Alban Berg nacque a Vienna nel 1885. Iniziò lo studio del pianoforte in famiglia. Dapprima autodidatta, studiò regolarmente con Arnold Schönberg dal 1904 al 1910, diventando uno dei suoi più insigni allievi e uno dei principali rappresentanti della Seconda Scuola di Vienna. Il suo nome s’impose ben presto in tutta l’Europa centrale. Ma, con l’avvento al potere di Hitler la sua musica fu proibita in Germania. Gli vennero meno i diritti d’autore e le sue condizioni economiche subirono un grave tracollo. Morì nel 1935 a causa di una setticemia.
Già nei primi Lieder, composti ancora da adolescente autodidatta, si manifesta un’interna tensione alla rottura degli schemi armonici del tardo romanticismo. Dall’incontro con Schönberg, gli venne quindi naturale aderire al principio dell’«emancipazione della dissonanza» e cioè dell’atonalità. Tuttavia, Alban Berg non chiuse mai del tutto con la tradizione, recuperandone le forme e, talora, alcuni stilemi armonici. Tra i suoi lavori principali, ricordiamo Tre pezzi per orchestra op. 6, Quattro pezzi per clarinetto e pianoforte op. 5, Cinque Lieder per voce e orchestra op. 4, su testi tratti da cartoline postali dello scrittore Peter Altenberg; l’opera teatrale Wozzeck; il Concerto da camera, per pianoforte, violino e 13 fiati; la Suite lirica per quartetto d’archi; il dramma lirico Lulu.

Alban Berg nel suo studio
Presentazione di Donatella Costantina Giancaspero
“Finalmente ci siamo accorti che la sensualità non è una debolezza, che non significa la rinuncia alla propria volontà. È piuttosto un’immensa forza celata in noi – il perno della nostra esistenza e del nostro pensiero” (Harris 1979b, p. 11): così scriveva Alban Berg nel 1907 a Frida Semler, plaudendo alle tematiche fortemente innovative del teatro di Franck Wedekind, volte a una critica esplicita della società borghese; tematiche che trovavano piena corrispondenza nell’idea estetica di Berg.
Nel 1904, Franck Wedekind dava vita a Erdgeist (Lo spirito della terra) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora), i due lavori che poi, a partire dal 1928, ispireranno a Berg il libretto di Lulu, la sua secondo opera dopo Wozzeck. Ma intanto, nel 1904, il giovane Alban lavorava ancora come impiegato comunale, scrivendo musica per suo piacere, senza l’ausilio di studi musicali veri e propri. Fu l’incontro con Arnold Schönberg, in quello stesso anno fortunato, a segnare il suo percorso di compositore. Dall’insegnamento del maestro, Alban Berg deriverà la sua sostanziale crescita artistica, nel senso, tuttavia, di una scrittura non del tutto emancipata dalla tradizione, divisa tra atonalismo e reminiscenze tonali. Si tratta di un “limite”, probabilmente; tuttavia, è proprio in virtù di questo che la sua musica si impone con un carattere di estrema varietà, particolarmente attraente. In esso trova espressione la sensualità di Lulu, quell’”immensa forza celata […] perno della nostra esistenza e del nostro pensiero” che faceva esultare Berg e inorridire i benpensanti borghesi. Il loro perbenismo, intriso di moralismo religioso, reprimeva ogni istinto sessuale, inteso quale forza distruttiva. E proprio questo incarna il personaggio di Lulu, quale carnefice e vittima al tempo stesso: “un essere primitivo contro cui impazza la civiltà progredita”, come l’aveva definita Th.W. Adorno. Ma il senso ultimo della vicenda va oltre: coinvolge il significato stesso dell’uomo e della propria esistenza. Un senso filosofico, dunque, lo stesso che attraversava tutta l’arte tedesca nei primi decenni del Novecento. Quel senso che, in occasione della rappresentazione postuma di Lulu (Zurigo, 1937), ispirò ad Adorno queste parole:
“Non c’è musica contemporanea umana come quella di Berg, e per questo gli uomini la temono”.
Alban Berg iniziò Lulu nel 1928. Continuò a comporla, con qualche interruzione, fino all’anno della sua morte, il 1935, lasciandola incompiuta. Il musicista era gravemente ammalato. In una lettera del 21 agosto 1935 alla Universal Edition, scriveva: “Il mio carbonchio mi tormenta terribilmente. A quanto dice il medico, che ho dovuto chiamare, dovrebbe durare ancora per settimane! «Questa è la sera della mia vita! La peste in casa», gemo con il dottor Schön e sto proprio orchestrando questa parte di Lulu, facendo ricorso a tutta la mia forza di volontà” (cit. in Scherliess 1981, pp. 99-100). Berg moriva a Vienna il 24 dicembre, lasciando orchestrati soltanto due dei tre atti scritti. Com’è noto, Arnold Schonberg si rifiutò di completare la strumentazione del terzo atto, così come fecero in seguito Alexander von Zemlinsky e Anton Webern. Bisognerà aspettare il 1979 per vedere l’opera ultimata dal viennese Friedrich Cerha, studioso e interprete degli autori della Seconda scuola di Vienna.

Alban Berg
La vicenda dell’opera è assai complessa e articolata. Lulu è una ragazza strappata alla sua infima condizione sociale da un uomo ricco, il dottor Schön, che ne fa la sua amante. Da questo momento in poi, molti uomini, tra mariti, pretendenti e amanti, verranno sedotti dalla sua sensualità, compreso il figlio di Schön, Alwa, che Alban Berg indica come suo alter ego. Tutti uomini inevitabilmente destinati alla morte. Lulu stessa si macchierà di delitto, uccidendo Schön, nel mentre questi la costringeva al suicidio. Viene imprigionata. Il tragico evento, insieme al colera, di cui Lulu si ammalerà, e a una grave crisi economica, che ridurrà sul lastrico molti affaristi, segnerà il suo declino. Nel Terzo atto, fuggita dal lazzaretto in cui era stata rinchiusa, la rivediamo prostituirsi nella squallida soffitta di un malfamato sobborgo londinese. Qui, la notte di Natale, Lulu troverà la morte, insieme ad Alwa e alla contessa Geshwitz, sua protettrice e innamorata, per mano dell’ultimo cliente, Jack lo Squartatore.
Dall’inizio alla fine, l’opera, nel suo forte dispiegarsi espressionista, scava dentro la psiche umana, portando a galla i sentimenti più abietti. E, a ben vedere, Lulu, nella sua innocente crudeltà, risulta essere la vittima principale.
Un recentissimo allestimento è stato realizzato al Teatro Costanzi di Roma (in coproduzione con la Metropolitan Opera di New York, l’English National Opera di Londra e la De Nationale Opera di Amsterdam) dal regista sudafricano William Kentridge (co-regista Luc De Wit), già noto a Roma per i 500 metri del fregio “Trionfi e lamenti” sugli argini del Lungotevere.
Si è trattato di un vero e proprio debutto per Lulu, diretta dall’argentino Alejo Pérez, poiché mancava dal Teatro dell’Opera di Roma dal 1968, quando vi fu rappresentata nella versione ancora incompiuta.
Il dramma borghese di Lulu è visto da Kentridge come “un’opera sull’instabilità del desiderio”. “Lulu ha molti amanti – dice Kentridge –, ma nessuno corrisponde all’immagine dell’uomo di cui lei pensa di aver bisogno e nemmeno Lulu può essere la donna che molti amanti e mariti vogliono che lei sia”. Quindi, assistiamo al “mancato incontro dell’oggetto del desiderio”, al “desiderio che non viene appagato”. Kentridge parla anche di “frammentarietà” dei “caratteri”; una frammentarietà simboleggiata dai tanti disegni che volano qua e là sulla scena, per poi ricomporsi nel ritratto dominante di Lulu. Si tratta dei disegni originali del regista stesso, proiettati e attraversati da dense pennellate di inchiostro, da schizzi che simulano il sangue versato sulla scena. In questi fogli si materializzano anche i sentimenti ossessivi del dramma.
Novità assoluta per l’epoca in cui fu composta l’opera, è il filmato di due o tre minuti, che Berg inserì nel secondo atto, tra la prima e la seconda scena, con lo scopo di riassumere il processo, la prigionia e la malattia che porteranno Lulu al suo tragico epilogo. Kentridge lo ripropone con un interessante richiamo all’espressionismo tedesco del cinema muto.
Nell’insieme, un allestimento attuale ben riuscito, che ha dato risalto alla estrema complessità dell’orchestrazione e delle voci. Su tutte ha trionfato lei, Lulu (il soprano svedese Agneta Eichenholz): femme fatale, demoniaca, distruttrice, secondo la mentalità moralista e sessuofoba della società viennese nei primi decenni del Novecento; per noi, emblema della femminilità e dell’Eros, così come l’ha voluta Alban Berg, ovvero una donna viva, determinata, vittima dell’ipocrisia e della menzogna. Il compositore viennese, nella sua ultima stagione creativa, ne fa la protagonista di un dramma che sovverte ogni regola; un dramma nel quale riconosciamo quello di un mondo prossimo alla fine, annientato dal cinismo, dalla violenza, dalla crudeltà. Un mondo che, in seguito, per i lunghi anni segnati dal nazismo e dalla guerra, resterà diviso ancora tra vittime e carnefici.

Scena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma
ALBAN BERG, LULU – Atto secondo, Scena prima
DOTT. SCHÖN
(rientra dalla comune, chiude la porta a chiave, va con la pistola spianata verso la finestra sul davanti, alza di colpo la tendina)
Dov’è andato quello?
LULU
(sull’ultimo gradino della scala)
Fuori.
DOTT. SCHÖN
Si è gettato dal balcone?
LULU
È un acrobata.
DOTT. SCHÖN
(volgendosi a Lulu con gesto di disprezzo)
E tu, sciagurata, che mi trascini nel fango verso il supplizio! Angelo sterminatore! Fatalità ineluttabile! Tu, gioia della mia vecchiaia, capestro per il mio collo!
LULU
(venendo avanti)
Ti piace il mio vestito nuovo?
DOTT. SCHÖN
Via di qui, o domani non rispondo più di me, e mio figlio nuoterà nel suo sangue!
(con improvvisa decisione le spinge in mano la pistola)
Devo salvarmi. Mi capisci? Adoperala per te stessa!
LULU
(sentendo che le forze stanno per mancarle, si è lasciata cadere sul divano e rigira la pistola fra le mani)
Ma questa non spara.
DOTT. SCHÖN
Vuoi che ti guidi la mano?
LULU
(volgendo come per scherzo la pistola verso di lui)
È carica?

Scena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma
DOTT. SCHÖN
Non far baccano a vuoto!
(Lulu alza il revolver e spara un colpo al soffitto. Rodrigo balza fuori dalla portiera, sale la scala, esce dalla galleria)
DOTT. SCHÖN
Che cosa è stato?
LULU
(candida)
Niente. Hai la mania di persecuzione!
DOTT. SCHÖN
(le strappa la pistola)
Ne tieni nascosto ancora qualcuno?
(fruga la stanza, fuori di sé)
C’è qualche altro uomo a farti visita?
(fa volare in alto le tende della finestra, rovescia il paravento del camino; dopo un momento di muto stupore, afferra per il colletto la Geschwitz e la trascina in avanti)
E lei, è passata per la cappa del camino?
CONTESSA GESCHWITZ
(morta di paura, a Lulu)
Mi salvi, mi salvi!
DOTT. SCHÖN
(scrollandola)
O anche lei è un acrobata?
CONTESSA GESCHWITZ
(gemendo)
Mi fa male…
DOTT. SCHÖN
Adesso dovrà rimanere qui a pranzo.
(trascinandola verso sinistra la spinge nella camera attigua e chiude la porta a chiave; si siede vicino a Lulu e le mette in mano la pistola)
Ce n’è ancora dentro a sufficienza per te: finisci! Non posso aiutare il mio servitore a coronarmi la fronte.
(tendendole di nuovo la pistola)
Finisci!…

Scena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma
LULU
Puoi chiedere il divorzio.
DOTT. SCHÖN
Ci mancherebbe anche questa! Perché domani il primo venuto se la spassi nell’abisso d’orrore in cui sono precipitato, col suicidio che m’incalza e con te davanti agli occhi!
(un po’ più calmo)
Io, divorziare?! Si può divorziare quando due esseri si sono compenetrati a vicenda e l’uno dei due si porta dietro l’altro?
(di nuovo infuriato)
Vedi il tuo letto con sopra le vittime del sacrificio?
(stende la mano verso la pistola)
Da’ qui!
LULU
Pietà…
(tenta di sfuggirgli)
DOTT. SCHÖN
(c.s.)
Voglio risparmiarti la fatica.
(tenta nuovamente di strapparle la pistola. Lulu si strappa da lui; tenendo già la pistola, in tono deciso e consapevole di sé)
[Lied di Lulu]
LULU
Se degli uomini si sono uccisi per me, questo non diminuisce certo il mio valore. Quando mi hai preso in moglie, sapevi bene perché lo facevi, così come io sapevo perché prendevo te per marito. Avevi ingannato con me i tuoi più cari amici; non ti era facile ingannare anche te stesso. Se tu mi sacrifichi la tua vecchiaia, è vero che hai avuto in compenso tutta la mia giovinezza. Io non ho mai voluto che il mondo mi credesse qualcosa di diverso da quello che mi ha considerato. E nessuno al mondo mi ha mai considerato altro che quello che sono.
DOTT. SCHÖN
(facendole forza)
Giù, assassina! In ginocchio!
(la spinge fino ai piedi della scala, alza la mano)
Giù…
LULU
(cade in ginocchio)
DOTT. SCHÖN
…e non osare rialzarti!
(volgendo verso Lulu la canna della pistola che lei stringe in mano)
Prega Dio che ti dia la forza!…
(Lo studente esce con fracasso da sotto la tavola, spingendo da parte la seggiola. Il dott. Schön si volta rapido verso lo studente, volgendo le spalle a Lulu. Lulu spara cinque volte contro Schön e continua a premere il grilletto).
Giorgio Linguaglossa
Il frammento e la fine della modernità nella nuova ontologia estetica del regista americano William Kentridge
Vorrei dire qualcosa sull’allestimento scenico del regista americano William Kentridge. Davvero geniale con quei suoi lungometraggi di disegni in bianco e nero con tratto espressionista che scorrono in migliaia di fotogrammi sul fondale del Teatro Costanzi di Roma trattato alla stregua di un telone bianco da film. In effetti, quello che scorre sono migliaia di immagini, di spezzoni di immagini, frammenti di volti, di corpi, di parti di corpi (tutti in rigoroso bianco e nero), che si muovono, si agitano, si spostano, restano immobili, indietreggiamo, si rimpiccioliscono, ingigantiscono… assumono varie fogge e grandezze in un caleidoscopio di immagini, scatti, frammenti che si sovrappongono ad altri frammenti di immagini creando sul fondale un micidiale movimento convulso e forsennato di immagini non quale contro canto di ciò che avviene sulla scena quanto invece una traduzione filmica in immagini frammentate e frammentarie di ciò che sulla scena avviene. Il risultato è un potenziamento al massimo grado della drammaticità della musica di Alban Berg e delle parole pronunciate dai protagonisti.
Mi ha fatto molto piacere e mi ha sorpreso questa applicazione della prassi artistica del «frammento» nel corpo di un lungometraggio in bianco e nero come didascalia di un altro testo che viene presentato sulla scena. Non me lo aspettavo, una invenzione del regista William Kentridge che ha del geniale.
Ecco, quanto noi andiamo dicendo in favore del «frammento» è quello che ha fatto William Kentridge, il «frammento» ha una potenzialità di applicazione praticamente infinita, dà infinite possibilità espressive non soltanto ad un musicista o a un regista ma anche ad un romanziere e a un poeta. Per adottare il «frammento» ovviamente bisogna pensare in «frammenti». In fin dei conti, il frammento che cos’è? È una durata infinitesimale, nient’altro. E che cos’è una durata infinitesimale? è ciò che noi esperiamo ogni giorno durante la nostra vita quotidiana, né più né meno. Bisogna percepirsi in frammenti, essere consapevoli della nostra condizione ontologica di frammento, e quindi della nostra condizione ontologica «debole», aleatoria, sfuggente.
Gianni Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive “l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica“. Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. Ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo . Con Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale.
La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte è stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredità di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.
Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

Donatella Costantina Giancaspero, Teatro dell’Opera, Roma
Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.
IL FRAMMENTO E LA FINE DELLA MODERNITà NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA DEL REGISTA AMERICANO WILLIAM KENTRIDGE
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20544
Vorrei dire qualcosa sull’allestimento scenico del regista americano William Kentridge. Davvero geniale con quei suoi lungometraggi di disegni in bianco e nero con tratto espressionista che scorrono in migliaia di fotogrammi sul fondale del Teatro Costanzi trattato alla stregua di un telone bianco da film. In effetti, quello che scorre sono migliaia di immagini, di spezzoni di immagini, frammenti di volti, di corpi, di parti di corpi (tutti in rigoroso bianco e nero), che si muovono, si agitano, si spostano, restano immobili, indietreggiamo, si rimpiccioliscono, ingigantiscono… assumono varie fogge e grandezze in un caleidoscopio di immagini, scatti, frammenti che si sovrappongono ad altri frammenti di immagini creando sul fondale un micidiale movimento convulso e forsennato di immagini non quale contro canto di ciò che avviene sulla scena quanto invece una traduzione filmica in immagini frammentate e frammentarie di ciò che sulla scena avviene. Il risultato è un potenziamento al massimo grado della drammaticità della musica di Alban Berg e delle parole pronunciate dai protagonisti.
Mi ha fatto molto piacere e mi ha sorpreso questa applicazione della prassi artistica del «frammento» nel corpo di un lungometraggio in bianco e nero come didascalia di un altro testo che viene presentato sulla scena. Non me lo aspettavo, una invenzione del regista William Kentridge che ha del geniale.
Ecco, quanto noi andiamo dicendo in favore del «frammento» è quello che ha fatto William Kentridge, il «frammento» ha una potenzialità di applicazione praticamente infinita, dà infinite possibilità espressive non soltanto ad un musicista o a un regista ma anche ad un romanziere e a un poeta. Per adottare il «frammento» ovviamente bisogna pensare in «frammenti». In fin dei conti, il frammento che cos’è? È una durata infinitesimale, nient’altro. E che cos’è una durata infinitesimale? è ciò che noi esperiamo ogni giorno durante la nostra vita quotidiana, né più né meno. Bisogna percepirsi in frammenti, essere consapevoli della nostra condizione ontologica di frammento, e quindi della nostra condizione ontologica «debole», aleatoria, sfuggente.
Gianni Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive “l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica“. Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. Ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo . Con Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale.
La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte è stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredità di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.
Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».
Che bella questa incursione in musica,che ci permette di spaziare – com’è giusto che sia, perché chi scrive e legge poesia possa agguantare le suggestioni e le interferenze che ci giungono in questo senso da ogni luogo. Dunque qui, su questa bella pagina telematica godiamo di un approfondimento che è anch’esso parte, anch’esso frammento del tutto poetico che ci vive e che viviamo.
Un ringraziamento a Costantina Giancaspero, per portar linfa e aromi d’importanza fondamentale, e con la sua poesia, e con queste note – mi si perdoni il gioco di parole – musicali!
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La nota di Giorgio Linguaglossa al mio articolo aggiunge molti spunti di riflessione su ciò che io chiamerei il «linguaggio del frammento»; un linguaggio che esprime più di ogni altro la contemporaneità. Il «frammento», infatti, come lui dice, “è ciò che noi esperiamo ogni giorno durante la nostra vita quotidiana”. Bisogna che l’artista parli, pensi in «frammenti», se vuole dare voce alla realtà. Tutto il resto non è percezione del presente, ma ripiegamento sul passato. Tutto il resto è anacronismo. Grazie
grazie Costantina e Giorgio. Trovo sia una articolo affascinante sotto tutti i punti di vista.
Il filmato che Kentridge ha realizzato per il secondo atto dell’opera, così come è riportato nel libretto, rispetta lo scenario scritto da Berg. Il regista sudafricano si avvale dei suoi disegni a inchiostro e inserisce alcune immagini che ricordano il genere noir del cinema negli anni anni Venti e Trenta, con l’intento di ricreare le atmosfere del cinema espressionista tedesco.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20556
Devo confessare che, in relazione al frammento, sul piano della resa espressiva trovo più congeniale la musica di Schonberg e di Alban Berg, piuttosto che quella degli altri autori che questa rivista ha più volte indicato come inerenti alla concezione estetica della NOE. Ligeti, ad esempio, va benissimo per quel che riguarda il vuoto, lo spazio e la impostazione filosofica della NOE ma, ripeto, sul piano espressivo trovo legittimo che si pensi anche a Schonberg.
Prima, però, voglio scusarmi per la scarsa cultura musicale: di Berg non sapevo quasi nulla fino ad oggi – tanto più che sono un estimatore di Sun Ra, che faceva musica di tutt’altro genere, di totale nonsense e sgrammaticature musicali. O Zappa. Così è, per come son fatto – .
Per me Schonberg è Kandinskij, il pittore astrattista che per primo disintegrò le immagini per ridurle in frammenti da comporre al di fuori della visione prospettica, più di un secolo fa. Per quanto attiene all’immagine, nello specifico della pittura, per poter parlare di frammenti bisognerebbe risalire a Paolo Uccello se non, prima ancora, alle pitture del Gotico internazionale.
Mi trovo invece in perfetto accordo con quanto scrive Giorgio L. in questo passaggio:
“Mi ha fatto molto piacere e mi ha sorpreso questa applicazione della prassi artistica del «frammento» nel corpo di un lungometraggio in bianco e nero come didascalia di un altro testo che viene presentato sulla scena (…) il «frammento» ha una potenzialità di applicazione praticamente infinita, dà infinite possibilità espressive non soltanto ad un musicista o a un regista ma anche ad un romanziere e a un poeta.”
Sottolineo quel “come didascalia”, perché sono certo che questa intuizione potrà avere sviluppi sorprendenti in futuro, ancora da esplorare.
Bravissima Costantina, grazie per questa lectio magistralis. Penso sinceramente che la poesia dovrebbe uscire dal campo ristretto che le è stato assegnato nel corso dei secoli. I poeti affezionati al classicismo mi capiranno – san meglio di me – sempre che non siano troppo occupati a fornirci l’ennesima versione di Orfeo e Euridice 😉
Un omaggio a te, Lucio…
oh sì, grazie. Lo conosco. Anche se non ne so molto sono andato spesso a “cercare”. Solo registrazioni, purtroppo… Schonberg mi mette di buon umore.
è formidabile questo video!…Ho un debole per Kandinsky…l’abbinamento musicale è ottimo perché commenta senza sovrapporsi alle opere del grande pittore. Complimenti Donatella Costantina…
Grazie, Mariella Colonna. A proposito dell’abbinamento musicale – pittorico, è necessario ricordare che Schönberg è associato a Kandinsky già da Alban Berg, come si legge nei suoi Taccuini: “Ho sempre paragonato Schönberg a Kandinskij, non so perché”. Ed è interessante sapere che Berg trova, invece, in Paul Klee il proprio corrispettivo: “ho accostato volentieri la mia opera a quella di un ricercatore dell’invisibile, come Paul Klee. Altri dovranno spiegarne le ragioni. Io credo, però, che si tratti di un disamore per l’autorità astratta del segno e di un amore per la trasparenza musicale dell’emozione”.
Interessante, vero? E poi Klee era anche poeta. Possiamo leggere alcune sue poesie pubblicate qui sulla rivista il 16 ottobre 2014.
Con fiori, io uomo bambino,
voglio incoronare il tuo pallido viso.
Sulle bianche pareti si legge
Che i crisantemi sono vicini.
Le tue fredde labbra hanno bisogno di una lieve febbre,
forse un bacio le difende dall’arsura.
Come sei bella ora, i tuoi colori,
sono solo apparenza di colori.
I miei occhi voraci volevano
raccogliere nuovi fantasmi.
Se morirò brilleranno molli
due fiori notturni nel crepuscolo.
Ai tuoi occhi dolcemente cerchiati
dirò ich glaube e crederò
quel che vedo morendo.
(Paul Klee, 1902)
E che ne dici di Orfeo ed Euridice in “frammenti”? L’argomento esposto con tanta competenza e intensità da Donatella Costantina Giancaspero ha aperto il nostro orizzonte alle possibilità infinite che si offrono all’artista che riesce a far propria la drammatica esperienza del suo tempo: la musica poi ci trascina in universi paralleli dove possiamo cogliere infiniti spunti per le nostre creazioni artistiche dove spesso armonie e disarmonie si integrano in modi vari e suggestivi da creare rappresentazioni immaginarie di una novità sconvolgente: prendo spunto dall’intervento di Giorgio Linguaglossa sul regista sudafricano William Kentridge, un genio multiforme che, oltre all’interessantissimo allestimento scenico sul fondale del Teatro Costanzi, ha realizzato “Triumphs e Laments”, la grande opera site-specific pensata per il tratto delle banchine e dei muraglioni del Tevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto e realizzata nell’ aprile 2016, che è stata definita, forse in termini un po’ eccessivi, “Il più grande lavoro artistico a Roma dopo la Cappella Sistina”. Le figurazioni allegoriche, realizzate con la tecnica dello “scavo” sulla parte ammuffita e muschiosa dei muraglioni, sono di una forza straordinaria e, in effetti, l’idea del frammento e del doloroso epico svolgersi del “racconto” lungo il fiume più ricco di storia che il mondo abbia conosciuto (o misconosciuto) è, in grandiosità di idea, l’equivalente di Guernica di Picasso, ma di gran lunga più imponente a livello di realizzazione per il “luogo” dove è situata e i mezzi e con cui è stata realizzata.
DUE POESIE DI GEORG TRAKL
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Das Wort
Wunder von ferne oder traum
Bracht ich an meines landes saum
Und harrte bis die graue norn
Den namen fand in ihrem born –
Drauf konnt ichs greifen dicht und stark
Nun blüht und glänzt es durch die mark…
Einst langt ich an nach guter fahrt
Mit einem kleinod reich und zart
Sie suchte lang und gab mir kund:
> So schläft hier nichts auf tiefem grund<
Worauf es meiner hand entrann
Und nie mein land den schatz gewann…
So lernt ich traurig den verzicht:
Kein ding sei wo das wort gebricht.
La Parola
Meraviglia di lontano o sogno
Io portai al lembo estremo della mia terra
E attesi fino a che la grigia norna
Il nome trovò nella sua fonte
Meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte
Ed ora fiorisce e splende per tutta la marca…
Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice
Con un gioiello ricco e fine
Ella cercò a lungo e [alfine] mi annunciò:
"Qui nulla d'uguale dorme sul fondo"
Al che esso sfuggì alla mia mano
E mai più la mia terra ebbe il tesoro…
Così io appresi la triste rinuncia:
Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca
Ein Winterabend
Wenn der Schnee ans Fenster fällt,
lang die Abendglocke läutet,
vielen ist der Tisch bereitet
und das Haus ist wohlbestellt.
Mancher auf der Wanderschaft
kommt ans Tor auf dunklen Pfaden.
Golden blüht der Baum der Gnaden
aus der Erde kühlem Saft.
Wanderer, tritt still herein;
Schmerz versteinerte die Schwelle.
Da erglänzt in reiner Helle
auf dem Tische Brot und Wein.
Una sera d’inverno
Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.
Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
(traduzione di Giorgio Linguaglossa)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20568
Anton Webern si interessò molto alle poesie di Georg Trakl, anche se non lo incontrò mai personalmente. Ma sia il musicista che il poeta rappresentano un magnifico esempio di reciprocità artistica (e questo dovrebbe farci riflettere). Infatti Webern musicò alcuni testi di Trakl nei “Sei Lieder” op. 14 per voce, clarinetto, clarinetto basso, violino e violoncello. Mentre Trakl s’interessò alle innovazioni offerte dalla dodecafonia di Schönberg, quando iniziò a collaborare alla rivista viennese “Der Ruf”, curata da un’associazione che organizzava, tra le altre cose, anche concerti dei tre grandi, Schönberg, Berg, Webern. Dal contatto con i nuovi e rivoluzionari principi musicali, Trakl prende spunto per introdurre nella sua poesia un’alternanza di consonanza e dissonanza e la parola si fa più sensibile al suono e al colore, in analogia, non solo con la musica di Schönberg, ma anche con l’arte di Kandinsky.
Anton Webern, Sei Lieder op. 14 per voce, clarinetto, clarinetto basso, violino e violoncello.
Berg non portò alle estreme conseguenze il sistema dodecafonico, come invece fece Webern. Forse era nel suo carattere ‘lirico’.
Dice bene Luciano Nanni. Difatti, rispetto ad Alban Berg e anche al maestro, Schönberg, che pure aveva dato vita al sistema dodecafonico, Anton Webern si mostrò più rigoroso e cercò sempre, fino alla morte, nuove possibilità nell’ambito della scrittura seriale. Ma c’è da dire che la dodecafonia resta comunque limitativa, non solo perché si avvale di regole rigide, ma perché rimane chiusa all’interno del sistema temperato, con l’impiego delle dodici note in cui è suddivisa l’ottava. Nessuno avrebbe mai potuto scrivere musica all’infinito senza rischiare la ripetitività. Lo stesso Adorno fu molto critico nei suoi confronti, definendo la «razionalità dodecafonica» come un «sistema chiuso e impenetrabile anche a se stesso».
Un altro tipico esempio di scrittura per «frammenti» del poeta svedese:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20559
Kjell Espmark (1930):
Nuoto a qualche metro di profondità
in mezzo a un branco di pesci che a scossoni si gira.
Non è quaggiù
che usa cominciare la poesia?
Attesa, ombre, sfocato chiarore.
Di colpo vedo le navi lassù:
un quadro che dondola un po’;
ancora con molte fini possibili.
Due ruote di prua leggermente si toccano.
Gli equipaggi stanno ciascuno nella sua lingua
con la lancia accortamente alzata per il tiro.
Un giovinetto è appena caduto giù nel largo
tratto blu-turchese dove nuoto
con bracciate lentamente pietrificate.
Un uomo bruno lo tiene per il piede
mentre un altro con il remo
spinge giù la sua testa spumeggiante.
Aspettano i pesci rotondi fissi nello smalto.
S’irrigidisce secolo su secolo.
Illuminazioni
Cosa ci dice la poesia di Espmark? E’ a un passo da noi cosa?
Mi piace il vaso di Pandora aperto dalla Sig,Giancaspero…curiosità:- era stata scelta Dietrich Marlene, devo convenire,col regista (non ricordo il nome ora) come non adatta, alla parte,troppo forte,non credibile e per la trasposizione cinematografica fù scelta un altra attrice Louise Brooks. Comunque quì nasce la femme fatale causa d’ogni male,il lato oscuro. La storia del vicino oriente antico la configurerebbe come un Ershkigal sorella oscura di Isthar. Lulu finirà al macero, nel rigagnolo ultimo, putrido, uccisa appunto secondo Wedekind nientemeno che, dal solito Jack,diventato poi mito tanto per dare ai fatti una giustificazione plausibile, ed anche un tantino mitica, il che non solo non guasta ma é un devo!
la nuova ontologia estetica e l’arte del frammento
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20571
Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…
(Steven Grieco-Rathgeb)
Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano,
che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.
(Giorgio Linguaglossa)
Ma le parole sono vive,il resto spetta all’ermeneutica che non é ombra,se non per il suo aspetto transitorio.
RIPROPONGO UNA RIFLESSIONE SCATURITA A LATERE DELLE IMMAGINI DEI POETI CREATE DA LUCIO MAYOOR TOSI:
giorgio linguaglossa
23 marzo 2017 alle 12:22 Modifica
DEBOLEZZA E INFERMITA’ DELLA PAROLA POETICA: dall’espressionismo alla parola «debole»
Verso una nuova ontologia estetica
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18817
Ho inteso inserire i «polittici dei poeti» firmati da Lucio Mayoor Tosi perché credo in questo design, mi piace questo indebolimento dei colori, lo apprezzo, siamo in un’epoca di indebolimento progressivo dei colori, delle parole, delle appercezioni, dei valori (forse), dei sentimenti, del politico… È questo il nostro comune sostrato ontologico, non ne abbiamo un altro di ricambio. Dobbiamo ripartire da qui, dalla nostra intima debolezza e infermità della parola poetica.
Quanto diverse ci appaiono oggi le parole forti, graffiate, incise di netto della poesia di Alfredo de Palchi!
Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che muoversi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.
Rispondi
Lucio Mayoor Tosi
26 marzo 2017 alle 14:28 Modifica
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18861
Questi colori sono anche dell’indebolimento dell’io, della sua resa in superficie, ma progressivamente della sua sostanziale scomparsa o dissolvimento. I poeti sanno del proprio annullarsi – che è ben altro rispetto all’apparenza dell’immagine mediatica – ma questa parvenza riguarda tutti. Le figure di Giacometti coglievano l’umanità un istante prima della sua definitiva scomparsa. Qui si tenta qualcosa di analogo, bisogna tenere conto che ottant’anni di televisione hanno finito con l’entrare nella memoria visiva, come metro di paragone, quindi come esperienza estetica collettiva. L’azione vitalistica di Warhol ( siamo nel dopoguerra) teneva conto delle quadricromie di stampa. Oggi valgono i colori-luce dell’RGB. In questi ritratti non ho eseguito delle semplici colorazioni: ho usato la luce, l’ho fermata in una miriade di sfaccettature. Credo che potrei illustrare ogni singolo verso delle poesie di De Palchi; ma la scrittura va difesa, ha un futuro che nemmeno immaginiamo. O almeno io credo di saperlo. Il segnale è dato dall’arresto del pensiero lineare, che è solo letterario. De Palchi ha visto bene, così come Matisse vide con grande anticipo i colori-luce dell’ RGB.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/31/la-lulu-di-alban-berg-vittima-e-carnefice-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-tra-atonalismo-dodecafonico-e-frammento/comment-page-1/#comment-20576
Caro Giorgio,
nei ritratti che ho proposto alla rivista quel che vien meno sono le immagini, i volti delle persone ritratte, rese evanescenti, come sommerse, nel clangore mediatico soverchiante che ho raffigurato con colori accesi. Quel che viene a mancare son le persone, e io ho cercato di “salvarle” facendole emergere, anche se stando attento a che restino un po’ indietro rispetto al colore. Per la scelta dei colori mi sono mosso intuitivamente, guardando i volti dei poeti e pensando alla poro poesia.
Si tratta ancora di Pop art, solo che invece di ispirarmi ai colori di stampa o della serigrafia, come fece Warhol, ho utilizzato i colori luce del monitor. Il cambio è quindi del tutto tecnologico; ma la resa è pop in quanto, fateci caso, sono gli stessi fondi luce che vengono utilizzati nelle trasmissioni televisive (telegiornali e talk show).
Non ero affatto sicuro che questa soluzione potesse piacere ai poeti, i quali, pur non mancano di narcisismo, normalmente non sono propensi a mettersi in mostra, a porsi cioè “davanti” all’opera ( almeno quelli seri). Ma l’obiettivo che mi ero posto era quello di creare identità visiva e dare riconoscibilità alla NOE. Infine si trattava di creare una linea editoriale, nuova e indipendente.
Qui non si tratta di poesia debole ma di poesia emergente, in emersione.
A parte questo devo anche ammettere che mi sono parecchio divertito nell’interpretare i vari soggetti, uno ad uno.
Seguendo il linguaggio dei colori possiamo comprendere come ogni epoca abbia avuto i suoi: il bianco e nero + ocra e marroni del primo dopoguerra, i colori sgargianti dei “vincitori” americani… oggi no, a parte certi aspetti del decorativismo, i colori in genere sono spenti (menti confuse, rabbia e sentimenti contrastanti…), tranne che per i media e per l’ufficialità: si vorrebbe vendere positività, fiducia e consenso, laddove i fatti stanno a dimostrare il contrario.
Ma una nota di ottimismo i poeti la devono pur dare: chi se non loro, attenti come sono, se non a dire la verità, almeno a non dire bugie?
VALORE SIMBOLICO, POLITICO ED ESTETICO DEI COLORI. L’INDEBOLIMENTO DEI COLORI NON EQUIVALE A COLORI DEBOLI MA AD UNA MUTAZIONE TRANSGENICA DELLA PERCEZIONE DEI COLORI.
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È ovvio che una nuova ontologia estetica abbia una diversa sensibilità verso i colori. Cambia la percezione dei colori perché cambia lo stato ontologico dei colori, soltanto gli artisti innovativi e più sensibili sanno intercettare i cambiamenti in atto nella società. Uno stesso giallo viene percepito in modo diverso a seconda dell’età, della sessualità, della condizione sociale, culturale e politica di ogni utente… e non c’è dubbio che la nuova ontogenesi dei colori delle immagini dei poeti proposta da Lucio Mayoor Tosi sia qualcosa di eclatante e che ha del rabdomantico, è una vera e propria rivelazione estetica.
Negli anni, dalla fine del 1800 ad oggi, e nelle società che noi chiamiamo occidentali, in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Nuova Zelanda, le persone adulte chiamate a rispondere alla domanda “Qual è il tuo colore preferito?” scelgono il blu quasi la metà del campione (40-50 %), a seguire il verde ed il rosso (tra il 10 ed il 20 % degli intervistati). Bianco e nero seguono poi a distanza (con il 5-8 %) ed infine il giallo, preferito solo dal 2% della popolazione. Gli altri colori – rosa, marrone, grigio, viola, arancione – hanno percentuali molto più basse. Inoltre le indagini condotte non si differenziano tra i due sessi e nelle diverse categorie professionali: il blu è in più favorito ed il giallo quello meno.
Diversi sono i risultati se si prendono in considerazione i bambini: innanzitutto la scala dei valori è sensibilmente diversa, è più variabile a seconda dei paesi e delle età e non presenta la stessa stabilità nel tempo; al di sotto gli otto anni troviamo una preferenza di colori caldi (soprattutto il rosso, davanti a giallo e bianco), mentre quelli superiori agli otto anni rimandano ad una graduatoria più simile a quella degli adulti, prediligendo i colori freddi. Tuttavia la stragrande maggioranza dei bambini non solo non sceglie il viola, ma lo reputa il colore meno amato. C’è chi pensa che il viola non sia “un colore da bambini”, ma un colore “per vecchi” , un colore che porta sfortuna ed altri invece non lo considerano un vero colore, allo stesso piano del blu, del rosso, del giallo e del verde. Eppure verde e viola sono entrambi colori complementari, che dovrebbero posizionarsi sullo stesso piano, così non accade, almeno per i bambini che risollevano il verde ai colori considerati primari.
Se nella maggior parte dei paesi occidentali, almeno per la fascia adulta, i risultati fanno del blu il colore più amato, non è così in tutto il mondo: in America del Sud, ad esempio in Brasile il colore prediletto è il rosso, seguito dal blu. In Giappone si ritrova la triade primitiva del rosso, nero e bianco all’incirca in percentuali non molto discordanti tra loro, in Cina ed in India il giallo e l’arancione sono molto frequenti ed apprezzati, e per contro il blu, amato in tutta Europa, non è per nulla gradito, infine nei paesi islamici, il verde è il colore più amato perché rappresenta il colore del Profeta, al quale seguono il bianco ed il nero. Per quanto riguarda invece l’Africa nera e l’Asia centrale i parametri del colore sono diversi da quelli occidentali, e più che delle tonalità e saturazione, tengono conto dei concetti di secco / umido, morbido / duro, liscio / ruvido. Il colore deriva non solo dalle informazioni fornite dalla vista, ma è un fenomeno che si basa anche sulle percezioni provenienti dagli altri sensi. Queste differenze sono fondamentali, perché riguardano la storia dei luoghi che hanno portato e accompagnano ancora e soprattutto oggi i vari sistemi cromatici ad integrarsi e contaminarsi fra loro, e poiché palesano il carattere rigorosamente culturale del colore.
Il valore simbolico dei colori è sempre un fatto culturale che i modifica a seconda dei luoghi e dei tempi: può ribaltarsi o creare nuovi codici. Sin dai tempi più antichi i colori sono stati usati come simboli e ciò lo ritroviamo grazie agli studi archeologici su sepolture, strumenti musicali e oggetti, e agli studi antropologici sui costumi dei popoli primitivi ancora in vita nelle foreste e nei deserti. Come ad esempio nei villaggi presenti nella foresta amazzonica, gli indios sono soliti dipingersi il corpo con una tintura gialla e marrone derivante dalla coltivazione di aneto e dall’aggiunta di cenere; usano il colore nero per le imprese bellicose, il rosso e il violetto per feste e riti, nelle quali si imbiancano il corpo con l’argilla come simbolo di vita. Nel deserto della Namibia esistono ancora tribù che si spalmano sulla pelle un cosmetico naturale di burro di capra, ematite rossa e cenere profumata che proteggere la pelle dal sole e dagli insetti, rendendola morbida e idratata e che rilascia un forte colore marrone/rossiccio.
Come ogni popolo, anche ogni lingua, per quanto possa essere primitiva trova origine nei due termini di bianco e nero anche se non sono direttamente riferiti al colore ma indicano piuttosto le sensazioni di luminosità e oscurità, o ancora vengono associati alla contrapposizione tra bene e male, tra positività e negatività.
Ogni cultura attribuisce ai colori dei significati positivi o negativi: sin dall’antichità si ricorre ad associare il nero alla notte, alla distruzione, al regno dei morti; all’opposto il bianco richiama la purezza e l’innocenza. Il terzo colore, importante quanto il bianco ed il nero, dal punto di vista storico e culturale è sempre il rosso, colore associato inizialmente al fuoco, poi al sangue ed alla guerra.
La luce
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Nel nostro immaginario, il bianco rimanda ad un’idea di purezza. Il bianco è il colore della castità e del sacerdozio, ancora oggi il papa è vestito di bianco; ma nel Medioevo questo colore era associato all’oro, la luce intensissima infatti, si diceva che assumesse riflessi dorati. In tutte le religioni il bianco è il simbolo della divinità, anche il cristianesimo associa la luce alla realtà spirituale, nel Vangelo secondo Giovanni (8,12), Gesù dice: “Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.”
La luce, nella teologia medievale, è l’unica parte del mondo sensibile che sia contemporaneamente visibile ed immateriale, è la rappresentazione visiva dell’ineffabile, ovvero di Dio, è quindi il simbolo associato al divino; tuttavia anche se il bianco esprime il divino in sé, ovvero è il colore stesso della divinità, è anche rappresentante del rapporto che l’uomo cerca con esso: nei riturali antichi si trovavano spesso vittime sacrificali bianche o indumenti bianchi per richiamare la divinità buona, immaginata ovviamente bianca o di luce accecante ed anche i luoghi sacri, d’altronde sono bianchi grazie all’uso di calce o gesso.
Gli artisti medievali che trattavano soprattutto temi religiosi si basavano sulla ricerca della luce, dell’oro e delle gemme. La luce era la rappresentazione di Dio (luce suprema) ed era pertanto portatrice di un valore non solo estetico ma anche mistico e spirituale. Come Dio è percepito come luce, anche gli angeli, suoi messaggeri sono ugualmente rappresentati con il bianco.
Qui è necessario aprire una parentesi sulla dicotomia del colore visto da una parte come luce, dall’altra come materia. Fermo restando che il bianco descrive la luce, e come tale il divino, il colore può essere considerato una frazione della luce e di conseguenza sostanza immateriale, oppure semplicemente materia, involucro che ricopre gli oggetti, un artificio aggiunto dall’uomo che occorre combattere ed escludere al fine di allontanarlo dal luogo di culto. La Bibbia parla poco di colori e tradurre fedelmente è pressoché impossibile, si rischia di ricadere in slittamenti di significato e soprattutto l’ebraico, l’aramaico ed il greco non utilizzano diversi termini legati alla colorazione ma piuttosto relativi alla materia, alla luce, alla densità o qualità. Di conseguenza il colore, sin dall’anno Mille, viene visto come un ornamento, qualcosa che inganna ed allontana dall’essenziale, una vanità. Portavoce di questo atteggiamento cromofobico è l’abate san Bernardo di Chiaravalle, che vede il colore come materia e non come luce, poiché è sempre valevole il sillogismo che prevede l’accostamento tra Dio e luce, tra luce e bianco e, pertanto è profondo il rapporto tra bianco e Dio.
Il bianco è anche un colore morale, che è talvolta adottato nella ricerca della semplicità e severità nell’abbigliamento della rivoluzione culturale avvenuta con la Riforma Protestante; infatti sono assenti tutti i colori vivaci, rosso e giallo in primo luogo e vengono utilizzati solamente colori scuri: neri, grigi e bruni, ma anche il bianco, considerato colore degno e puro, raccomandato per gli abiti dei bambini.
L’identificazione tra bianco e luce, tuttavia, non risale al cristianesimo né al Medioevo ma si ritrova sin da Aristotele, il quale considerava il bianco, simbolo di luce come un colore fondamentale assieme al nero, rappresentazione del buio.
Dante avvolge un emisfero nella luce paradisiaca e l’altro nelle tenebre. Newton lo riprende come luce bianca del sole composta da vari tipi di luce colorata…
A partire dal XVIII secolo, con la scoperta del blu di Prussia e l’importazione massiccia di indaco, dal potere colorante molto più forte rispetto al guado, il blu diventa il colore della moda ed inizia a far concorrenza al nero. Anche Goethe è attratto da questa nuova moda e veste il suo il suo giovane Werther di un abito blu e giallo, da qui numerosi giovani imitarono la tenuta dell’eroe innamorato e disperato ed accostarono ad un frac blu un gilet o un pantalone giallo, avvalorando la moda nascente. I rapporti tra Goethe ed il blu si ritrovano anche nella sua Teoria dei colori a cui affida un ruolo importante come tinta opposta al giallo in un sistema di colori che nascono dalla rarefazione della luce: il blu è il colore più vino al buio ed all’oscurità delle tenebre, viceversa il giallo è la tonalità di chiara prima della luce bianca. Nell’associazione cromatica di giallo e blu, Goethe ritrova l’armonia assoluta.
Nel 1850 con l’invenzione dei jeans e successivamente con le uniformi che da nere passarono a blu, nei primi anni del Novecento, la competizione tra i due colori era accentuata soprattutto nelle città. Il jeans, in principio nato come tuta da lavoro, e tinto esclusivamente di blu, con l’indaco è gradualmente diventato un indumento per il tempo libero, ed accompagnato, negli anni Sessanta, da una reputazione vagamente libertina, quando l’uso si estese anche alle donne ed a tutte le classi sociali. È un capo di uso comune, funzionale e robusto, neutro anche grazie al suo colore d’origine che è per eccellenza un colore non sovversivo.
Oggi il blu è il colore preferito dalla cultura Occidentale ed è quello più portato nell’abbigliamento. È benvoluto da tutti, ma lo è quasi per eliminazione degli altri e perché è da tutti approvato, Pastoureau lo definisce “un colore gattamorta”, che non disturba; è un colore neutro, che non è aggressivo, né tantomeno trasgressivo, ma anzi è rassicurante. Tutti i sondaggi d’opinione dell’ultimo secolo mostrano come sia alta la percentuale di persone che fanno del blu il loro colore preferito, circa metà della popolazione, ed il valore si alza sino al 60% in Francia e nei paesi limitrofi. In parecchie lingue la musicalità della parola ha una certo fascino e gradevolezza, blue, bleu, blau, sono parole rassicuranti e poetiche, che evocano il mare, il riposo, l’infinito; è calmo e pacifico, con una connotazione anestetizzante: ai giorni nostri vi si dipingono le pareti degli ospedali e le confezioni dei farmaci tranquillizzanti lo ricordano. Il blu viene utilizzato nel codice stradale per specificare ciò che è permesso, al contrario del rosso che indica il divieto, ed è stato scelto dalle organizzazioni internazionali e per promuovere la pace; l’ONU, l’UNESCO, il Consiglio Europeo e l’Unione Europea hanno tutte come base un simbolo blu. L’associazione blu – calma/pace è antica ed è presente già nel Medioevo; è più recente invece il legame tra il blu e l’acqua che, nelle società antiche e medievali era rappresentata, la maggior parte delle volte, dal verde; solo dalla fine del XV secolo, con l’utilizzo del verde anche per la rappresentazione delle foreste, le acque cominciarono a tingersi di blu.
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… ragion per cui conviene evitare il blu, se si vuole attenzione o dire qualcosa di nuovo 🙂 (come ben fai notare, Pastoureau lo definisce “un colore gattamorta). E il bianco, se non associato a luce divina, quindi agli assoluti, si presenta in realtà in una infinita gamma, ciascuna portatrice di significato. Avere coscienza della pittura tonale, quindi della infinita gamma dei colori primari e dei rispettivi accostamenti – come dire ogni colore moltiplicato al quadrato – per un pittore riveste la stessa importanza che ha in poesia il rendersi conto delle infinite possibilità della metafora. Ma questo lo si diceva ben prima che arrivasse Kandinsky e, nella musica, Schonberg. E’ comunque vero che lo spettro dei colori, se associato alla storia sociale e alle tradizioni dei vari paesi, è sempre stato in movimento. Tranne l’arcobaleno, il resto è espressione e sensibile interpretazione.
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Questo discorso sui colori mi suggerisce una considerazione che credo potrà interessarvi: il colore appartiene anche al suono: si chiama “timbro”. Non a caso, in inglese si traduce “tone-colour” e in tedesco “Klangfarbe”.
Potremo percepire un “colore”, ovvero un “timbro” diverso da uno stesso suono, a seconda dello strumento che lo esegue, perché ognuno ha la sua voce particolare. In parole povere, una nota della stessa altezza al nostro orecchio risulta diversa se suonata da un violino, da un flauto o da una tromba (ecc.). Tutto questo è della massima importanza nella scrittura musicale, soprattutto riguardo all’orchestrazione, dove si sommano i più svariati strumenti, i quali creano infiniti timbri (= colori).
Questo colore invece a me rimanda profondità,quasi timore, le tonalità sono molte,il blu é come l’oro astrazione il blu del mare é instabile a volte tende al verde il bianco può essere paragonato al fuoco immateriale,ma la fiamma al suo interno ha un anima nera(“Il mio ricordo degli eterni” Severino)
Egill, la rosa bianca, spiace dirlo ma per me pittore i colori con come i mattoni e la calce per i muratori. Questo malgrado Goethe e le belle suggestioni di chiunque. Come la gente di mare, che ci sono nati accanto, così son per me i colori. Ma ovviamente, da strambo Arlecchino, ho anch’io le mie preferenze su dove, come e per chi acconciarli: il giallo per la mente, il verde per i cardiopatici, alcuni viola per i mistici e così. Ne ho per tutti 🙂
Adoro il viola,e guardi mi interroghi anche severamente sui colori sulla preparazione di base dei dipinti su tele e tavole,ma io sopra parlavo del bianc,o della luce,tuttavia nessuno risponde tranne lei non é poco,ma G linguaglossa al quale volevo chiedere,come dalla poesia metafisica é ora a un linguaggio che si riferisce ai filosofi analitici visto che spesso cita Lacan? Se potesse Lei farmelo sapere. e magari capire é solo un tentativo Insomma ci provo.Grazie molte
Oh, ma io non sono il più indicato. Giorgio leggerà sicuramente…
grazie davvero tanto
il pittore lituano Curljonis (maestro di Kandinskij) dipinse i suoni, specie le sinfonie di Beethoven.
Vero. A Francesca Dono (pittrice), per quel poco che ho visto delle sue cose, dovrebbe piacere…
magari mi documento Lucio. Grazie.
LA POESIA? un linguaggio fatto da pseudo sacerdoti per pseudo sacerdoti…
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a egillarosabianca
volevo dire che non ho ben capito la domanda… mi chiedi: perché Lacan?, bene, considero il concetto di «fantasma» in Lacan importantissimo, non soltanto per la psicologia del profondo ma anche per una filosofia dell’arte. Il «fantasma» lacaniano si muove entro un orizzonte categoriale che assiste alla scissione dell’io in «moi» e «je», senza la scissione dell’io non si dà il «fantasma»; analogamente si ha la divaricazione del «simbolico» dall’«immaginario», soltanto entro questa scissione è possibile situare quella istanza che va sotto il nome di «fantasma»…
Nel fantasma noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto di fronte al mancare della Cosa, quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il “soggetto parlante”. Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della Cosa come
fondamento dell’essere del soggetto. E ciò che mi preme sottolineare è proprio il suo aspetto scenico.
È una problematica importantissima quella del «fantasma» i cui echi derivano dal De memoria di Aristotele… per chi voglia capire e abbia orecchi e occhi… la poesia non può restarsene in disparte a pensare all’io lirico come ad un monolite refrattario alle indicazioni che ci vengono dalla psicanalisi lacaniana e dai filosofi del secondo novecento (anche italiano, abbiamo ottimi filosofi in Italia oggi, basta saperli leggere…). Ho postato proprio ieri un video dove Massimo Donà ci parla del «tempo», invito tutti gli interessati ad ascoltarlo e a vederlo (tra l’altro c’è da farsi un mucchio di risate!). Considero la speculazione filosofica sul «tempo» centrale e ineliminabile, non solo per la nuova ontologia estetica, ma anche per qualsivoglia tipo di poesia che si voglia fare. In proposito, abbiamo messo nella rivista tanti articoli e riflessioni sulla questione «tempo» in poesia, basta andarli a leggere.
Certo, lo capisco, non è una problematica di facile approccio, occorre riflettere molto, studiare anche, ricominciare ad imparare dal 2+2=4, occorre un abito mentale poroso… in fin dei conti, bisogna mettersi a studiare con la consapevolezza che le idee ricevute nel passato bisogna saperle mettere in discussione, parlare di musica, di armonia, di lirica etc. è un parlare a vanveva… Eppoi bisogna inventarsi anche un nuovo linguaggio della critica, se vogliamo essere seri, quel linguaggio che tutti scrivono è mortalmente noioso, è un linguaggio burocratico che non serve a nulla e a nessuno… I più dei cosiddetti poeti si accontenta di quel linguaggio perché in quel linguaggio acrilico e anonimo ci si può ritrovare, ci si può riconoscere, il proprio narcisismo viene solleticato… ma è un linguaggio fatto da pseudo sacerdoti per pseudo sacerdoti…
Presso i minimalisti di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia di moda oggi.
Tra l’altro, agli degli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…
Grazie non avevo visitato la pagina leggo con attenzione,per rispondere
mi necessita più tempo però posso dire già ora che se si cita di Aristotile
la reminiscenza mi trovo,ma Lacan interpreta in altro modo la memoria
Quando ha scritto “Il Paradiso” di cui ho letto solo qualcosa o “L’angelo delle tenebre”dove era la sua memoria e dove la riminiscenza perchè si manifesta solo a tratti, in queste sue poesie in cui percepisco un anelito fortissimo, riminiscenza é un fulmine tutto viene alla Memoria immediatamente.
anche l’amore è un “concetto” metafisico
Perfettamente in accordo con le tue considerazioni, Giorgio: la Poesia non è un monolite refrattario (efficacissima espressione), la definirei l’anima della “cosa”. Io comprendo me stessa soprattutto quando scrivo…allora quello che ho dentro, dall’oscurità profonda la me stessa-sorgente scaturisce alla luce, alla natura, alla vita nel suo mistero. E ti sono grata di avermi guidato sul cammino della materia che, dopo lo sprofondamento nelle viscere del nulla e della morte, diventa luce in tutte le sue gradazioni e suggestioni, dal frammento-scheggia della realtà in disfacimento o nella risurrezione sprofondando nuovamente verso l’alto, questa volta, dentro l’ESSERE, CONTRO LE CONVENZIONI E LA RIPETIZIONE STANCA DEL PASSATO, in una dimensione temporale dinamica e non sancita da regole.
Non capisco perché i detrattori della NOE pensano che in essa si glorifichi soltanto il NULLA! Non è così!
William Kentridge, Triumphs and Laments
Ho avuto modo di seguire tutto l’evento dal vivo ed è stato molto suggestivo! Soltanto che adesso queste opere sono state imbrattate dai writer. Però, come dichiara Kentridge stesso in un’intervista, i “graffiti” per lo più non coprono le figure, ma sono negli spazi vuoti. “Significa che sarebbe molto semplice per la città di Roma rimuovere le scritte con la vernice senza cancellare l’opera in sé. Questa situazione permetterà di dare finalmente risposta a una domanda” – dice Kentridge -: Roma vuole davvero il fregio Triumphs and Laments o preferisce abbandonarlo al suo destino sul Lungotevere?”