Letizia Leone
Commento a due testi di Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa
Parlare di nuova ontologia estetica significa conferire alla poesia portata ontologica, se concordiamo con Vattimo nel pensare che ontologia altro non è che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché “L’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi”. Ma al nostro orizzonte pertiene anche la fine di una idea di Storia come processo unitario, là dove ogni ideale di progresso si svuota dall’interno, non “C’è una storia unitaria portante, ma disseminazione delle Storie, i “centri” si sono moltiplicati, così come insufficiente risulta l’idea di tempo lineare e progressivo. Inoltre sono convinta che l’esperienza post-metafisica della Verità è una esperienza estetica e retorica, come afferma Heidegger, per questo le categorie sulle quali una nuova ontologia estetica deve muoversi e riflettere sono molte, sempre in riferimento a quella che è l’esperienza poetica e magari partendo da testi esemplificativi. Così come avviene sulle pagine dell’”Ombra”.
A questo proposito propongo questa mia parziale lettura di due testi esemplari che offrono l’opportunità di fissare alcune considerazioni sul frammento e l’estraneità: La notte celò i morsi delle murene di Mario Gabriele e Il corvo è entrato dalla finestra di Giorgio Linguaglossa.
Mario M. Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
Mario M. Gabriele
(da L’erba di Stonehenge, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(3)
La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
Giorgio Linguaglossa
(da Risposta del Signor Cogito inedito, 2014)
Il corvo è entrato dalla finestra
Il corvo è entrato dalla finestra.
Una stanza. Atelier del pittore.
C’è solo l’ombra del pittore distesa sul pavimento.
Un cavalletto e una tela bianca.
Il pittore dipinge il mare e un sole livido.
Il sole prende vita dal quadro e se ne va.
Nel quadro è rimasto solo il mare.
Anche il mare se ne va.
E resta un abito in gessato bianco in una barca
che rema verso una proda.
Ma la stanza è vuota, il mare non c’è.
Il Campari rosso è nel calice di cristallo
che il Signor K. sorseggia.
[…]
Osservo il suo pomo di Adamo, che va su e giù.
Un’ombra bianca si guarda il volto nello specchio.
Nello specchio il calice del Campari. E l’ombra.
Ombre bianche escono dalla tromba delle scale
(al trentunesimo piano della Fifth avenue)
nascono dal cimitero chiamato terra
e vanno verso il mare. Si spogliano nude.
Entrano nel mare. Bevono il sonno a sazietà.
[…]
Le ombre nere bevono il sonno bianco.
Le ombre bianche bevono il sonno nero.
Il direttore d’orchestra ripiega le sue ali nere
dietro le spalle, e chiede al musicista:
«Suonate qualcosa, Signore?».
«Non c’è nessuno qui, sono tutti
[…]
morti». «Non posso suonare».
Finestre buie, Finestre nere. Porte buie. Porte nere.
Non c’è musica. Brusio di fondo.
Il musicista imbraccia l’archetto.
Il violino si avvicina al fuoco.
Tra poco dalla finestra entrerà il ghiaccio.
[…]
Bussano a una porta. La maniglia di ottone
gira con un flebile stridio: è il Signor K.
«Vostra Grazia…».
Il Campari si dirige verso le labbra del Signor K.
L’archetto cammina verso il violino
le mie dita corrono verso l’archetto.
Il fuoco incespica, s’impenna, li insegue,
tra poco li raggiungerà.
[…]
«Quale “capriccio”, Vostra Grazia?».
«Paganini, l’ultimo, il ventiquattresimo».
In poeti della statura di Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, diversi per stile ed esperienze ma accomunati da una sorta di gioia sperimentale, la valorizzazione del frammento è calata nella complessità di una progettualità filosofica, anzi per meglio dire “fenomenologica” della Poiesis. Una fenomenologia qui intesa come concetto di metodo, come procedimento basato sul distanziamento psicologico.

Letizia Leone e Antonio Sagredo, Roma, 2017
In linea generale L’io lirico emozionale, categoria obsoleta, ha abdicato a favore di un congegno ottico neutrale fluttuante e decentrato: da qui la configurazione di modalità espressive nuove. Il sentiero è quello di una poesia che parta da una posizione di neutralità rispetto ai concetti di “oggetto” e “soggetto”, una poesia che non risulti affatto consolatoria ma tendente ad inasprire la relazione di estraneità con il mondo. Scrive a proposito Linguaglossa: “Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza”.
Ecco prefigurata l’epoché filosofica, la “sospensione del giudizio” insieme alla sospensione sentimentale ed emozionale quale motivo ispiratore della modernità:
“Negli anni, la fenomenologia si appropria anche delle immagini in movimento (…) agli universi interiori della rappresentazione (e) ben presto si accorge anche della permanente creazione cinematografica da parte della coscienza e trarrà la conclusione che ciò richieda una specifica analisi filmica, la quale si presenta come teoria della coscienza interna del tempo. Le immagini di cui parliamo vengono catturate con una fotocamera noetica. Quando le pellicole sono impressionate e tolte dagli acidi della contemplazione interiore, le fotografie ottengono uno status filosofico rilevante anche dal punto di vista archivistico e museale: nell’esercizio più importante di tutti, quel che conta è sviluppare le immagini tratte dall’esistenza in quanto fenomeni.” (Peter Sloterdijk)
Ecco le immagini come fenomeni nei testi di Gabriele e Linguaglossa.
E se è vero che la poesia tende a mediare la coscienza complessa del proprio tempo, questa in particolare è poesia speculativa, marchiata dalla fine di ogni pensiero antropocentrico, unitario e sistemico; è poesia aperta, in movimento dove i frammenti lirici disseminati nel flusso caotico dei materiali testuali articolano una mappa di stimoli, straniamenti, atti a far emergere una Stimmug, un Mood, uno stato d’animo.
Uno stato d’animo addirittura molto vicino a quello che Heidegger in Che cos’è la metafisica ridefinisce come Angst (Angoscia), la condizione emotiva che apre la comprensione del niente: “angoscia è sempre angoscia di…, ma non di questo o di quello. L’angoscia di… è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza”.
«Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza»;
«Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo “nessuno”. L’angoscia ci rivela il niente»;
«Nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia noi abbiamo raggiunto quell’accadere dell’esserci nel quale il niente è manifesto, e dal quale si deve partire per interrogarlo»;
Il mondo dilegua nel non-senso, nella non-significatività e allora l’angoscia si rivela in quanto “emergenza” del niente. Si può allora affermare che per certi versi, i due testi in esame, parlano di Spettri? I resti spettrali di una tradizione umanistica andata in frantumi?
La storia delle cose comincia dai loro spettri. La morte garantisce loro un tempo che va oltre la storia: esso inizia nelle necropoli preistoriche, tra i miseri resti di utensili, armi, attrezzi, vasellame, sparpagliati intorno ai fantasmi di uomini e donne che fluttuano leggeri su mucchietti di ossa polverose. Là dove s’intravedono evanescenti larve, gli oggetti continuano implacabili a narrare, nel loro linguaggio segreto, vicende che si perdono nella profondità del tempo…
Intorno ad essi aleggiano ancora gli spettri di coloro che li usarono nel corso di una vita, alla quale essi sopravvissero con l’indifferente invincibilità delle cose… Le energie tipicamente umane del bisogno e del desiderio aleggiano intorno a loro, ma come instabile memoria, segno indecifrabile di una storia che essi hanno interpretato da protagonisti, prima di svanire nell’ambiguità di un’apparenza, sempre pronta però a offrire a chiunque i propri servigi. (Maurizio Vitta, Le voci delle cose, Einaudi 2016).
Queste considerazioni riferite agli oggetti d’uso, possono essere riferite anche agli oggetti spirituali, (tracce spettrali, Ombre bianche, Ombre nere, inserzioni citazionistiche, larve di memoria, “apparenze sempre pronte ad offrire i loro servigi”) che emergono nottetempo dai sepolcri umanistici… Ad esempio il patrimonio dei classici, mera merce artistica e culturale alla quale ormai è riservato un destino museale. L’ “Inverno della cultura” è l’impossibilità della trasmissione e dell’assimilazione, è la fruizione pubblicitaria, collezionistica, superficiale, sepolcrale, citazionistica.
Così nella poesia di Mario Gabriele una sorta di metrica cinematografica configura il testo come una concentrazione di citazioni implicite e frammentate. L’articolazione intemporale e incantatoria snoda una sorta di recitativo di allusioni eliotiane, o per meglio dire interferenze, nell’accelerazione anonima ed incoerente degli eventi. Finita l’ispirazione e gli stimoli alla creazione di una grande letteratura, al “poeta dell’assenza” restano le apparenze, le ombre spettrali, il cabaret dei lustrini e dei detriti letterari.
Mentre Linguaglossa aggancia il lettore con la torsione surrealista dell’Ekphrasis.
“Il corvo è entrato dalla finestra” in un gioco di specchi, rifrazioni e allusioni effimere: i canoni estetici della rappresentazione tradizionale falliscono e anche “il mare se ne va” esce dal quadro, abbandona la scena. L’arte era truccata…il Campari, il“Capriccio”, l’ultimo…il ventiquattresimo. Creare una Stimmung come sottofondo musicale, l’Angoscia, per un dialogo “autentico” con gli spettri…
Alfredo de Palchi Sabino Caronia, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Commento di Giorgio Linguaglossa “La poetica del vuoto del Dopo Il Moderno” di Mario M. Gabriele
Credo che nella situazione del Dopo il Moderno alla poesia non rimanga altro da fare che sopravvivere in attesa di tempi migliori. È questo l’assunto di base della poesia di Mario Gabriele, un poeta della periferia, relegato nello sperduto Molise, a Campobasso, lontano dagli echi delle fucine poetiche di Roma e di Milano. In questa condizione, allontanatisi gli echi dello sperimentalismo novecentesco e le ipotesi di mini canoni che, tra l’altro, nel Sud non avrebbero ragione di essere, per Mario Gabriele l’essenziale era ripristinare il contatto con il lettore, ripartire dal correlativo oggettivo di Eliot, ricucire gli strappi inferti alla forma-poesia del secondo Novecento, suturare le ferite con la tintura di iodio, elaborare una «materia» poetica che facesse uso della narrativa e della saggistica per irrobustire il dettato poetico. Il registro stilistico di Ritratto di Signora viene così improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuto dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui, di digressioni e di inserti narrativi che offrissero nuove possibilità di significazione per mettere in evidenza ciò che sta oltre la tradizionale parola poetica, lontano dalle associazioni semantiche tradizionali, magari corredata da una fitta interpunzione, di citazioni implicite ed esplicite, di riferimenti toponomastici ed onomastici, corredata da associazioni ed elencazioni coordinate per asindeto e per paratassi, il tutto volto a raffigurare il disagio e lo spaesamento esistenziale del mondo moderno, non solo dell’io, il caos del mondo, mediante correlativi oggettivi e traslati e cablaggi spaesanti.
Sta qui l’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta qui la rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo, che da noi è stata interpretata come una possibilità di scrittura poetica finalmente privata del pentagramma tonale e timbrico della grande tradizione metafisica, come un rompete le righe e un gettate le armi, con una cultura nutrita di scetticismo piccolo-borghese. Una resa alla democrazia parlamentare della forma poetica e del discorso poetico. Mario Gabriele riprende da qui, innalza il tono prosodico mentre che abbassa il lessico.
Sintomatico di tale percorso è l’ultima poesia qui presentata: «Glossario terapeutico», dove è evidente che l’autore ironizza con una abbondanza di citazioni e di rimandi sulla propria materia poetica prendendone le distanze, ironizza sulla desertificazione del linguaggio poetico di oggi, non più in grado di veicolare una lirica che non sia post-lirica, dalla quale viene bandito ogni riferimento ad una presunta «bellezza» e al «poetico». Si ha la sensazione che l’oggetto della riflessione di Gabriele sia «la morte della poesia» e una «poetica del vuoto». In un certo senso, questa è una poesia che medita sulla propria morte annunciata, una metapoesia, una poesia che sta fuori della poesia, che si situa a distanza dalla poesia. Metapoesia sulla metapoesia, dunque, come nella composizione di apertura «Cara Juliet» che rifà il verso a una raccolta di Alfredo Giuliani del 1965, Povera Juliet. Il titolo della raccolta, anch’esso ironico, Ritratto di Signora (2014), riprende un topos classico, un titolo adottato dalla scrittura narrativa, in ciò perseguendo con la poesia lo stesso tragitto ermeneutico seguito dal romanzo, da quello famoso di Henry James (The portrait of a Lady) fino al recente Foto di gruppo con Signora (1971) di Heinrich Böll.

Letizia Leone
Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma,, 2016)
Due colossi.
Non due, i colossi, ma tre, cara Francesca Dono:
Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa e Letizia Leone che, insieme, dall’alto
dei loro magisteri poetici e critici, fanno grande e imperdibile questa pagina
de L’Ombra delle Parole. La nota critica di Letizia Leone e i versi di
Mario Gabriele e di Giorgio Linguaglossa sono lì a testimonianza della mia
affermazione.
E immettendoci d’un tratto in questi versi dal respiro ampio,
dal fiato vasto, si ha come la sensazione di immettersi in un’autostrada
a tre corsie, provenendo da strade interpoderali… Soprattutto dalle strade
interpoderali del minimalismo meneghin-lombardo-romano…
Gino Rago
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/15/letizia-leone-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-di-mario-gabriele-e-giorgio-linguaglossa-con-un-commento-aggiunto-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-19355
Il gufo e il corvo. Si potrebbe dire per riunire i due poeti con ironia, per dire di due sentimenti e modalità: il primo con vista nel buio su parole e oggetti svuotati e ricomposti, per l’appunto, come scrive Letizia Leone, come “mucchietti di ossa polverose”: “è malinconia, mammy”, dove mammy accende e crea contatto – con il lettore, dice Linguaglossa, ma anche universalmente, come si può fare lanciando un sentimento, tramite una carezza. il secondo, corvo di “uccellacci e uccellini” che saltellando evita metafore e compiacimenti ( oh, è critica messa in pratica, l’autore sa meglio di chiunque altro dove non mettere le mani), come per afasia sceglie l’ecfrasi ( evviva Letizia leone) – mi torna in mente Las Meninas del Velasquez e quanto ne scrisse Linguaglossa – : “Tra poco dalla finestra entrerà il ghiaccio”, l’angoscia.
Devo però confessare che l’ecfrasi mi mette a disagio. Temo gli eventi non-accompagnati, che la mia mente interpreta come elencazione – quasi sentissi il bisogno di movimenti di ripresa più rallentati, e ancora musica (dolcezze) – Poi mi dico: che razza di lettore dei Tarocchi saresti se ogni carta si mettesse a danzare quando la volti? Così modifico il criterio di lettura, che a nuova poesia corrisponda un nuovo lettore. Su questo Linguaglossa non dà tregua. E’ certamente il più estremo tra gli autori NOE, il più innovativo.
“L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums”, qui per me è più facile. Sarà perché conosco bene gli slums e so che starci richiede apprendimento d’altro tipo e qualità.
“«Non c’è nessuno qui, sono tutti / morti». «Non posso suonare». E si torna a Uccellacci e Uccellini.
Gran poesia.
Mi scuso per la punteggiatura da dislessico.
Caro Lucio, permettimi di dire che sei sempre un osservatore attento ad ogni proposta poetica, e lo dimostrano i tuoi interventi, come questo sopra citato. Tu vai sempre al fondo delle percezioni primarie del poeta, riportandole in superficie con l’amo della tua intelligenza e sensibilità. E questo lo si deve sempre alla tua doppia esperienza di poeta e di pittore. E quindi, grazie e auguri di buona Pasqua multicolore.
EXCERPA DELLA POESIA ITALIANA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/15/letizia-leone-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-di-mario-gabriele-e-giorgio-linguaglossa-con-un-commento-aggiunto-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-19357
“Era un signore andato via.
A lei qui rimasta tantissimo mancava.
La traccia da lui lasciata segnava ovunque intorno a lei l’aria.
Come un quadro spostato per sempre segna la parete.”
Vivian Lamarque, da il signore d’oro, 1986
“Né morte né pazzia mi prenderà:
un tremore delle vene forse
un’acuta risata, un ingorgo
del sangue, un,ebbrezza limitata.”
Patrizia Cavalli, da Le mie poesie non cambiano il mondo, 1974
“La carne era buona,
filamentosa, lessa.
Mi è piaciuto il sapore della carne
e del sugo; c’era qualcosa
che ci accomuna, qualcosa
che era suo e mio.”
Maurizio Cucchi, Per un secondo o un secolo, 2003
Questa dei Cucchi, delle Lamarque, delle Cavalli, e di altri e altre, è la “poesia” che le grandi case editrici del monopolio poetico italiano ci hanno
imposto…I versi di Mario Gabriele e di Giorgio Linguaglossa, magnificamente interpretati da Letizia Leone, sono sotto gli occhi di tutti
i frequentatori de L’Ombra delle Parole, per un confronto estetico
facilissimo fra NOE e gli altri.
Non sembra davvero che si vada da anguste e sgangherate
stradine di campagna, o interpoderali, ad un’autostrada a tre corsie migrando dai versi del trio Lamarque-Cavalli-Cucchi a quelli di Gabriele e
Linguaglossa.? E’ Pasqua. Mi fermo qui.
Gino Rago
Caro Gino, grazie dei tuoi autorevoli interventi, e lo dico non per sentirmi sulla vetta dell’Everest, ma sulla bassa Padania dove le risaie crescono in silenzio e nessuno le vede. Per me, anche un solo lettore è abbastanza per dire che la poesia non è morta. E se mi rifaccio alla felice frase di Sagredo, quando definisce la poesia NOE, come Avanguardia senile, allora mi chiedo ma sono sempre i padri di famiglia che mantengono i figli (poeti) disoccupati? Un caro saluto e auguri di Buona Pasqua.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/15/letizia-leone-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-di-mario-gabriele-e-giorgio-linguaglossa-con-un-commento-aggiunto-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-19363
Trascrivo una composizione di Lucio Mayoor Tosi appena pubblicata sul suo sito personale:
A pesca sull’Himalaya.
di Lucio Mayoor Tosi
Un IO grande e grosso, con il capo chino.
Scansando le ombre si gode il liquido denso dell’aria che respira.
Entra nel buio della cucina spenta, s’accorge di quanto effimera sia la sua presenza, esce e ci ritorna.
– Eppure son giorni che gli oggetti si stan preparando per fuggire con me. Si sono moltiplicati e adesso li ho tutti attorno, riuniti. Che vorrà dire?
Scrive In un catalogo di stelle e A pesca sull’Himalaya.
S’accorge di una matita pericolante che nella fretta dei preparativi potrebbe restarci secca. Il futuro in una notte.
Dove non si vedono stelle, riflessa nei vetri compare la sagoma scura del terrestre – tutto testa e braccia – intento come sempre a costruirsi l’alveare.
Inarrestabile, infaticabile e spesso sorprendente, finché desto e sobrio nessuno lo può salvare. Tranne Dio.
– Sto cercando di rendere ospitale la mia sepoltura. Il suicidio d’arte resta tra i meno comuni. Ho messo candele spente in ogni dove, in modo da non potermi svegliare.
[Lucio Mayoor Tosi | 15 aprile 2017 alle 10:17 pm | Categorie: Uncategorized | URL: http://wp.me/p3g8dX-1bF%5D
Un IO grande e grosso, con il capo chino.
Mi ha fatto subito pensare a un racconto breve di Dino Buzzati dove il protagonista è un gigantesco orecchio. Ma anche a un frammento di Catullo, in cui, percependo il profumo dell’amata, il poeta si augura di diventare tutto naso.
Però, l’IO, grande e grosso che con il capo chino che si guarda l’ombelico rende perfettamente l’idea.
Troppo buoni. Buona Pasqua a tutti.
domani propongo un indovinello… chi indovinerà l’autore vincerà un volume dei miei CAPRICCI.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/15/letizia-leone-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-di-mario-gabriele-e-giorgio-linguaglossa-con-un-commento-aggiunto-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-19477
Gentile Letizia Leone
nel proporre i due testi poetici (mio e di Linguaglossa) lei ha mandato in ebollizione la sinapsi di alcuni commentatori, chi esprimendo il proprio pensiero, con nome e cognome, e chi, invece si è occultato come un topo in altri nascondigli. Il casus belli è stato il suo incipit, nel definirci….. “poeti della statura” e che evidentemente, il mio testo già a suo tempo riportato sul Blog, apparve, secondo la lettura di Martino, come “linguaggio ottocentesco” . Qui siamo ad una dislocazione temporale con enorme retroattività, rispetto al periodo nel quale è stata composta la poesia, e cioè in questo Terzo Millennio, e che Martino ha ritenuto, con grave deficit critico, di contabilizzare a suo rischio e pericolo, la forma poetica.. Ma vi sono anche alcuni commentatori a cui non piacciono i lessemi colti e a chi vivacchia nella poesia per grazia altrui,e non conosce la differenza tra ontologia e metafisica:espressioni di un Davide Inchierchia,(chi,? Inchierchia? uno che mi sembra già di conoscere in questo blog, anche se affiora solo adesso?). come filosofo d’altri tempi.
Tutto ciò lo trovo come il più classico degli esempi scellerati di idee da far passare come incontrovertibili algoritmi.L’assunto secondo cui tutto ciò che in poesia diverge dallo status mentale e iconografico della poetica novecentesca, è da ritenere un attacco alla fortezza tradizionale, si basa sulla considerazione che solo fra 50 anni, come si è temporalizzato, si potrà fare una verifica se la NOE sia stata una Nuova Ontologia Estetica, oppure, come tutte le altre proposte di Avanguardia, una utopia da parte di una società organizzata e fautrice di condotta poetica sovversiva. Qui c’è una enorme differenza di valutazione nel prendere in esame come ha fatto lei con i nostri testi, qualificandoli con la dovuta competenza e padronanza critica, rispetto a coloro orientati verso il disprezzo della nuove forme.Ringraziandola della sua autonomia critica, le invio cordiali saluti.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/15/letizia-leone-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-di-mario-gabriele-e-giorgio-linguaglossa-con-un-commento-aggiunto-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-19493
Caro Mario Gabriele,
scandalo e polemiche evidentemente sono gli effetti (e la confessione implicita) della portata innovativa di questa “diversa” e originale progettualità poetica. E nel mio caso è proprio a partire dal linguaggio, dalla forte carica informativa dei segmenti testuali, dall’oggettività “filologica” del dato, dalla “datità” (e sottolineo in una mia lettura parziale, i questo caso) dei due testi presi come esemplari, che emergono importanti questioni teoriche e concettuali della NOE. E qui ribadisco la grande operazione di rottura con i codici canonizzati del libro l’“Erba di Stonenge del quale ho scritto in passato. In primis comunque aver spostato l’asse della comunicazione poetica dal minimalismo sentimentale-emozionale…
Comunque penso che il dibattito in corso ha favorito ulteriori chiarificazioni, ha suscitato idee, riflessioni, ha alimentato il “Nuovo progetto” di energia creativa grazie ai numerosi interventi ricchi di stimoli e aperti ad ulteriori sviluppi di Giuseppe Talia, Gino Rago, Mariella Colonna, Tosi, Linguaglossa e altri…Comunque nella nuova poesia godimento estetico ed intellettuale sembrano andare a braccetto!
Cordiali saluti e buon lavoro
Caro Gabriele.
il fatto è che tu con la tua poesia hai dato un taglio al nodo irrisolto della normativizzazione del linguaggio poetico a linguaggio standard derivante dalla caduta a picco del tasso di profitto stiloistico della poesia italiana,, evento verificatosi all’inizio degli anni settanta. Tu e pochissimi altri hanno avuto questo merito, quello di operare un taglio chirurgico, mettendo fuori gioco il poetare a «tema» e le tematiche letargiche di certo buonismo stilistico,,. ed ecco che OGGI assistiamo al ritorno delle filastrocche alla Filippo Strumia, incredibile, no? Che gli uffici stampa degli editori maggiori ci consegnino delle filastrocche gabbandole per poesia! A questo punto di ribasso non eravamo mai giunti nel lontano Novecento…
Qui e altrove
per me pari sono. Cantavano
sulla flessibile finestra. Parole di giùnco.
Entrambi percorsero su tapis roulant
chilometri di strada.
Sopraggiunsero paesaggi condizionati,
riaprirono e richiusero bocchettoni
e spiragli.
L’aria. Riapparve stridula e indomita
dall’esterno di un finestrino
lentamente
abbassato.
La manopola sosteneva essere,
al declinare delle generalità, l’unica
sopravissuta.
Gli chiesero anche del trombone,
suo padre,
ma non ne riconobbe il suono.
Qui o altrove per me pari sono e
in fretta richiuse.
Festanti loro salutavano
GRAZIE OMBRA.
(Un doveroso omaggio)