PER UN’ECOLOGIA DELLA POESIA EROTICA WHALES WEEP NOT! LE BALENE NON PIANGONO! UNA POESIA DI D. H. LAWRENCE Trinita Buldrini, Steven Grieco-Rathgeb – Commento introduttivo di Chiara Catapano Commento di chiusura di Steven Grieco-Rathgeb

foto Andy warhol paintings lips

LA MANTIDE E IL CAVALLUCCIO MARINO

di Chiara Catapano

La coppia più audace e longeva del mondo, Eros e Thanatos, come tutte le coppie del mondo, è soggetta al pettegolezzo. E più d’altre vi si espone, fraintesa, mal capita, erroneamente interpretata. Da psichiatri, filosofi, esteti, poeti. Non passa giorno che qualcosa sfugga o indebitamente vi si associ dell’altro, per eccesso di zelo, per narcisismo, per incapacità, per ostinata passione. Spesso sono le migliori intenzioni a tradire questa coppia.

Spinosissimo parlare di poesia erotica – spinoso in generale parlar di ogni cosa in arte, in tempi in cui il giudizio è sospeso, macchia d’olio nel mare del web. Ma bisogna provarci, con tutte le lacune che potranno rimanere aperte, o che si potranno – fresche – aprire; perché insomma un po’ d’ordine va fatto. Un po’ di chiarezza: così come non tutto ciò che viene scritto con audaci ‘a capo’ è poesia; e di quanto rimane nel setaccio, non tutto ciò che si denuda è erotico.

La poesia di D. H. Lawrence, tradotta da Trinita Buldrini e Steven Grieco-Rathgeb, ha accompagnato in noi tre considerazioni su cosa sia l’eros in poesia. Va chiarito da ben inizio che non su criteri di “bello” o “brutto” qui ci basiamo (che quelli già la fine dell’800 li ha – fortunatamente! – scardinati mettendoci tutti gambe all’aria), bensì ci appelliamo al sacrosanto diritto/dovere di riconoscere (e defenestrare) il banale in letteratura, il tossico nella vita. Il trito e ritrito. La scopofilia.

La banalità, sissignori, esiste. Striscia sempre sulla superficie, non s’immerge. Tanto più rischioso quando si associa il gesto artistico all’eros. L’atto carnale è di per sé solo una parte del movimento erotico; ridurre dunque un testo all’anatomia di un amplesso è proprio come ridurre, per riprender la metafora di sopra, una poesia ai suoi a capo.

Ma è la civiltà dei consumi, dove i corpi stessi vengono a loro volta consumati nella loro smania di realizzazione: corrosi, per raggiungere un’acme, una postura effimera – E Letizia Leone, nelle sue poesie erotiche mette in luce proprio questo aspetto. Come nel suo  “La disgrazia elementare” chiarisce la natura esasperata dall’umano, la fine imminente, “la fossa tossica/e ai margini un orto/per insalate di malve e asfodelo”, altrettanto le sue poesie erotiche sono immersioni e riemersioni nel consumo della carne, indagine dentro l’umano che non si sente più parte di un tutto. Al limitar del bosco, dove la donna riesce a cantare con voce propria il tempo dell’amore di lattice.

Questa è poesia erotica che chiarisce i tempi in cui viviamo: l’essere umano con la sua distopica visione di sé, il suo collocarsi altrove rispetto al resto del mondo. Pezzi da usare. Ma dove queste immersioni non avvengono, dove i versi si dedicano alla parola eiaculata a forza come autoerotismo davanti ad un film porno, cade il palco, cade l’eros, cade ogni utilità. Banalità e cattivo gusto si sfiorano, e non mi si parli di gusto personale. Perché per carità, è lecito ci si dedichi anche al banale: basta saperlo.

Erotismo non è una questione di eiaculazioni e ditalini, per spiegarsi chiaro. Eros ha sempre la capacità di aprirci al mondo, e non ci chiude nel piccolo, angustissimo mondo delle scopate e dell’uso dei corpi. Della fermentazione dell’ego. Ciò che continua a stupirmi, nel leggere poesia erotica è la miope condiscendenza ai propri genitali: davvero la percezione è che sia tutto lì, l’eros? Che sia lì l’indicibile forza e la creatività? Davvero è così difficile comprendere che essa esiste prima di tutto nella natura di cui il nostro corpo è parte?

onto catapanoRidurre il corpo al corpo è la deriva dell’inutilità cui ci ha condotti la schiavitù antiecologica dei consumi. Per denunciare, suvvia, non basta citare. Ho tirato in ballo Eros – Thanatos per riportare il punto alla partenza. Per iniziare con un punto: Eros non è – solo – propensione sessuale, ma sensualità contrapposta a Thanatos. Così mentre Thanatos distrugge per rimettere in circolo, Eros raccoglie e spinge verso la creatività, l’istinto creativo, la spinta a generare (che sia la propria discendenza o l’opera d’arte).

Nella poesia di D. H. Lawrence l’eros si realizza pienamente, e noi siamo portati, sollevati, eccitati alla corsa, a disperderci fiduciosamente nel mondo. Vi è la gioiosa affermazione del corpo naturale, degli sfioramenti, delle penetrazioni, del mistero. La cromatica gioiosa della sessualità, la naturalità che vive nelle fibre nostre, così come in ogni pertugio di vita nel mondo.

Così, nella poesia di D. H. Lawrence, non possiamo adattare il metro stolidamente umano e solo umano, che divide e rappresenta il frammento scollegato dal resto: quello dell’amore romantico, o sensuale, o sessuale… L’erotismo contiene in sé ogni categoria, mentre ogni distinzione è insignificante in natura. Non appannaggio dell’essere umano, in quanto apice di un processo evolutivo, è l’aver scoperto il sesso separato dall’istinto vitale, il corpo separato dal tutto: sono falsi problemi, strade chiuse. D. H. Lawrence lo proferisce così bene, in questa come in altre poesie cariche di erotismo, in cui ci riporta a far parte della meravigliosa creazione della vita.

Così qui ci nutriamo di buon pane, di pane sano, ci appaghiamo perché siamo trascinati dentro la vita e dentro ciò che la regola: il movimento. Mentre ci può capitare (ci sarà capitato) di leggere e rileggere e provar afflizione, disagio. O di aver morso un pezzo di quel pane bianco alla cui farina è stato tolto il cruschello, la crusca, la pula… ha tutto lo stesso gusto. Ci sazia, ci gonfia, ci appesantisce. Andiamo a schiacciare un pisolino per digerire.

Quando leggo poesia erotica, se sto leggendo davvero poesia erotica, non mi sembra di star a guardare dal buco di una serratura. Non mi siedo dentro una camera da letto spostando un po’ qua un po’ là le lenzuola per far spazio agli altrui amplessi. Non mi aggiro tra falli eretti come tra colonne doriche in un tempio. Se ciò accade, significa che devo aver sbagliato genere: ho acquistato un libro pornografico, ho aperto quel libro aspettandomi eros e mi sono trovata a leggere pornografia.

Non giudizio morale, ma delucidazione su due piani distinti, che spessissimo vengono beatamente fusi assieme. Oppure, ancora, sto leggendo di un modo per ridurre a grado zero la virilità maschile, praticando una sorta di castrazione per iper-sommistrazione d’immagini. E ciò accade anche, mi spiace dirlo, nella poesia erotica femminile. Basta fare un giro sul web, sfogliare qualche libro tra gli scaffali di una libreria.

Mi riferisco qui anche ad alcune poesie di Francesca Dono, apparse qualche tempo fa sull’Ombra delle Parole. Si è parlato, per le poesie della Dono, di una estetica della pornografia: mi chiedo se ne sentissimo davvero così tanto la mancanza. Non si va più in là del gioco letterario, anch’esso d’autocompiacimento.

Ci interessa qui il punto di vista di Elytis sulla figura del poeta: “Certo, all’epoca di Saffo o di Archiloco, come pure all’epoca di Dylan Thomas o di Neruda, dal momento che la separazione da qualsivoglia mito divino si era ormai compiuta, solo l’Io del poeta era chiamato ad avere un ruolo di primo piano. Soltanto che, entrando in questa, diciamo così, fase lunare del mondo occidentale, l’Io ha assunto toni talmente acuti che è venuta a mancare ogni possibilità di sottolineatura. Tuttavia, l’Io del poeta – insisto su questo concetto e dobbiamo accettarlo – non è il poeta quale si delinea al mondo; è il mondo quale si delinea al poeta. Il che vuol dire che se il poeta costituisce un’eccezione, questa eccezione in sé non ci interessa, ci interessa in quale maniera l’eccezione concepisca la regola.”

Tutto ciò che venga preso di per sé, isolato e ridotto a icona, frustrato nella sua appartenenza al flusso della realtà complessa, in arte non ha più valore e durata; di contro, si tramuta in balocco momentaneo.

Perché, mi riferisco ora in generale all’erotico femminile, facilmente si riconoscono un po’ di trucchetti, di pantomime, di maschere deformanti usate per denudarsi: la donna, che da secoli cerca la liberazione, indossa abiti sopra ad altri abiti e si proclama svestita. Se poi dal già detto, già fatto, già visto (perché di questo si tratta) avessimo ereditato davvero la parità sociale e psicologica, non ci ritroveremmo ancora oggi a proclamarci libere perché “sboccate”, mentre rimaniamo -noi donne- discriminate sul posto di lavoro per il fatto di poter portare avanti una gravidanza.  Che anzi tracimazioni verso l’ego spinto alla massima proclamazione dell’uso del corpo sviliscono e aggravano le disparità ancora ahimè fortemente radicate. Non dimentichiamoci di quella branca del femminismo che nel ’68 ha dato l’opportunità ( a costo di durissime, giustissime lotte) anche attraverso l’arte, di abbattere un muro d’omertà sulla condizione femminile in Italia; ma quelli sono stati fondamentali approdi sociali, perché se qualche peso letterario avessero avuto, oggi ne rimarrebbe una qualche traccia.

Ciò che voglio dire è che a volte la donna, seguendo false vie, confonde parità e uguaglianza. E quando questo avviene, in arte, ci vien da sbadigliare. Va così a chiudersi nella gabbia di altri schiavi: se è erotismo che ci vuol regalare.

Di nuovo sacrificando il suo essere profondo, che rimane celato all’uomo – il quale la cerca, e vorrebbe infine conoscerla per ciò che realmente è. E si tratta, attraverso l’erotismo, molto semplicemente di svelare la propria segreta diversità. La gioia anche, di questa sofferta diversità.

Lo dico con dispiacere, perché mi accorgo che la strada è lunga, e che i tempi così detti moderni non ci hanno insegnato poco più se non nuove forme di matriarcato. E qui non sto toccando, non mi si fraintenda! nessuna delle libertà guadagnate con tanta fatica da parte di donne (e uomini che le hanno sostenute) nella battaglia per i diritti civili. È proprio lì che la lingua batte.

Perché, a titolo d’esempio, i versi di Saffo sono ancora così assolutamente moderni? Perché nella Grecia arcaica la sessualità era la voce della natura: percepita come tale, nel flusso e non fuori dal flusso vitale, era molto più naturale che non nella presunta spontaneità del neo-libertinismo contemporaneo. Insomma, siamo tra la mantide e il cavalluccio marino; tra uguaglianza e parità. Ci dibattiamo, noi donne, nell’Eros negato, voluto, oblito, confuso, esasperato.

Dunque se l’Eros ci contiene, se contiene la nostra immagine, perché rispecchiata nel mondo, avremo fatto un altro passo verso la librazione, quella totale, che ci ricorda in modo perentorio, con tono deciso, quanto l’atto creativo che ci appartiene è più di un segno riflesso. Più di una clonazione.

WHALES WEEP NOT!

(da D. H. Lawrence, Selected Poems, with an introduction by Kenneth Rexroth. The Viking Press, New York, 1959)

They say the sea is cold, but the sea contains
the hottest blood of all, and the wildest, the most urgent.

All the whales in the wider deeps, hot are they, as they urge
on and on, and dive beneath the ice-bergs.
The right whales, the sperm-whales, the hammer-heads, the killers
there they blow, there they blow, hot wild white breath out of the sea!

And they rock and they rock, through the sensual ageless ages
on the depths of the seven seas, 
and through the salt they reel with drunk delight
and in the tropics tremble they with love
and roll with massive, strong desire, like gods.
Then the great bull lies up against his bride
in the blue deep bed of the sea
as mountain pressing on mountain, in the zest of life:
and out of the inward roaring of the inner red ocean of whale blood
the long tip reaches strong, intense, like the maelstrom-tip, and comes to
rest
in the clasp and the soft, wild clutch of a she-whale’s fathomless body.

And over the bridge of the whale’s strong phallus, linking the wonder of
whales
the burning archangels under the sea keep passing, back and forth,
keep passing archangels of bliss
from him to her, from her to him, great Cherubim
that wait on whales in mid-ocean, suspended in the waves of the sea
great heaven of whales in the waters, old hierarchies.
And enormous mother whales lie dreaming suckling their whale-tender
young
and dreaming with strange whale eyes wide open in the waters of the 
beginning and the end.

And bull-whales gather their women and whale-calves in a ring
when danger threatens, on the surface of the ceaseless flood
and range themselves like great fierce Seraphim facing the threat
encircling their huddled monsters of love.
And all this happens in the sea, in the salt
where God is also love, but without words:
and Aphrodite is the wife of whales
most happy, happy she!
and Venus among the fishes skips and is a she-dolphin
she is the gay, delighted porpoise sporting with love and the sea
she is the female tunny-fish, round and happy among the males
and dense with happy blood, dark rainbow bliss in the sea.

LE BALENE NON PIANGONO!

Dicono che il mare è freddo, ma il mare contiene
il sangue più caldo (di tutti), il più sfrenato, il più pressante.

Sono calde tutte le balene nelle sconfinate profondità, mentre spingono
avanti, avanti, e si tuffano sotto i ghiacci.
Le balene franche, i capodogli, gli squali martello, le orche
lì soffiano, lì, lì – caldo bianco selvaggio respiro in alto sul mare!

E si cullano, si cullano attraverso le sensuali età senza età
sugli abissi dei sette mari,
e ondeggiano nel sale precipitando inebriate
nei tropici fremono di amore
e si rigirano nel massiccio desiderio, forti come dèi.
Poi il grande maschio si avvicina premendo la sua sposa
nel profondo letto blu del mare,
montagna che spinge montagna, nell’entusiasmo della vita:
e dall’interno scrosciare del più interno rosso oceano del sangue di balena
la lunga punta impennandosi intensa come punta di vortice si adagia
nell’abbraccio e nel dolce, selvaggio stringere del corpo di lei insondabile.

E sopra il ponte del forte fallo di lui, che unisce lo stupore delle balene
gli arcangeli di fuoco sempre passano sotto il mare, indietro e avanti,
sempre passano, arcangeli di gioia,
da lui a lei, da lei a lui, grandi Cherubini
che vegliano sulle balene in mezzo all’oceano, librati sulle onde del mare
vasto paradiso delle balene nelle acque, antiche stirpi.

Ed enormi madri balene giacciono sognando e allattano i teneri
balenotteri
e sognano con i loro strani occhioni cetacei nelle acque del principio e della
fine.

E i maschi radunano le loro femmine e i piccoli in cerchio
nel momento del pericolo, nella piena dei flutti incessanti
e si schierano, come grandi fieri serafini di fronte alla minaccia
rannicchiando in cerchio i loro mostri d’amore.
E tutto questo accade nel mare, nel sale
dove Dio è amore, ma senza parole:
a Afrodite è moglie delle balene
felice, felicissima lei!
E Venere fra i pesci guizza ed è una delfina
è lei l’allegra deliziata focena che gioca con l’amore e con il mare
lei il tonno femmina, rotonda e felice tra i maschi
e densa di sangue felice, oscuro arcobaleno di gioia nel mare.

(Traduzione: Trinita Buldrini, Steven Grieco-Rathgeb)

Onto Grieco

Commento di Steven Grieco-Rathgeb

Dopo che noi tre abbiamo deciso di proporre la la poesia di Lawrence con traduzione italiana, sono andato un po’ in giro su Internet a vedere la poesia erotica. Su L’Ombra delle Parole ho trovato quella di Letizia Leone, che conoscevo già, con le sue premesse radicate in un’istanza di emancipazione femminile del tutto convincente. Ho trovato altri esempi, fra cui una scelta di Francesca Dono, anche questa su L’Ombra. L’avevo letto nel maggio scorso: ha una forte volontà di emancipazione, ma per me è molto meno efficace. Di essa mi permetterò una critica decisa, ma senza alcuno spirito di polemica: il mio intento è più semplicemente dare un contributo ad un’ecologia della poesia in genere e quella erotica in particolare nei minacciosi tempi che ci troviamo davanti.

Sono sorte subito tre domande: cosa può essere la poesia erotica oggi? Quale il criterio per giudicare la poesia erotica, e più in generale un’opera artistica? Quale la base esistenziale su cui poggiano i primi due?

La prima questione è per me presto risolta dalla poesia postata qui: espressione stupefacente della modernità del sentimento erotico di Lawrence, tutto teso a sincronizzare il tempo umano con quello del mondo. Egli non ebbe figli, così non ebbe mai la reale esperienza del senso di continuità biologica e psichica di chi invece ne ha. In questo modo precorrendo i nostri tempi, di bassissima natalità nei paesi sviluppati e di fertilità decrescente (prima di tutto, a quanto pare nello sperma del maschio umano). Eppure la sua poesia è tutta protesa a celebrare la continuità delle cose.

Lascia perplessi invece poesia erotica come questa della Dono. E non a caso, proprio l’uso del Latino mette in evidenza il rapporto tra essa e l’oscurantismo religioso, teso per sua natura ad egemonizzare il corpo umano: volendo la sua poesia essere l’antitesi di quell’oscurantismo, finisce per esserne l’immagine speculare. Quest’ultimo infatti è una piovra ben radicata nella coscienza umana, oggi più invisibile di ieri.

L’eros in Lawrence è slancio profondamente “procreativo”: è questo il bellissimo “mistero” che egli ci dà: niente affatto misterioso, ma realtà alla luce del sole. “Procreazione” io la intendo come Eros: quella stessa enorme energia che a sua volta figlia altre forme di creatività: se per qualcuno sarà una famiglia con bambini, per altri sarà poesia, pittura, l’ascolto della musica, una passeggiata in campagna, qualsiasi attività svolta con una spinta creativa, con slancio “erotico”.

Da notare l’effetto quasi aleatorio con cui cambia di colpo il soggetto, “And Aphrodite is the wife of whales”: come senza preavviso egli passa dalle balene ai pesci, al delfino, alla focena, al tonno femmina, che serve non solo a sottolineare l’universalità e fremente vicinanza a noi degli abissi marini, ma anche a riprendere gli effetti sincopati della nuova musica classica contemporanea di quegli anni, i bruschi passaggi che creano un’armonia in realtà più alta e più soave dell’armonia consueta… Poiché quelle dissonanze SONO l’armonia della nostra contemporaneità. E infatti, quanto amore e pienezza per tutte le cose sentiamo nelle musiche di uno Stockhausen, uno Xenakis! (Del primo consiglio l’ascolto di “Oktophonie”, del secondo, “Bohor”.)

Con fervore vitalistico, Lawrence toglie al Dio cristiano ogni sacralità pseudo-spirituale: il suo pieno compimento è solo nell’amore, che per l’uomo può essere anche e in certi casi imprescindibilmente amore fisico, fondamentale esperienza umana (salvo tutte le importanti eccezioni) per raggiungere qualsiasi vetta esistenziale o spirituale, poetica, filosofica, o scientifica che sia. Ciò apparenta il ‘Dio’ di Lawrence, ad un altro, Krishna, il quale indica anche lui la pienezza dell’amore pluridirezionale: è anche e fortemente attraverso l’amore sensuale che l’anima individuale raggiunge la pienezza, il compimento.

E, “…lei il tonno femmina, rotonda e felice tra i maschi…” ci ricorda Draupadi, la moglie dei cinque fratelli Pandava nel “Mahabharata”: ci ricorda l’amore in gruppo, e dunque la liceità di ogni vertiginosa sessualità.

In Lawrence il senso dell’unione tra femmina e maschio sembra stare in questo movimento “da lui a lei, da lei a lui”, quando il “ponte” del fallo – desiderio carnale maschile – tocca il suo massima apice raggiungendo il “corpo insondabile” della femmina, che da sempre sembra consapevole di qualcosa di più (forse per il fatto della gravidanza, del parto…). Ma lo stesso anche avviene in tutti i rapporti intimi che hanno come base se non l’amore, comunque il rispetto dell’integrità fisica e spirituale dell’altro.

Ma Whales Weep Not! non serve solo come metafora di un supremo animale e umano amare: soprattutto ci ricorda che non è affatto nostro “sacro” diritto di fare tutto quello che vogliamo, anche negando o sottilmente degradando l’integrità della compagna/o. Oggi la poesia erotica di questo tipo stride in modo particolare, perché siamo arrivati ad un bivio, umanamente, socialmente ed ambientalmente. Le descrizioni capillari del “glande” denudato con egoistico furore, la “vulva” aperta a forza… ecco, questi sono tipici sintomi di quella rivendicazione di libertà di espressione che si apparenta al Nichilismo. Il tutto vicinissimo all’inquinamento dell’ambiente.

Nel suo commento, con qualche imbarazzo mi è parso di capire, L. Leone cerca di difendere le ragioni di questa poesia: “Una poesia che [assomma] su di sé il carico della rimozione storica di sessualità e corporeità femminili…” Ebbene, questo solleva le questioni centrali: la dignità umana, i diritti negati, la libertà di diventare fisicamente e psicologicamente quello che si vuole essere. Ma questo tipo di poesia erotica è una risposta appropriata? Non assistiamo invece all’ennesimo, rabbioso, futile tentativo di “desacralizzare” il corpo femminile (e quello maschile)? Ma il corpo umano non è mai stato “sacro”: e nemmeno “profano”: semplicemente, tutti hanno rivendicato l’egemonia su di esso. E così anche il singolo individuo, in questo caso il poeta, tenta di strumentalizzare il corpo per i suoi fini. Se per una reale emancipazione fossero serviti davvero 50 anni di questo impietoso smontare la fisicità umana in componenti disarmonici per offrirli allo sguardo del voyeur, allora ci troveremmo tutti d’accordo. Ma non nascondiamoci dietro un dito: sappiamo benissimo che non è così: i nostri corpi rimangono tra le merci più sfruttate che esistano oggi: sfruttati dalla religione, dalla medicina, dalla scienza, dall’interesse economico – e, quando possibile, anche dalla poesia. Alla faccia dell’emancipazione.

Vado avanti alla seconda questione. Nel suo commento, Letizia Leone dice: “In questi versi un immaginario a luci rosse viene elevato a categoria estetica…” Non in modo più preciso avrebbe lei potuto porre il nodo centrale della malattia che ancora oggi affligge la poesia in particolare. Esiste forse un’accademia della poesia che decide le “categorie estetiche”? Ecco l’inqualificabile ritardo della poesia rispetto alle altre arti!

La decostruzione di antiquati parametri estetici risale alla fine del XIX sec. E a chi la cosa non fosse stata chiara allora, Picasso dedica nel 1943 quella incredibile “Testa di toro”, costruita con un sellino e un manubrio di bicicletta. Joyce e i poeti modernisti hanno fatto almeno una parte del necessario in ambito letterario-poetico. Più lampante ancora è, in musica, la perfetta equiparazione tra “suono” e “rumore”, operata da Stockhausen ed altri musicisti nel secondo dopoguerra. Questa anche si rivela nel tempo essere stata una fondamentale tappa esistenziale: nel caso specifico, verso una ecologia della musica.

Tutto è potenzialmente “arte” oggi, non sono più le categorizzazioni a decidere, non esistono arbitri del gusto. Via gli assoluti, via i critici, via le scuole, via gli stessi artisti in quanto rappresentanti di un’arte che non esiste più. Rimane però l’eccellenza del singolo artista, che un fruitore con gusto estetico ben sviluppato, cultura profonda e un senso dell’ecologia delle cose, può riconoscere.

Nel 2009 sono andato alla Biennale di Venezia. Nello spazio di alcuni giorni ho visto diverse centinaia di opere. Mi è rimasto un quesito: tramontati tutti i criteri “assoluti” del valore di un’opera, quale poteva esserne una valutazione reale? Perché innegabilmente io vedevo lì opere “belle”, altre “brutte”, o “bruttissime”, qualcuna perfino “sublime” (l’installazione di luci e cavi di rame in uno spazio buio, opera di un’artista brasiliana). Dunque un criterio estetico “mio” lo avevo. Con tutto lo sfacelo e paradigmatica confusione che viviamo, oggi esiste pure una grande apertura, una incredibile finestra di opportunità, un respiro ancora di vere libertà (che presto, sentiamo dire, dovranno misurarsi con automazione, spionaggio dell’individuo e AI Artificial Intelligence: sistemi che creeranno difficoltà per le libertà dell’individuo: non solo quelle democratiche, ma anche quella creativa).

Erano le mie valutazioni alla Biennale soggettive? Sì e no. Era comunque necessario che avessi un retroterra e bagaglio culturale capace di lasciarmi “afferrare” le opere e farmene un’idea sufficientemente compiuta perché scattasse l’esperienza estetica. In seguito, questa esperienza il fruitore scoprirà di condividerla con un sufficiente numero di altri individui come lui. E dunque, è il giudizio individuale, ben ragionato e sostenuto da un appropriato bagaglio culturale, l’unico criterio possibile per valutare un’opera. Capii allora che gli unici due criteri che possedevo per formulare un giudizio estetico erano questi: da una parte, gusto e preparazione culturale; dall’altra, sostanziale condivisione con altre persone simili a me (“like-minded people”), chiunque siano e da ovunque vengano.

Questo è così diverso dal passato? Be’, oggi, caduti i riferimenti assoluti, c’è un po’ più solitudine. In compenso, c’è più libertà di scelta, libertà di fruizione estetica ed esperienza puramente creativa.

Questa “nuova mappa per la scrittura erotica”, invece, evoca un falso “nuovo”, impigliato negli stretti cunicoli della rivendicazione della libertà individuale egoistica e disfattista. L’emancipazione della donna (e attraverso questa anche quella dell’uomo) ha bisogno urgente di una piattaforma esistenziale e filosofica ben più vasta, più generosa, più ardita nell’immaginare un futuro oltre la rapina e lo sfruttamento dell’essere umano e dell’ambiente.

Intanto la poesia rimane ferma, sepolta sotto le sue incrostazioni retorico-letterarie, incapace ancora oggi di dotarsi di una limpidezza teorica. (Lo stesso vale, se dobbiamo dire la verità, per certa arte visiva contemporanea). Invece noi poeti e lettori vogliamo una poesia flessuosa, leggera d’impianto, capace di volare alta come un’aquila nell’attimo in cui dice il mondo. Ecco, a mio avviso, l’importanza della NOE.

Faccio un altro chilometro di strada e poi mi fermo. Possiamo constatare come ancora oggi tantissima scienza e filosofia e società stentino a capire come l’uomo da tempo non può più essere visto come unità umana inserita in una cosa asfittica che chiamiamo “contesto sociale”: e che quindi è soltanto la “società” che ha bisogno di essere “migliorata”: per quanto riguarda “l’ambiente” basta pulirlo!

Si parla addirittura, ovunque ormai, dell’avvento dell’era geologica dell’Antropocene – la nostra, oggi – in cui il pianeta è dominato in maniera crescente dalla presenza dell’essere umano. E’ un concetto che faccio apparire qui per la prima volta sull’Ombra delle Parole. Ma vi invito a informarvene, ho cercato e trovato anche molti siti in italiano che ne parlano. Iniziato negli anni 50 del secolo scorso, L’Antropocene è caratterizzato da una massiccia presenza umana, la quale lascia sulla Terra in maniera crescente tre impronte principali: l’estrazione del carburante fossile, l’inquinamento da plastica, la presenza planetaria del pollo di batteria (ormai 22 miliardi).

I tempi sono corsi avanti con velocità furente negli ultimi 60 anni, eppure molta scienza si pone ancora di fronte a ciò che studia o su cui riflette come soggetto di fronte a oggetto. Non esito qui a parlare di analfabetismo. A dispetto delle ardite speculazioni provenienti da certi comparti della fisica e astrofisica, la società umana e il suo scibile sembrano ancora impotenti e immersi dentro un sistema ancorato ad una visione del mondo trapassato, profondamente ostile ad ogni cambiamento. Visione, purtroppo, inevitabilmente incatenata al concetto nichilistico di “progresso”.

Certi “prodotti” culturali anche nascono da questo ritardo-equivoco: lo stesso che appunto ci inchioda oggi al Nulla di un nostro conservatorismo sociale, culturale e artistico e ambientale.

La non identificazione dell’essere umano nel suo ambiente – quella realtà infinitamente complessa che lo sostenta in tutti i modi e in ogni attimo ne determina ogni minimo pensiero – è indubbiamente stata favorita dai tempi “veloci” dello sviluppo industriale, dalla crescente specializzazione delle scienze, dal crollo dei (falsi) valori assoluti, dall’atomizzazione dell’individuo voluta da un’economia sempre più liberista e rapace. (Ma i sovietici e i cinesi di Mao non erano diversi: come spiega il filosofo Boris Groys, la società perfetta di stampo socialista-comunista, e la “fine della storia” del capitalismo, sono due facce della stessa medaglia). I motivi più profondi di questa mancata identificazione, soprattutto in un momento così delicato, non sono necessariamente tutte visibili. Possiamo dire tuttavia che essa ha portato alla frammentazione, alla derelizione della vita sul nostro pianeta. Situazione che però ci presenta una importante opportunità per capire chi siamo, dove abitiamo, e soprattutto come possiamo “sentire” la natura misteriosa del nostro vivere al di là di ogni religione, scienza o filosofia.

L’argomento è talmente delicato e specializzato che non lo si può ridurre in alcun modo. Probabilmente si tratta oggi (domani potrebbe cambiare) di una questione soprattutto “ecologica”: l’ambiente come estrema, amplissima estensione del nostro corpo; il corpo come concentrata intensità dell’ambiente. Una continuità indivisa. La violenza che viene compiuta oggi su entrambe è difficilmente spiegabile sul piano ideale: su quello pratico è più che spiegabile, visto che siamo noi stessi, io e tu che mi leggi, che perpetriamo (seppure spesso contro la nostra volontà) questa violenza.

Noi tutti, poeti compresi, dovremmo al di là delle spurie categorie estetiche riuscire a meglio interiorizzare la mutata realtà del nostro vivere individuale e collettivo su questo pianeta. Le premesse attuali su cui ci basiamo sono conservatrici nel senso peggiore della parola perché si ostinano a non tenere conto che l’uomo è un “Essere ambientale” prima ancora che un “Essere sociale”. Notiamo, ad es., la deplorevole mancanza di un nuovo e radicale approccio alla questione della “legiferazione” necessaria per affrontare questa emergenza: un corpo di leggi profondamente nuovo e aggiornato alla situazione attuale, capace di meglio regolare lo sviluppo industriale, frenare i consumi in eccesso e la distruzione dell’ambiente, garantire la libertà/responsabilità sociale di ogni individuo, armonizzare la pianificazione famigliare, etc.

Con l’essenziale integrità delle cose sempre come base. Sotto il profilo di un futuro Brave New World (già trapassato), troppo semplicisticamente insistiamo a vedere l’ambiente e il corpo umano come fatto di componenti smontabili. Da tempo invece affiora la visione di quell’insieme indivisibile che siamo ed a cui apparteniamo. Anche noi poeti possiamo fortemente esserne portatori. Secondo una notizia di questi ultimi giorni, le osservazioni degli astrofisici indicano che gas cosmici provenienti dai più remoti angoli dell’universo vengono da sempre attirati verso la Via Lattea, per la naturale gravità-attrazione di quest’ultima: e che quindi anche noi, e il nostro piccolo orto su questo pianeta, dobbiamo considerarci costituiti di quegli stessi materiali inter-galattici, per cui la nostra identità è probabilmente ben più complessa di quanto non pensino i biologi. In una mia poesia del 1990, il poeta dice al suo lettore: “Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso / in questa notte di marzo senza luna: / questo cosmo a imbuto, alto lignaggio, / tenebra di stelle sul dirupo  numinoso.” Da “Entrò in una perla”, poesie di S. Grieco-Rathgeb, Edizioni Mimesis Hebenon, 20016. (Il volume lo trovate su Internet.)

Abbiamo lasciato le religioni alle spalle, da tempo siamo entrati in questa lunghissima ricerca dell’illimitatamente grande e dell’illimitatamente piccolo: laddove anche il tempo, forse, si piega e si altera, o del tutto scompare così come lo abbiamo conosciuto. Oltre il “piccolo” e il “grande”, c’è ovviamente altro. O addirittura Altro. Chissà. Ma lasciamolo stare. Nel nostro tempo è in questo modo e con questi strumenti mentali che noi umani ragioniamo. Nel prossimo sarà sicuramente diverso. Niente mai si ferma: ma, come dice Mirza Ghalib, nell’universo esistono “punti di sosta”.

Lontanissimo dal vetero-individualismo della poesia erotica a “vicolo cieco”, D. H. Lawrence ci pare oggi un profeta di quel disastro che ormai dobbiamo industriarci in tutti i modi possibili a impedire. Chissà che John Cage non avesse scritto “Litany for a Whale” ispirandosi proprio a questa poesia.

Chiara Catapano fa qui seguire un’antologia di versi erotici, di poeti e poetesse più vicini o lontani nel tempo e nello spazio:

***

Non voglio garofani, né tintinni di cetra,
né vini di Chio, né profumi di Siria,
non bagordi, né orge e gozzoviglie.
Odio codesti come sintomi di follia.
Ma di narcisi cingetemi il capo,
lasciate ch’io oda suoni di flauti e ungete
le mie membra con olio di croco:
bagnatemi con vino di Mitilène la gola,
e portatemi qui, una vergine da bordello.

(Filodemo)

***

Tu, Eliodora, vuoi risparmiare la tua verginità.
A che scopo? Non è scendendo al regno dei morti
che troverai chi ti ama. Il piacere d’amore 
sta solo nei vivi. Nell’Acheronte, mia piccola,
giaceremo tutti ossa e cenere.

(Asclepiade)

***

Metà della mia anima respira, l’altra metà è scomparsa,
rapita da Eros o da Ade, non so bene

(Callimaco)

***

Da che sento parlare di lei soltanto, 
la notte veglio e il giorno 
per l’ardore mi sento morire, 
come labile rugiada 
sul fiore di crisantemo

(Yoshimine no Harutoshi)

***

La vidi appena, vagamente, 
qual fiore di ciliegio di montagna,
attraverso la foschia: 
e ora come mi struggo 
nel desiderio di lei

(Ki no Tsurayuki)

***

Nudi stiamo 
sopra le maschere.
Eretti.

Questo timore
che sia rimasto qualcosa
ch’io non presi.
E il timore 
che quell’infinito
abbia fine.

(G. Ritsos)

***

Al tuo idioma appartennero
le mie più limpide parole
cardine sfocato di emozioni
disegnavano un nome
l’arco baciato della schiena

Apparizione e musica
la tua testa arricciata verso l’oro
i mie maldestri tentativi
il gioco dei tuoi occhi costruisce
camminamenti e mura
palazzi dove crescono gli enigmi
fiori che sciolgono il granito

Suoni dolcissimi salivano
nell’avventura perfida del neon
divenuta fluida la stanza
il pavimento incoraggia
nuova dimestichezza con il letto

Limpida sera circuita da una complice luna
che brividi le mani lungo i corpi
trascrivono i ciottoli una musica
le scarpe affondano nel mare
languidissima nota la sua bocca
approdo irraggiungibile domani

(Salvatore Martino)

Ah quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi
Ho attraversato. Però non mi ha mai prestato un po’ di bellezza il tempo.
E una vittoria per sconfiggere il nero e prolungare la durata dell’amore cosicché
Sia più ingegnoso e melodico del suo pulpito
Il canto dell’allodola che è in noi
Nube accigliata che solleva uno schietto “no” come una piuma 
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e
Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino

Con la sabbia tra le dita serravo le dita
Con la sabbia negli occhi serravo le dita
Era il dolore –
Ricordo era aprile quando sentii la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano argilla e peccato

Quando nelle pianure che nudissime ragazze hanno svegliato
Falciano con mani bionde il trifoglio
Spaziando fino ai confini del loro sonno, ditemi è il melograno pazzo
Che nei loro canestri ripone insospettato le luci
Che fa traboccare di cinguettii i loro nomi

(O. Elytis)

***

Sei così soffio, così iride-soffio, e cristallo sottile che mi dai la vertigine della fragilità.- Ma la ragione che t’amo è che dilati a volte gli occhi di disperata passione e la morte ci passa vicina. Dici con voce di groppo allora: – Abbandonami! Fammi del male perché io sia perduta. Battere il capo nel muro! Ho voglia di disperazione.

(G. Boine)

***

Bambina!
Non ti spaurire 
se sul mio collo taurino
seggono come un’umida montagna donne dal ventre sudato:
è che attraverso la vita io trascino
milioni di enormi casti amori
e milioni di milioni di minuscoli sudici amorucci.

(W. Majakovskij)

***

Il mio cuore è troppo, oh! Troppo centrale!
E tu sei solo carne umana;
E allora non trovarmi ingiusto
Se ti faccio del male!

(Jules Laforgue)

***

Di tutto sgombrate la mente fuorché della carne e del dare il
latte maschio che crea la vita!
Come erba dal terreno rastrellate gli scoppi di gioia
trovati sulla vostra anima fertile!

(Fernando Pessoa)

***

Eros ha scosso la mia mente
come vento che giù dal monte
batte sulle querce
– 
Avvolgeva i suoi piedi 
una scarpina ricamata,
lavoro bello di Lidia.
– 
Cantino le vergini per tutta la notte 
l’amore tuo e della sposa
dal seno di viole.
Ma tu destati, avviati
con i tuoi giovani amici
perché possiamo vedere
un sonno ancora più breve
d’un uccello dal canto sonoro.
– 
Vieni ancora, liberami dal penoso tormento,
e quello che il mio cuore desidera,
compilo: sii mia alleata!

(Saffo)

***

Non potendo baciarmi con la sua bocca,
la divina Rodante mi porse la zona virginale
e io la baciava, mentre come giardiniere che irriga,
traevo all’altro capo il rivolo d’amore
con l’aspirare quei baci; e schioccando sul cinto
le labbra, da lontano la mia fanciulla ribaciavo,
con ciò illudendo il tormento: … e la dolce
cintura era il ponte sospeso fra l’una e l’altra bocca.

(Agatia)

***

Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle
– 
Da cuore a cuore
pensieri diversi – eppure
la brezza dei pini
e la stessa che sfiora
le gote dell’amica e le mie.

Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.

Spingendo dolcemente
ho schiuso quella porta
che chiamiamo mistero.
Mammelle turgide
strette nelle mani.

(Akiko Yosano)

***

Ero avvolta nella pelliccia
nera, nella pelliccia bianca
e tu mi svolgevi
e in una luce d’oro
poi m’incoronasti,
mentre fuori dardi di neve
diagonali battevano alla porta.
Mentre venti centimetri di neve
cadevano come stelle
in frammenti di calcio,
noi stavamo nel nostro corpo
(stanza che ci seppellirà)
e tu stavi nel mio corpo
(stanza che ci sopravviverà)
e all’inizio ti asciugai
i piedi con una pezza
perché ero la tua schiava
e tu mi chiamavi principessa.
Principessa!

Non credere
che non lo sappia
che quando mi parli
la mano della tua mente
senza farsene accorgere
mi sfila le calze,
e si muove cieca e intraprendente
lungo la mia coscia.

Non credere
che non lo sappia
che lo sai
che tutto ciò che dico
è un indumento.

(Anne Sexton)

questo deforme amore ha solo sbagliato
cielo, ha sragionato
con le mani aperte, nere
sui seni
lui il demonio mi ha radicato
al corpo, sia benedetto
e santo se cura l’apatia.

Non è solo un organo
questa beatitudine ad orologeria.

Guerrieri notturni e un imperatore:
bisogna piegarsi
cedere il fianco al vincitore.
Ma questo padrone ha occhi di brace
ha una lingua oscena.
Dicono sia bello, io non oso
immaginarlo.
Lo vivo attraverso l’odore
Attraverso le correnti umide
del suo fiato di uovo:
solo così lo godo.
Tra fetori, candele
gocce bollenti di cera luminosa.

(Letizia Leone)

***

Albero della vita: 
vita eterna, unità di principio maschile e femminile, giardino del Paradiso.
Il semino che hai deposto nel mio ombelico lo lecco ogni sera. 
Conosco i principi della fecondazione, e dico che tra noi sarà possibile ogni amplesso. A volte sarò io la tua virilità e tu l’acquiescenza del ricevere.
Solo in questo modo verrò, donna, a te. Se sei la poesia, saprai riconoscermi dietro ogni maschera.

Pigna: 
fertilità, vita eterna, salvezza.
La pigna mi raccomanda il balsamo per santificare le sacre ore trascorse di silenzio.
Un giorno lo scriverò col fiato al mio fidanzato sulla pigna di roccia in qualche cimitero romano: 
gli chiederò di trovarmi per assonanza, nel silenzio: sarà il gioco a suggerire in quale nome sapremo cingere i nostri fianchi – o m’illudo? Perché ciò che più amo mi raggiunge con polpastrelli di farina: 
e se mai credessi di possedere, sarei perduta.

(Chiara Catapano)

D. H. Lawrence: Breve scheda biobibliografica

D. H. Lawrence, romanziere e poeta, nato nel 1885 a Eastwood, nel Nottinghamshire (Inghilterra). figlio di un minatore e di una ricamatrice nonché maestra e pianista, a cui Lawrence rimase sempre profondamente legato. Conobbe Frieda Weekley (Von Richthofen) nel 1912, e si sposarono nel 1914. Viaggiarono a lungo in Germania, Italia e Francia, negli Stati Uniti e in Messico, in Sri Lanka e Australia. Autore fra l’altro di romanzi, fra cui “Sons and Lovers” ( Figli e amanti, 1913), “The Rainbow” (L’arcobaleno, 1915), “Women in Love” (Donne amorose 1920), “Lady Chatterley’s Lover” (L’amante di Lady Chatterley, 1928), che a suo tempo fecero molto scalpore, suscitando nel pubblico e fra intellettuali e artisti controversie e opinioni diametralmente opposte. Lawrence perorava la causa di un erotismo e una sessualità liberi – ma questo non senza forti contraddizioni teoriche, che gli portarono anche l’accusa di anti-femminismo. (Nella sua poesia ho in effetti trovato passaggi non in armonia con la visione di una totale uguaglianza fra donna e uomo.) Da rilevare inoltre una sua forse latente omosessualità.
Insomma, un uomo a tutto tondo, con tutte le sue contraddizioni e debolezze.
D. H. Lawrence morì di tubercolosi a Vence, in Francia, nel 1930.
E’ considerato, insieme a Joyce e a Virginia Woolf, fra i maggiori narratori del Novecento di lingua inglese. Ancora oggi meno conosciuto come poeta, è possibile che in futuro venga ricordato più per la sua lirica che per la narrativa. Ma questa è un’opinione personale.

84 commenti

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84 risposte a “PER UN’ECOLOGIA DELLA POESIA EROTICA WHALES WEEP NOT! LE BALENE NON PIANGONO! UNA POESIA DI D. H. LAWRENCE Trinita Buldrini, Steven Grieco-Rathgeb – Commento introduttivo di Chiara Catapano Commento di chiusura di Steven Grieco-Rathgeb

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