Giacomo Leopardi – Il pensiero filosofico e poetico del recanatese nelle letture della nuova ontologia estetica e di Emanuele Severino – a cura di Giorgio Linguaglossa

Congresso di Vienna

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Digital art (l’ente)

Giacomo Leopardi nella lettura della «nuova ontologia estetica»

Non c’è dubbio che il pensiero e la poesia di Leopardi siano usciti fuori dell’orizzonte di lettura delle ultime quattro decadi della cultura poetica italiana. La poesia italiana si è mostrata reticente e restia ad affrontare l’eredità poetica del recanatese e a ricollegarla alla sua filosofia critica; il recanatese è così diventato un grande estraneo, uno scomodo e ingombrante poeta pensatore, ad avviso di Severino il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Addirittura, di recente una poetessa alla moda lo ha inserito tra i poeti «minori».
La «nuova ontologia estetica» ritiene invece che occorra al più presto rimettere Leopardi nel posto che gli spetta, come il primo e più grande poeta pensatore europeo che pensa la crisi come un complesso di enti dileguantensi nel nulla. Il pensiero poetante che si esplica in una poesia è l’ente dotato di autocoscienza. La nuova poesia europea dunque parte da Leopardi. La «nuova ontologia estetica» si è occupata a più riprese del «problema Leopardi», e ha rimesso al centro della propria ricerca la questione dell’ente, e quindi la questione del nichilismo nella sua fase attuale di sviluppo e del peculiarissimo «stato psicologico» proprio della nuova poesia ontologica. In questa accezione, la NOE non poteva non occuparsi della critica del recanatese alla civiltà del suo tempo e si è mossa in direzione della fondazione di una nuova poesia ontologica che ripartisse da una critica radicale dell’economia estetica e filosofica degli istituti stilistici del secondo novecento e dei giorni nostri. Ma già parlare di «istituti stilistici» significa dimidiare e fuorviare la impostazione che la «nuova ontologia estetica» dà dell’ente. La «nuova poesia» è quell’ente che designa lo stadio attuale degli altri enti ricompresi nell’orizzonte della crisi che quegli enti impersonano e prospettano. Direi che l’apertura prospettica verso gli altri enti è l’aspetto fondamentale della «nuova poesia ontologica», ente prospettico per eccellenza.

Occorre porre un alt all’economia curtense delle ultime decadi del pensiero poetico italiano. La «nuova ontologia estetica» col suo rimettere in piedi la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia intende riprendere, per reinterpretarla in base alle mutate esigenze della odierna età della tecnica, la lezione del grande recanatese.

Testata azzurra

grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Porre la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia,

è questa la chiave di accesso che usa Leopardi per attraversare i linguaggi petrarcheschi degli ultimi secoli della poesia italiana e ristrutturarli in un linguaggio poetico integralmente espressivo che nulla concedesse alle sinapsi petrarchesche della tradizione italiana.
Concordo con quanto sostenuto da Emanuele Severino sul «pensiero» di Leopardi. Il filosofo italiano legge il recanatese come il primo poeta filosofo del nichilismo, colui che si è posto come critico radicale dell’«età della tecnica». Il recanatese scopre che l’assunto fondamentale dell’età della tecnica è il nichilismo, quel pensiero soggiacente, non detto, dell’Occidente, quel «solido nulla» che costituisce il reale inteso come esito transitorio, passaggio di un ente dal nulla al nulla. Cioè nichilismo.
Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, scrive: «La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento».1]

Leopardi pensa il divenire in termini ontici e ontologici,

poiché fa coincidere il divenire con la storia degli uomini e la loro infelicità nel dolore. Il pensiero poetante per sua natura non ha semplicemente il ruolo di rilevare il senso ultimo dell’ente e di porgerlo all’uomo, il pensiero poietico è un pensiero fondante, un pensiero che dà la misura del mondo, fonda gli ambiti di comprensione dell’ente visto nel divenire come permanente produzione e distruzione dell’ente. Leopardi affida alla poiesis un compito arduo ed estremo, quello di porgersi in posizione di ascolto dell’ente.
È ovvio che un pensiero così abissale non poteva e non può essere accettato dalla poesia italiana del tardo novecento, rimasta sostanzialmente petrarchesca, scettica, acritica, conformistica e priva di un pensiero filosofico.

Testata politticoIl problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa»,

così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.

«Il secol superbo e sciocco»

Il pensiero filosofico di Giacomo Leopardi mette a nudo la realtà dello stato di cose presente in Europa scaturito dal Congresso di Vienna (1815). Il problema intravisto dallo sguardo acutissimo di Leopardi è il fondamento minaccioso del «nulla», del «niente» che sta alla base della costruzione della civiltà europea. Questo pensiero, sconvolgente per la sua acutezza e per l’anticipo di settanta anni con il quale viene formulato prima di Nietzsche, ci fa capire la grande potenza del pensiero filosofico di Leopardi, il suo aver percepito con estrema chiarezza, in anticipo sul proprio tempo, che il presente e il futuro dell’Europa sarebbe stato il Nichilismo. È un risultato sconvolgente quello cui giunge il pensiero di Leopardi se pensiamo che ancora oggi siamo all’interno delle determinazioni che l’età del nichilismo riserva al pensiero europeo dopo Heidegger. Il pensiero debole di Vattimo e il pensiero parmenideo di Emanuele Severino si muovono nell’orbita tracciata a suo tempo dal filosofo di Recanati. E, probabilmente, la civiltà europea dovrà anche nel futuro fare i conti con il pensiero filosofico di Leopardi, d’altronde espresso con una chiarezza e precisione lancinanti.

Rispetto al pensiero dell’Illuminismo, Leopardi fa un passo indietro, ritorna al pensiero dei greci, mette a punto l’apparato categoriale che gli serve per scoprire e mettere a nudo la vera essenza della civiltà europea. «Il secol superbo e sciocco», che credeva a quell’800 romantico ed idealista, e credeva nelle «magnifiche sorti e progressive», viene irriso dal poeta di Recanati il quale si cimenta in un pensiero che riparte dal punto zero, dal pensiero di un «corpo» che si muove nel «nulla», fonda il modo di pensare ontologico della civiltà europea. Il paradiso della civiltà della tecnica è destinato all’angoscia, in quanto la logica della scienza sulla quale esso è fondato è una logica che poggia la sua costruzione su ipotesi auto evidenti, sprovviste però di fondamento nell’épisteme su una verità immutabile e definitiva. Questa suprema felicità che il paradiso della tecnica può dare all’uomo sarebbe quindi, in ultima istanza, una felicità effimera, precaria, falsa e falsificabile.

Bertolt Brecht, Zbigniew Herbert

«Il corpo non si può comporre di non corpi»

Scrive Giacomo Leopardi nel 1921: «Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che non è; né da questo si può progredire a quello o viceversa… non v’è scala, gradazione, né progressione che dal materiale porti all’immateriale, come non v’è dall’esistenza al nulla. Fra questo e quello v’è uno spazio immenso, ed a varcarlo v’abbisogna il salto che da’ leibniziani giustamente si nega in natura. Queste due nature sono affatto separate e dissimili come il nulla da ciò che è». (P 1636)

Per Leopardi tutti gli essenti escono dal nulla e ritornano nel nulla, in ciò seguita la tradizione del pensiero greco di Eraclito e di Stratone di Lampsaco filtrato attraverso il libro IV della Metafisica di Aristotele. Gli essenti sono «sciolti» dall’«infinito» a cui essi sono collegati in base alla volontà di esistere, che è volontà di infinito e di eterno, per cui gli essenti sono esposti, abbandonati al divenire. La Ragione per Leopardi «non è né impotente né debole», infatti essa è meravigliosamente potente e porta a compimento la verità ultima delle cose. Ma, una volta raggiunta tale potenza, ecco che l’essente è incapace a trovare una soddisfazione nella cosa: «Basta che l’uomo abbia veduto la misura di una cosa, ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne le parti o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente ed egli ne rimane scontentissimo» (P 246-47).

Borges, Auden

«La ragione è acutissima, non è né incompetente né debole»

Annota ancora Leopardi:

«Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà, che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto meglio e più finalmente vede. Così ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perché gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione (benché gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione). Perciocch’ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista» (P 2942-43).

Per Leopardi l’ana-lisi è il metodo che consente di vedere l’«essere delle cose», perché ogni ente è «sciolto» dal tutto, dall’infinito, dalla «grandezza» – cioè è ana-litico – e quindi è finito e, in quanto finito è esposto alle incursioni del nulla, appunto in quanto «determinato» (circoscritto, finito, definito). Mediante l’analisi la ragione vede nella materia parti sempre più piccole e tenderebbe verso il nulla, ma non le monadi leibniziane sono l’elemento ultimo dell’essere, perché affermare che l’essente ha carattere analitico significa dire che l’essente, appunto, in quanto «sciolto», separato dall’infinito, sporge temporaneamente dal niente, e il divenire ne è la evenienza. Le più piccole parti di materia possono essere divisibili in parti sempre più piccole, ma le singole parti «saranno sempre materia». Al di là non troverete mica lo spirito, ma il nulla». (P 1635) Splendida e icastica affermazione.

Per Leopardi è chiaro: «il nulla è negli oggetti e non nella ragione». E qui chiude la discussione introducendo la identità tra l’essere e il nulla, essendo l’essere quel non-niente che esce per un momento dal nulla e vi ritorna.

Giacomo Leopardi, Tomas Tranströmer

«Il Nulla verissimo e certissimo delle cose»

Scrive Leopardi: «chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose… sarebbe pazzo assolutamente… e tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia». Parole quanto mai eloquenti in quella affermazione circa la assoluta certezza: «il nulla verissimo e certissimo delle cose» che non lascia scampo al pensiero che voglia tenere fermo il principio, il punto nevralgico del suo pensiero ontologico, secondo cui il «nulla è negli oggetti e non nella ragione», «la sola cosa ragionevolissima e verissima» (ibid.) che conferma il principio assoluto di non contraddizione di aristotelica memoria, «contraddizione evidentissima e formalissima» secondo cui la contraddizione non può stare in natura ma si trova nell’ente, nell’uomo, il quale possiede la «ragione» la quale è in contrasto con la «natura». Per cui la ragione, se si spingesse al massimo grado nella investigazione della natura, vedrebbe il minimo, cioè il nulla appena dietro la più piccola parte di essere. La «ragione» per Leopardi «vede tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e o può mai esser visibile a qualsivoglia vista». Cioè la «ragione» è la vista di tutti e di ognuno, essa vede ciò che può essere comprovato dalla vista di tutti. Ma il paradosso è qui, che la capacità di vedere della ragione è tanto più forte quanto più indebolisce il proprio contenuto e chi la possiede.

La «tendenza» dell’età presente verso la ragione

La «tendenza» dell’età presente verso la ragione significa la tendenza verso la «distruzione» e l’«inazione», verso la potenza della tecnica e delle «macchine al cielo emulatrici» (Palinodia), dell’assetto sociale delle moderne società basate sul calcolo e sul pensiero razionale-matematico. Ma la potenza della tecnica è destinata a fallire in quanto la nullità dell’essente annienta la volontà di agire. «E l’azione presente non può essere se non effimera e finirà nell’inazione, come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente e sostanzialmente e primordialmente all’uomo». (P 522, 18 gennaio 1821)

«Appuramenti, … circoscrizioni, … esattezze, … strettezze, … sottigliezze, … dialettiche, … matematiche non sono in natura e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perché la natura effettivamente non le ha seguite» (P 582).

P.P. Pasolini, B. Pasternàk

Il pensiero di Leopardi nella lettura di Emanuele Severino

Severino ci ricorda che la parola ποίησις significa originariamente pro-duzione, ossia portare fuori dal niente, condurre la cosa dal non-essere all’essere. Ma è solo nell’epoca attuale che la ποίησις è veramente un condurre qualcosa dal non-essere all’essere. Il poietès è dunque colui che porta qualcosa dal non-essere all’essere. La ποίησις, dunque, è l’atto nichilistico per eccellenza, e i poietès sono coloro che dimorano stabilmente nel nichilismo.
La parola ποίησις per i greci indica l’atto del pro-dursi, del portarsi fuori. Ma fuori dove? Fuori nell’apparire, mostrando le cose pro-dotte nella propria luce. Questo mostrarsi è appunto il fenomeno.
Heidegger e Severino, giungono ad una comunanza d’intenti pur partendo da due punti diversi.
Entrambi questi pensatori si sono rivolti alla poesia per comprendere l’essenza dell’Occidente, Heidegger, Trakl e Hölderlin, Severino a Leopardi. Entrambi hanno considerato l’arte poetica quale luogo privilegiato per una comprensione più profonda dell’Occidente. Per Severino Leopardi fonda la dimensione irriducibile del nichilismo, diventa il primo e più profondo pensatore-poeta del senso nichilistico dell’età della tecnica.

Secondo Severino la struttura sotterranea dell’Occidente

si fonda sull’evidenza della nientità di tutto l’essente e, quindi, sull’evidenza che qualsiasi principio dell’eterno non può riscattare l’esistenza dal nulla. Lo stesso Nietzsche non comprenderà appieno il pensiero di Leopardi, considerandolo solo un grande poeta e prosatore. Quando Leopardi nel pensiero 72 dello Zibaldone afferma che «Tutto è nulla al mondo», non vuole affermare che l’essere è nulla, ma che tutti gli esseri escono e ritornano nel nulla. Affermando ciò si porta nella prossimità del baratro dell’Occidente che, nel proprio inconscio, identifica l’essere col nulla. Infatti, se anche non detto esplicitamente, Leopardi afferma che «il nulla è negli oggetti», ossia il nulla è nell’essente, nell’essere, indica l’identità degli opposti. Dire che il nulla è nell’essente, significa dire che il ni-ente è ente.
Leopardi, afferma Severino, anche intravedendo questa identità, non coglie la «follia» di quest’ultima asserzione, non comprende l’assurdità di affermare l’identità degli opposti, degli assolutamente non identici. Egli, quindi, scorge il sottosuolo dell’Occidente, ma non ne avverte la follia, perché il suo pensiero vive e si alimenta all’interno della follia dell’Occidente e, come tale, non può coglierla come follia, ma come la cosa più evidente. La sua grandezza sta quindi nell’aver raggiunto la coerente follia del divenire nichilistico, al di là di qualsiasi rimedio sovramondano. Riesce ad intravedere il baratro che sta sotto tutta la storia dell’Occidente, anticipando di mezzo secolo tutta la speculazione nietzschiana sul nichilismo, annunciata dalla sentenza nicciana: «Dio è morto».

L’affermazione della nullità di tutte le cose nel pensiero di Leopardi appare già prima del 1820. Al termine del pensiero 72 dello Zibaldone, Leopardi dice: «Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vôto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi».2].

L’affermazione è netta e non lascia dubbi: «Tutto è nulla», le «cose esistenti», i modi d’essere, gli essenti nella loro totalità sono «nulla».

Ubaldo de Robertis, Roberto Bertoldo

Leopardi afferma che le «cose esistenti»

in quanto esistenti non possono essere nulla, altrimenti non sarebbero «esistenti». Leopardi chiarisce il senso dell’affermazione: «Tutto è nulla» e quindi che anche le «cose esistenti» sono «nulla», con il pensiero 72 dello Zibaldone. Tra le «cose esistenti» che sono nulla vi è anche la disperazione e il dolore: «È vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà». Questo «dolore» certamente finché esiste non è nulla, ma dovendo diventare nulla, quando cioè quella cosa esistente diventerà nulla, sarà nulla; e la stessa cosa esistente che prima di essere è nulla, portandosi nell’esistenza, porta con sé il suo essere stato nulla. La cosa esistente diventa nulla, si identifica col nulla; quell’essente che in quanto essente “è”, diventando niente, è ni-ente.

Chiosa Severino: «Raramente il pensiero occidentale si porta in una trasparenza eguagliabile a questo passo di Leopardi. Si tratta della trasparenza del linguaggio che esprime ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle “cose esistenti”. Questa trasparenza estrema mostra la grandezza estrema del pensiero di Leopardi e, insieme, la fedeltà estrema di questo pensiero all’essenza dell’Occidente. Che le “cose esistenti” (“le cose che sono”) siano nulla è l’evidenza originaria, appunto perché è l’evidenza del divenire».3]. Leopardi mostra quello che tutto l’Occidente pensa nel suo inconscio: nel divenire l’ente esce e ritorna nel nulla, ma se l’ente diventa nulla e il nulla diventa ente, allora l’ente è nulla.

Agli occhi di Leopardi e di tutto l’Occidente,

di cui il recanatese è per Severino il più coerente interprete, l’identità delle cose esistenti col nulla non è contraddizione. Nel pensiero 3784, Leopardi afferma che «le contraddizioni evidentissime e formalissime sono escluse dal ragionamento assoluto». In riferimento a ciò che Leopardi chiama «ragionamento assoluto», il pensiero 1341 dice: «nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere». La «ragione assoluta» è appunto il «ragionamento assoluto» da cui le «contraddizioni evidentissime e formalissime sono escluse». Il testo dice che non c’è una «ragione assoluta» in base a cui le «cose esistenti» non possono non essere, ossia essere nulla. Affermare che un essente può essere nulla non è una contraddizione. Concordemente con l’affermazione di Leopardi, Kant afferma che se «nego soggetto e predicato assieme, non nasce contraddizione, visto che non c’è più nulla con cui entrare in contraddizione».4]

Helle Busacca, Petr Kral

Ecco quello che dice Severino in una recente intervista:

«Nietzsche, a Schopenhauer, a Wagner, e, per quanto riguarda la cultura italiana, a De Sanctis. Nonostante che negli ultimi tempi il pensiero filosofico di Leopardi sia andato incontro ad una consistente rivalutazione, rimaniamo tuttavia ancora ben lontani dal comprendere la sua eccezionale potenza e radicalità. Personalmente, sostengo che si tratti del maggior pensatore della filosofia contemporanea. Leopardi ha infatti posto anticipatamente le basi di quella distruzione della tradizione occidentale che sarà poi continuata e sviluppata – ma non resa più radicale – dai grandi pensatori del nostro tempo, da Nietzsche, da Wittgenstein e da Heidegger.
Purtroppo, si deve riconoscere – pur non volendo ora sottovalutare i meriti di questa attività culturale – che la critica letteraria ha contribuito a mettere in ombra l’importanza filosofica di Leopardi. Il critico letterario si è mosso nelle pagine di Leopardi senza rendersi conto che il loro autore è in un grande colloquio con il pensiero greco, ovvero con la grande tradizione filosofica dell’Occidente».5]

Leopardi nella sua poesia si pone un problema che mai prima di lui nessun altro poeta europeo si era posto, il seguente:

Quale linguaggio adottare per rappresentare il «nuovo» oggetto: la natura?
Quale linguaggio adottare per rappresentare il «nuovo» soggetto scaturito dal fallimento della rivoluzione napoleonica e dal trattato di Versailles (1915)? Questi sono i problemi che la rivoluzione stilistica e lessicale del linguaggio di Leopardi affronta e risolve.

Leopardi mette in atto un linguaggio potentemente metaforico ma di un genere di metafore che non si era mai visto in precedenza nella poesia italiana ed europea, questo linguaggio è costruito attingendo su tutto lo spettro del linguaggio poetico italiano dal Petrarca in giù, ma sottoponendo il linguaggio ad un bagno di essenzialità referenziale come mai si era visto prima.

Forse adesso, dopo due secoli, dopo le tre guerre mondiali e la quarta in atto «a pezzi» (come dice papa Francesco), con migrazioni epocali di interi popoli… soltanto adesso possiamo apprezzare in pieno questo «indebolimento» del linguaggio che Leopardi scopre e mette in opera nei suoi Canti, «indebolimento» che implica un altrettale «indebolimento» del «soggetto» e dell’«oggetto». Quella acutissima percezione che Leopardi ha della «metafisica indebolita», che lui soltanto afferra e possiede nell’Europa del suo tempo… dovremo aspettare Baudelaire per avere un altro poeta che recepisce un altrettale «indebolimento», ma con Baudelaire siamo in un diverso contesto culturale: c’è il nuovo fenomeno del capitalismo e della forma-merce che invade la città di Parigi. Nella poesia di Leopardi si è alle prese con l’ente; il «non-nulla» è qualcosa di eminentemente enigmatico, paradossale, debole, periclitante, oscillante.

Ed ecco un altro punto importantissimo che Leopardi affronta e risolve nello Zibaldone: Quale linguaggio deve adottare la filosofia per spingersi in prossimità del fenomeno della soggettività ed esprimerlo, così, in tutta la sua radicale complessità? Per la prima volta dopo Descartes il concetto di «soggetto» entra in crisi irreversibile.

Dopo il 1830 Leopardi prende posizione chiarissima in favore del progresso tecnologico contro gli spiritualisti reazionari che lo tacciavano negativamente. Leopardi è un materialista. Il suo concetto di natura è palesemente ostile alla teologia cristiana ed è rivolto contro tutte le filosofie spiritualistiche e metafisiche del suo tempo. Leopardi si fa beffe di quella filosofia spicciola che prevede una provvidenza divina e una teleologia divina. Scrive, infatti: «Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi… Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono procura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono due secoli…».6]

Nel famoso passo della Ginestra contro il secolo «superbo e sciocco», l’invettiva è indirizzata contro le tesi filosofiche e politiche le quali vorrebbero annichilire i grandiosi risultati del pensiero laico e delle conquiste scientifiche. Leopardi è un sensista materialista nel senso più pieno e rigoroso della parola, non ha alcun seme di «pessimismo», come scioccamente è stato appellato dal Croce e dai suoi timidi seguaci.

La grandezza di Leopardi maturo sta nel suo andare alla radice dei problemi ontologici, si direbbe oggi, dell’uomo e della società del suo tempo. Indagando sulla «natura» e sulla «infelicità» degli uomini egli giunge a ripudiare il cristianesimo come religione basata sulla credulità delle masse e su un bisogno religioso, e quindi disponibile a tollerare una organizzazione dispotica del mondo. La poesia del Leopardi sarà sempre di più caratterizzata da una riflessione argomentante sull’ente uomo e sul suo destino di infelicità.

In termini moderni, Leopardi farà una poesia che è riflessione argomentante sull’ente. Leopardi è il primo poeta europeo che non divaga, mette a fuoco questo problema in tutte le sue poesie, dal periodo giovanile a quella della maturità, e sempre con maggiore complessità di argomentazione poetica.

Non dimentichiamo come Leopardi liquida il Monti: poeta dell’orecchio e del cuore… E poi sarebbe ora di finirla con coloro che ripetono a macchinetta la tesi di un Leopardi prosecutore del linguaggio petrarchesco: nulla di più superficiale ed errato. Leopardi considerava con molta distanza l’operazione delle Rime del Petrarca, e la sua distanza emerge tutta quanta nella famosa prefazione che il recanatese scrisse nel 1839 per una nuova edizione delle Rime per Passigli. Scrive Leopardi:

«Ancora l’ordine dei componimenti del Petrarca sarebbe corretto in molta parte, e quello che è più, la forza intima e la propria e viva natura loro, credo che verrebbero in una luce e che apparirebbero in un aspetto nuovo, se potessi scrivere la storia, dell’amore del Petrarca conforme al concetto della medesima che ho nella mente: la quale storia, narrata dal poeta nelle sue Rime, non è stata fin qui da nessuno intesa né conosciuta come pare a me che ella si possa intendere e conoscere, adoperando a questo effetto non altra scienza che quella delle passioni e dei costumi degli uomini e delle donne. E tale storia, così scritta come io vorrei, stimo che sarebbe non meno piacevole a leggere e più utile che un romanzo».7]

 

1] G. Leopardi, Operette morali, ed. Garzanti, Milano 1984, p 129
2] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. Mondadori, Milano 1990, vol. I, p. 71.
3] E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, ed. Rizzoli, Milano 1990, pp. 38,39.
4] I Kant Critica della ragion pura trad. it. TEA, 2000, p. 444
5] http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=36

6] Tutte le opere a cura di Francesco Flora, Mondadori, Poesie e Prose, II, pp.578, 579
7] cit in Bruno Biral La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, 1987, pp. 265,66

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41 risposte a “Giacomo Leopardi – Il pensiero filosofico e poetico del recanatese nelle letture della nuova ontologia estetica e di Emanuele Severino – a cura di Giorgio Linguaglossa

  1. Donatella Costantina Giancaspero

    La ginestra o il fiore del deserto
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21435
    Canzone composta nel 1836 presso la Villa Ferrigni (rinominata Villa della Ginestra) di Torre del Greco, “La ginestra o il fiore del deserto” viene pubblicata per la prima volta nel 1845.
    Il componimento si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni ed è considerato il testamento poetico di Leopardi.

    Il filosofo Emanuele Severino su La ginestra
    (da un’intervista del giugno 1993)

    “Attraverso una poesia che è quanto mai nota di Leopardi, un grande canto, forse il più grande canto, che è La ginestra, mi propongo di far vedere che quanto il canto dice a suo modo (e La ginestra è scritto poco tempo prima della morte: sono gli ultimi tempi della vita di Leopardi), nei primi anni della stesura dello Zibaldone (mi riferisco al 1820) e quanto il canto fa e dice era anticipato nella prosa filosofica di Leopardi, precisamente in quella prosa che contiene l’espressione «opere di genio», e che è la chiave, a mio avviso, insieme ai passi paralleli, per comprendere l’importanza che ha il genio relativamente al rimedio contro il dolore.
    Tutti sanno che il canto incomincia con l’avverbio «qui»: quando dico a qualcuno che è qui, vuol dire vicino a me, mi è vicino: il canto intende dire che la vicinanza è identità tra ciò che è qui e il cantore. Che cosa è qui? lo sappiamo tutti: il canto si rivolge al fiore del deserto, all’«odorata ginestra» (vv. 1-3),

    Qui su l’arida schiena
    Del formidabil monte
    Sterminator Vesevo,

    «formidabil» vuol dire ciò che produce formido, terrore, e produce terrore perché sterminatore. E poco dopo il canto usa le parole decisive per dire che questa metafora della distruzione, che costituisce il luogo in cui noi viviamo, è la metafora di ciò che annulla: il canto dice «con lieve moto in un momento annulla» (v. 45); e poi «con moti | Poco men lievi ancor subitamente | Annichilare in tutto» (vv. 46-48). Annichilare in tutto l’uomo: abbiamo qui le parole decisive dell’ontologia occidentale.
    «Qui su l’arida schiena» non è semplicemente un’immagine poetica, ma qui nel luogo della distruzione, è in riferimento alla situazione dell’uomo: l’uomo di fronte alla fonte della distruzione, che incomincia ad essere il vulcano, l’elemento igneo del vulcano; elemento igneo che poi nel prosieguo del canto si estende fino a diventare il fuoco del cielo, e su questo fuoco del cielo vorrei poi richiamare l’attenzione.
    Ma intanto: se è la ginestra che è «qui su l’arida schiena | del formidabil monte», e il testo dice una schiena «la qual null’altro allegra arbor né fiore» (v. 4), poco dopo il canto dice che è il cantore stesso a essere «qui sull’arida schiena | del formidabil monte», perché intorno al v. 160 il canto dice:

    Sovente in queste rive,
    Che, desolate, a bruno
    Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 160
    Seggo la notte; …

    Il cantore siede là dove si trova la ginestra, siede nel luogo della ginestra, è la ginestra. Sarebbe interessante mostrare come c’è una fitta rete di riscontri in cui il canto si rivolge al cantore, e dunque il canto parla di se stesso. Si dice continuamente che quella di Hölderlin è una poesia che canta la poesia: certamente il discorso vale per Hölderlin, ma vale supremamente per questo canto, che dunque è un canto in cui il cantore si rivolge a se stesso.
    È notevole come compaiano dei termini apparentemente difficili da interpretare: sempre nei primi versi del canto: «l’arida schiena | … la qual null’altro allegra arbor né fiore» (v. 4): il canto parla qui dell’assenza di ogni elemento rallegrante, là dove l’unico elemento rallegrante è il fiore del deserto, cioè il canto, cioè la poesia, se sta ferma la vicinanza-identità che abbiamo cominciato a indicare analizzando il senso della parola «qui».
    Il fiore del deserto «allegra»; e poco dopo si dice che «l’odorata ginestra» è «contenta dei deserti» (vv. 6-7). Il deserto è il luogo abbandonato, il luogo della nullificazione: vuol forse dire Leopardi qualche cosa di simile a ciò che afferma Nietzsche, quando nel Crepuscolo degli idoli afferma che il super-uomo è il “sì alla vita”? Qui Leopardi non lo dice, ma non lo dice proprio perché, parlando mezzo secolo prima di Nietzsche, si pone dopo il pensiero nietzschiano e mostra l’inconsistenza su questo punto della metafisica idealistica in base alla quale Nietzsche può dire “sì alla vita”. In Nietzsche si dice “sì alla vita” (lo dice in Quel che devo agli antichi) “per essere noi stessi il piacere dell’annientamento”: ora questa frase è comprensibile, cioè che si provi piacere per l’annientamento, solo in quanto l’individuo, l’uomo si è spostato sul piano del divenire eterno, si sente identico al divenire eterno, e può guardare con piacere l’annientamento delle cose. Ma questa è appunto una metafisica super-idealistica, che Leopardi ante litteram ha tolto di mezzo: l’uomo non può identificarsi allo stesso divenire eterno, non può diventare il super-uomo che, essendo eterno come il divenire, si rallegra dell’annientamento delle cose. E quindi, quando il testo della Ginestra dice che il fiore del deserto è «contenta dei deserti», questa affermazione vuol dire innanzitutto qualcosa di completamente diverso da quello che poi sentiamo dire a Nietzsche, ma positivamente accenna appunto al tema dal quale siamo partiti: accenna all’opera del genio.
    Sono altre le espressioni apparentemente sconcertanti, perché lo scenario è terrificante, si è di fronte al nulla e alla fonte del nulla, e ci sono queste parole: «allegra», «contenta dei deserti»; e poi poco dopo si dice che essa è «di tristi | Lochi e dal mondo abbandonati amante | E d’afflitte fortune ognor compagna» (vv. 14-16); e potremmo proseguire in quei tre/quattro versi formidabili, dove sempre della ginestra si dice:

    Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
    I danni altrui commiserando, al cielo 35
    Di dolcissimo odor mandi un profumo,
    Che il deserto consola.

    C’è il profumo, c’è la consolazione, c’è la commiserazione dei danni altrui.
    Ecco: come prima dicevamo che e il fiore del deserto e il poeta, poiché sono lo stesso, sono entrambi di fronte al pericolo dell’annientamento, così anche qui questo amore della ginestra per i «lochi dal mondo abbandonati», questa consolazione della ginestra e questo profumo che essa emana, corrispondono all’atteggiamento che è proprio, come poi dice il canto, della nobile natura che è la nobile natura del cantore, il quale è preso da vero amore per i propri simili.
    Se ci sono degli equivoci da abbandonare leggendo la Ginestra, sono proprio gli equivoci della lettura progressista di Leopardi: per un uomo, per un filosofo che sa che tutto è illusione, che non esiste alcuna verità definitiva, pensare che a questo livello di radicalità egli si lasci prendere dal mito del vero amore per i propri simili, o si vuole attribuire un’incoerenza eccessivamente vistosa a Leopardi, oppure non se n’è colto il senso.
    Bisogna prepararsi a intendere il vero amore, non come fondato sull’etica, ma come fondato sulla poesia. Se si capisce questo, si comprende anche il senso dell’opera di genio: siamo ancora qualche passo indietro rispetto alla chiarificazione dell’espressione «opera di genio».
    Ma vorrei richiamare l’attenzione su quel notturno che è nella Ginestra, che a chi vedeva in Leopardi il sommo lirico, ha fatto pensare che si fosse davanti a uno dei grandi squarci di poesia lirica nel discorso di Leopardi. È una lirica ambigua: se dovessimo usare delle metafore musicali, direi che questo notturno è multi-tonale (la multi-tonalità in musica vuol dire la presenza di ritmi sonori diversi, di consistenze sonore diverse, e quindi la multi-tonalità è essenzialmente ambigua). Dov’è l’ambiguità di questo, che ho chiamato il grande notturno della Ginestra? Leggendolo mi propongo di far vedere quell’amplificazione dell’elemento igneo, cioè quel distendersi del fuoco annientante, quell’oltrepassare il «bipartito giogo» del Vesuvio, e il collocarsi nella totalità del cielo, come sì luce, ma luce che è costituita da quello stesso fuoco che è la radice dell’annientamento di tutte le cose.
    Certo che si può essere presi dalla potenza di quello che stiamo chiamando notturno, ma di che cosa parla questa potenza? parla della nullificazione. E d’altra parte, la nullificazione come è vista? è vista con potenza: questa visione potente della nullificazione è ciò che Leopardi chiama «opera del genio». La visione potente della nullità delle cose, la potenza con cui si vede la vanità di tutte le cose.”

  2. Leopardi nella sua poesia si pone un problema che mai prima di lui nessun altro poeta europeo si era posto, il seguente:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21436
    Quale linguaggio adottare per rappresentare il «nuovo» oggetto: la natura?
    Quale linguaggio adottare per rappresentare il «nuovo» soggetto scaturito dal fallimento della rivoluzione napoleonica e dal trattato di Versailles (1915)? Questi sono i problemi che la rivoluzione stilistica e lessicale del linguaggio di Leopardi affronta e risolve.

    Leopardi mette in atto un linguaggio potentemente metaforico ma di un genere di metafore che non si era mai visto in precedenza nella poesia italiana ed europea, questo linguaggio è costruito attingendo su tutto lo spettro del linguaggio poetico italiano dal Petrarca in giù, ma sottoponendo il linguaggio ad un bagno di essenzialità referenziale come mai si era visto prima.

    Forse adesso, dopo due secoli, dopo le tre guerre mondiali e la quarta in atto «a pezzi» (come dice papa Francesco), con migrazioni epocali di interi popoli… soltanto adesso possiamo apprezzare in pieno questo «indebolimento» del linguaggio che Leopardi scopre e mette in opera nei suoi Canti, «indebolimento» che implica un altrettale «indebolimento» del «soggetto» e dell’«oggetto». Quella acutissima percezione che Leopardi ha della «metafisica indebolita», che lui soltanto afferra e possiede nell’Europa del suo tempo… dovremo aspettare Baudelaire per avere un altro poeta che recepisce un altrettale «indebolimento», ma con Baudelaire siamo in un diverso contesto culturale: c’è il nuovo fenomeno del capitalismo e della forma-merce che invade la città di Parigi. Nella poesia di Leopardi si è alle prese con l’ente; il «non-nulla» è qualcosa di eminentemente enigmatico, paradossale, debole, periclitante, oscillante.

    Ed ecco un altro punto importantissimo che Leopardi affronta e risolve nello Zibaldone: Quale linguaggio deve adottare la filosofia per spingersi in prossimità del fenomeno della soggettività ed esprimerlo, così, in tutta la sua radicale complessità? Per la prima volta dopo Descartes il concetto di «soggetto» entra in crisi irreversibile.

  3. Donatella Costantina Giancaspero

    Massimo Donà su Leopardi
    dal Festival filosofico della città di Treviso 2015

  4. antonio sagredo

    Leopardi è colpevole della mia insonnia fin da quando avevo 16 anni, e questa “insonnia leopardiana” continua e si è fatta più acuta; divenne cronica quando affrontando Otokar Brezina (di cui ho già detto qui qualcosa, e sempre nel blog ho pubblicato alcune sue poesie; e di recente sul “pessimismo e nichilismo”)… dovetti fare di nuovo i conti con Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche (questi due furono dal recanatese anticipati “gloriosamente”, tanto che la loro stizza è evidente nei loro scritti.
    Questi quattro autori sono legati indissolubilmente; la critica italiana su Leopardi nulla conosce (se non per il mio apporto) del suo rapporto con l’autore ceco-moravo Brezina.
    Più volte la sua presenza nei miei versi, ma questo componimento dà l’idea più o meno esatta di quanto penso sul Poeta:
    ——————————-
    a Giacomo Leopardi

    Infanzia infinita

    Per quanto tu sia cristallina sei inquietante,
    (nei tuoi quadranti la crudeltà gioca
    la sua parte) tu sei l’antagonista ad ogni legge
    del presente, e il capriccio e il pianto sono la tua arma
    primordiale, e t’affatichi nel generare intrecci e trame
    evolutive, e della storia che ti precede non hai gli assiomi
    e i cardini su cui puntare il caso, ma il caos iniziale
    ti è da guida e non distingue la passione che ti sferza
    da una finzione che assegna solo ad uno specchio
    l’immensità che ti circonda… e tu sei il centro unico
    mancato ad ogni istante di un cortile che invano ti protegge.

    Non conosci del cipresso i rami coi suoi funebri latrati, e la sua fine
    e i nastri viola che sventolano dietro a una livida corteccia,
    un nitrito per vanità equina hai generato e una rivolta
    e un sembiante hai scambiato per uno spettro… hai scarnito il trionfo
    di un vessillo come un’arteria che non sa il mistero della sua corsa!
    Così si rallenta la visione di un pulsare irrevocabile, ed è ingannato
    quel diritto che una soglia giudica tradito da un vano speculare.

    Il furore e il riso… e ti sei assolto da una condanna inesistente
    per una colpa che ti sei inventato inorridita,
    e di ritornare umana a malincuore è più che una farsa –
    è una finzione!

    Antonio Sagredo

    Roma, 15 dicembre 2011
    (47 minuti all’ora prima)

  5. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21443
    La ginestra di Leopardi inizia con un avverbio: «qui».
    Tutto quello che avviene nella poesia ha un luogo preciso e circoscritto, non è tanto l’io che parla quanto le cose stesse, anzi, la «cosa», la «ginestra», è l’umile pianta della ginestra col suo fiore che detta al poeta la poesia, sono le «cose» che parlano al poeta, esse si fanno largo nella granitica soggettività dell’io incrinandone le fondamenta… compito del poeta è lasciar parlare le cose stesse.

    È questa la grande rivoluzione di Leopardi, una lezione anche di filosofia che la filosofia di questi ultimi anni ha recepito (guardare e ascoltare i video); soltanto la poesia italiana degli ultimi decenni sembra non essersi accorta di nulla, chiusa entro i recinti delle sue regole auto pubblicitarie e auto referenziali…

    Di fatto, la poesia italiana del Novecento non ha capito nulla della poesia del Leopardi per i motivi che il prossimo articolo di Franco Di Carlo illustrerà con dovizia di argomenti.

    Resta il fatto che la «nuova ontologia estetica» è l’unica proposta oggi in campo di poetica che intende rileggere e rivalorizzare i valori della poesia del secolo trascorso… dobbiamo ristabilire la gerarchia dei valori estetici, è un compito al quale non possiamo sottrarci.

  6. È PARADOSSALE MA VERO: IN UN CERTO SENSO LEOPARDI FU AIUTATO DALLA MANCANZA DI UN LINGUAGGIO FILOSOFICO DELLA SUA EPOCA, E COSì IL RECANATESE FU COSTRETTO A COSTRUIRSI LA SUA FILOSOFIA.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21444
    Così, la sua nuova poesia nasce sul vuoto del linguaggio filosofico inesistente. In ciò il suo compito fu facilitato.

    Una «nuova poesia» nasce sempre dopo il crollo di un linguaggio filosofico, e in effetti oggi le condizioni della nuova poesia italiana si sono ristabilite, perché il vecchio linguaggio filosofico è caduto in disuso ed è nato un nuovo linguaggio filosofico portatore di una nuova visione del mondo. Una «nuova poesia» nasce sempre da una nuova visione del mondo, o dal crollo della vecchia e antiquata visione del mondo…

  7. Adeodato Piazza Nicolai
    FRAMMENTI LEOPARDIANI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21446
    1.
    «Nel pensiero debole
    sprizza
    la forza della ragione
    e più il poeta ragiona
    più s’indebolisce
    insieme a
    lui che lo possiede …»

    2.
    «Misero me, è vano,
    è un nulla
    anche questo mio dolore
    che in un certo tempo
    passerà e s’annullerà
    lasciandomi
    in un vuoto universale
    e in un’indolenza
    terriblile che mi farà
    incapace anche di dolermi …»

    3.
    «Leopardi afferma
    che le “cose esistenti”
    non possono essere nulla
    altrimenti
    non sarebbero “esistenti” …
    “Tutto è nulla” e quindi
    anche le “cose esistenti”
    sono “nulla”…» (Zibaldone, pensiero 72)

    4.
    «Questo “dolore” finché esiste
    non è nulla, ma dovendo
    diventare nulla, …
    sarà null; e la cosa
    che prima di essere è nulla,
    portandosi nell’esistenza,
    porta con se
    il suo essere stato nulla…»

    5.
    Nascere dal nulla
    e diventare il nulla
    ritornando nella fonte
    del nulla è nichilismo?
    Probabilmente
    non è futurismo
    o pentagrammismo …

    © 2017 Adeodato Piazza Nicolai
    Vigo di Cadore, 3 luglio, ore 18:25.
    Frammenti raccolti dal blog di G. Linguaglossa: Il pensiero
    filosofico e poetico del recanatese nelle letture della nuova
    ontologia estetica di Emanuele Severino, a cura
    di Giorgio Linguaglossa. Tutti i Diritti Riservati.

  8. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21454
    “Ma il paradosso è qui, che la capacità di vedere della ragione è tanto più forte quanto più indebolisce il proprio contenuto e chi la possiede.”
    Ma si potrebbe dire parimenti delle ideologie e delle religioni, nella fattispecie del cristianesimo: che la capacità di vedere è tanto più forte quanto più indebolisce il proprio contenuto in chi la possiede.
    Mentre da qui:
    “Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vôto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi”
    si dà il via al nichilismo esistenziale, quel pensiero che appunto sì, è in un “grande colloquio con il pensiero greco” come sostiene Vattino, ma risente del cristianesimo verso cui, di fatto, è in netta contrapposizione; Marx e Nietzsche opposero al cristianesimo un nichilismo vitale, fattivo e filosofico…
    In effetti ne “La ginestra”, quel’’”annichilare in tutto” e la questione di ciò che “allegra” – il null’altro – sembrano dimostrare il contrario. Infatti Vattino si chiede: “vuol forse dire Leopardi qualche cosa di simile a ciò che afferma Nietzsche, quando nel Crepuscolo degli idoli afferma che il super-uomo è il “sì alla vita”?
    L’inquietante affermazione di Nietzsche “per essere noi stessi il piacere dell’annientamento” che anche Vattino, ovviamente senza volerlo, collega al pensiero buddista “della nullità delle cose” (Shunyata: nulla, vacuità) – però usando impropriamente il termine “potenza” – andrebbe riconsiderato secondo me nel contesto del nichilismo ormai affermato nell’epoca attuale, dove è in uso il pensiero debole che certo non poteva essere del Leopardi. Voglio dire: in chiave più positiva, del nichilismo come disvelamento.

  9. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21463
    Leopardi aveva un occhio così perforante sulla natura da incenerire ogni cosa,rifugiandosi nella immaginazione, dando scacco matto alla vita. Il disagio di considerarsi un Nulla nel Nulla lo portò a sofferte esperienze autobiografiche. Significativa è questa sua riflessione:

    ”Oggi non invidio più né stolti, né savi, né grandi, né piccoli, né deboli, né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo”. Questa estrema volontà di non vivere, porta il Leopardi a un matrimonio estetico con il Nulla.Il pensiero poetante diventa l’unica ascia di decapitazione della realtà. La dimensione dell’essere nella sua forma universale è miniaturizzata dalle dissolvenze.” Le illusioni appaiono menzognere, ma proficue per rappresentarci attraverso il “mortal deserto” della vita. La realtà come la verità non è bipolare, ma assume un carattere realistico e polivalente. ”La verità che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il Bene e il Male, si credono assolutamente assoluti, e non sono altro che relativi. Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo”.
    (Zibaldone, 452, 22 Dicembre 1820).

    E’questa la carta di identità culturale di Leopardi, che l’accompagnerà senza scadenza, fino alla fine dei suoi giorni,concludendo che “l’esistenza è un male” , che “l’ordine e lo Stato, le Leggi, l’ambiente naturale dell’universo, non sono altro che un male, né diretti ad altro che al male”che “non c’è altro bene che il non essere”.E’ questo il trionfo del Nichilismo, oggi così ampiamente aggiornato e rivisto da Giorgio Linguaglossa su Leopardi. Ma vi è stato anche un altro giudizio nella storia della letteratura italiana come quello di Gioberti, il quale osservò che quando il Leopardi “deplora la nullità d’ogni bene creato in particolare, e l’infinita vanità del tutto”, egli non fa se non ripetere le divine parole dell’Ecclesiaste e dell’Imitazione.L’infinito è il super canto della progressione sistematica delle cose nel bacino del Nulla.

    L’accostamento di alcuni versi 9-10-11-12-13-14 del sonetto “Alla sera” di Foscolo, ai versi da 9 a 15 de “L’Infinito “di Leopardi, pone in evidenza un naufragio fisico e spirituale, quasi come una morte virtuale, già annunciata con gli aggettivi “caro” e “cara”, il primo riferibile “all’ermo colle” di Leopardi, e il secondo all’immagine della “sera” riconducibile alla “fatal quiete”.Alcuni elementi come i “sovrumani silenzi, gli “interminati spazi” e la profondissima quiete”, che si muovono nella progressione espansiva del pensiero, oltre il punto fisico rappresentato dalla “siepe”, presuppongono una organizzazione mentale dell’effimero e della eternità, che va al di là della semplice riflessione morale, filosofica, esistenziale e cosmica, come punto di attacco a quell’inesplicabile mistero che è la vita. L’immensamente grande si contrappone all’immensamente piccolo e viceversa, ed entrambi interagiscono nelle due sequenze rappresentate dagli” (in)terminati spazi” e “(sovra)umani silenzi”, tanto che il pensiero opera su due piani fortemente espansivi e riduttivi del Tempo e dello Spazio, che confluiscono poi a breve attimo cosmico, paragonabile al fruscio delle foglie mosse dal vento, dove tutto converge in un medesimo punto: natura e storia, ragione e poesia , finito e infinito, in un trionfo del Nulla, già proclamato con “A me stesso” del ciclo di Aspasia, e poi ancora, nel “ Pensiero dominante” e in “Amore e Morte”.Tutta la poesia di Leopardi è poesia di riflessione e di contaminazione negativa della realtà. Per questa via lo “Zibaldone” e le “Operette morali” sono il grande tomo della denuncia dell’inganno.

    Ugo Foscolo
    Alla sera

    [ultimo dei Sonetti, Alla sera fu ritenuto proemiale da Ugo Foscolo, tanto che egli gli riservò il primo posto nella edizione definitiva dell’opera (N.D.R.)].

    Forse perché della fatal quïete
    Tu sei l’imago a me sì cara vieni
    O sera! E quando ti corteggian liete
    Le nubi estive e i zeffiri sereni,

    E quando dal nevoso aere inquïete
    Tenebre e lunghe all’universo meni
    Sempre scendi invocata, e le secrete
    Vie del mio cor soavemente tieni.

    Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme

    Delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

    Giacomo Leopardi
    L’infinito

    [composto a Recanati tra la primavera e l’autunno del 1818 (n.d.r.)]

    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    E questa siepe, che da tanta parte
    Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    Spazi di là da quella, e sovrumani
    Silenzi, e profondissima quiete
    Io nel pensier mi fingo; ove per poco
    Il cor non si spaura. E come il vento
    Odo stormir tra queste piante, io quello
    Infinito silenzio a questa voce
    Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    E le morte stagioni, e la presente
    E viva, e il suon di lei. Così tra questa
    Immensità s’annega il pensier mio:
    E il naufragar m’è dolce in questo mare.

    Il risultato è quasi sempre consequenziale di una logica che porta ad una amara dichiarazione del nonsense della vita che può essere superata soltanto dall’illusione dell’amore e dal suicidio, quest’ultimo già dichiaratamente considerato negli “Scritti vari inediti”, composti con molta probabilità intorno all’anno 1820, dove tra l’altro vi si legge:” Il fine della vita è la felicità, ma la felicità oggi appare impossibile. L’uomo antico aveva l’eroismo e le illusioni, aveva le grandi passioni, ed era distratto dal vuoto e dall’angoscia. Ma tutto col tempo, è impallidito. La cognizione delle cose conduce l’uomo al desiderio di morte, dopo che la filosofia gli ha fatto conoscere che quella dimenticanza di sé che in antico era possibile oggi non lo è più. Continuare in una vita, di cui abbiamo conosciuto l’infelicità e il nulla, è impossibile Quanto poi al fatto, che molti negano, che le illusioni facessero la felicità dell’uomo antico, resta comunque la differenza fondamentale che allora si viveva anche morendo, e oggi si muore vivendo. Quanto “all’ermo colle” esso funge da transfert, essendo il luogo più caro e amato dal poeta, come via di fuga verso mondi sconosciuti e meno ostili della Natura matrigna.”L’Infinito” si offre a molteplici interpretazioni critiche, non solo per il linguaggio straordinariamente semplice, quanto per i suoi segreti nascosti.

    E qui torna attuale l’interpretazione “estatico-mistica” fatta dal De Sanctis, che non trova adesione da parte di Walter Binni, il quale ravvisa soltanto elementi sensistici nell’idillio. Eppure, qualche brivido metafisico lo si sente nella lettura del testo. Avvicinarsi col pensiero, ritrarsi sbigottito e perdersi nella ciclicità dei tempi cosmici e negli spazi infiniti, riducendoli a breve voce del vento, è avventurarsi in un mondo che è “altro”, rispetto a quello terreno. La poesia di Leopardi va vista alla luce delle indicazioni psicanalitiche: su questo tema Alfredo Giuliani recensendo il saggio di Giampaolo Sasso dal titolo: “La mentre intralinguistica. L’instabilità del segno: anagrammi e parole dentro le parole”, pag. 344 Marietti, su La Repubblica del 29 maggio 1994, sottolinea che “nella più celebre delle poesie leopardiane si nascondono alcuni “misteri” che riaffiorano a metà strada fra linguistica e psicoanalisi”.

  10. aldo cavalli

    C’è troppa filosofia in giro…

  11. antonio sagredo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21470
    il pittore, il poeta e il sogno di due filosofi

    Quell’Origine del mondo che la Disperazione am(mira)
    con gli occhi languidi e oscuri di Spinoza
    è l’eterno vagare e vano di una filosofia spicciola
    che mai scalfisce il centro o la gloria di una nemesi.

    Che stravolta e mai sazia le monadi rovista
    con le deformi mani sgraziate e uncinate di Caronte.
    Con vetri e calcoli plasmano teologie e scienze,
    le sacrestie generano mostri e intrecci scellerati.

    Charles amava l’Origine creola come una santa malattia,
    lubrificava i versi della sua lingua con fiori eretti e velenosi
    che Gustave dipinse incarnati a mani nude alla Brasserie
    per eternare l’estro dei cervi e il fallo imperiale di Vendôme!.

    antonio sagredo

    Vermicino, 5 marzo 2008

  12. Posto una poesia inedita di Francesca Dono sul tema del nichilismo:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21495
    Francesca Dono
    29 giugno 2013

    dunque nulla.
    Solo un bosco nel vecchio sobborgo selvaggio. Le ombre divergono dallo specchio
    come animali in posa al caos del silenzio. Con i palazzi indolenziti. La luna vestita di morte.
    Io coabito il pasto abituale del mio corpo senza carne. Sono le nove passate.
    Dietro lo scaffale un Dravida in preghiera
    അണുബാധ പോലും പത്തു ദിവസം (Ancora dieci giorni di contagio).
    La stanza ha grandi pois fino al soffitto. Il mio compagno indossa un nudo-falena sotto la coperta.
    Fissi gli occhi della Gioconda sull’altra parete.
    Qualcosa nel parco acquatico.

  13. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21496
    UN AMICO, UNO SCRITTORE E POETA CHE STIMO, MI HA DETTO A VOCE CHE NON CONDIVIDE NULLA DELLA MIA INTERPRETAZIONE DELLA POESIA E DELLA FILOSOFIA DI GIACOMO LEOPARDI.

    Io posso rispondere che non scrivo per essere condiviso e approvato ma per creare divisioni e opposizioni. La cosa peggiore è che chi scrive non susciti né approvazione né disapprovazione ma indifferenza…

  14. e meno male che c’è l’opposizione…

  15. Cara Francesca,

    il vero problema è che non c’è nessuna opposizione, alle centinaia di auto poeti non gliene importa nulla della poesia di Leopardi e non hanno nessuna idea in proposito tranne quelle che possono raffazzonare sul Bignami…

    • Ne sono consapevole Giorgio. Mi riferivo a ciò che hai scritto prima in merito al tuo amico. In conclusione ,condivido il tuo pensiero .E’ meglio creare opposizioni. Meglio aprire eventuali critiche piuttosto che lasciare indifferenti i lettori.

  16. antonio sagredo

    Non é – scrive Linguaglossa – che a costoro “non gliene importa nulla della poesia di Leopardi ” : è che appena leggono un sua qualsiasi poesia e peggio uno solo dei suoi pensieri zibaldoniani… si vedono già così piccoli, minuscoli, insignificanti, che per significare qualcosa passano oltre, proprio loro che già Dante ci aveva avvertiti, bollandoli e di guardarli e di passar oltre senza curarsi di loro… e Puskin secoli dopo riafferma questo concetto “e con gli sciocchi non entrare in discussione”.

  17. Franco Campegiani

    Giacomo Leopardi è poeta-pensatore fondamentale nella cultura dei tempi attuali. In anticipo su tutti, egli strappa la maschera del perbenismo borghese e benpensante dal volto putrefatto di uno spiritualismo stagnante e arido, fondato su luoghi comuni e pregiudizi che nulla hanno a che fare con l’essenza sovversiva ed anarchica di una coscienza genuinamente spirituale. Leopardi, dice Linguaglossa, affida alla poiesis il compito arduo ed estremo di porgersi in posizione di ascolto dell’ente destinato alla distruzione. Un pensiero abissale, uno scrollone salutare, un vero e proprio elettroshock per il “secol superbo e sciocco”, squisitamente conformistico in cui egli viveva, fondato sull’ipse dixit di magisteri millenari pedissequamente accettati. Le tronfie metafisicherie di quel tempo (e ancor più quelle attuali), erano (e sono) sostanzialmente inautentiche perché davano (e danno) tutto per scontato. L’autenticità è e resta comunque il problema fondamentale. Il nichilismo ha rivelato l’inautenticità del tradizionale pensiero metafisico e questo è un grande merito culturale, ma non ha saputo, né voluto sciogliere il nodo dell’inautentico, di cui anzi afferma l’ineliminabile presenza nel mondo tecnologico attuale. Emanuele Severino, nelle sue feconde analisi leopardiane, riconosce al recanatese il ruolo di antesignano del senso nichilistico dell’età della tecnica in cui viviamo. Personalmente non credo ai destini irreversibili e voglio credere, insieme a Heidegger, che l’autenticità abbia ancora orizzonti possibili nell’inautenticità dei nostri paradisi artificiali. In ogni caso è questa la domanda, la sfida ed il compito che ritengo oramai imprescindibili per ogni intellettuale.
    Franco Campegiani

  18. Roberto Bertoldo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21517
    Prima di Severino, nel 1960, Alberto Caracciolo scriveva: «Anche il nulla leopardiano si trasforma in Essere; anch’esso (…) può essere frainteso e confuso col “nulla” del pessimismo e del nichilismo». E infatti alcuni di voi lo stanno confondendo con il nulla del nichilismo. Insomma: Leopardi non è nichilista, è il primo pensatore ad avere posto le basi del superamento del nichilismo, come da 40 anni sto scrivendo.
    Roberto Bertoldo

  19. antonio sagredo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21518
    Ciò che scrive Bertoldo è vero; d’altra parte sulla mia tesi (1974-75) dedicata al poeta ceco-moravo Otokar Brezina insisto più volte, addirittura Leopardi è speranzoso, come scrivo in una nota:

    * la “mistica ebbrezza” della Nacht ha vinto definitivamente il superuomo di Nietzsche, ma cederà il posto alla dolce e pacata rassegnazione greca, avvicinando sempre più Březina a Leopardi: superarono ambedue un nichilismo e un pessimismo che (/li/) divoravano le loro illusioni-realtà e con ciò superarono, attraverso due direzioni differenti ma speranzose, Schopenhauer e Nietzsche. Leopardi si riconcilia in qualche modo con la Natura riconoscendole una certa “eterna saggezza e bontà (Zibaldone, 66)… e addirittura una zona della nostra esistenza affine al divino” (in: W.F. Otto, Leopardi und Nietzsche, op. cit. *) – Březina invece trasforma le sue illusioni pervase da un pessimismo romantico-decadente-simbolista in una religiosità ottimistica cristiana universale: corale fraterno che canta l’armonia delle sfere assieme all’intera umanità: non è questa una sorta di classica serenità greca? Serenità, che era garantita pure dagli dei pagani! É questa serenità che tradisce la tragedia greca! O è il contrario?!].
    —————————————————————–
    (*) Otto,Walter Friedrich, Leopardi und Nietzsche. [Mythos und Welt, Kurt von
    Fritz e di Egidius Schmalzried, Ernst Klett Verlag], Stuttgart, 1963, 179-202.

  20. LA DE-VALORIZZAZIONE DEI VALORI DI LEOPARDI NEL NICHILISMO DELLA SUA EPOCA, E LA DE-VALORIZZAZIONE DEL NICHILISMO DI OGGI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21519
    Scrive Roberto Bertoldo:

    *Prima di Severino, nel 1960, Alberto Caracciolo scriveva: «Anche il nulla leopardiano si trasforma in Essere; anch’esso (…) può essere frainteso e confuso col “nulla” del pessimismo e del nichilismo». E infatti alcuni di voi lo stanno confondendo con il nulla del nichilismo. Insomma: Leopardi non è nichilista, è il primo pensatore ad avere posto le basi del superamento del nichilismo, come da 40 anni sto scrivendo.*

    Il nichilismo di Leopardi (o il suo anti nichilismo), è il più drastico e lungimirante ribaltamento della «posizione dei valori» del nichilismo su cui poggiava la sua epoca, nichilismo che derivava dal fallimento della rivoluzione napoleonica e dal Congresso di Vienna (1815). Leopardi con il suo Zibaldone mette in atto la più grande e problematica «de-valorizzazione» dei «valori» sui quali si sarebbe poi fabbricata la civiltà europea dei due secoli a venire. In questo senso, Leopardi mette in atto lo sforzo (ineguagliato nei due secoli a venire) di «superamento» del nichilismo.

    Quanto al fatto di trattare il nulla come essere, è ovvio che, dal momento che ne parliamo, inconsciamente trattiamo il «nulla» alla stregua dell’«essere». Tutto ciò al tempo di Leopardi non era ancora avvertibile nitidamente come noi lo avvertiamo oggi, dopo due secoli di storia.

    Ricordiamoci la massima di Nietzsche:

    «I valori e la loro trasformazione stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori» [VIII, II, 15] «Il punto di vista del “valore” è il punto di vista di condizioni di conservazione, di potenziamento rispetto a forme complesse di relativa durata di vita entro il divenire» [VIII, II, 247]

    La grandezza si Leopardi è che lui pensa la de-valorizzazione dei «valori» senza proporre, in loro vece, alcun altro «valore». E questo assunto, sopportato in tutto il peso intollerabile delle sue conseguenze, ha qualcosa di temerario e di indicibile.

  21. Roberto Bertoldo

    Leopardi propone i valori della solidarietà e dell’azione, sebbene sisifea.

  22. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21521
    È vero, Roberto,

    Leopardi propone l’azione e la solidarietà ma in un quadro di de-valorizzazione totale dei valori della civiltà europea scaturita dal Congresso di Vienna (1815), come mero atto individuale, come tu dici, «sisifeo».
    Heidegger a proposito del nichilismo di Nietzsche scrive:

    Il nichilismo è per Nietzsche l’occulta legge fondamentale della storia occidentale

    In un certo senso, il tuo «nullismo» è un atto, se lo intendo correttamente, di «de-valorizzazione totale» dei «valori» tradizionalmente accettati. In tal senso tu sei un «nullista» in quanto anti nichilista. Io invece mi limito ad abitare il nichilismo del mio tempo come «straniero» in patria… ma siamo nell’ambito di mere sfumature categoriali…

  23. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21522
    Scrive Nietzsche nella Volontà di potenza, n.1 (1885/86):

    «Il nichilismo è alla porta: da dove ci viene costui, il più inquietante fra tutti gli ospiti? » [VIII, I, 112]. Nel n. 2 della Prefazione si dice: «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli» (XV, 137 [VIII, II, 392]

    Scrive Heidegger:

    « Comincia… l’età della compiuta mancanza di senso (…) Nell’epoca della compiuta mancanza di senso giunge a compimento l’essenza dell’età moderna» [Nietzsche, tra. it. Adelphi, 1994 pp. 554, 557]

  24. Roberto Bertoldo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21525
    Si, Giorgio. Purtroppo però il pensiero di Nietzsche, più adatto alla borghesia in fase di reazione, ha oscurato la rivalorizzazione operata da Leopardi, i cui ideali illuministici di base avrebbero danneggiato l’ambizione capitalistica. Se pensiamo all’impegno civile effettivo di un seguace, probabilmente inconsapevole, del pensiero leopardiano, nonostante la diversa mentalità e costituzione, ossia Albert Camus, possiamo renderci conto di quali sviluppi avrebbe potuto avere una società filosoficamente leopardiana. Naturalmente tutto questo è un sintomo della realtà, non certo causa della sua concretizzazione. Marx docet.

  25. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21530
    La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura», lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della poesia leopardiana si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia leopardiana. Quello che è indubbio è che strumenti euristici antiquati e acritici non possono che condurre ad una lettura antiquata e acritica. Rinnovare il linguaggio euristico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità, è una necessità della «nuova ontologia estetica».

    Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei critici sono rimasti al linguaggio critico di Timpanaro e di Agosti, i più aggiornati a quello di Giulio Ferroni… ma quello è un’altra cosa! è un linguaggio critico che serviva ad altri scopi, scopi che non coincidono più con i nostri.
    Ad esempio, alcune persone, in privato, mi hanno chiesto lumi su ciò che intendevo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Io non credo di essere stato particolarmente astruso. Allora, ripropongo le domande che Donatella Costantina Giancaspero mi formulò poco tempo fa, e le mie risposte:

    Domanda: Tu hai scritto:

    «Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

    E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

    Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.

    La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

    Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

    Domanda: Puoi fare un esempio?

    Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

    Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

    Il silenzio-lucertola scruta fisso.
    Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
    i suoi occhi gonfiano il vuoto.

    Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

    Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

    Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

    Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016)

  26. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21533
    Sul nichilismo

    Penso di interpretare il pensiero della redazione tutta se osserviamo questo precetto: quell’ospite ingombrante che è il nichilismo è già qui da tempo, tra di noi, e non possiamo far finta di non vederlo e di non sentirlo, e non possiamo liquidarlo con una battuta scherzosa…

    Scrive Heidegger:

    « Comincia… l’età della compiuta mancanza di senso (…) Nell’epoca della compiuta mancanza di senso giunge a compimento l’essenza dell’età moderna»2]

    «La mancanza di senso in cui si compie la trama metafisica dell’età moderna è conoscibile come il compimento essenziale di questa epoca soltanto se viene vista congiuntamente a quel cambiamento dell’uomo in subjectum e alla determinazione dell’ente come rappresentatezza e fabbricatezza (Vor- und Hertgestelltheit) di ciò che è oggetto. Si vede allora che la mancanza di senso è la conseguenza prefigurata della definitività dell’inizio della metafisica moderna. La verità come certezza diventa la concordia instaurabile con l’ente nel suo insieme, predisposto per l’assicurazione della sussistenza dell’uomo riposto solo su se stesso. Questa concordia non è né imitazione né immedesimazione nell’ente vero “in sé”, ma è super potenziamento calcolante (verrechnende Ubermachtigung) dell’ente mediante lo sprigionamento dell’enticità nella macchinazione. Quest’ultima vuol dire quella essenza dell’enticità che si predispone alla fattività (Machsamkeit). Corrispondentemente a questo statuire, il rappresentare è il calcolante, assicurante misurare passo per passo gli orizzonti che delimitano tutto il percettibile, la sua spiegabilità e la sua utilizzazione.
    L’ente viene lasciato libero nelle sue possibilità di divenire, viene stabilizzato in esse in quanto frutto di macchinazione. La verità come concordia assicurante dà alla macchinazione la preminenza esclusiva (…) La mancanza di radura (das Lichtung-lose) dell’essere è la mancanza di senso (Sinnlosigkeit) dell’ente nel suo insieme».3]

    Nietzsche parla del “nichilismo europeo”. Non intende con ciò il positivismo che sorge intorno alla metà del XIX secolo e la sua espansione geografica in europa; “europeo” ha qui un significato storico e vuol dire lo stesso che “occidentale” nel senso della storia occidentale. Nietzsche adoper il nome “nichilismo” per indicare il movimento storico da lui riconosciuto per la prima volta, ma che domina già i secoli precedenti e che darà l’impronta al prossimo, e di cui egli compendia l’interpretazione più essenziale nella breve sentenza: “Dio è morto”. Cioè: il “Dio cristiano” ha perduto il suo potere sull’ente e sulla destinazione dell’uomo.

    Il “Dio cristiano” è al tempo stesso la rappresentazione-guida che sta per il “soprasensibile” in generale e per le sue diverse interpretazioni, per gli “ideali” e le “norme”, per i “principi” e le “regole”, per i “fini” e i “valori” instaurati “sopra” l’ente per dare all’ente nel suo insieme uno scopo, un ordine e – come in breve si dice – per “dargli un senso”. Il nichilismo è quel processo storico attraverso il quale il “soprasensibile” diventa caduco e nullo nel suo dominio e di conseguenza l’ente stesso perde il suo valore e il suo senso. Il nichilismo è la storia dell’ente stesso attraverso la quale la morte del Dio cristiano, lentamente ma inarrestabilmente, viene alla luce (…) Il nichilismo è piuttosto quell’evento (Ereignis) che dura da tempo e nel quale la verità sull’ente nel suo insieme muta e si spinge verso una fine da essa determinata.

    La verità sull’ente nel suo insieme si chiama fin dall’antichità “metafisica”. Ogni epoca, ogni umanità, è retta da una rispettiva metafisica e da essa è posta in un determinato rapporto con l’ente nel suo insieme e quindi anche con se stessa. La fine della metafisica si svela quale decadenza del dominio del soprasensibile e degli “ideali” che ne scaturiscono. La fine della metafisica, tuttavia, non significa affatto un cessare della storia. È l’inizio di un prendere sul serio questo “evento”: “Dio è morto”. Tale inizio è già in corso. Nietzsche stesso intende la sua filosofia come l’introduzione dell’inizio di una nuova epoca. Egli vede il secolo venturo, l’odierno secolo XX, come l’inizio di un’epoca i cui rivolgimenti non possono essere paragonati a quelli finora noti. Le scene del teatro del mondo possono anche rimanere per qualche tempo quelle vecchie, ma il dramma che si sta recitando è già un altro (…) Il “nichilismo” è la verità, divenuta sovrana, secondo la quale tutti i fini dell’ente finora dati sono venuti a cadere. ».4]

    1] M. Heidegger Nietzsche 1961, trad it. Franco Volpi, Adelphi, 1994, p. 556
    2] Ibidem Nietzsche, tra. it. Adelphi, 1994 pp. 554, 557]
    3] Ibidem p. 559
    4] Ibidem p. 565

  27. Davide Inchierchia

    LEOPARDI E IL PERTURBANTE
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21565
    Fa piacere ritrovare il pensiero di Leopardi al centro di un così vivo dialogo sul senso della nostra contemporaneità. Nella fattispecie (come anche da me altrove accennato) emerge con rinnovata pregnanza la connotazione “esistenziale” che assume in Leopardi la questione del nichilismo, e che prefigura gran parte del dibattito novecentesco su questo tema cruciale.

    Sono state qui giustamente richiamate le analogie con le riflessioni di Nietzsche e di Heidegger, attraverso la chiave di lettura della ormai classica interpretazione che Severino ha offerto del grande recanatese.
    Mi sembra allora interessante aggiungere al dibattito un riferimento critico ulteriore, che consente di vedere il problema del nichilismo leopardiano da un’angolatura in buona parte alternativa a quella severiniana, proposta dal suo noto interlocutore dialettico di una vita. Si tratta infatti dell’esegesi che Massimo Cacciari ha consegnato alle pagine di «Magis amicus Leopardi. Due saggi», nel 2005.
    Solo qualche accenno, soffermandomi sul primo dei due contributi che compongono questo breve ma densissimo testo.
    In «Leopardi platonicus?» anche Cacciari annovera il poeta tra i massimi esponenti della filosofia occidentale (secondo solo a Dante). Tuttavia Cacciari – sottolineando così fin da subito la propria distanza da Severino – si preoccupa di rivendicare la quasi totale estraneità di Leopardi proprio da quella “follia”, costitutiva dell’Occidente, che pensa ogni ente come proveniente dal nulla e ritornante nel nulla: che intende astrattamente, ossia con astratta separatezza, la differenza tra essere e nulla.
    Con una profondità di visione teoretica maggiore rispetto a Nietzsche, la cui sentenza “Dio è morto” appare del tutto interna alla cattiva coscienza del moderno; ma con una radicalità maggiore persino rispetto ad Heidegger, il cui principio della “differenza ontologica” è viziato da una malcelata istanza razionalistica di derivazione hegeliana, Leopardi – secondo Cacciari – è ben consapevole che ogni essente è già “differ-ente” in se stesso: ogni essente, in altre parole, è un “ex-sistente” la cui identità, la cui medesimezza fa segno ad una provenienza (ex) che sempre differisce, che è “altra” da tutte le rappresentazioni con cui l’intelletto necessitante – il Logos – pretende di determinarne l’apparire.
    Ecco perché il nichilismo, in accezione leopardiana, è un ospite ben più “perturbante”: nella lettura speculativa di Cacciari – in cui si rievoca il concetto freudiano di Un-heimlich – inquietante, anziché ciò che ci è totalmente estraneo, è al contrario il massimamente a noi prossimo: ciò che “appare”, appunto. E’ il manifestarsi stesso di ogni essente l’originaria A-poria – la platonica Parousia “epekeina tes ousias”: ciò che si mostra quale “presenza” precedente qualsiasi universalità di genere – che ‘nientifica’, al netto della propria individua concretezza, ogni astratto tentativo di ridurre alla necessità della ragione (alla Totalità) la contraddizione dell’Inizio: la “singolarità” in-finita di ogni finitezza che “è”.
    Un nichilismo insomma, quello di Leopardi, che si tratta allora non già di “oltrepassare” (alla maniera heideggeriana), e meno che mai di “confutare” (nel senso severiniano), bensì di “custodire”:
    il nichilismo infatti non costituendo alcunché di ‘epocale’, né storicisticamente né fenomenologicamente, laddove “ex nihilo” è l’Epoché stessa della Cosa in quanto principio di negazione an-ipotetico – nei termini cacciariani, “aionico” – di ogni epoca temporalmente de-terminata.
    A conferma di questa direzione d’indagine, dalla evidente tonalità escatologica, giunge il secondo ed ultimo saggio contenuto nel libro di Cacciari, «Solitudine ospitale, da Leopardi a Célan», che in conclusione si prefigge di evidenziare l’attualità ‘inaudita’ del pensiero leopardiano, anche nella sua ricaduta etico-antropologica: nel suo inesausto prestare ascolto ad una Libertà che – anziché accomunare – “distingue”, come distinto è ciascun pensante in quanto “quel singolo” che si sa incoativamente “non-altro”. Un significato dell’esser-liberi che resta ancora tutto da interrogare.

  28. Claudio Borghi

    Le riflessioni di Cacciari, riportate da Davide nel suo acuto intervento, puntualizzano un aspetto di grande interesse circa la natura del nichilismo leopardiano. Mi riferisco al concetto di individuo o di ente come singolarità dell’Essere, che rimanda non solo per semplice associazione alle singolarità nello spaziotempo nella teoria della relatività generale o più in generale nella teoria dei campi. In che senso? Nel senso che non può essere esaustiva né una teoria filosofica dell’Essere né una teoria fisica del Tutto senza concepire come necessaria la pluralità degli enti, o delle partì infinitesime e singolari di cui quel Tutto ha bisogno per strutturarsi. Il nichilismo leopardiano risolve in sintesi poetica la contraddizione che alberga nell’Essere, che non può appagarsi di vuota sterile totalità, né può trovare foce nella patetica volontà del singolo di assolutizzarsi nella dimensione superumana dell’onnipotenza, che in quanto finita nessuna creatura può esperire, se non a prezzo di disgregarsi in inevitabile follia. La poesia, come il tempo limitato e mutevole della vita di ogni individuo, in quanto luogo di generazione libera di pensiero e immaginazione, nella consapevolezza tragica della fragilità e provvisorietà di ogni sintesi armonica o sinfonica, assume in questa prospettiva una valenza decisiva quanto emozionante: patetica illusione della creatura, se si vuole, ma anche e soprattutto potenziale svolta e compimento dell’incompiutezza della creazione nel movimento unico e irripetibile dell’anima.

  29. IL PROBLEMA DELL’ENTE NELLA POESIA E NELLA FILOSOFIA DI LEOPARDI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21587
    Le riflessioni di Inchierchia sono utili, si comprende quante possibilità di letture sono racchiuse nella «filosofia» di Leopardi. Certo è che il recanatese non si pose mai lo scopo di scrivere un trattato sul nichilismo, del resto egli non utilizza mai quella parola, ma è indubbio che tutta la riflessione filosofica (mi scusi Antonio Sagredo per l’intromissione di un termine a lui ostico) del recanatese giri ossessivamente intorno al problema dell’«ente» umano posto nella arretratissima Recanati e, in genere, in Italia, anch’essa arretrtissima nazione a confronto degli altri paesi europei avanzati. Io però sono dell’idea che nel pensiero di Leopardi non si rinviene alcuna propensione escatologica o aionica; mi correggo:’Aion è presente nelle sue poesie e nel suo pensiero, è presente la problematica del Tempo, e Leopardi è il primo poeta in cui questa problematica occupa un ruolo centrale.

    Insomma, voglio dire che quando Leopardi parla della «donzelletta che vien dalla campagna» qui non si sta occupando di una villanella, di una contadina, qui non è in essere un ritratto oleografico e populistico, qui Leopardi si occupa di un «ente», eternizza un ente temporalmente determinato, fa un’operazione che certo la superficiale poetessa alla moda di Milano non può capire, è troppo al di sopra del suo intelletto comprendere queste sfumature. Ma si tratta di sfumature essenziali. Quando Leopardi parla della «ginestra», qui la pianta è considerata sotto il profilo di un «ente» che parla e risponde ai dilemmi del poeta. Qui siamo dinanzi ad un tipo di poesia che non ha precedenti nella tradizione europea. Qui Leopardi è alle prese con il problema della eternizzazione di un «ente». Chiaro?

  30. Cari amici,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/03/giacomo-leopardi-il-pensiero-filosofico-e-poetico-del-recanatese-nelle-letture-della-nuova-ontologia-estetica-e-di-emanuele-severino-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21588
    facciamo qualche passo in avanti, diciamo, arriviamo al 1960 ed esaminiamo la questione del nichilismo vista da due pensatori: Ernst Jünger e Heidegger.

    Proverò qui con degli appunti sul nichilismo:

    Ernst Jünger in Oltre la linea (1955) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori» che è diventata una «condizione normale», ubiqua e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un «contromovimento» salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma Junger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contromovimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì in conformità con Nietzsche che ciò che sta per cadere dere essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta l’orizzonte di un «cominciamento», di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la linea significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e il niente diventa un aspetto normale della realtà.

    Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «osasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo.

    Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Jünger:

    “Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» dle pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.

    Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente
    e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca.
    Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
    La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
    Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
    Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte.1]

    (Ernst Jünger)

    A Jünger risponde Heidegger correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto, Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.

    M. Heidegger (1960):

    «Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).
    In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della linea critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio.

    Scrivo tutto questo in forma di domande, perché non vedo che cosa oggi un pensiero potrebbe fare di più se non pensare incessantemente su ciò che provoca queste domande. Forse arriverà il momento in cui, per altre vie, l’essenza del nichilismo si mostrerà più chiaramente e in una luce più viva. Per ora mi accontento di presumere che il solo modo in cui potremmo meditare sull’essenza del nichilismo sia quello di imboccare innanzitutto la via che conduce a una localizzazione dell’essenza dell’essere. Solo per questa via è possibile localizzare la questione del niente. Senonché, la questione dell’essenza dell’essere si estingue se essa non abbandona il linguaggio della metafisica, perché il rappresentare metafisico impedisce di pensare la questione dell’essenza dell’essere.
    Dovrebbe risultare evidente che la trasformazione del dire che pensa all’essenza dell’essere è sottoposta ad altre esigenze che non al cambio di una vecchia terminologia con una nuova.

    (Martin Heidegger)

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