INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A MAURIZIO FERRARIS SULLE QUESTIONI AFFERENTI A UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA (a proposito del suo libro appena edito Emergenze, Einaudi, 2016)

(Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi: i poeti della NOE)

INTERVISTA

Domanda: Una domanda preliminare: per conoscere il significato di una cosa, dobbiamo aspettare la rivelazione o, come si dice in gergo, l’ispirazione?, oppure dobbiamo «trovare» la cosa che cercavamo?

Risposta: «Non c’è un in sé della natura umana, non c’è un significato pentecostale, bensì un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo. La rivelazione non si è affatto conclusa con l’Apocalisse; continua, appunto per merito della tecnica, che è la protesi di ogni costruzione».

Domanda: Che cosa dobbiamo fare per conoscere noi stessi?

Risposta: «Oggi siamo in una condizione migliore per rispondere a un interrogativo vecchio come il “Conosci te stesso!” iscritto nel tempio di Apollo a Delfi. Per conoscere noi stessi, per rispondere alla domanda: “Che cos’è l’uomo?” (interrogativo antropologico) è necessario rispondere alla domanda: “Che cosa è la tecnica?” (interrogativo tecnologico). Dopotutto, anche l’enigma di Edipo la cui risposta è “l’uomo” aveva come chiave di volta un apparato tecnico, il bastone».

Domanda:  Lei afferma che il «capitalismo» è stato assorbito dalla e nella «tecnica». Infatti lei scrive:

«a lungo il capitalismo è stato il collettore delle esigenze tecniche della umanità, il grande quadro di spiegazione, ma anche il Grande Fantasma di un Significato Pentecostale. Oggi dobbiamo superare questo quadro di spiegazione e riferirci al reticolo documentale che costituisce la società e che oggi si manifesta in modo particolarmente visibile nel web […] In definitiva, quello che è avvenuto è stato effettivamente lo spossessamento del capitale per opera non della classe operaia, bensì dei mezzi di produzione, ossia appunto per opera della tecnica».

Non le pare una affermazione un po’ troppo perentoria?

Risposta: «Non siamo noi i costruttori dei nostri totem e dei nostri tabù: sono loro che ci precedono e ci costituiscono. Il più delle volte, ben lungi dal negoziare o dall’offrire consenso, seguiamo le norme senza pensarci o senza discuterle o anche – ed è comunissimo… – senza condividerle. Proprio come nessuno ha bisogno di conoscere il funzionamento degli ascensori per usarne uno, così ben pochi conoscono le norme a cui aderiscono e che gli sono state inculcate dall’educazione e dalle abitudini, cioè dagli elementi essenziali della costruzione del mondo sociale»

Testata politticoDomanda: Lei ha scritto: «è nuova ontologia che viene ad alimentare l’epistemologia». Poiché sulla rivista sulla quale scrivo, abbiamo parlato a dismisura di «nuova ontologia estetica», ci può dire qualcosa in proposito? In particolare: quando sorge una nuova ontologia, ciò significa che qualcosa si è mosso, laggiù, in quello che lei chiama «reale»? Mi spiego meglio: una nuova ontologia apre le porte ad una nuova epistemologia? Ad una nuova arte? Ad una nuova poesia? Possiamo affermare che stanno così le cose? Oppure, che una nuova ontologia è preceduta da una nuova epistemologia?

Risposta: «Dopo l’essere (che non necessariamente ha senso) e prima del sapere (che necessariamente ne ha), c’è la fenomenologia, la dottrina per cui qualcosa si manifesta come qualcosa e in cui ha luogo l’emergere di fenomeni che manifestano un senso, come direzione da cui, nel tempo, potrà (ma non necessariamente dovrà) emergere un senso, come comprensione… non sembra esserci alcunché di magico: certe trasformazioni avvengono e non sembrano richiedere l’intervento di un significato pentecostale. Butto il sale nell’acqua della pasta e il sale si scioglie».

Domanda: ne deduco che l’ontologia è una ricerca di senso, giusto?

Risposta: «Nel periodo cambriano, tra i 540 e i 485 milioni di anni fa, i trilobiti smisero di girare in tondo e seguirono una direzione. Ciò che li portò a dar senso alla loro esistenza, e a incontrare un ambiente molto più vasto di quanto non conoscessero in precedenza. Più vasto e più attrezzato, in realtà, perché a sua volta possedeva dei sensi, che non dipendevano, anche nel caso dei trilobiti, da un senso conferito dal pensiero, bensì dalle direzioni, dalle resistenze e dagli inviti degli individui.

Parlando di senso come direzione sono consapevole di proporre un uso filosoficamente anomalo di questa parola. Solitamente con “senso” i filosofi intendono il modo di darsi, la modalità di presentazione di un oggetto a un soggetto. Ma senza il senso come movimento (che precede ogni comprensione) non avremmo il senso come modalità di presentazione, e poi come comprensione di un significato.

L’esempio della poesia e della versificazione è illuminante: il significato deriva dalla prosodia invece che precederla, il che giustifica le teorie circa l’origine poetica del linguaggio».

Domanda: Si può dire che una ontologia è una lettura del tempo, dello spazio e della storia?

Risposta: «Kant osserva che la divisione dello spazio dipende strettamente dalla nostra costituzione fisica, dal fatto che abbiamo una testa e dei piedi (alto/basso), una fronte e una nuca (davanti/dietro), una destra e una sinistra.

Proprio questa serie di determinazioni dello schema corporeo ci permette di riconoscere gli oggetti: in un foglio, distinguiamo perciò l’alto, il basso, il recto, il verso, e il senso della scrittura (poco importa se da sinistra a destra o altrimenti). e questo vale anche per i nostri giudizi sulle regioni cosmiche. Orientarsi nello spazio significa trovare l’Oriente, e di lì distinguere rispetto all’Occidente, al Settentrione e al Meridione. ma questo non è possibile senza il sentimento della destra e della sinistra, che è una intuizione sensibile e corporea che regola anche le nostre intuizioni astronomiche, matematiche e speculative – ossia il nostro orientamento nel mondo e nel pensiero. Questa prospettiva fa emergere il senso dal corpo e dall’ambiente, urta frontalmente con il costruttivismo kantiano…».

Domanda: Anche noi urtiamo ad ogni momento con il costruttivismo dei «tolemaici», di coloro i quali affermano che non c’è bisogno di nessuna «nuova ontologia», in specie «estetica», perché quella che ci hanno lasciato in eredità dal Novecento ci è sufficiente.

Risposta: «Le cose esistono solo per dei soggetti, che dunque ne sono responsabili a più titoli, dal moralista kantiano al pastore dell’essere heideggeriano…»

Domanda: Lei scrive: «Prima o poi, dice il proverbio, la verità viene a galla. È proprio così. La verità, e la realtà a cui si riferisce, emerge per forza propria, e non viene costruita con le deboli facoltà degli esseri umani, come hanno immodestamente preteso tanti filosofi».1]

Io non ne sarei così sicura.

Risposta: «La coscienza, il sapere, i valori e i filosofi trascendentali sono pezzi di realtà, esattamente come l’elettricità, la fotosintesi e la digestione, ed emergono dalla realtà così come crescono i funghi. Il mondo intero, cioè la totalità degli individui, è il risultato di una emergenza che non dipende né dal pensiero né dagli schemi concettuali sebbene questi possano ovviamente conoscerlo. Ma la fisica e la logica, empirismo e trascendentalismo sono semplici approssimazioni agli individui, designati con nomi generali – particelle elementari, dinosauri, gasometri, manometri e binari del tram. La sola esistenza è quella degli individui, e la conoscenza perfetta è conoscenza di individui, ed è storica tanto se si occupa dei Comneni quanto dei gasteropodi, delle galassie o dei bacilli della tubercolosi. Non siamo né nel migliore né nel peggiore dei mondi possibili, ma nell’unico che ci sia, e che non è né una superficie piatta e banale, una chora indifferenziata o un impasto per biscotti, ma formata, robusta, indipendente e dotata di una ricchezza spaziale e di profondità temporale più ampia di tutti i mondi possibili, fatta di una immensità di eventi rilevanti o senza effetto, di meraviglie, di vite memorabili, di mostruosità e di stupidità senza nome. Qualcosa è sopravvissuto, e tra quegli individui ci siamo, in questo preciso momento, voi e io. 2]

Domanda: Gli uomini sono esseri quadridimensionali?

Risposta: «Gli individui sono fatti di spaziotempo, e della registrazione che rende possibili; di qui la loro natura quadridimensionale. i punti dello spazio, proprio come gli istanti del tempo, sono tenuti insieme dalla memoria, che nello spazio assicura la compresenza di punti, linee e superfici, mentre nel tempo permette che il presente ricordi il passato, qualificandosi appunto come presente. A livello ontologico, il quadridimensionalismo come iscrizione della traccia (perché questo, in ultima istanza, è il quadridimensionalismo: che insieme al lungo, al largo e al profondo ci sia anche il passato) assicura l’evoluzione, ossia lo sviluppo delle interazioni. in secondo luogo, a livello epistemologico, quello in cui la memoria ricorda, il quadridimensionalismo permette la historia, la ricostruzione dello sviluppo temporale degli individui. Se Proust ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto scrivere la storia dell’universo. Provo a spiegare questa affermazione magniloquente.

La domanda ontologica “che cosa c’è?” può allora venire articolata in due domande distinte: da una parte “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spazio tempo?”; dall’altra “che cosa ci sarebbe per un osservatore privilegiato, che osservasse lo spaziotempo dal di fuori?”. Dall’interno dello spaziotempo incontriamo entità tridimensionali che si estendono nello spazio e persistono nel tempo. Dal di fuori, invece, ci osserverebbero entità quadridimensionali estese sia nello spazio sia nel tempo. La Recherche prova a guardare, dall’interno dello spaziotempo, le cose come le si vedrebbero dall’esterno dello spaziotempo. La conclusione di Proust è che questo sguardo assoluto vede le cose “oltre che con gli occhi, con la memoria”. Osservati in questo modo – nella matinée Guermantes – gli ospiti della principessa appaiono finalmente al Narratore “come giganti immersi negli anni”. Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spaziotempo?” ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Prosut sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata, fissata in un documento, e resa quadridimensionale.

Domanda: il problema che si pone a noi oggi, a distanza di cento anni da La Recherche, è questo: ma noi sappiamo che esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato perché è stato revocato. Vale a dire che non possiamo più ripetere l’operazione di Proust tale e quale, ne deriva che la quadridimensionalità proustiana si deve vestire di nuovi modi di rappresentare il tridimensionale e il quadridimensionale. Ed è quello che noi stiamo tentando di indagare con la nostra proposta di una Nuova Ontologia Estetica che si muova nell’orizzonte del mondo quadri dimensionale, un quadri dimensionalismo esperito dall’«interno», cosa molto diversa dal quadridimensionalismo visto dall’«esterno» come finora è stato fatto dalla poesia e dal romanzo del novecento.

Risposta: Il quadridimensionalismo dell’osservatore proustiano è però differente da quello dell’osservatore esterno. Per quest’ultimo non esistono passato, presente e futuro; esistono soltanto relazioni temporali di precedenza e successione. Invece per l’osservatore proustiano c’è un istante temporale privilegiato, il presente, il punto dello spaziotempo in cui l’osservazione avviene. Questo fa sì che, all’osservatore proustiano, le cose appaiano come sdoppiate, con uno sdoppiamento che si riproduce nella distinzione tra io narrante e io narrato: da una parte, un’apparenza tridimensionale che la percezione presenta come presente (come tuttora esistente); dall’altra, una profondità quadridimensionale che la memoria rappresenta come passato (come non più esistente).

Dunque già nell’esperienza percettiva gli individui non appaiono perfettamente tridimensionali, bensì muniti di una scia quadridimensionale, di una connessione con il passato che favorisce l’integrazione di percezione e memoria. Ma con l’abitudine questa scia si stempera, perde luce. Il tempo passato – il ricordo – diventa piatto, film o scrittura sedimentata, impronta ripetuta e scolorita di una sensazione, una madeleine, un selciato sconnesso, il tintinnio di una posata provocano la resurrezione del passato, ossia fanno apparire il tempo nello spazio. Il passato, nella sua profondità quadridimensionale, è accessibile all’esperienza in quanto ricordato dalla memoria, ed è ricordato dalla memoria in quanto ripetuto dalla materia.

Questo può apparire contro intuitivo, giacché la nostra rappresentazione degli individui è tridimensionale. A ben vedere, però, la quadridimensionalità fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…».1]

1] i testi citati di Maurizio Ferraris sono tratti da Emergenze, Einaudi, 2016

costantina-donatella-giancaspero Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Maurizio_Ferraris_2011Maurizio Ferraris (http://www.labont.it/ferraris/) insegna Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove dirige il Centro Interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata. Visiting professor nelle principali università europee e americane, collaboratore del «Sole 24 ore», direttore della «Rivista di Estetica», ha scritto piú di trenta libri, di ermeneutica, estetica e ontologia, tra cui Storia dell’ermeneutica (1988), Estetica razionale (1997), A Taste for the Secret (con Jacques Derrida, 2001), Il mondo esterno (2001), Dove sei? Ontologia del telefonino (2005, Premio Filosofico Castiglioncello), Sans Papier. Ontologia dell’attualità (2007), La fidanzata automatica (2007) e Manifesto del nuovo realismo (2012). Per Einaudi ha curato e introdotto L’altra estetica (2001), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (2012, con Mario De Caro) e ha pubblicato Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani (2008) e Emergenza (2016).

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38 risposte a “INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A MAURIZIO FERRARIS SULLE QUESTIONI AFFERENTI A UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA (a proposito del suo libro appena edito Emergenze, Einaudi, 2016)

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19113
    Il tempo nelle “cose” mi fa pensare alle ricerche sul tempo fisico di cui parlò Claudio Borghi. E la conclusione potrebbe essere che il tempo è materia. Nella quarta dimensione vediamo e tocchiamo tempo, non soltanto cose. Nella quarta dimensione ogni oggetto è tempo. L’oggetto-tempo, a portata di mano, è oggetto d’arte (e lavoro). E non sarebbe azzardato pensare che la memoria altro non sia che un riflesso, la percezione umana di una dimensione ancora da esplorare. Esistenzialmente si potrebbe dire che, di fatto, non esiste solitudine, e che la solitudine sia soltanto sentirsi soli…

    • Claudio Borghi

      https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19116
      Più che materia, il tempo è trasformazione di materia ed energia. E l’arte, in questo senso, ha sempre avuto a che fare con la trasformazione, il divenire, la lacerazione. Il fatto è che oltre allo spazio e alla materia, il tempo si dà all’esperienza vissuta come memoria, e questa, come dice Ferraris, genera il prolungamento dell’esistenza nella quarta dimensione. La fisica si serve di una astratta rappresentazione quadridimensionale per descrivere i fenomeni, in cui il tempo è variabile matematica, quindi esterna all’esperienza vissuta. L’arte e la letteratura esprimono la quarta dimensione nella sua fenomenologia psicologica, in cui ciò che accade non svanisce mentre accade ma rimane impresso in una sorta di interiore “alveo metafisico”. Da sempre l’arte interagisce con la dimensione psicologica del tempo (di cui Bergson ha fornito, riattualizzando Agostino, un’interessante esplorazione in ambito filosofico nel Novecento, a cui è profondamente debitore il Proust della Recherche), laddove la scienza, come giustamente lo stesso Bergson fece notare, interagisce intellettualmente con una dimensione esteriore e spazializzata del tempo. Si stratta di due quadridimensionalità in un certo senso incommensurabili. Il problema (il mio problema) è come rimetterle in contatto, scoprendo, all’interno della scienza stessa, una dimensione del tempo interna alla materia-energia, quindi riattualizzando, seppur reinterpretandolo, Prigogine, che a sua volta aveva valorizzato e rivalutato il pensiero di Bergson. In definitiva, scienza e arte possono dialogare, certo non come fecero Bergson e Einstein alla Sorbona il 6 aprile 1922, in cui il confronto, finito apparentemente a chiaro vantaggio di Einstein (causa l’impreparazione matematica di Bergson, soprattutto in materia di relatività generale), si risolse di fatto in un dialogo tra sordi.

  2. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19114
    La mente umana è sovreccitata da tante problematiche che non riesce a venire a capo di nulla. A che serve indagare, perlustrare, andare al centro delle questioni, quando anche la filosofia, consiste nel creare soltanto concetti (Deleuze), ipotesi, teorie che vanno bene per un certo tempo, in quanto non sono mai statiche ed eterne, perché l’universo è in continua trasformazione e frantumazione, e ciò che si è detto fino ad oggi sui buchi neri, non è più valido, sostenibile, o accettabile, a meno che non ci troviamo di fronte alle solite menti oscurantiste e conservatrici che vivono di mero parassitismo teoretico formulato fino ad oggi. Non è con il replay delle suggestioni metafisiche che si possa comprendere il Mondo, come al tempo di Aristotele quando dichiarava “che tutti gli uomini, per natura, tendono al sapere: infatti hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia. Ora chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere, ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo: il mito, infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che essi ricercano la scienza solo al fine di sapere e non per perseguire qualche utilità pratica.” E quantunque la scienza riuscisse ad armonizzarsi tutte le volte che subentri un principio, temporaneo e assoluto, ciò non toglie che la civiltà del pensiero, passato, presente e futuro, sia sempre in uno stato di interpretazione a tempo determinato. E allora come dare un senso al mistero delle cose, senza affaticarci in libere asserzioni? “cercare il senso della vita? E’ il modo consolatorio che tutti in certi momenti adottiamo per bisogno appunto di consolazione. Ma trovare quel senso è precluso dalla conformazione stessa della mente, è domanda alla quale non c’è risposta Il senso della vita, è la vita che non ha alternative. La natura si pone forse quella domanda? La natura vive e basta. E noi non siamo forse natura, a meno di non compiere un atto di luciferino orgoglio che ci vorrebbe far superiori al resto della natura? Noi siamo diversi ma non superiori. Diversi solo in alcuni aspetti, ma anche noi natura per tutti gli altri” (Eugenio Scalfari, La Repubblica del 24 gennaio 1996, pag. 30). Resta comunque nel divenire delle particelle corticali l’adeguamento ad ogni mistero del mondo, che è una specie di matriosca dove si innestano varie figure, l’una adiacente e sottostante all’altra, che la scienza, nel suo lungo esplorare e peregrinare, non giungerà mai a definire in quanto ogni frammento cosmico e umano è un prodotto della dissomazione e della transizione in perpetuo stato disgiuntivo.

  3. Scrive Maurizio Ferraris:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19118
    «A livello ontologico, il quadridimensionalismo come iscrizione della traccia (perché questo, in ultima istanza, è il quadridimensionalismo: che insieme al lungo, al largo e al profondo ci sia anche il passato) assicura l’evoluzione, ossia lo sviluppo delle interazioni. in secondo luogo, a livello epistemologico, quello in cui la memoria ricorda, il quadridimensionalismo permette la historia, la ricostruzione dello sviluppo temporale degli individui. Se Proust ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto scrivere la storia dell’universo. Provo a spiegare questa affermazione magniloquente.

    La domanda ontologica “che cosa c’è?” può allora venire articolata in due domande distinte: da una parte “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spazio tempo?”; dall’altra “che cosa ci sarebbe per un osservatore privilegiato, che osservasse lo spaziotempo dal di fuori?”.»

    Cari amici Claudio Borghi e Mario Gabriele,

    io sono profondamente convinto che la poesia che dobbiamo scrivere è quella che apre degli spiragli sulla quadri dimensionalità. Come farlo sta al talento di ciascun poeta, al proprio bagaglio di esperienze storiche, la NOE non pone alcuna recinzione a questo compito, tutte le strade sono possibili e percorribili, quello che a noi della NOE sembra indiscutibile è che in questo modo si aprono per la poesia possibilità ed esiti inattesi e potenzialmente ampi per l’espressione poetica. Io penso (ma è solo un mio pensiero) che per far questo sia indispensabile costruirsi un proprio metro, il cosiddetto «libero», che poi non è libero affatto, l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua. In questo modo si mette in archivio la impostazione unilineare del tempo e dello spazio. Quel tipo di poesia lì si è fatta per secoli e per tutto il novecento, adesso è venuto il momento di cambiare registro.

  4. Claudio Borghi

    Questo è il punto critico, Giorgio. Tu sostieni (coerentemente parli di un tuo libero pensiero, che non pretendi imporre) che “l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua”, ecc. Ma in che senso la poesia novecentesca è monoculare? In quanto interpreta il tempo come unilineare e non lo sente appartenere a una struttura quadridimensionale? L’esperienza del tempo psicologico, in quanto prolunga la mente nella memoria, è per tutti quella di una quarta dimensione vissuta dall’interno: ritenere di fondare su questa consapevolezza una rivoluzione estetica è a mio avviso ingenuo, soprattutto laddove si ritiene di caratterizzarla sul verso libero, sul metro vario in antagonismo con la presunta statica “unilinearità” dell’endecasillabo. Il novecento è stato il secolo delle sperimentazioni linguistiche, il verso libero e la poesia in prosa sono, come sai, un portato ottocentesco, del simbolismo francese in particolare (Aloysius Bertrand, Baudelaire, Rimbaud…), ma il problema non è tanto questo. Tu ribadisci la necessità di andare oltre, lasciarsi indietro Bertolucci, Bacchini, ecc., come si trattasse di esponenti di una poesia che ha esaurito le sue potenzialità in quanto legata a una concezione ingenua del tempo lineare. In che senso il tempo interiore è non lineare? Forse che si ritiene psicologicamente di poter di sperimentare il tempo come legato a una struttura quadridimensionale? Non è chiaro questo aspetto (lo stesso Ferraris in sostanza non ha risposto laddove la Giancaspero l’ha sollecitato su questo punto, ha fornito un’analisi impeccabilmente fenomenologica in quanto, credo, ha sentito il pericolo del possibile anomalo legame tra ontologia ed estetica, che dovrebbero restare sempre separate), sembra una volontà e una dichiarazione di intenti confusamente quanto suggestivamente legata alla scienza. La relatività è costruita su una varietà quadridimensionale, lo spaziotempo, ma il tempo relativistico nulla a che fare col tempo della coscienza o con la memoria. Dal mio punto di vista, e a questo è orientata la mia ricerca sia in fisica che in poesia, il problema è come avvicinare la scienza e l’arte o la scienza e la filosofia, dopo che le rivoluzioni della fisica teorica hanno stravolto la rappresentazione che del mondo gli uomini sono fatta fino all’ottocento. E’ questo che, in particolare nelle sezioni in prosa di Dentro la sfera, ho cercato di fare, e mi sono sentito dire (incredibile, vista una realtà che a me pare piuttosto oggettiva) di essere legato all’unilinearità novecentesca, quindi, in un certo senso, a una percezione ingenua del reale. L’arte, Giorgio, è il portato di un’esperienza spirituale profonda: non si supera l’arte del novecento, in ispecie quella dei suoi esponenti più ricchi di forma immaginativa e di pensiero, sostenendo che hanno indagato il mondo alla luce di una “mimesi filosoficamente ingenua”, in quanto nessuna visione del mondo è ingenua se nasce da un’esperienza di vita spiritualmente autentica. Per far dialogare arte e scienza occorre conoscerle entrambe, non lasciarsi guidare da suggestioni teoretiche tentando esperimenti di quadridimensionalità di cui, almeno così a me pare, non è chiaro lo scopo, a parte l’intenzione esplicita di “cambiare registro”. Oltre allo spazio in cui nuotano i nostri sensi c’è il tempo in cui nuota la memoria e più in generale la mente, di cui la memoria è una componente necessaria. L’arte è grande se riesce a sondare questa profondità non spaziale, a innescare luce in un baratro scuro in cui l’io, cerino acceso, riesce a vedere ben poco con le sue povere forze, ma ugualmente tenta sintesi, cerca contatti, indaga forme, inventa armonie, elabora teorie.

  5. Nessuno cita Mallarmè grande navigatore di questa trama spazio temporale
    Ferraris non ha risposto, ma non avrebbe potuto la filosofia non é una scienza
    particolare. Forse la parola per G.Linguaglossa domina sul senso? Nessuno svolgersi
    lineare sulla bobina (Severino) solo flash back ?

  6. Scrive Claudio Borghi : “Più che materia, il tempo è trasformazione di materia ed energia”. Il tempo quindi sarebbe azione ( trasformazione), non certo quel che la fantasia mi sta suggerendo in merito al tempo fisico, e cioè che il tempo possa essere parte costitutiva della materia stessa. Ma questa precisazione, per la mia mente poetica e visionaria arriva tardi. Ormai è cosa fatta: quando cammino, portando l’attenzione al contatto dei piedi con il suolo e osservando la prospettiva dei muri delle case, io tocco e vedo tempo. Vi invito a provare questa straordinaria sensazione: l’incredibile serenità che si prova nel sentirsi immersi in questo nuovo rapporto con la materia; bere da un bicchiere-tempo dell’acqua-tempo, indossare indumenti-tempo, osservare alberi e luna-tempo… mai avrei immaginato che il viaggio ad occhi aperti negli inferi, nel samsara, potesse essere tanto piacevole. Di questa fantascienza avrei desiderato parlare. Lo stesso Borghi mi dà ragione quando afferma che “L’arte è grande se riesce a sondare questa profondità non spaziale, a innescare luce in un baratro scuro in cui l’io, cerino acceso, riesce a vedere ben poco con le sue povere forze, ma ugualmente tenta sintesi, cerca contatti, indaga forme, inventa armonie, elabora teorie”. Solo che per me non esiste “barato scuro” e le mie “povere forze” mi consentono di vedere ” Cose che voi umani…”. Fidatevi, è morte certa.
    ” il tempo in cui nuota la memoria” Ah, caro Borghi, mai e poi mai io avrei saputo inventare un’espressione tanto felice!

  7. Davide Inchierchia

    NUOVA ONTOLOGIA?
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19232
    Mi inserisco in questo dialogo sollecitato anche questa volta dalla profondità che nasce dall’intrecciarsi, sempre fertile, di pensiero teoretico e figurazione immaginativa.
    Sembrano sempre accattivanti le riflessioni di Maurizio Ferraris, la cui proposta di un «nuovo realismo» da circa un decennio sta suscitando un vivace dibattito interdisciplinare (non solo italiano) che coinvolge fenomenologi ed epistemologi, ma anche teorici del linguaggio e critici dell’arte. Non stupisce quindi che tale paradigma – nato nel contesto di una riabilitazione dell’estetica in forte presa di posizione critica rispetto al paradigma ermeneutico postmodernista dominante nel secondo Novecento – finisca per trovare accoglienza nell’alveo della “nuova ontologia estetica” qui perseguita.
    Ci tengo tuttavia a richiamare l’attenzione su un aspetto generale decisamente delicato ed equivoco, in linea con le nitide osservazioni di Claudio Borghi sul pericolo – oggi più che mai incombente nell’età dei facili sincretismi – derivante da un uso sovra-effettuale (e rapsodico) di certe nozioni filosofiche o scientifiche.
    Cosa intendiamo per “realtà”? Siamo sicuri che essa possa rientrare in ciò che Ferraris (sulla scia di Derrida) denomina «emergenza» di una “traccia” che sarebbe una sorta di precipitato della nostra “percezione” (sensoriale, rappresentativa, artistica…)? E dove sarebbe, di preciso, la scoperta che renderebbe “nuova” tale sedicente proposta “estetologica”?
    Ci si appella sovente con notevole disinvoltura – come fa lo stesso Ferraris nella presente intervista – alla filosofia critica kantiana, a sostegno di posizioni (apparentemente) realiste che trovano un comodo ancoraggio nella dottrina trascendentale della sensibilità.
    Tuttavia, in sede epistemica, non bisognerebbe lasciarsi prendere da facili suggestioni, rischiando di perdere di vista lo specifico semantico di una teoria. In effetti, da quando Kant sancì la propria rivoluzione copernicana della conoscenza, è arduo (per non dire ingenuo) credere che corrisponda a qualcosa di sostenibile e sensato l’invito a «percepire la realtà».
    Su questo punto il filosofo di Konigsberg non lascia adito a dubbi di sorta: non vi è alcuna percezione “della” realtà, per il semplice (?) fatto logico, ancor prima che fenomenologico, che si percepisce già da sempre “nella” realtà. Chi afferma l’esistenza di una “realtà” da percepire, magari erigendo su ciò (alla maniera di Ferraris) altisonanti ipotesi di metafisica neo-realista, cade vittima – sono le parole di Franca D’Agostini, nel suo recente saggio sul realismo – di un’illusione ontologica. Si tratta della medesima illusione del Cogito cartesiano, che non sfuggì ad un grande teoreta come Spinoza quando agli albori della modernità razionalistica – anticipando di oltre un secolo il kantismo e il suo tribunale della ragione – definì i termini della questione su cui oggi dovremmo ancora riflettere a lungo: non è il soggetto (assoluto) a porre la realtà ad oggetto (altrettanto assoluto) di percezione, è la Cosa medesima che si manifesta a noi come “percepibile”, ovvero articolabile dall’interno attraverso un medium espressivo.
    La percezione è essa stessa un “modo” della realtà, una modalità di “stare” nella presenza di ciò che “è”.
    Ritornando pertanto, in conclusione, all’imperativo (già di per sé ossimorico) di una “estetica ontologica”, rimangono a mio avviso numerose riserve sulla sua plausibilità. Ciò rinvierebbe ad una “facoltà” percettiva che Merleau-Ponty non avrebbe esitato a designare “cosmoteora”, ossia ad una sorta di Occhio Onniabbracciante del tutto estrinseco al nostro essere-al-mondo.
    Ma può esistere una percezione disincarnata, esterna ed estranea a qualunque reale esperienza? Su “cosa”, realmente, poggerebbe allora il suo “sguardo”?

  8. Donatella Costantina Giancaspero

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/08/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-maurizio-ferraris-sulle-questioni-afferenti-a-una-nuova-ontologia-estetica-a-proposito-del-suo-libro-appena-edito-emergenze-einaudi-2016/comment-page-1/#comment-19233
    gentile Inchierchia,
    le rispondo semplicemente trascrivendo due poesie di Transtromer che hanno tutti i requisiti di una nuova ontologia estetica (e non “estetica ontologica” come da lei erroneamente riportato). Come vede la nuova ontologia è abbastanza vecchia considerando che queste poesie sono state scritte diversi decenni or sono.

    SULLA STORIA (PARTE V)

    Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
    giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
    Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
    sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
    Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.

    MOTIVO MEDIEVALE

    Sotto le nostre espressioni stupefatte
    c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
    il sole lento ruota nel cielo.
    La partita a scacchi prosegue.

    Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
    Il sole ruota lento nel cielo.
    La partita a scacchi si interrompe sul pari.
    Nel silenzio di un arcobaleno.

  9. A proposito di realtà percepita nella realtà stessa:
    «Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»
    Tratto da un articolo di Andrea Cortellessa.

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