dunque un criterio estetico “mio” lo avevo. Con tutto lo sfacelo e paradigmatica confusione che viviamo, oggi esiste pure una grande apertura, una incredibile finestra di opportunità, un respiro ancora di vere libertà (che presto, sentiamo dire, dovranno misurarsi con automazione, spionaggio dell’individuo e AI Artificial Intelligence: sistemi che creeranno difficoltà per le libertà dell’individuo: non solo quelle democratiche, ma anche quella creativa).
Erano le mie valutazioni alla Biennale soggettive? Sì e no. Era comunque necessario che avessi un retroterra e bagaglio culturale capace di lasciarmi “afferrare” le opere e farmene un’idea sufficientemente compiuta perché scattasse l’esperienza estetica. In seguito, questa esperienza il fruitore scoprirà di condividerla con un sufficiente numero di altri individui come lui. E dunque, è il giudizio individuale, ben ragionato e sostenuto da un appropriato bagaglio culturale, l’unico criterio possibile per valutare un’opera. Capii allora che gli unici due criteri che possedevo per formulare un giudizio estetico erano questi: da una parte, gusto e preparazione culturale; dall’altra, sostanziale condivisione con altre persone simili a me (“like-minded people”), chiunque siano e da ovunque vengano.
Questo è così diverso dal passato? Be’, oggi, caduti i riferimenti assoluti, c’è un po’ più solitudine. In compenso, c’è più libertà di scelta, libertà di fruizione estetica ed esperienza puramente creativa.
Questa “nuova mappa per la scrittura erotica”, invece, evoca un falso “nuovo”, impigliato negli stretti cunicoli della rivendicazione della libertà individuale egoistica e disfattista. L’emancipazione della donna (e attraverso questa anche quella dell’uomo) ha bisogno urgente di una piattaforma esistenziale e filosofica ben più vasta, più generosa, più ardita nell’immaginare un futuro oltre la rapina e lo sfruttamento dell’essere umano e dell’ambiente.
Intanto la poesia rimane ferma, sepolta sotto le sue incrostazioni retorico-letterarie, incapace ancora oggi di dotarsi di una limpidezza teorica. (Lo stesso vale, se dobbiamo dire la verità, per certa arte visiva contemporanea). Invece noi poeti e lettori vogliamo una poesia flessuosa, leggera d’impianto, capace di volare alta come un’aquila nell’attimo in cui dice il mondo. Ecco, a mio avviso, l’importanza della NOE.
Faccio un altro chilometro di strada e poi mi fermo. Possiamo constatare come ancora oggi tantissima scienza e filosofia e società stentino a capire come l’uomo da tempo non può più essere visto come unità umana inserita in una cosa asfittica che chiamiamo “contesto sociale”: e che quindi è soltanto la “società” che ha bisogno di essere “migliorata”: per quanto riguarda “l’ambiente” basta pulirlo!
Si parla addirittura, ovunque ormai, dell’avvento dell’era geologica dell’Antropocene – la nostra, oggi – in cui il pianeta è dominato in maniera crescente dalla presenza dell’essere umano. E’ un concetto che faccio apparire qui per la prima volta sull’Ombra delle Parole. Ma vi invito a informarvene, ho cercato e trovato anche molti siti in italiano che ne parlano. Iniziato negli anni 50 del secolo scorso, L’Antropocene è caratterizzato da una massiccia presenza umana, la quale lascia sulla Terra in maniera crescente tre impronte principali: l’estrazione del carburante fossile, l’inquinamento da plastica, la presenza planetaria del pollo di batteria (ormai 22 miliardi).
I tempi sono corsi avanti con velocità furente negli ultimi 60 anni, eppure molta scienza si pone ancora di fronte a ciò che studia o su cui riflette come soggetto di fronte a oggetto. Non esito qui a parlare di analfabetismo. A dispetto delle ardite speculazioni provenienti da certi comparti della fisica e astrofisica, la società umana e il suo scibile sembrano ancora impotenti e immersi dentro un sistema ancorato ad una visione del mondo trapassato, profondamente ostile ad ogni cambiamento. Visione, purtroppo, inevitabilmente incatenata al concetto nichilistico di “progresso”.
Certi “prodotti” culturali anche nascono da questo ritardo-equivoco: lo stesso che appunto ci inchioda oggi al Nulla di un nostro conservatorismo sociale, culturale e artistico e ambientale.
La non identificazione dell’essere umano nel suo ambiente – quella realtà infinitamente complessa che lo sostenta in tutti i modi e in ogni attimo ne determina ogni minimo pensiero – è indubbiamente stata favorita dai tempi “veloci” dello sviluppo industriale, dalla crescente specializzazione delle scienze, dal crollo dei (falsi) valori assoluti, dall’atomizzazione dell’individuo voluta da un’economia sempre più liberista e rapace. (Ma i sovietici e i cinesi di Mao non erano diversi: come spiega il filosofo Boris Groys, la società perfetta di stampo socialista-comunista, e la “fine della storia” del capitalismo, sono due facce della stessa medaglia). I motivi più profondi di questa mancata identificazione, soprattutto in un momento così delicato, non sono necessariamente tutte visibili. Possiamo dire tuttavia che essa ha portato alla frammentazione, alla derelizione della vita sul nostro pianeta. Situazione che però ci presenta una importante opportunità per capire chi siamo, dove abitiamo, e soprattutto come possiamo “sentire” la natura misteriosa del nostro vivere al di là di ogni religione, scienza o filosofia.
L’argomento è talmente delicato e specializzato che non lo si può ridurre in alcun modo. Probabilmente si tratta oggi (domani potrebbe cambiare) di una questione soprattutto “ecologica”: l’ambiente come estrema, amplissima estensione del nostro corpo; il corpo come concentrata intensità dell’ambiente. Una continuità indivisa. La violenza che viene compiuta oggi su entrambe è difficilmente spiegabile sul piano ideale: su quello pratico è più che spiegabile, visto che siamo noi stessi, io e tu che mi leggi, che perpetriamo (seppure spesso contro la nostra volontà) questa violenza.
Noi tutti, poeti compresi, dovremmo al di là delle spurie categorie estetiche riuscire a meglio interiorizzare la mutata realtà del nostro vivere individuale e collettivo su questo pianeta. Le premesse attuali su cui ci basiamo sono conservatrici nel senso peggiore della parola perché si ostinano a non tenere conto che l’uomo è un “Essere ambientale” prima ancora che un “Essere sociale”. Notiamo, ad es., la deplorevole mancanza di un nuovo e radicale approccio alla questione della “legiferazione” necessaria per affrontare questa emergenza: un corpo di leggi profondamente nuovo e aggiornato alla situazione attuale, capace di meglio regolare lo sviluppo industriale, frenare i consumi in eccesso e la distruzione dell’ambiente, garantire la libertà/responsabilità sociale di ogni individuo, armonizzare la pianificazione famigliare, etc.
Con l’essenziale integrità delle cose sempre come base. Sotto il profilo di un futuro Brave New World (già trapassato), troppo semplicisticamente insistiamo a vedere l’ambiente e il corpo umano come fatto di componenti smontabili. Da tempo invece affiora la visione di quell’insieme indivisibile che siamo ed a cui apparteniamo. Anche noi poeti possiamo fortemente esserne portatori. Secondo una notizia di questi ultimi giorni, le osservazioni degli astrofisici indicano che gas cosmici provenienti dai più remoti angoli dell’universo vengono da sempre attirati verso la Via Lattea, per la naturale gravità-attrazione di quest’ultima: e che quindi anche noi, e il nostro piccolo orto su questo pianeta, dobbiamo considerarci costituiti di quegli stessi materiali inter-galattici, per cui la nostra identità è probabilmente ben più complessa di quanto non pensino i biologi. In una mia poesia del 1990, il poeta dice al suo lettore: “Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso / in questa notte di marzo senza luna: / questo cosmo a imbuto, alto lignaggio, / tenebra di stelle sul dirupo numinoso.” Da “Entrò in una perla”, poesie di S. Grieco-Rathgeb, Edizioni Mimesis Hebenon, 20016. (Il volume lo trovate su Internet.)
Abbiamo lasciato le religioni alle spalle, da tempo siamo entrati in questa lunghissima ricerca dell’illimitatamente grande e dell’illimitatamente piccolo: laddove anche il tempo, forse, si piega e si altera, o del tutto scompare così come lo abbiamo conosciuto. Oltre il “piccolo” e il “grande”, c’è ovviamente altro. O addirittura Altro. Chissà. Ma lasciamolo stare. Nel nostro tempo è in questo modo e con questi strumenti mentali che noi umani ragioniamo. Nel prossimo sarà sicuramente diverso. Niente mai si ferma: ma, come dice Mirza Ghalib, nell’universo esistono “punti di sosta”.
Lontanissimo dal vetero-individualismo della poesia erotica a “vicolo cieco”, D. H. Lawrence ci pare oggi un profeta di quel disastro che ormai dobbiamo industriarci in tutti i modi possibili a impedire. Chissà che John Cage non avesse scritto “Litany for a Whale” ispirandosi proprio a questa poesia.
Chiara Catapano fa qui seguire un’antologia di versi erotici, di poeti e poetesse più vicini o lontani nel tempo e nello spazio:
***
Non voglio garofani, né tintinni di cetra,
né vini di Chio, né profumi di Siria,
non bagordi, né orge e gozzoviglie.
Odio codesti come sintomi di follia.
Ma di narcisi cingetemi il capo,
lasciate ch’io oda suoni di flauti e ungete
le mie membra con olio di croco:
bagnatemi con vino di Mitilène la gola,
e portatemi qui, una vergine da bordello.
(Filodemo)
***
Tu, Eliodora, vuoi risparmiare la tua verginità.
A che scopo? Non è scendendo al regno dei morti
che troverai chi ti ama. Il piacere d’amore
sta solo nei vivi. Nell’Acheronte, mia piccola,
giaceremo tutti ossa e cenere.
(Asclepiade)
***
Metà della mia anima respira, l’altra metà è scomparsa,
rapita da Eros o da Ade, non so bene
(Callimaco)
***
Da che sento parlare di lei soltanto,
la notte veglio e il giorno
per l’ardore mi sento morire,
come labile rugiada
sul fiore di crisantemo
(Yoshimine no Harutoshi)
***
La vidi appena, vagamente,
qual fiore di ciliegio di montagna,
attraverso la foschia:
e ora come mi struggo
nel desiderio di lei
(Ki no Tsurayuki)
***
Nudi stiamo
sopra le maschere.
Eretti.
–
Questo timore
che sia rimasto qualcosa
ch’io non presi.
E il timore
che quell’infinito
abbia fine.
(G. Ritsos)
***
Al tuo idioma appartennero
le mie più limpide parole
cardine sfocato di emozioni
disegnavano un nome
l’arco baciato della schiena
–
Apparizione e musica
la tua testa arricciata verso l’oro
i mie maldestri tentativi
il gioco dei tuoi occhi costruisce
camminamenti e mura
palazzi dove crescono gli enigmi
fiori che sciolgono il granito
–
Suoni dolcissimi salivano
nell’avventura perfida del neon
divenuta fluida la stanza
il pavimento incoraggia
nuova dimestichezza con il letto
–
Limpida sera circuita da una complice luna
che brividi le mani lungo i corpi
trascrivono i ciottoli una musica
le scarpe affondano nel mare
languidissima nota la sua bocca
approdo irraggiungibile domani
(Salvatore Martino)
Ah quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi
Ho attraversato. Però non mi ha mai prestato un po’ di bellezza il tempo.
E una vittoria per sconfiggere il nero e prolungare la durata dell’amore cosicché
Sia più ingegnoso e melodico del suo pulpito
Il canto dell’allodola che è in noi
Nube accigliata che solleva uno schietto “no” come una piuma
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e
Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino
–
Con la sabbia tra le dita serravo le dita
Con la sabbia negli occhi serravo le dita
Era il dolore –
Ricordo era aprile quando sentii la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano argilla e peccato
–
Quando nelle pianure che nudissime ragazze hanno svegliato
Falciano con mani bionde il trifoglio
Spaziando fino ai confini del loro sonno, ditemi è il melograno pazzo
Che nei loro canestri ripone insospettato le luci
Che fa traboccare di cinguettii i loro nomi
(O. Elytis)
***
Sei così soffio, così iride-soffio, e cristallo sottile che mi dai la vertigine della fragilità.- Ma la ragione che t’amo è che dilati a volte gli occhi di disperata passione e la morte ci passa vicina. Dici con voce di groppo allora: – Abbandonami! Fammi del male perché io sia perduta. Battere il capo nel muro! Ho voglia di disperazione.
(G. Boine)
***
Bambina!
Non ti spaurire
se sul mio collo taurino
seggono come un’umida montagna donne dal ventre sudato:
è che attraverso la vita io trascino
milioni di enormi casti amori
e milioni di milioni di minuscoli sudici amorucci.
(W. Majakovskij)
***
Il mio cuore è troppo, oh! Troppo centrale!
E tu sei solo carne umana;
E allora non trovarmi ingiusto
Se ti faccio del male!
(Jules Laforgue)
***
Di tutto sgombrate la mente fuorché della carne e del dare il
latte maschio che crea la vita!
Come erba dal terreno rastrellate gli scoppi di gioia
trovati sulla vostra anima fertile!
(Fernando Pessoa)
***
Eros ha scosso la mia mente
come vento che giù dal monte
batte sulle querce
–
Avvolgeva i suoi piedi
una scarpina ricamata,
lavoro bello di Lidia.
–
Cantino le vergini per tutta la notte
l’amore tuo e della sposa
dal seno di viole.
Ma tu destati, avviati
con i tuoi giovani amici
perché possiamo vedere
un sonno ancora più breve
d’un uccello dal canto sonoro.
–
Vieni ancora, liberami dal penoso tormento,
e quello che il mio cuore desidera,
compilo: sii mia alleata!
(Saffo)
***
Non potendo baciarmi con la sua bocca,
la divina Rodante mi porse la zona virginale
e io la baciava, mentre come giardiniere che irriga,
traevo all’altro capo il rivolo d’amore
con l’aspirare quei baci; e schioccando sul cinto
le labbra, da lontano la mia fanciulla ribaciavo,
con ciò illudendo il tormento: … e la dolce
cintura era il ponte sospeso fra l’una e l’altra bocca.
(Agatia)
***
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle
–
Da cuore a cuore
pensieri diversi – eppure
la brezza dei pini
e la stessa che sfiora
le gote dell’amica e le mie.
–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
–
Spingendo dolcemente
ho schiuso quella porta
che chiamiamo mistero.
Mammelle turgide
strette nelle mani.
(Akiko Yosano)
***
Ero avvolta nella pelliccia
nera, nella pelliccia bianca
e tu mi svolgevi
e in una luce d’oro
poi m’incoronasti,
mentre fuori dardi di neve
diagonali battevano alla porta.
Mentre venti centimetri di neve
cadevano come stelle
in frammenti di calcio,
noi stavamo nel nostro corpo
(stanza che ci seppellirà)
e tu stavi nel mio corpo
(stanza che ci sopravviverà)
e all’inizio ti asciugai
i piedi con una pezza
perché ero la tua schiava
e tu mi chiamavi principessa.
Principessa!
–
Non credere
che non lo sappia
che quando mi parli
la mano della tua mente
senza farsene accorgere
mi sfila le calze,
e si muove cieca e intraprendente
lungo la mia coscia.
Non credere
che non lo sappia
che lo sai
che tutto ciò che dico
è un indumento.
(Anne Sexton)
questo deforme amore ha solo sbagliato
cielo, ha sragionato
con le mani aperte, nere
sui seni
lui il demonio mi ha radicato
al corpo, sia benedetto
e santo se cura l’apatia.
Non è solo un organo
questa beatitudine ad orologeria.
–
Guerrieri notturni e un imperatore:
bisogna piegarsi
cedere il fianco al vincitore.
Ma questo padrone ha occhi di brace
ha una lingua oscena.
Dicono sia bello, io non oso
immaginarlo.
Lo vivo attraverso l’odore
Attraverso le correnti umide
del suo fiato di uovo:
solo così lo godo.
Tra fetori, candele
gocce bollenti di cera luminosa.
(Letizia Leone)
***
Albero della vita:
vita eterna, unità di principio maschile e femminile, giardino del Paradiso.
Il semino che hai deposto nel mio ombelico lo lecco ogni sera.
Conosco i principi della fecondazione, e dico che tra noi sarà possibile ogni amplesso. A volte sarò io la tua virilità e tu l’acquiescenza del ricevere.
Solo in questo modo verrò, donna, a te. Se sei la poesia, saprai riconoscermi dietro ogni maschera.
–
Pigna:
fertilità, vita eterna, salvezza.
La pigna mi raccomanda il balsamo per santificare le sacre ore trascorse di silenzio.
Un giorno lo scriverò col fiato al mio fidanzato sulla pigna di roccia in qualche cimitero romano:
gli chiederò di trovarmi per assonanza, nel silenzio: sarà il gioco a suggerire in quale nome sapremo cingere i nostri fianchi – o m’illudo? Perché ciò che più amo mi raggiunge con polpastrelli di farina:
e se mai credessi di possedere, sarei perduta.
(Chiara Catapano)
D. H. Lawrence: Breve scheda biobibliografica
D. H. Lawrence, romanziere e poeta, nato nel 1885 a Eastwood, nel Nottinghamshire (Inghilterra). figlio di un minatore e di una ricamatrice nonché maestra e pianista, a cui Lawrence rimase sempre profondamente legato. Conobbe Frieda Weekley (Von Richthofen) nel 1912, e si sposarono nel 1914. Viaggiarono a lungo in Germania, Italia e Francia, negli Stati Uniti e in Messico, in Sri Lanka e Australia. Autore fra l’altro di romanzi, fra cui “Sons and Lovers” ( Figli e amanti, 1913), “The Rainbow” (L’arcobaleno, 1915), “Women in Love” (Donne amorose 1920), “Lady Chatterley’s Lover” (L’amante di Lady Chatterley, 1928), che a suo tempo fecero molto scalpore, suscitando nel pubblico e fra intellettuali e artisti controversie e opinioni diametralmente opposte. Lawrence perorava la causa di un erotismo e una sessualità liberi – ma questo non senza forti contraddizioni teoriche, che gli portarono anche l’accusa di anti-femminismo. (Nella sua poesia ho in effetti trovato passaggi non in armonia con la visione di una totale uguaglianza fra donna e uomo.) Da rilevare inoltre una sua forse latente omosessualità.
Insomma, un uomo a tutto tondo, con tutte le sue contraddizioni e debolezze.
D. H. Lawrence morì di tubercolosi a Vence, in Francia, nel 1930.
E’ considerato, insieme a Joyce e a Virginia Woolf, fra i maggiori narratori del Novecento di lingua inglese. Ancora oggi meno conosciuto come poeta, è possibile che in futuro venga ricordato più per la sua lirica che per la narrativa. Ma questa è un’opinione personale.
Sarebbe cosa interessate elaborare una icona, se l’Autrice (che non conosco) consentisse, atta a trasporre senso poetico in senso iconografico, r.m.
Per farsi un’idea sull’antropocene, suggerisco il saggio:
“La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert.
Non è una lettura rilassante.
Sono daccordo con la maggioranzea dei testi offerti, con qualche minima eccezione. Vorrei solo aggiungere che certe poesie di Walt Whitman hanno una intensità erotica pari a quella di Lawrence, Dovrebbe essere inserito in questo dialogo. Grazie
Aderisco al commento di Adeodato Piazza Nicolai. Lo condivido totalmente.
Rubo e propongo i versi più inquietanti e sorprendenti di “Canto di me stesso” di Walt Whitman (da ‘Spontaneous Me’:
“(…)
Il salutare sollievo, riposo, appagamento,
E questo grumo svelto a caso da me stesso,
Ha assolto il suo compito – lo butto
senza curarmi di ove vada a cadere…”
Walt Whitman
Dice Harold Bloom ( “Walt Withman come centro del canone americano”):
“(…)
Una delle molte ironie dell’accoglienza riservata a Whitman è il fatto che venga acclamato come poeta gay.
La sua pulsione più profonda era senza dubbio omoerotica e i suoi poemi
di passione eterosessuale non hanno convinto nessuno, nemmeno Whitman.
Tuttavia, qualunque sia la ragione, il suo orientamento erotico
nella poesia, e probabilmente anche nella vita, era onanistico…
(…)
Ancor più del sadomasochismo, l’autoerotismo sembra ancora essere
l’ultimo tabù occidentale, almeno in termini di rappresentazione letteraria.
Ma Whitman lo celebra in alcune delle sue più importanti composizioni poetiche…”
Harold Bloom, “Il Canone Occidentale”, Saggi BUR, 2016
Gino Rago (a cura di)
Interessante, necessaria presa di distanza e chiarificazione: assolutizzare il gesto sessuale come avesse valore in sé significa scorporarlo dal flusso vitale in cui acquista un senso e una potenzialità estetica. Allo stesso modo il nichilismo può essere solo un momento evolutivo nella dialettica dell’essere, che non può ridursi a statica contemplazione, ma richiede un divenire interno per compiersi, nella dinamica incessante della vita e della trasformazione. É dalla e nella Natura che l’arte può rigenerarsi, non da gesti alienati che abitano solo la morte del corpo e dell’anima.
Scrive Steven Grieco Rathgeb:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22156
Nel suo commento, Letizia Leone dice: “In questi versi un immaginario a luci rosse viene elevato a categoria estetica…” Non in modo più preciso avrebbe lei potuto porre il nodo centrale della malattia che ancora oggi affligge la poesia in particolare. Esiste forse un’accademia della poesia che decide le “categorie estetiche”?
*
Qui Letizia Leona coglie il punto nevralgico: Sono sempre le «categorie estetiche» (morali, politiche inconsce) che ci guidano nel nostro giudizio se un’opera è bella o brutta. E poi, che significa bello e brutto? Anche qui albergano catgegorie inconsce che influenzano e determinano il nostro responso estetico.
Chiediamoci: chi è che pone le categorie estetiche? I poeti? i Critici? La Chiesa? Il Parlamento? Le ideologie?… Ecco, direi che sono all’opera tutte queste cose insieme e molte altre. Anche il giudizio su cosa è bello o brutto è un giudizio ideologico, siamo noi stessi animali ideologici in quanto animali linguistici, l’ideologia ci può accecare o ci può far aprire gli occhi, ma più spesso li acceca.
Per esempio, quando Salvatore Martino giudica brutta una poesia della NOE perché ci vede il soggetto+complemento oggetto+predicato verbale, lui, dal suo punto di vista (ideologico) ha perfettamente ragione; quando io giudico la stessa poesia bella da un altro punto di vista (con una diversa ideologia), ho anch’io perfettamente ragione. E allora, chi e che cosa determina la ragione futura? Quando nel seicento e nel settecento la Commedia di Dante era giudicata poca cosa, mentre nell’ottocento e nel novecento quella poesia è stata giudicata come vertice altissimo, chi aveva ragione?
Cari amici, il giudizio è sempre ideologico, e sulla poesia erotica femminile (per giunta) i giudizi tendono ad essere i più diversi e contrastanti, c’è chi grida alla “pornografia femminile” come nel caso della poesia di Francesca Dono, c’è chi grida al miracolo della liberazione di ciò che è erotico da giudizi morali, religiosi, politici, commerciali etc.
Insomma, se tutto è interpretazione, tutte le interpretazioni sono ammissibili, sono condivisibili?
Io, nonostante tutto, resto convinto che ci siano delle «categorie estetiche», e che le opere d’arte devono far sì che le nostre categorie estetiche vengano sempre aggiornate, adattate alla lettura del mondo… In ciò, la poesia erotica femminile resta ancora oggi un tabù, e chissà per quanti secoli ancora lo sarà…
Questo per dire che a me le poesie erotiche di Francesca Dono sono piaciute perché ci vedo uno sforzo di rompere la diga di perbenismo e di conformismo che circonda la poesia erotica femminile…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22184
Perfettamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa. Inoltre forse bisognerebbe non solo prendere le misure sull’uso della locuzione “categoria estetica” ma ancor di più sull’uso del termine Erotico/ Erotismo, considerandone l’immenso spettro di oscillazione semantica se addirittura Octavio Paz riteneva la locuzione “poesia erotica” una ridondanza o una tautologia: “la relazione fra erotismo e poesia è così profonda da poter dire, senza retorica, che l’erotismo è una poetica corporale e la poesia un’erotica verbale”, un giocare sulla percezione fisico-mentale ecc. ecc. Comunque mi pare ovvio che parlare oggi di “categoria estetica” non significa farla coincidere con istanze idealistiche, con qualche norma o principio aprioristico, o con istanze del bello e del sublime, che già un Adorno o un Rosenkranz per fare qualche esempio, hanno pensato bene a dissodare ampiamente il terreno della riflessione estetica in questo senso. Già nell’ “Estetica del brutto “si rivendica al brutto, al mostruoso e al volgare il ruolo di categoria autonoma ma soprattutto si tende a relativizzare i valori estetici in base all’esperienza empirica. Così la polarità bello/brutto è una grandezza assolutamente variabile all’interno di un sistema storico culturale. Qui si parla di concrezione storica o prassi quotidiana nella quale siamo tutti calati, (il porno che assume valenza estetica e si normalizza: Jeff Koons e Cicciolina, ad es.) e questo vale anche per il nichilismo e il relativismo, (che non sono né postura filosofica né tantomeno estetica nei poeti della NOE) ma sostrato ideologico del capitalismo assoluto-totalitario là dove l’unico valore sacralizzato è il valore di scambio e la conseguente mercificazione di tutti i rapporti umani. E un artista e un intellettuale non può non prescindere da questa contingenza (e ciò non significa che sia egli stesso un nichilista o abbracci acriticamente tale visione, come spesso viene frainteso, ma può anche esserlo poi volendo), significa che i suoi testi rivelino quest’Età dell’ansia, questa “salatura dei sassi”, questa condanna di Sisifo, magari…La scorrettezza della Dono? L’uso della parola aderente alla cosa, non edulcorare, non metaforizzare ma la capacità di liberare la lingua dell’eros dalle secolari incrostazioni degli eufemismi. Non vedo alienazione in questo spazio di lussuria del suo letto, né miopia animica, né mercificazione del corpo femminile ma tentativo gioioso e leggero di rinominazione delle cose del sesso (con risultati non sempre eccelsi ma le “punte di diamante” ne giustificano ampiamente la ricerca), pura gioia e coerenza del godimento di chi non relega ogni recesso del Corpo nell’osceno inestetico. Una celebrazione dell’amplesso senza i “panneggi” clericali a coprire le vergogne dato che la Dono, oggi a rileggerne i bei versi postati da Lucio Mayoor Tosi (che come al solito ha centrato la questione) mi piace ricollocarla sulla linea erotica della Sexton, (lei che nell’America puritana degli anni ‘50 ha sdoganato termini come masturbazione, mestruazioni, ecc…) e poi non ebbe a dire il filosofo del boudoir, il divin marchese: “ma la decenza…Altra abitudine medievale.”?
La Dono ha il dono di divertirsi (senza decenza o senza licenza sentimenale?) e usare (da scrittrice) tutte le parole del vocabolario italiano, glande, pene, vagina, ditalino o Ditale (dal lessico erotico della UTET: Atto di masturbazione femminile; risemantizzazione da dito, Ditalino: “Chissà se gli uomini si fanno seghe psicopatiche come i miei ditalini” scriveva Lidia Ravera in “Porci con le ali”. Per il resto condivido pienamente molte delle considerazioni degli interessantissimi articoli su Arte e Poesia come ecologia, ben consapevole che lo scatto in più delle nostre “lamentazioni consolatorie” si gioca sul terreno della vita, la nostra ecologia è una partita che va giocata sull’Autenticità in tempi di moralismo cinico, dalla pagina scritta al quotidiano, perché se scrivo un libro come La disgrazia elementare, lo scrivo come atto di responsabilità e “Di animali divorati nell’inverno…” non riesco più ad ammirarne con appetito la bistecca al sangue nel piatto. Ringrazio Chiara Catapano per la bella e intensa antologia erotica e insieme a Steven per l’occasione di lettura e approfondimento in queste ore di calura luciferina priva di afflati lirici e sentimentali, ahimè (o per fortuna direbbe Linguaglossa!)
Il problema non è la libertà espressiva o lo sdoganamento di certi termini, che sono stati sdoganati da tempo, ma la volontà imperiosa e urticante di imporsi all’attenzione a tutti i costi, vendendo tutto quello che si può vendere. Certi effetti sono definitivamente superati, ve ne rendete conto da soli, il fatto è che questa scrittura manca di profondità, è banale, fatta eccezione per qualche scarto inventivo sul piano linguistico. Scrive Chiara Catapano: “Si è parlato, per le poesie della Dono, di una estetica della pornografia: mi chiedo se ne sentissimo davvero così tanto la mancanza. Non si va più in là del gioco letterario, anch’esso d’autocompiacimento”. Sono d’accordo: qui c’è la gratuità dell’esibizione, abissalmente lontana dalla disperazione di un De Sade o di una Anne Sexton, a cui si vuole accostare gli esibizionismi gratuiti della Dono. Quello che sottolinea opportunamente Chiara Catapano è la necessità di ritrovare una strada verso il profondo e l’autentico: le questioni circa l’estetica del bello o del brutto appartengono al passato, le abbiamo tutti metabolizzate. E sinceramente non ho capito cosa intenda Letizia Leone circa l’atteggiamento dell’artista verso il nichilismo, quando scrive : “E un artista e un intellettuale non può non prescindere da questa contingenza (e ciò non significa che sia egli stesso un nichilista o abbracci acriticamente tale visione, come spesso viene frainteso, ma può anche esserlo poi volendo), significa che i suoi testi rivelino quest’Età dell’ansia, questa “salatura dei sassi”, questa condanna di Sisifo, magari” …“e ciò non significa che sia egli stesso un nichilista o abbracci acriticamente tale visione, come spesso viene frainteso, ma può anche esserlo poi volendo” . Quindi? A che gioco gioca l’artista della NOE? Quello di testimone della “contingenza nichilista” e della “condanna di Sisifo” per farsene interprete salottiero e borghese, che finge alienazione e condanna laddove risolve la sua ansia esistenziale in ostentazioni vuote, il cui unico senso è il riempimento degli abissali spazi di noia in cui nuota nei giorni, senza alcuna capacità, né ahimè volontà, di scalfirne lo strato superficiale?
caro Claudio Borghi,
tu scrivi, riferendoti ai poeti della «nuova ontologia estetica» di una «volontà imperiosa e urticante di imporsi all’attenzione a tutti i costi, vendendo tutto quello che si può vendere…».
Per favore puoi essere più preciso e dirci cosa noi vogliamo «vendere»? E soprattutto a chi?
Mi riferivo alla Dono, non a tutti. Dal contesto credo sia chiaro, occorre leggere il commento per intero.
gentile Claudio Borghi, gli “interpreti salottieri e borghesi” sono rimasti senza salotto, (a proposito di compravendite) venduto dietro i colpi impietosi di una metafisica del mercato globale…questo sempre in riferimento alla realtà storica contingente del nostro tempo o se preferisce uso il vecchio termine “zeitgeist”, spirito dei tempi, oppure Stimmung, o Tonalità emotiva fondamentale, clima esistenziale della contemporaneità come “disincantamento del mondo” cito da Max Weber e chi più ne ha più ne metta…Il disconoscimento di questo “eterno presente nichilista” porta alla falsificazione di ogni domanda di senso e non capisco a quali spazi di noia e ostentazioni lei si riferisca. Certo, forse alla “salatura dei sassi”?
L’ha ribloggato su SESTOSENSOPOESIA feliceserino's blog.
Davvero interessanti queste poesie nei diversi modi di intendere l’eros: forse il Padreterno ha sbagliato la forma, non il principio.
POESIA EROTICA: IL SENSO ABITA IL LINGUAGGIO, LA PULSIONE STA FUORI DEL LINGUAGGIO
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22160
La frase di Chomsky Colourless green ideas sleep furiously (‘Verdi idee senza colore dormono furiosamente’), mostra come, nonostante essa sia priva Bedeutung (significazione), non per questo manca di senso, purtuttavia risulta comprensibile a un lettore.
La proposizione in questo caso non ostacola il senso, non impedisce che la frase possa avere una sua comprensibilità; sebbene sia priva di significato e non voglia propriamente dire nulla di preciso; il che rende manifesta una cosa, “che tutto quanto è semplice grammatica fa senso ” 1].
L’esempio fornito serve quindi a chiarire quale sia il posizionamento dell’inconscio rispetto al linguaggio.
L’inconscio si rivela in questa separazione fra Senso e Significato (Bedeutung) in cui il soggetto si trova coinvolto. I sogni, come tutti i sintomi, possono non avere significato, possono, apparentemente, non voler dire nulla. Eppure, quanto ci insegna Freud è che il lavoro di interpretazione
serve a svelare la loro Bedeutung, il significato che questi sintomi e le rappresentazioni oniriche hanno per il soggetto.
Cosa significa tutto ciò? Significa che l’alienazione, operazione che s’impone al soggetto al prezzo del suo essere, rivela lo statuto del soggetto dell’inconscio, rivela che il senso non approda al significato se non in un secondo tempo, nella costruzione dell’interpretazione.
Analogamente, una poesia erotica (e non solo) può non avere Bedeutung (Significato) pur mantenendo un qualche «senso», ma il «senso» di una poesia erotica sta fuori del congengo linguistico, questo è il fatto.
La frase di Chomsky fa «senso», ma non significa nulla, lascia il soggetto nel vacillamento al cospetto del linguaggio.
Ma “fa senso” significa: esiste nel mondo del linguaggio. Solo nel mondo del linguaggio, solo perché, nel mondo del linguaggio, senso e significazione non sono la stessa cosa, sono anzi la condizione intorno a cui si può parlare di alienazione significante, in virtù della quale esiste una tale condizione. Il «senso» sta nel linguaggio, il significato sta «fuori» del linguaggio. La problematicità tipica della poesia erotica è che tra «senso» e «significato» si apre una forbice divaricantesi, un baratro…
La struttura grammaticale è l’essenza dell’Es. L’Es infatti ricorre, torna, in quanto parla, in quanto non smette di parlare e di articolare la pulsione, Trieb, Drive, Deriva… ma la pulsione una volta arrivata a compimento, smette di essere pulsione cieca e diventa linguaggio. E siamo di nuovo daccapo: Il senso abita il linguaggio, il significato sta fuori di esso…
cON QUESTO SPROLOQUIO VOGLIO DIRE CHE CI SONO DELLE SCRITTURE POETICHE CHE POSSONO ESSERE RAGGUAGLIATE ALLA SCRITTURA DELL’INCONSCIO E CHE L’INCONSCIO si situa nella scissura tra senso e significato…
1] J. Lacan, Livre XIV. La logique du fantasme, lezione dell’11
gennaio 1967.
«Penso dove non sono e sono dove non penso».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22172
Questo motto lacaniano ci indica allusivamente la zona occupata dall’Es e dall’inconscio (linguistico)…
Una poesia come quella della nuova ontologia estetica (in modo generalissimo) non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’Es nella strutturazione del discorso linguistico (poetico).
Negli autori della NOE un grandissimo ruolo è giocato dall’Es (linguistico), e noi sappiamo che l’Es rifugge dai concetti di «bello»-«brutto», accettabile non-accettabile, di buon-gusto non-di-buon-gusto, erotico e pornografico, tutte categorie ideologiche dell’Io che è una istanza eminentemente auto organizzatoria, organizza cioè la regolare partizione delle categorie ideologiche…
L’Es è quanto resta della struttura dell’io penso – È l’insieme del discorso meno (con il segno -): o io non penso o io non sono, rappresenta la verità dell’alienazione, il «resto» dell’operazione di divisione del soggetto, ossia tutto ciò che è “non-io ”.
Non a caso, una volta arrivati a individuare il luogo dell’Es, Lacan introduce la questione del «fantasma».
-glossario di disciplina-
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22173
violedilava sul tuo corpo-parola inchiodato.
Le mosche quasi adulte.
A malapena tre tavolini.
Fritz stava con un mozzicone di sigaro in mano.
Lei dall’altra parte.
Qualcuno ci raggiunse dal fragore delle palme.
L’autunno nel lembo di un telone.
Il buio solare.
Mentre lo straniero smisurava io
e
mio padre
ai lati mimetici dell’altalena oscillante sul prato.
Il suono di un aereo.
Le molliche scalene dietro la siepe montuosa.
Prima del vento le monache dal nero risvolto abbandonato.
Il peluche di gomma.
Un tovagliolo a quadri.
La ciotola con gli arachidi nudi e salati.
Gli stracci immobili.
I camerieri ci versarono vino frizzante nel lamento di una filastrocca senza fine.
Non ho parlato con nessuno.
C’era un gradino sotto la sedia.
questa è una poesia che ha delle punte di diamante
a proposito del «glossario di disciplina» di Francesca Dono, avrei da dire alcune cose:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22203
1) l’ordine del senso è altro dall’ordine dell’essere. Conseguenza di ciò è la nascita del «soggetto» come risultato di un’operazione infirmante in cui ne va del suo essere. Ma l’alienazione primaria è nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia alienato ab origine, non c’è parola che sia pura, e questo lo dimostra il linguaggio dell’Es, il linguaggio più personale è sempre il linguaggio dell’Altro; qui è evidente che l’esperienza della Parola del soggetto parlante è un’esperienza alienante in quanto la struttura del linguaggio si articola di fronte alla barra (S/s) che separa il significato dal suo significante.
2) È in virtù di questa articolazione che il «soggetto» viene ad occupare dei luoghi vacanti. I sintagmi deliranti della poesia di Francesca Dono ne sono la riprova, non c’è nulla in loro che non sia campato in aria, non c’è nulla diorganizzato in quanto l’istanza organizzatoria propria dell’io qui è fuori gioco, è una istanza esclusa: l’Es esclude l’io, lo dribbla. E questo io è un “rien ” a cui costantemente è rimandato allorquando prova a significarsi, “rien” che inchioda l’io al linguaggio alienato ab origine in cui consiste la logica stessa del rinvio come logica differenziale dell’articolazione del significante.
3) Tutto ciò che si determinerà successivamente – desiderio, pulsione, domanda, fantasma – avrà in questa premessa la sua condizione preminente, la sua origine: nell’assunto che il linguaggio è quanto ci dribbla, non occasionalmente, bensì costitutivamente. E in cosa ci dribbla? Nella possibilità di formulare la domanda “chi sono? ” e nell’impossibilità, allo stesso tempo, di reperire una risposta, nell’ostacolo che il linguaggio presenta verso ogni appello all’essenza, all’essere.
4) Sottolineare la dimensione rappresentativa del linguaggio non vuol dire così altro che segnalare la distanza, la differenza, e altresì la spaziatura che divarica il soggetto dal suo essere. Indipendentemente dal significante maître che viene a suturare e ricucire di volta in volta il soggetto dalla sua
divisione, resta il dato irriducibile che il linguaggio non può, in virtù di quanto accennato, interpretare – se non in termini illusori e finzionali – l’ordine dell’essere dal quale esso stesso estromette.
5) Il segno linguistico inaugura quella dimensione rappresentativa e al contempo abissale che infirma il «soggetto» e che vela la Cosa della vita, che spezza l’unità del binomio di senso e presenza.
Anche nella poesia della Dono i singoli sintagmi hanno pur sempre un «senso» senza che abbiano alcun «significato»
“ Il fondamento di questa ambiguità del significante è in quella frattura originale della presenza che è inseparabile dall’esperienza occidentale dell’essere e per la quale tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo esser presente un mancare ”1]
Per quanto l’io possa armarsi di «disciplina» e dotarsi di un «glossario» personalissimo, sarà sempre costitutivamente sotto la legislazione dell’Es che dovrà sottomettersi, in ciò rivelando il ruolo primario e originario che l’Es occupa nella vita quotidiana come anche nel discorso poetico della nuova poesia.
1] 160 G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Eiunaudi, Torino 1977,1993 e 2006, pp. 160-1.
Di Francesca Dono, alcuni estratti, cose belle:
–
Guardami. Il tuo glande scarcerato.
Ogni cavità irta nel ditalino sfrontato. Non stancarti.
Vuoi morire? Grandioso il tuo culo nero da cavallo.
Tutta questa notte ancora…
–
_Che si alzi l’animale nel lemma del tuo parlato.
Niente di poetico.
Nulla che si possa definire: osceno.
__Deliziosamente il lascito
su una scacchiera scomposta di mosse.
Re e Regina.
Fitte aderenze
verso le colonne rosse dell’ultima casa.
Ora sboccio. Una rosa tra le dita.
Prendila.
_________Ma prima legami.
“Tutta questa notte ancora…” e “Ma prima legami” sono versi che appartengono al gioco. Lei, Francesca Dono, non lo sta a spiegare. Non perde tempo, non vede cherubini e serafini, tantomeno balene. E’ immersa nell’accadimento. Gode e gioisce.
L’intera filosofia Tantrica è dominata dal SI’, nel Tantra non vi è nulla di proibito. Chi vedesse in queste poesie di Francesca solo voyeurismo ed esibizione si sbaglia grandemente: non sa giocare, ma soprattutto legge in modo prevenuto.
Alla poesia appena postata da Francesca Dono, tanto di cappello.
Versi bellissimi.
Non mi azzardo a immaginare l’approvazione di Saffo, ma penso che non avrebbe negato il suo sguardo amorevole a questi amanti, o alla poetessa che ne celebra gli orgasmi.
Anche il pensiero nichilista andrebbe risollevato, esplorato con meno disagio: non mero appiattimento, non è la temuta fine del mondo.
Tutto questo non fa che spingere la procreazione,l’eros basso,serve questa esperienza perchè abbiamo un corpo,saremmo angeli altrimenti Penso che il sesso debba rappresentare solo un passaggio all’ Eros più alto,troppa attenzione é dedicata alla pratica alle meccaniche sessuali,é schiavizzante e al sistema che domina quale che sia. tutto questo serve,a creare figli, nuovi schiavi,ecco il femminismo,l’aborto,che non ha liberato un bel niente si é solo assicurato di imbottire per bene l’uomo di sesso emancipare falsamente la donna e per dominare meglio manipolare anche i poeti come Saffo e altri citati da Voi in questo articolo. Potrei citare Epicuro?
P.S. Ho cercato ditalino su google mi ha dato in risposta pasta alimentare di forma cilindrica con superfice esterna rigata o liscia,ma poi trovo sul garzanti masturbazione femminile WoW
Si tratta proprio di meccanica.Quantistica?
A proposito di Saffo…
(il mio contributo musicale alla poesia)
Ecco di nuovo il nostro Luigi Dallapiccola (1904 – 1975): qui con i “Cinque frammenti di Saffo”, per soprano e orchestra da camera, lavoro composto nel 1942 – ovvero in piena guerra – sulle liriche tradotte da Salvatore Quasimodo e raccolte nel volume “Lirici greci”. Uscito nel 1940 per i tipi della rivista antifascista «Corrente», il libro suscita subito un grande interesse per l’estrema libertà della traduzione, che rende la poesia antica in uno spirito, per così dire, “moderno”, privandola di quegli arcaismi classicheggianti, che avevano caratterizzato le precedenti traduzioni.
A questa rinnovata versione, Dallapiccola associa il rigore espressivo della dodecafonia. Il suo intento è operare un cambiamento sostanziale e definitivo nella musica italiana, fino ad allora dominata da quel dilagante «neoclassicismo» che, affermatosi negli anni Trenta, ormai volgeva alla fine.
Nei “Cinque frammenti di Saffo”, la dodecafonia dallapiccoliana, puntando alla realizzazione di una minuziosa ed essenziale purezza timbrica e contrappuntistica, non rinuncia comunque mai del tutto a una linea melodica cantabile, che evidenzi le qualità espressive della voce. E, anzi, lo stesso rigore dodecafonico sembrerebbe perfino accentuarla.
La prima esecuzione dei cinque frammenti ebbe luogo dopo la guerra, nel 1947, presso la Radio di Torino, sotto la direzione di Franco Caracciolo e con Magda Laszló solista.
N. 1 – Vespro tutto riporti
Vespro, tutto riporti
quanto disperse la lucente aurora:
riporti la pecora,
riporti la capra,
riporti il figlio alla madre.
N. 2 – O mia Gongila, ti prego
O mia Gongila, ti prego:
metti la tunica bianchissima
e vieni a me davanti: Io sempre
ti desidero bella nelle vestì.
Così adorna, fai tremare chi guarda;
e io ne godo, perché la tua bellezza
rimprovera Afrodite.
N. 3 – Muore il tenero Adone
«Muore il tenero Adone, o Citerea:
e noi che faremo?»
«A lungo battetevi il petto, fanciulle,
e laceratevi le vesti».
N. 4 – Piena splendeva la luna
Piena splendeva la luna
quando presso l’altare si fermarono:
e le Cretesi con armonia
sui piedi leggeri cominciarono,
spensierate, a girare intorno all’ara
sulla tenera erba appena nata.
N. 5 – Io lungamente
Io lungamente
ho parlato in sogno con Afrodite
BUON ASCOLTO!!
grande musica per le mie orecchie Costantina!!!
dimenticavo: ringrazio tutti comprese le critiche ovviamente.
Per chiudere il discorso su Francesca Dono – comunque la si pensi, leggere Chiara Catapano è sempre un piacere, ancor più se nel dialogo combinato con Steven Grieco, e l’articolo, per il tema proposto, è di grandissimo interesse – dicevo che Francesca, nella su doppia anima, erotica e lirica unite però da frammentismo, se nell’erotica tende a farsi discorsiva nell’altra rompe gli schemi e porta il frammento alle estreme conseguenze. Giorgio ha parlato di inconscio ( a me invece impaurisce il frammento della Dono e gliel’ho detto, salvo poi scoprire che ha doti nell’alleggerire con ironia) ma procedendo in una critica spericolata, azzardo che si potrebbero trovare punti di incontro tra la Dono e Amelia Rosselli: certi lapsus nel linguaggio, le troncature e il gioco dei non finiti. Certo, mettendo da parte ogni riferimento alla musicalità, e alla luce della nuova critica NOE. Ma se ne parlerà ancora più avanti, spero.
Desidero ringraziare tutti coloro che hanno arricchito con i loro commenti questo post. Sono fuori casa senza accesso al pc e dunque mi è ostico rispondere dal telefonino. Ci provo.
Voglio ringraziare prima fra tutti Francesca Dono, che ha compreso attraverso la critica la stima per il suo lavoro. E tutti gli altri: per i contributi e per il dialogo aperto, onesto, dai toni perfetti.
Grazie come sempre a Giorgio Linguaglossa che veicola questi dialoghi. Li rende possibili.
È un piacere navigare sull’ombra con voi.
“L’amante di lady Chatterley”è, innanzitutto, un romanzo storico.Non è un modo per sminuirlo,anzi.Io ci leggo la forza della metamorfosi che caratterizza le Storia,ed esprime nelle piccole vicende umane le sua ineludibile presenza.Qualcosa di simile c’è anche nella Monaca di Monza,ribelle perchè la storia già preannuncia i tempi in cui non si potrà imporre a un figlia di farsi suora.Esempi consolanti, ma la prevaricazione del più forte sul più debole è destinata durare.
Ammirazione per:
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– Chiara Catapano, autrice di una nota ad elevata temperatura culturale che l’ha condotta ad una scelta di composizioni poetiche rispondenti ai postulati
anche ideologici della sua stessa nota (certo, per dirla anche con Adeodato
Piazza Nicolai, un qualche brandello poetico di Whitman sarebbe stato di certo arricchimento, ma nulla toglie alla convincente qualità dei frammenti proposti);
– Steven Grieco-Rathgeb, per avere ricondotto l’esercizio ermeneutico a quello che da tempo con Giorgio Linguaglossa la Redazione de L’Ombra delle Parole sta sostenendo. E cioè l’analisi dei versi, uno per uno, di una poesia.
Ottimi tutti i commenti, anche se taluni (C. Borghi) suscitano qualche riserva.
Ma il baricentro di tutta la pagina resta la questione
linguaglossiana del “Chi è che pone le categorie estetiche?”
Gino Rago
Quale riserva suscitano? Semplicemente ho fatto riferimento alla critica, netta ed esplicita, di Chiara Catapano sui versi pornografici di Francesca Dono, fra l’altro ribadita, seppur in forma diversa, anche da Grieco, ma mi sembra che la dialettica interna sia piuttosto carente. Suscita riserva chi, dove tutti vanno nella stessa direzione, nuota controcorrente?
No, gentile Claudio Borghi,
mi riferivo solamente al “Quindi, a che gioco gioca l’artista della NOE?”
Gino Rago
D’accordo, ma sarebbe stato interessante un confronto su posizioni chiaramente non allineate, e mi spiace dover constatare l’ennesima occasione persa.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22207
e all’inizio ti asciugai
i piedi con una pezza
perché ero la tua schiava
e tu mi chiamavi principessa.
Principessa!
QUESTI VERSI DI ANNE SEXTON SONO DAVVERO STRAORDINARI…
,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22209
Vedi, caro Claudio Borghi,
il mio commento di ammirazione per quei 4 versi di Anne Sexton e la disparità di giudizi espressi da parte di vari poeti della nuova ontologia estetica sulla poesia erotica di Francesca Dono, significano una cosa sola, che la NOE non è una falange macedone, non c’è uniformità nel suo ambito, non c’è un dogma a cui tutti si debbono inchinare, c’è invece pluralità di opinioni e di interessi e di indirizzi. È questo che differenzia la nuova ontologia estetica da tutti gli altri gruppi e pattuglie che hanno formicolato nel tardo novecento, noi non abbiamo nessun capitano padronale, non annunciamo nessuna buona novella. Abbiamo un progetto culturale, cosa c’è di strano?
E infine, una cosa: nel tardo novecento italiano non abbiamo una poetessa del livello di Anne Sexton (tranne poetesse mai accolte tra gli editori a maggior diffusione…, e cioè: Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura…).
Proprio stamane ho postato un semplice commento in margine ad una poesia di Mariangela Gualtieri pubblicata presso un sito internet: «poesia tremendamente banale». Caro Borghi, come vedi io prendo sempre posizione, esprimo il mio pensiero direi quasi con candore, con ingenuità, non faccio compravendita con nessuno (come tu accusi in modo sconsiderato i membri della NOE), altrimenti non avrei criticato severamente certi poeti pubblicati da Mondazzoli, non credi?
Io non ho accusato nessuno. Ribadisco che la mia critica aveva tutt’altro significato: rileggi bene il mio commento, non interpretarlo in modo arbitrario. Quanto alla libertà di opinioni, non può che farmi piacere, anche se dovrebbero manifestarsi in discussioni più critiche, come nel caso della Dono, vista l’evidente divergenza di vedute.
Proprio adesso leggo una poesia inedita (erotica) di Mariella Colonna che lei ha mandato alla mia email, la posto:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22212
Mariella Colonna
Carolyn è una creatura perfetta:
alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.
Prova lampante e significativa di quanto il non detto poeticamente sia più espressivo del detto, lo spirito del desiderio più importante del contatto carnale, l’eros del sesso, la distanza della vicinanza. Siamo tutti sostanze provvisorie chiuse in corpi, attraversati da miriadi di microparticelle, confini labili che si illudono di essere consistenti, e l’amore non è mai possesso, sempre tensione verso un altrove, un corpo di senso e sensazione che mai sarà nostro, che possiamo solo inventare e immaginare, nella speranza di contatto interiore e sensibile.
Grazie, Mariella, per questi versi.
Grazie, Claudio, per aver letto i miei versi. Per me è già tanto, perché scrivere una poesia non è un gesto rivolto a se stessi soltanto, è soprattutto un gesto di comunicazione: noi siamo nati per stare insieme agli altri, nel bene e nel male, per dare e ricevere dagli altri. E una poesia può essere un gesto d’amore (non in senso erotico-sessuale o romantico) verso chi la leggerà.
E’ un vero peccato che non arrivi a destinazione!
Corrige: speranza di contatto con speranza di un contatto
Non vorrei estraniarmi dalla poesia erotica. Per questo ne inserisco una, facendomi perdonare da Linguaglossa. E’ secondo il mio punto di vista un testo che usa il linguaggio aristocratico pur essendo l’erotismo dentro l’anima e il cuore. Basta captarne le frasi.
Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.
Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.
Non ci crederai, Mario, ma la sola frase “essendo l’erotismo dentro l’anima e il cuore” mi ha toccato sul vivo e mi sta facendo sentire i tuoi testi più recenti come sorretti da una filigrana invisibile, come fossero dentro un’anima più grande in cui i frammenti, di vita, di senso, è come nuotassero in una sostanza in cui acquistano valore e necessità. Non hanno senso in sé, sono schegge di nulla, esistono solo nella relazione, come le monadi. È un’illusione, forse, la separazione dei corpi e degli eventi. La quiete è impossibile, davvero, tutto, forse, esiste in e tende a qualcosa.
Caro Borghi,
ecco la riappropriazione dei sentimenti dove “anima e cuore” riemergono come da un lungo letargo, e chissà perché ci guardiamo bene dall’oggettivarli per non essere classificati “sentimentali”. La parola oggi ha preso il sopravvento sulle emozioni e dimentica il “fanciullino” di Myricae. E’ la nuova costituzione linguistica che richiede il distacco dalla letteratura del Novecento, fatta eccezione per gli esiti poetici di Sanguineti che ne hanno alterato il vecchio impianto formale.Sono convinto che le parole debbano scavare la pagina bianca per renderla fisiologicamente accettabile. E’, insomma, questo, il lavoro dei poeti della NOE, che si propongono non come rivoluzionari del Logos, ma come “staffettisti” che percorrono la strada della poesia modificandone il percorso.”La scrittura”, scriveva Carlo Ossola su Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 1999, “è sempre reversibile, cancellabile all’istante, Barthes è stato l’ultimo fedele della scrittura: corpo e figura del mondo.”Il piacere del testo” nasceva da questa ascesi delle infinite variazioni della scrittura, che sono state nei secoli necessarie perché un testo si componesse, dando via via in sé a un cosmos, a un ordine, che prevedeva anche – tra la materia vigente di cui era fatto (fibre vegetali, tracce di sudore o di lacrime ecc.), l’intermittente palpebra del lettore”.Tu sei uno scienziato e la tua cultura ti porta a vedere il Mondo e l’Universo su altre sfere psicoestetiche. Vorrei solo farti presente che io considero la poesia come un frammento uno di quelli che si vedono in estate cadere la notte di San Lorenzo e che ogni dialettica su questo tema debba essere conciliante per un reciproco equilibrio dei fondamenti esposti.
Caro Mario,
sentimento e pensiero non sono in antagonismo, sono le due componenti di cui è fatta la psiche, o l’anima se vuoi, non c’è priorità dell’uno sull’altro, nel senso che non c’è priorità dell’idea sull’emozione, come della materia sull’idea, occorre accettare la sostanza in cui siamo immersi e da cui non possiamo scorporarci, nostro dovere è conoscerla e viverla (ce l’ha insegnato soprattutto Spinoza). Io sono convinto che il tappeto ultimo sia fatto di monadi (vedi la sezione Monadi ne La trama vivente), né atomi né quanti, qualcosa che li contiene e li trascende insieme. Qualcosa che va oltre Leibniz, ma anche oltre il Modello Standard delle particelle e delle forze. Nessuna filosofia ci potrà bastare, come nessuna scienza, dobbiamo accettare che la trascendenza ci è data in forma immanente, che noi come individui siamo insignificanti, ma non lasciarci andare come schegge vuote, bensì attivarci come schegge coscienti, capaci di visione e pensiero. La via che riporta il nulla all’essere, i frammenti al Disegno, il Molteplice all’Uno, non è di vacua beatitudine, è l’esistenza nella sua immensità di senso e nonsenso, luogo di dolore ma anche di luce in cui cerchiamo, a fatica, di imparare a stare, muoverci e imparare. E’ nella poesia che filosofia e scienza si riducono, quando l’intelletto raziocinante trova il proprio confine e si coglie come entità limitata. Oltre il limite della rappresentabilità entro i confini e gli strumenti dell’intelligenza inizia lo sterminato essere della poesia, in buona parte ancora da esplorare. Su questo, in accordo con le tue ultime battute, siamo in pieno accordo. Da qui inizia a battere l’intelligenza della poesia.
Corrige: siamo in pieno accordo con siamo in piena sintonia
Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.
Caro Giorgio,
grazie per aver postato la mia Carolyn, ma…io non mi ero accorta che fosse una poesia erotica. Che un soldato in Afghanistan sogni una belle donna è un fatto reale, ma l’eros , secondo me, è una cosa diversa. Però è interessante capire quante interpretazioni si possono dare al termine…è sempre un “gioco” di parole il nostro…spesso appassionante, e perfino divertente. ma io vorrei che non ricadessimo in argomenti ormai superati da nuovi interessi. Il mio nuovo interesse è il “potere della parola”: mi sto accorgendo che la parola ha un potere immenso…forse non ce ne siamo accorti abbastanza. Una parola, detta al momento giusto, può impedire ad un assassino di uccidere, ad un aspirante suicida a non buttarsi dal ponte, una o più parole possono interferire nel corso degli eventi.
Il potere della parola poetica poi è ancora tutto da scoprire: la NOE (e certo altri poeti che non seguono il nostro indirizzo estetico) sta lavorando in questo senso, cioè nella ricerca del rapporto tra la parola e “la cosa” o il mistero dell’Essere”: perché non ci concentriamo sperimentando con le parole oltre che con le affermazioni teoriche? Io direi di lanciare questa idea ai poeti. e vedere che “cosa” ne viene fuori. Purtroppo io scrivo per ultima e non so se qualcuno mi leggerà. Chissà…c’è anche qualcuno che, quando legge un libro, comincia dall’ultima pagina!
Un grazie di simpatia per tutti i veri poeti! Mariella Colonna
Certo che tu ed io, cara Mariella, cerchiamo l’eros in posti ben lontani dalle nostre mutande: tu in Afghanistan e io niente meno che su una stazione orbitale. Tra un po’, ne sono certo, avremo nostalgia di Francesca Dono ahahhhh !
Però, insuperabile Gabriele quando scrive:
“Le notizie che arrivano, e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.”
Caro Lucio, perché non mi chiami “londadeltempo”? 🙂 Avresti anche potuto dire qualcosa della mia poesia, invece di parlare di eros, mutande,
‘Afghanistan e stazione orbitale. E non dimenticare Richard Bach: “Nessun luogo è lontano”! Tu non ci credi? Io sì.
Cara Ondadeltempo,
nemmeno io mi sarei aspettato una poesia come questa tua, in tema di erotismo. Però la tua Carolyn mi piace, sembra in una cartolina del’45, o del Vietnam… no, in Afganistan. Ma sarà nuda e in un video? Meglio la cartolina. E la cartolina in un film. Ma vera nella tua poesia.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22240
Leggendo la poesia di Mario Gabriele mi è tornato in mente un pensiero di Adorno: «Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano» (Dialettica negativa, 1966 tra. it. 1979, Einaudi p. 365)
Penso che la poesia di Gabriele, ma questo vale per tutti i poeti di un certo valore, l’unico tema, il tema centrale è: perché la felicità?, perché l’infelicità? – A pensarci bene è incredibile come, nonostante tutti gli sforzi dell’umanità per creare un mondo che dia spazio alla felicità, invece siamo riusciti soltanto a creare degli ostacoli (insormontabili) alla felicità. La poesia ha senso se ci dice qualcosa di questa gigantesca problematica che ci sta a cuore, che sta a cuore di tutti… tutto il resto, le battute di spirito sono opera di letterati…
La poesia di Gabriele è un vero museo dell’innocenza (Pahmuk), un museo di citazioni, di affiches, di manifestini, di biglietti da visita, di ricordi, un museo dell’orrore di quello che è stata la storia del novecento e degli ultimi secoli di storia europea. Tuttavia Gabriele ha la mano leggera, così come anche Mariella Colonna (londadeltempo), entrambi hanno il tocco felice, sanno divagare, andarsene per le strade laterali, perdersi per poi ritornare, ritrovarsi.
In Gabriele c’è un’obiettivo distacco, una capacità di non concedere mai alibi al lettore e a se stesso, sa essere vigile contro ogni sentimentalismo e buonismo, sa ritrarsi dalla scrittura, sa lasciare parlare la scrittura quasi che l’io, il suo io non esistesse… ma anche Mariella Colonna in queste ultime poesie inedite che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima, è riuscita a lasciar parlare la scrittura, a lasciarla andare, non inseguirla, a perderla…
Grazie, Giorgio, per questo tuo ulteriore excursus critico.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/31/per-unecologia-della-poesia-erotica-whales-weep-not-le-balene-non-piangono-una-poesia-di-d-h-lawrence-commento-introduttivo-di-chiara-catapano-commento-di-chiusura-di-steven-grieco-rathge/comment-page-1/#comment-22242
«Se un disperato, che si vuole suicidare, chiede a chi cerca benevolmente di dissuaderlo, quale sia il senso della vita, il salvatore è perduto e non sa nominarne alcuno; appena ci prova, può essere confutato, eco di un consensus omnium, che porterebbe il conforto al suo nocciolo: l’imperatore ha bisogno di soldati. Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione.» 1]
Analogamente, chiedere a una poesia che avesse senso, è un atto barbarico, la poesia non ha senso alcuno almeno nel senso di chi è pieno di senno e di senso. Tutta la poesia che ha senso va respinta al mittente con uno sberleffo.
Analogamente, chiedere a una poesia di non aver senso, è un atto incomparabilmente più barbarico, perché denota una aperta disistima e disprezzo del senso… E non c’è modo di uscirne, la poesia deve continuare ad oscillare tra questi due estremi sbattendo la testa di qua e di là…
Forse a un disperato che si vuole suicidare dovreste dare in un foglietto una poesia di Hölderlin o di Leopardi se voleste salvarlo in qualche modo…
Adorno Dialettica negativa Einaudi, 1970 p. 340
Vorrei proporre qui la lettura di una poesia di Petr Král, uno scrittore ceco, che apprezzo moltissimo. Sebbene sia tra i maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, in Italia è poco conosciuto. Come sanno soprattutto gli amici che leggono la nostra rivista, Petr Král è stato tradotto da Antonio Parente, nell’antologia “Tutto sul crepuscolo” (Mimesis 2014) e, in tempi più recenti, da Laura Angeloni, che ha curato l’edizione italiana di “Nozioni di base” (Miraggi 2017). Per saperne di più, o rinfrescarci la memoria, si possono consultare i bellissimi post che gli ha dedicato L’Ombra delle Parole, un motivo in più di orgoglio per tutti noi che vi collaboriamo. Infatti, se in Internet cerchiamo Petr Král, verifichiamo come solo la nostra rivista telematica se ne sia occupata ampiamente. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicare due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.
Questo dato di fatto conferma la distanza che separa la poetica di Petr Král dal gusto letterario nostrano, come dichiarò lo stesso scrittore nella nota per i lettori italiani dell’antologia citata (Tutto sul crepuscolo):
«Di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana; […] non tutto quello che offro può sembrare allettante ed eloquente per il lettore italiano. Perciò è anche possibile che vi sia uno scontro tra le mie e le sue abitudini e preferenze; laddove nella poesia italiana direi che prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui, possono anche suscitare un minimo di disturbo».
Ma è davvero così? Mi domando. È proprio vero che la poesia di Král può essere talmente poco compresa, da provocare “uno scontro” tra questa e chi la legge, o perfino “un disturbo” (anche se “minimo”…)?
Valutate voi, leggendo questi versi…
(La traduzione è di Antonio Parente)
Caduta
E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone
dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca persino segreta
del cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la notte,
tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca
una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota.
Cara Costantina Giancaspero,
prima di dare una ermeneutica di questo testo di Petr Král, vorrei dire qualcosa di molto più importante. Mi aiuterò citando un passo di Thomas Bernhard, da Perturbamento (Adelphi, 2002):
«Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio che lui stesso non intende, ma che ogni tanto, viene inteso. Il che ci permette di esistere e di essere perciò quanto meno fraintesi. Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso, disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient’altro […]Il linguaggio non serve quando si tratta di dire la verità, di comunicare qualcosa, il linguaggio permette a chi scrive soltanto l’approssimazione, sempre e soltanto la disperata e quindi anche dubbia approssimazione all’oggetto, il linguaggio non riproduce che un’autenticità contraffatta, un quadro spaventosamente deformato, sebbene chi scrive si dia un gran da fare, le parole calpestano e deformano tutto, e sulla carta trasformano la verità assoluta in menzogna».
Il problema sollevato da Bernhard è questo: che noi crediamo, diamo per scontato, di intendere qualcosa (per non parlare di una poesia) sulla base di un «paradigma» nel quale quel qualcosa che abbiamo detto (o quella poesia) rientrerebbe.
Avviene che quando leggiamo una poesia noi obbediamo ad un «paradigma inconscio», inconscio perché lo abbiamo assunto con il latte della mamma e diamo per scontato che ciò che corrisponde al paradigma sia «poesia» mentre di ciò che non vi corrisponde diciamo che non è «poesia». Questo ragionamento noi lo replichiamo automaticamente tutte le volte che leggiamo una poesia e così facendo non facciamo altro che replicare la nostra sordità. Potremmo leggere per altri mille anni la poesia di Petr Král che ci scivolerebbe dalle orecchie come alito di vento. Allora, sarà chiaro che il problema della nostra (italiana) sordità verso la poesia di Král, non è la poesia dell’autore ceco, ma risiede all’interno dei gangli del «nostro» paradigma che si rivela inidoneo alla comprensione di un tipo di poesia che le è estraneo.
Ora, sta di fatto che la poesia di Petr Král, non rientra nei parametri del «paradigma» poetico italiano così come si è consolidato nel secondo novecento, e quindi non può essere decodificata, ci mancano le chiavi.
E qui si ripropone, drammaticamente, la necessità di rinnovare il paradigma della poesia italiana del secondo novecento e di questi ultimi anni epigonici. È un problema gigantesco, per risolvere il quale la «nuova ontologia estetica» deve affilare gli strumenti ermeneutici e filosofici. È questa una questione di vitale importanza. La poesia italiana di oggi se vuole sopravvivere alla propria «nientità» dovrà mutare il paradigma. Non è un problema da poco, ma ormai, dopo cinquanta anni di immobilità, è chiaro quanto vado dicendo da alcuni anni in mezzo a una miscomprensione quasi generale: qualcuno dovrà pur prendere atto il perché la poesia italiana è minoritaria in Europa, assolutamente minoritaria e tale resterà se non mutano le condizioni di base che hanno consentito il consolidarsi di questo «paradigma»…
Da quanto detto, si può dunque affermare che il sistema della rappresentazione (o paradigma) in uso in un sistema linguistico è in realtà quanto determina il soggetto, quanto lo pone nella condizione «costituiva» che possiamo definire di marcatura di un solo tipo di nominazione poetica, quella storicamente egemone in una data comunità linguistica.
È tutto molto chiaro, caro Giorgio.
Il Novecento ci ha dato tanto, ma ormai la sua eredità si è esaurita. Da decenni i tempi ci impongono di guardare avanti. E, per non averlo fatto, ora siamo già molto in ritardo…
Perciò, una volta acquisita l’urgenza di rinnovare il paradigma della poesia italiana, non rimane che impegnarci a fondo per liberarla dalla sua stagnazione. Questo è il compito di chi crede realmente alla poesia e segue un progetto serio, autentico. Ci vuole onestà: non quella auspicata da Umberto Saba (che pure, al suo tempo, perseguiva un’idea “rivoluzionaria” della poesia), ma quella che si raggiunge scavando nella scrittura, con strumenti ben affilati (per riprendere una tua espressione).
Io per prima mi sto impegnando in questo lavoro. Tu lo sai. Lo sa e lo comprende chi ha la capacità di cogliere le differenze tra una scrittura e l’altra. Chi, leggendo (anche in traduzione, pazienza) un poeta come Petr Král, non prova “disturbo”, o, peggio, non resta indifferente, sordo… D’altro canto, io credo che ci voglia anche una qualche innata predisposizione a sentire certa poesia. Come dicevano i miei maestri di musica, l’arte non è tutta frutto dello studio. Già… “Perché ci vuole orecchio”, cantava qualcuno.
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