Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

Testata azzurro intenso

Laboratorio gezim e altri

Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi

da http://www.collana-lilsi.unifi.it/upload/sub/libro%20pavan/pavan_libro_collana.pdf

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Testata azzurra

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Questa poesia è stata scritta da Brodskij nel 1972 ed è senza dubbio una di quelle che maggiormente ha attirato l’attenzione dei critici. Ljudmila Zubova ha analizzato con molta attenzione Odissej Telemaku (Odisseo a Telemaco), mettendone in rilievo i numerosissimi riferimenti intertestuali: con altre poesie dello stesso Brodskij e quindi con la sua biografi a, pur evitando interpretazioni semplicistiche; con altri poeti russi; con poeti italiani; quello che invece è restato alquanto nell’ombra, o non è stato sufficientemente messo in luce che dir si voglia, è l’intertesto greco e latino. Questo articolo di Zubova, preziosissimo e denso di suggerimenti, fornisce sin dall’inizio la tesi interpretativa, all’interno della quale viene quindi analizzata la poesia.

La poesia «Odisseo a Telemaco», scritta nel 1972, quando Iosif Brodskij fu costretto ad emigrare, parla dell’esilio come destino e tira le somme dell’esistenza già trascorsa. Zubova prosegue citando le famosissime frasi di Brodskij sul proprio interesse verso il tempo e quello che il tempo fa all’uomo, come metafora di quello che il tempo fa allo spazio e al mondo. In tal senso, aggiungiamo, è logico dedurre che il tempo sopravanza la storia, narrazione di cui gli uomini sentono la necessità per illudersi di comprendere e quindi dominare il tempo.

Irina Koval’ëva, a sua volta, dedica alcune pagine a questa poesia nel saggio209, dove sottolinea la novità e l’importanza dell’intertesto con la poesia di Umberto Saba Lettera e porta un nuovo rimando alla poesia del 1910 di Kavafi s Itaca, utilizzata da Brodskij con inversione del significato dei motivi.

Brodskij ha tradotto Itaca assieme a Šmakov, anzi sarebbe forse meglio dire che Šmakov ha tradotto Kavafi s e che Brodskij ha curato soprattutto la redazione della traduzione quando l’amico era già gravemente malato210. Brodskij ha anche tradotto svariate poesie di Umberto Saba, poeta che ammirava moltissimo, e tra queste anche Lettera. A proposito di Saba, vanno però fatte alcune osservazioni: la poesia di Saba che rimanda più direttamente a Odissej Telemaku è invece e più probabilmente Ulisse che, ad una prima lettura, si presta ad essere interpretata come una metafora della vita, cammino difficilissimo che va sempre e comunque affrontato ed accettato. Si può anche ricordare come Saba, a causa delle leggi razziali del 1938, dovette lasciare Trieste per Roma e quindi per Milano, e ritornò a Trieste solo nel 1948; le origini ebraiche erano tratto comune sia di Brodskij che di Saba e hanno contribuito a rendere ancora più complicato il loro viaggio esistenziale.

Odissej Telemaku è del 1972; Ljudmila Zubova collega la poesia alla certezza dell’emigrazione coatta; Irina Koval’ëva rileva il possibile intertesto con la poesia 1972 god (anno 1972); né l’una né l’altra rilevano che Brodskij ha forse pensato di scrivere questa poesia in forma di lettera come testamento per il figlioletto Andrej, che sarebbe quindi adombrato nella figura di Telemaco. La prima variante della poesia è dei primi mesi del 1972; il poeta la rivede qualche mese dopo, quando è già negli Stati Uniti211. Senza voler entrare nella sfera del privato brodskiano in modo imbarazzante, sono noti l’attaccamento che in quegli anni egli ha nei confronti del primo figlio e il dispiacere perché costui non porta il suo cognome. Soprattutto la seconda parte della poesia, gli otto versi che la concludono, sembrano un lungo e doloroso saluto al figlio che deve abbandonare e che non potrà seguire da vicino né veder crescere: «Расти большой, мой Телемак, расти» (Diventa grande, mio Telemaco, grande), esorta il figlio a crescere, in senso fisico e metaforico; «Лишь боги знают, свидимся ли снова» (Solo gli dei sanno, se ci rivedremo), la nota è accorata e dolente, il dolore trattenuto e non urlato di un padre che forse sarà per sempre separato dal fi glio; «Но может быть и прав он: без меня / ты от страстей Эдиповых избавлен, / и сны твои, мой Телемак, безгрешны» (Forse, egli ha ragione: senza di me / sei preservato dalle passioni di Edipo, / e i tuoi sogni, mio Telemaco, sono innocenti), i riferimenti all’intertesto antico greco, che spiegano chi sia «egli», saranno esaminati più avanti, qui leggiamo solo la speranza, che lenisce il dolore del distacco, che dall’assenza del padre al figlio possa derivare del bene.

Testata viola

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Passando all’analisi di Odissej Telemaku, cercando di tenere presente il mondo culturale dei miti classici, va notato come Brodskij scelga il nome Odisseo e non la variante latina Ulisse. Odisseo sarebbe stato generato da Sisifo che, per vendicarsi del furto della propria mandria di bestiame sull’istmo di Corinto da parte di Autolico, ne Odissej Telemaku  sedusse la figlia Anticlea; costei era già sposa di Laerte l’Argivo, padre ufficiale del bambino nato da quell’unione. Appunto le circostanze del concepimento ne spiegano l’astuzia e il soprannome di Ipsipilo, forma maschile di Ipsipile. Ora, Sisifo, nome interpretato dai Greci come ‘molto saggio’, è una variante greca di Tesup, il dio ittita del sole, che si identifica con Atabirio, il dio solare di Rodi cui era sacro il toro. Odisseo significa ‘iroso’ e si riferisce al volto rosso del re sacro. Allo scadere del termine concesso al re sacro, dopo che egli ha regnato per cinquanta mesi lunari come marito della grande sacerdotessa, venivano celebrati i giochi, sia Nemei che Olimpici.

Ulixēs, invece, è la variante latina, parola formata probabilmente da vulnus = ferita e ischia = cosce, con allusione alla cicatrice prodotta da una zampa di cinghiale, che la vecchia nutrice riconosce quando egli torna a Itaca dopo il suo lunghissimo viaggio. Odisseo si è procurato questa ferita alla coscia proprio durante una visita al padre Autolico. Le riflessioni sui nomi Odisseo/Ulisse permettono sia di escludere un ruolo qui dominante della letteratura latina sia di altre narrazioni, più moderne, del viaggio di Ulisse, quali ad esempio quella di Joyce, che Brodskij conosceva molto bene.

Le medesime riflessioni inducono, soprattutto, a prendere le distanze, a considerare con maggiore attenzione e cautela, la tesi invalsa secondo la quale tre precedenti poesie di Brodskij formino, nel loro complesso, il protesto di questa: Ja kak Uliss del 1961, Pis’mo v butylke (La lettera nella bottiglia) del 1964, Proščajte, mademuazel’ Veronika (Addio, mademoiselle Veronica) del 1967213.

La poesia è ancora una volta imitazione di una lettera, scritta da Odisseo al figlio Telemaco; la convenzione poetica, l’esistenza del genere, permette di accettare la mistificazione di una lettera che forse non raggiungerà mai il proprio destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera: «Мой Телемак» (Mio Telemaco) e il secondo verso rispetta anche visivamente la composizione di una lettera, poiché esso inizia alla riga successiva e dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo). Odisseo, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia; il viaggio durò dieci lunghissimi anni, inaccettabili e incomprensibili a guardare la distanza relativamente breve che separava la città dall’isola di Itaca.

Testata polittico

alcuni poeti della NOE, grafica di Lucio Mayoor Tosi

A proposito del viaggio di Odisseo, della sua durata e del ritorno, Zubova osserva che:

Il ritorno di Odisseo, secondo l’antico sistema mitosimbolico corrisponde alla vittoria sulla morte, alla resurrezione, al ritorno dal mondo dei morti. Il «vello d’oro» di Odisseo acquisisce, in tal modo, il senso di vittoria sulla morte, sul naturale principio retrivo, privo di creatività del mondo materiale.

Zubova segue la lezione di Jerzy Farino, da lei citata, dove lo studioso affronta la narrazione del viaggio di Odisseo/Ulisse come motivo che più di ogni altro lega la poesia di Puškin a quella di Mandel’štam; a questa tesi fondamentale lo studioso aggiunge una digressione che prende succintamente in esame anche la poesia di Brodskij, e sottolinea la particolarità per cui il suo è un Odisseo che non fa ritorno a casa.

In realtà, bisogna invece ricordare che il ritorno dal viaggio nel sistema mitopoietico non corrisponde soltanto alla vittoria sulla morte, quanto alla rinascita ad una nuova vita, alla vita di adulto, e in tal senso ci si trova sovente di fronte ad un’azione rituale e non solo ad una narrazione; ancora più importante, il viaggio e il raggiungimento della meta è topos del viaggio dell’anima, del suo peregrinare lungo il cammino impervio della conoscenza. La conoscenza, meta suprema dell’uomo, isola irraggiungibile: «Pàntes ànthropoi toù eidenai orégontai phýsei» (Tutti gli uomini tendono per natura al sapere).

La poesia, come già osservato, si apre con i primi due versi che, anche graficamente, ricordano una lettera e, soprattutto, una lettera molto personale, familiare, che inizia con quell’aggettivo possessivo «мой» (mio) denso di amore. È vero, come sostiene Zubova, che l’uso dell’aggettivo possessivo prima del nome proprio non pertiene alla norma del vocativo russo e denota quindi un evidente significato di possesso; in questo caso, però, bisogna  ricordare la grande tradizione di epistolé e epistulae nelle letterature greca e latina, persino Dante e Petrarca, che Brodskij conosce molto bene, sono stati autori di Epistulae, scritte in latino in conformità alle leggi della retorica.

Onto brodskij

grafica di Lucio Mayoor Tosi, Brodskij

Odissej Telemaku

I pis’ma (lettere) in Brodskij rappresentano un documento umano, notevole in sé come segno di confessione, che costruisce davanti al lettore il sé del poeta e dell’uomo. Sono un documento poetico per intendere la biografia umana e artistica del poeta; sono una testimonianza artistica di vita spirituale, che modella anche l’immagine dei corrispondenti; sono materia personale che diviene materia di poesia e di riflessione metafisica; sono modello di stile e disciplina classiche.

Odisseo è, comunque, un principe greco, un guerriero che ha partecipato alla lunghissima guerra contro Troia, una guerra che ha sconvolto e interrotto la sua vita e questo evento costituisce il primo argomento della lettera: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata./ Chi ha vinto, non ricordo). Odisseo sa che la guerra è terminata ma, il che ci appare assurdo, non ricorda il nome del vincitore: greci o troiani? La tradizione non ci consegna un Odisseo immemore di chi abbia vinto la guerra estenuante, poiché è stata proprio la sua astuzia ad escogitare lo stratagemma che vi ha posto fine. Si apre un ventaglio di ipotesi.

I due versi possono voler indicare il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dal termine della guerra, da quando Odisseo ha lasciato sulla sua nave e assieme ai suoi compagni le coste dell’Asia Minore. Odisseo è stanco e provato dal viaggio che sembra non avere fine, le speranze di un ritorno a Itaca si sono affievolite e il risultato bellico non ha importanza, l’evento non è più tanto significativo da dover essere conservato nella memoria dell’eroe. Opportuno, a questo punto, ricordare che Odisseo è un eroe anomalo nell’epos antico-greco: il suo valore di guerriero, ma soprattutto la sua forza, non sono messi in dubbio, basti ricordare come ha saputo tendere l’arco e quindi sterminare i Proci dopo il ritorno ad Itaca; la sua caratteristica principale è però l’astuzia, non il coraggio e la curiosità intellettuale in lui non coincide propriamente con l’esperienza culturale; l’Iliade non ci tramanda episodi rilevanti sul coraggio di Odisseo, consegna invece alla nostra memoria culturale un eroe dall’astuzia eccezionale, quella stessa astuzia che lo sorregge durante il viaggio di ritorno e gli permette di riacquisire il posto e il ruolo che gli spettano. Non a caso, egli è protetto da Atena e non da Ares.

Anche Ovidio, nelle Metamorfosi, nel descrivere la contesa delle armi di Achille dopo la sua uccisione, fa dire ad Aiace: In nome di Giove, si dibatte la causa davanti alle navi e proprio Ulisse con me si confronta! Lui che non esitò a fuggire di fronte agli incendi accesi da Ettore, mentre io, sostenendo l’assalto, allontanai le fiamme dalla flotta. Certo è più sicuro battersi con parole ipocrite, che a mano armata affrontarsi! Ma io non sono portato all’eloquenza, come costui non lo è all’azione; quanto io valgo in campo, nella mischia spietata, altrettanto vale lui nel parlare.

Non credo tuttavia di dovervi ricordare, Pelasgi, le mie gesta: le avete sotto gli occhi. Racconti Ulisse le sue, quelle che compie senza testimoni, complice solo la notte. Grande il premio a cui miro, l’ammetto; ma l’onore è svilito dal mio avversario: Aiace non può vantarsi d’ottenere premio sia pur grandissimo, al quale anche Ulisse ambisca.

Il giudizio negativo di Aiace sull’eroismo di Ulisse prosegue per tutto il Libro XIII e in quello successivo, il Libro XIV, anche Vertumno, camuffato da vecchia, dice a Pomona:

Oh, se tu lo volessi! Più numerosi spasimanti dei tuoi, non avrebbero afflitto Elena, colei che scatenò la guerra dei Làpiti e la moglie del pavido o, se vuoi, coraggioso Ulisse.

A questo proposito, Zubova scrive che l’Odisseo brodskiano è privato di ogni elemento eroico della tradizione letteraria e richiama l’analoga osservazione di Ičin, che mette in parallelo l’Ulisse di Ovidio con l’Odisseo di Brodskij219. In realtà, abbiamo già rilevato che non è possibile che Brodskij non avesse posto attenzione alla differenza esistente tra il nome Odisseo e il nome Ulisse e, quindi, al diverso significato che i due nomi nascondono, tanto più che nel 1961 egli scrive la poesia Ja kak Uliss. La disattenzione filologica non fa parte della poetica brodskiana. I due nomi indicano un unico personaggio, ma con un tratto caratteristico diverso: Ulisse è l’eroe portatore del segno di agnizione e l’accento è posto sul mezzo che permette il felice scioglimento finale delle peripezie attraversate, il riconoscimento del personaggio e il suo diritto ad essere riconosciuto come l’unico vero signore di Itaca. Odisseo è il dolente re sacro, cosciente che l’epoca dei miti volge al termine e con essa quella delle imprese gloriose e del rapporto diretto con gli dei. Forzando la terminologia, si potrebbe dire che Ulisse ci porta in una letteratura già romanzesca; Odisseo è ancora al limite dell’epica.

 I due versi possono nascondere un sottile rimando autoreferenziale  di Brodskij: la guerra di Troia e la sua fine adombrano la guerra da lui condotta contro il potere sovietico e iniziata probabilmente già nel novembre del 1958. In questo anno, si svolge una seduta del alla facoltà di Filologia di Leningrado. Viene discussa la relazione di Jakov Gordin sulla poesia degli anni Venti del XX secolo e Brodskij, nel suo intervento, cita il libro di Trockij Letteratura e rivoluzione, attirando da subito l’attenzione del KGB. Brodskij, nel 1972, è cosciente che la sua personale guerra, non battaglia, in patria sta per finire e non ne ricorda il vincitore, perché un vero vincitore non esiste.

Zubova legge questa ‘guerra di Troia’ come metafora della Guerra Civile, iniziata in Russia ancora nel 1917, con forme diverse proseguita per tutto il periodo del potere sovietico e per Brodskij terminata al momento dell’espulsione dal paese; per Vorob’ëva si tratta della Seconda Guerra Mondiale; per Kreps dell’ironica codificazione della guerra con la macchina statale. È invece più corretto riferire questa metafora della guerra a quella sostenuta in prima persona dal poeta: questa guerra è terminata senza né vincitori né vinti, Brodskij-Odisseo sta per iniziare il suo personale viaggio, durante e alla conclusione di questo viaggio ci saranno altre battaglie e forse altre guerre, che non saranno uguali. In tutte e quattro le ipotesi formulate esiste un’incongruenza, risolvibile solo con l’autorizzazione all’immagine poetica metaforica: la guerra di cui parla Odisseo si è svolta su suolo straniero.

Il quarto e il quinto verso sono uno strano enigma: «Должно быть греки: столько мертвецов / вне дома бросить могут только греки…» (Credo i greci: tanti cadaveri / abbandonare fuor di casa possono solo i greci…). Zubova sottolinea come il tema dei Greci fuori della Grecia sia presente ancora nella poesia del 1966 Ostanovka v pustyne (Fermata nel deserto), per essere quindi ripreso chiaramente in quella del 1989 Fin de siècle (Fine secolo); come i greci adombrino i russi; come il sintagma «вне дома» (fuor di casa) indichi la mutata posizione nello spazio del poeta, in quanto anch’egli si trova ormai fuori della propria casa.

Vero che Brodskij ha più volte indicato la cultura greca come il fondamento della cultura russa, il ruolo della poesia contro l’avanzare della barbarie e, quindi, la responsabilità etica e soprattutto estetica del poeta. L’utilizzo del verbo «бросить» ha, per altro, un duplice significato che deve essere evidenziato: ‘abbandonare’, ma anche ‘gettare lontano da sé, scagliare lontano’. Nel primo caso si

legge: i greci=i russi hanno abbandonato=lasciato al loro destino i cadaveri=gli estranei al regime, i reietti fuori di casa=fuori dal sistema sociale. Nel secondo caso si legge: i greci=i sovietici hanno gettato lontano da sé=hanno espulso i cadaveri=le persone a loro contrarie e comunque ritenute pericolose fuori di casa=fuori dalla madre patria. Ambedue le interpretazioni sono possibili, ma non coincidenti; anche se va ricordato che il 1972 è stato l’anno in cui sono ricominciate le emigrazioni, più o meno forzate, di dissidenti ed estranei al regime, di coloro che hanno formato la cosiddetta ‘terza ondata migratoria’. La non coincidenza di quanto scritto in questi due versi con la tradizione antico-greca obbliga, comunque, a cercare una lettura metaforica. Gli eroi greci erano esseri semidivini, spesso oggetto di culto: dopo che l’eroe era passato attraverso tutto il cammino umano, morte compresa, gli eroi divenivano soggetti del mito e oggetti del culto; sono attestati i culti di Agamennone, di Menelao, dei Sette contro Tebe. Il culto fondamentalmente ctonio, tenebroso e notturno, tributato agli eroi lo distingueva dal culto divino, olimpico, e ne giustificava l’identificazione con il culto dell’antenato familiare e la connessione con il culto dei morti. Alcuni studiosi vogliono addirittura vedere nel culto eroico l’origine dell’epica greca. Odisseo non è morto, non è eroe divino, non può essere oggetto di culto; ancora una volta, Brodskij ha scelto il meno eroe degli eroi greci, il più umano tra essi, colui che affida se stesso e i compagni all’intelletto piuttosto che all’impresa gloriosa.

Nella Grecia antica i corpi dei morti non venivano abbandonati, poiché seppellirli era un dovere sacro che gli dei esigevano dagli uomini, perché le anime degli insepolti non erano ammesse nell’aldilà e Caronte si rifiutava di traghettarle. Era il dio Ermes Psicopompo che conduceva le anime nel regno sotterraneo dei morti e questo vicinato con la morte si ritrova nei poteri magici che la stessa divinità aveva sul sonno e i sogni dei vivi. Solo gli eroi avevano diritto alle onoranze funebri: il corpo veniva bruciato, le fiamme spente col vino e le ceneri poste in un’urna per essere poi seppellite. Interessante che un Odisseo non eroe sia il personaggio della poesia di Kavafis Itaca, visti i frequenti legami intertestuali tra la poetica kavafiana e quella brodskiana.

Una riprova della posizione sul crinale del ruolo dell’eroe epico-tragico di Odisseo/Ulisse è l’antica leggenda, tramandataci da Odissej Telemaku Igino, vissuto durante il regno di Augusto, relativa alla morte di Ulisse e alla sua sepoltura nell’isola Eea. Secondo tale narrazione, Ulisse venne inconsapevolmente ucciso dal figlio Telegono, avuto dalla maga Circe. In tal modo, si compì la previsione dell’oracolo per cui egli doveva guardarsi dalla morte per mano del figlio. Conosciutone l’identità, Telegono riportò il corpo del padre nell’isola dei morti della maga Circe. In definitiva, i morti abbandonati dai greci in questa poesia possono essere solo i compatrioti di Brodskij, forse addirittura gli amici, i concittadini che egli aveva già visto sparire.

Il fatto che l’Odisseo brodksiano parli dei greci come di estranei, come se egli non considerasse se stesso un greco è convenzionale; ricordiamo, a titolo di esempio, come Senofonte nell’Anabasi, chiaramente citata da Brodskij in Post aetatem nostram, narra di sé e dei propri compagni. D’altro canto, marcare l’estraneità di Odisseo verso i greci e la distanza culturale che lo separa da loro è connesso con la metafora greci=sovietici che, in questo caso, si complica con un’inversione di posizione greci=sovietici=barbari; da qui un’inversione di ruolo: i greci=i sovietici non sono i depositari della cultura, bensì coloro che la cultura vogliono distruggere, i barbari.

Il quarto verso inizia con la risposta a chi ha vinto la guerra di Troia e con le parole: «должно быть, греки» (probabilmente i greci).

Odisseo non è certo di ricordare con esattezza chi abbia vinto, gli sembra siano stati i greci, quei greci che abbandonano i cadaveri dei loro morti senza sepoltura, quei greci che si sono imbarbariti.

La guerra di Troia non può essere identificata con una guerra ben definita, bensì con la metafora onnicomprensiva della lotta perenne della cultura, in questo caso specifico della poesia e del poeta, contro la barbarie. L’autoreferenza è molto forte, ma la componente autobiografica diviene generale, estraniandosi.

La strada verso casa si è rivelata troppo lunga, Odisseo scrive al figlioletto mentre è ancora in viaggio, mentre il personaggio di Omero non ha di certo scritto alcuna lettera nel corso della decennale peregrinazione. È bellissima la nota dolente, umana e non eroica, che l’avverbio «слишком» (troppo) inserisce nelle parole del nostro eroe: la strada che riporta verso la propria casa è sempre troppo lunga.

Odisseo è un greco e le situazioni avverse all’uomo sono spesso riconducibili al fatidico volere degli dei: «как будто Посейдон, пока мы там / теряли время, растянул пространство» (come se Poseidone, mentre là noi / perdevamo il nostro tempo, avesse dilatato lo spazio).

Su questi due versi molto è stato scritto e, in generale, l’attenzione si è focalizzata sull’immagine «Посейдон […] растянул пространство» Zubova sottolinea la concordanza con i versi di Mandel’štam: «Я, сжимаясь, гордился пространством за то, что  росло на дрожках» (Rannicchiato, io andavo fi ero dello spazio, cresciuto a vista d’occhio)227 e, al contempo, la divergenza: lo spazio che cresce di Mandel’štam è un miracolo di cui essere orgogliosi, persino se ciò obbliga a rannicchiarsi; lo spazio di Brodskij non ha capacità autonome, è Poseidone che lo fa crescere e questo rende l’uomo una vittima, lo obbliga ad uno sforzo. Zubova non rileva la presenza del fato, del connotato fatidico insito nel volere degli dei: non è solo Poseidone che dilata lo spazio di Odisseo, è l’azione offensiva di Odisseo, averne reso cieco il figlio Polifemo, che ha dato origine all’ostilità del dio. A riprova di ciò, si potrebbe, inoltre, ricordare che Omero narra come soltanto Nestore, sempre rispettoso degli dei, ritorni sano e salvo a Pilo, secondo il volere di Zeus. Inoltre, il crescere dello spazio mandel’štamiano restringe, in modo paradossale, lo spazio concesso al poeta: pur orgoglioso di questo dilatarsi dello spazio, di fatto, l’uomo ne soffre fisicamente, ne subisce una perdita, si vede sottrarre spazio. Anche Zubova nota che in Mandel’štam il soggetto con capacità di agire è direttamente lo spazio, ma non nota che questo spazio è di fatto ostile al poeta.

Lo spazio di Odisseo-Brodskij non gli è ostile, l’ostilità dipende da Poseidone e dall’atto di rivolta contro il volere degli dei. Il significato metaforico è quindi, fortemente autoreferenziale.

Potremmo, addirittura, ricordare che nei miti antico-greci l’antagonismo tra Atena e Poseidone è una costante. Poseidone, fratello di Zeus, e Atena, figlia di Zeus, si scontrarono durante il regno di Cecrope, figlio della Terra e primo re dell’Attica, per decidere chi dovesse essere il nume protettore della città, che allora portava il nome di Cecropia. Gli altri dei dell’Olimpo decretarono che la contesa fosse decisa da una sorta di sfida: colui che avesse dato agli uomini il dono più importante sarebbe stato il vincitore.

Poseidone spaccò l’Acropoli con un colpo di tridente e offrì alla città una fonte di acqua salata e anche un cavallo. Atena sfi orò il terreno e spuntò il primo olivo al mondo. La tradizione indica che il popolo, chiamato a decidere, si divise: gli uomini scelsero Poseidone e le donne Atena. Cecrope, eletto arbitro, indicò l’olivo come dono più bello. Poseidone, irato, allagò la città, subito salvata da Atena. Il figlio di Cecrope, Canao, divenuto re, consacrò la città ad Atena, che Odissej Telemaku ne divenne quindi la divinità eponima. L’eretteo, si dice, sorga sul luogo sacro dove si è svolta la contesa. Odisseo, quindi, sconta non solo il proprio personale atto di orgoglio, non solo l’ira di Ares che diede inizio alla guerra contro Troia, ma anche la perenne contesa tra Atena, la dea che lo protegge, e Poseidone, il dio che lo avversa.

Il nome di Odisseo è, come già visto, variamente spiegato già da Omero, e spesso è alla base di giochi di parole che sottolineano i due principali aspetti della sua figura: secondo quanto scritto nell’Odissea sarebbe stato il nonno Autolico a battezzare il nipote, perché adirato e colmo d’odio, sentimenti espressi dal verbo greco odússomai, contro molti uomini; ma lo stesso verbo può avere valore passivo e indicare l’odio di cui Odisseo si trova a essere oggetto: in particolare l’odio di Poseidone, che determina gran parte delle sue avventure e delle sue dolorose peripezie, secondo il tipico motivo del dio persecutore e dell’eroe perseguitato.

Inoltre, sarebbe molto interessante verificare, ma purtroppo sino ad oggi non ci sono documentazioni certe, se Brodskij fosse a conoscenza della lezione secondo la quale le invettive di Ecabe contro Odisseo per l’uccisione del marito Priamo e del figlio Polite ci tramandano un Omero ostile nei confronti dei greci e del loro comportamento non degno di grandi guerrieri.

Soprattutto, però, gli studiosi non si sono sufficientemente soffermati sulla frase di Brodskij: «пока мы там теряли время» (mentre là noi / perdevamo il nostro tempo), il dilatarsi dello spazio è una conseguenza del fatto che Odisseo, e gli altri Greci, hanno dissipato il loro tempo. La prima lettura indica la preziosità del tempo, il peccato insito nello sciupare il tempo concesso in imprese inutili e sbagliate.

La seconda lettura ci consegna un Odisseo convinto che la guerra contro Troia sia stata un dispendio di energie e di esistenze, un cieco obbedire a volontà superiori e incontrastabili. La terza lettura ci riconduce al concetto stesso della categoria temporale e alla sua strettissima interconnessione con la poesia, presenti nella poetica di Brodskij.

La poesia continua con versi che significano la mancanza di conoscenza, l’assenza di punti di riferimento, l’impossibilità di riconoscere, l’estraneità di Odisseo allo spazio e al tempo in cui si trova: «Мне неизвестно, где я нахожусь, / что предо мной. Какой-то грязный остров, / кусты, постройки, хрюканье свиней, / заросший сад, какая-та царица, трава да камни…» (Non so dove mi trovo, / cos’ho davanti. Una sudicia isola, / arbusti, fabbricati, grugniti di maiali, / un giardino abbandonato, una regina, erba e pietre…).

Odisseo non sa dove si trova e cosa ci sia davanti a lui; Odisseo non conosce i luoghi, lo spazio gli è ignoto e estraneo; ma questo spazio è metafora del suo destino, della situazione attuale. Lo spazio diviene l’immagine di una condizione esistenziale. Nelle parole che Odisseo rivolge al figlio riecheggia una nota di smarrimento e di comprensione; l’eroe più umano, nel senso di più simile all’uomo, della mitologia greca lascia trapelare la propria debolezza.

L’Odisseo brodskiano non è ancora sbarcato sull’isola e ancora non sa delle traversie che lui e i suoi compagni dovranno subire.

Quello che Brodskij ci presenta è, presumibilmente, quell’Odisseo che ancora non ha prestato ascolto alle parole di Euriloco e che aspetta il ritorno dei compagni:

Entro una valle, il palagio trovarono bello di Circe,
tutto di lucidi marmi, in mezzo a un’aprica pianura.
[…]
Stettero innanzi alla soglia di Circe dal fulgido crine.
E udir la bella voce di Circe che dentro cantava
[…]
Subito Circe aperse le fulgide porte, uscì fuori,
e l’invitò. Tutti quanti le tennero incauti dietro:
solo Euriloco fuori restò, che temea qualche inganno.

Brodskij cita chiaramente l’Odissea, quando la maga Circe vive di già nell’isola Eea (l’isola dell’alba), identificata nel promontorio del Circeo; e la natura della regione campana giustifica l’attributo «заросший» (trascurato e ricoperto di vegetazione). Non è, quindi, l’isola Ea (gemente), l’isola della morte, identificata in Lussino nell’alto Adriatico.

Di quest’isola della morte della dea-maga Omero narra nel Libro V dell’Odissea, essa è cinta da ontani ma ha anche un bosco-cimitero di salici. Richiamando quanto già detto circa il calendario scandito dalla sequenza di alberi e collegato alla formazione dell’alfabeto, il mese dell’ontano è il quarto nella sequenza sacra e precede il mese del salice, associato con la magia dell’acqua. Ambedue questi alberi sono spesso associati a Orfeo, l’ur-poeta. Orfeo partecipa alla spedizione degli Argonauti e assieme ad essi raggiunge l’isola gemente, allora isola dove risiede Circe, zia di Medea. Il personaggio di Orfeo, o in via diretta o in via mediata, è spesso presente nei versi di Brodskij.

L’isola che Odisseo vede è «грязный» (sudicia), perché in essa ci sono molti porci, tanto che egli parla al figlio di «хруканье свиней» (grugniti di porci) come di un elemento denotativo. In generale, Odissej Telemaku  l’isola di questi versi suggerisce un’impressione di disordine e di confusione, sia con la vista che con l’udito; l’impressione richiama l’analogo stato d’animo dell’eroe stesso e, probabilmente, di Brodskij: confuso, triste, anche impaurito di fronte al repentino cambiamento delle sue coordinate esistenziali. L’uomo non riconosce più la vita che sta vivendo. Zubova parla di impossibilità di appropriarsi della realtà e la ritiene strettamente legata alla poesia di Mandel’štam Uroki Armenii (Lezioni armene). Nell’Odisseo brodskiano c’è molto di più, ci sono paura e scoramento, un abbandono al fato, un’accettazione dell’impossibilità di mutare il corso degli eventi.

I versi seguenti trovano un riscontro nel peregrinare dell’eroe omerico: «Милый Телемак, / все острова похожи друг на друга, / когда так долгo странствyешь» (Caro Telemaco, / tutte le isole sono uguali l’una all’altra / quando così lungo è il peregrinare).

Odisseo, dopo aver lasciato le coste di Troia, incontra: l’isola Citera, il promontorio libico, l’isola dei Ciclopi, Eolia, la terra dei Lestrigoni, l’isola Eea, il fiume Oceano, il sacro bosco di Persefone, l’Ade, l’isola delle Sirene, Scilla e Cariddi, la Sicilia, l’isola Ogigia, l’isola di Drepane e infine Itaca. «Tutte le isole sono uguali l’una all’altra» vuole significare che l’assenza della patria, della città natia crea una sostanziale uguaglianza tra tutti gli altri luoghi che sono e saranno sempre luoghi di peregrinazione e di estraneità. La categoria spaziale una volta di più diviene esistenziale e la funzione geografica viene di fatto assolta dal tempo: «когда так долгo странствуешь» letteralmente va tradotto: ‘quando tanto a lungo viaggi’.

I versi appena considerati iniziano con una seconda allocuzione diretta al figlio, del quale viene ripetuto il nome, preceduto da un diverso aggettivo: «мой» (mio) nel primo caso e «милый» (caro) in questo secondo caso. La ripetizione del nome dà voce al desiderio paterno di ripetere il nome amato ed è spia del timore di non avere più occasioni di pronunciarlo.

I tre versi seguenti sono, forse, quelli maggiormente densi di significato traslato: «и мозг / уже сбивается, считая волны , / глаз, засорённый горизонтом, плачет, / и водяное мясо застит слух» (e la mente / si perde nel contare le onde, / l’occhio, saturo di orizzonte, piange, / e l’acquea carne priva dell’udito).

Se ricordiamo che per Brodskij l’acqua è una forma condensata del tempo, la metafora della mente che si perde nel contare il numero delle onde sta a significare che la mente di Odisseo non è più in grado di contare i giorni, gli anni e il tempo già trascorsi, perché essi sono troppi. Il lungo lasso di tempo intercorso ha privato Odisseo della capacità di orientarsi nel computo del tempo, egli ha, come si suol dire, ‘perso la nozione del tempo’. L’onda è, dunque, l’unità di misura del tempo, ovviamente slegata da unità quali ora, giorno, mese, anno; è l’unità di un uomo costretto a un lungo, in senso sia spaziale che temporale, peregrinare. L’immagine dell’‘onda’ diverrà insistita e frequente nelle poesie dalla seconda metà degli anni Ottanta. Il lunghissimo viaggio di Odisseo è protratto nel tempo da una perdita di rotta che gli ha fatto smarrire la via più diretta e breve, in tal senso tempo e spazio sono strettamente collegati e interdipendenti, esso sembra non avere il fine della conoscenza, bensì del ritorno a casa. A meno che, casa e conoscenza non coincidano: Odisseo deve tornare a Itaca, Brodskij deve tornare nell’amata Pietroburgo.

L’occhio del viaggiatore per troppo tempo ha potuto discernere solo l’orizzonte, che dà un illusorio confine all’acqua; la vista è ingombra di orizzonte, perché niente altro è visibile. L’occhio, elemento autonomo, la retorica ci direbbe che siamo di fronte ad una sineddoche e l’occhio è l’uomo, piange; l’uomo piange le immagini di cose e persone delle quali è privato, perché non gli è più dato di vederle. Il senso di perdita struggente, che danno queste parole poetiche, è immenso; sottolineato com’è dalla percezione di un elemento di rassegnazione: Odisseo è conscio che questo è il destino che il volere degli dei e le sue azioni, nel loro complesso insieme, hanno preparato per lui.

Il mare, l’acqua, è antropomorfizzato, è un corpo denso di carne, tanto denso da togliere la capacità di udire. Esiste, però, un secondo livello di lettura: l’acqua è una forma condensata del tempo, ma la poesia è essa stessa tempo e, quindi, una: «forma condensata del tempo». Se ne può dedurre che la poesia è assimilabile all’acqua. Su questo piano, i versi indicano la mente del poeta che si smarrisce nel considerare quanta poesia è già stata scritta, quanti poeti sono già esistiti e, per converso, quanta poesia è ancora da scrivere e quanti poeti dovranno ancora esistere. L’occhio che piange è quello del poeta, piangente e smarrito di fronte a tanto che ancora va scritto, a tante parole diverse che ancora debbono essere dette, un numero infinito, un numero talmente grande da sovrastare e togliere la capacità di prestare loro ascolto.

Evidente che, nel suo parlare di metafisica, Brodskij ha sempre avuto ben presente: «Pàntes ànthropoi toù eidenai orégontai phýsei» (Tutti gli uomini tendono per natura al sapere); a dirla in breve, le parole con le quali Aristotele inizia i quattro libri della Metafi sica. La poesia come suprema forma di conoscenza e di resistenza alla barbarie.

Il debito di Brodskij, rilevato da Zubova, nei confronti di Mandel’štam per le immagini dell’occhio e della carne è interessante e condivisibile, ma non esaustivo: la personale elaborazione e la riflessione poetica conducono Brodskij a immagini che rimandano alla metafisica e alla poesia, per mezzo delle quali la seconda diviene quasi un sinonimo o, forse, sarebbe meglio dire una metamorfosi della prima.

Sempre nello stesso saggio, Zubova rileva un’altra fonte per l’immagine dell’occhio saturo di orizzonte: il poema Кrysolov (Trappola per topi) di Marina Cvetaeva. In questo poema l’occasionale consequenzalità delle parole manifesta il grado di sviluppo dell’espressione e sottolinea il dolore della sensazione, fino alla distruzione dell’organo della vista; il che non accade invece in questa poesia di Brodskij.

Lo smarrimento, la rassegnata accettazione del proprio destino di vagabondo, induce Odisseo a riconoscere la propria smemoratezza di fronte al figlio: «Не помню я, чем кончилась война, / и сколько лет тебе сейчас, не помню» (Io non ricordo, come sia fi nita la guerra, / né quanti anni tu abbia adesso, non ricordo).

Non si tratta di incapacità di ricordare, di vecchiaia, di una mente annebbiata, Odisseo non lo ricorda per due motivi: la guerra di Troia è ormai avvenimento troppo lontano nel tempo e nello spazio e troppo altro egli e i suoi compagni hanno dovuto superare; la guerra di Troia è ormai senza importanza. La guerra è soprattutto sinonimo del lungo peregrinare, sulla via di un ritorno ancora di là da venire. Lui, Odisseo, e gli altri principi non sono stati realmente i vincitori, poiché tutti sono morti, tutti tranne lui e Nestore, come già osservato.

Ben più importante è il verso in cui Odisseo non ricorda quanti anni abbia il figlio, la nota si fa dolente e rivela il timore, se non la certezza, di non vederlo crescere e diventare adulto; l’autoreferenza è dolorosamente scoperta.

A questo dolore, trattenuto e non urlato, l’unica risposta è l’augurio per il futuro assieme al ricordo del passato. Anche sotto questo aspetto l’autoreferenza è forte: Brodskij ha sempre rifuggito lamenti, recriminazioni e un dolore esposto, preferendo la forza della poesia e la dissacrazione dell’ironia.

Il verso seguente, che inizia l’ottava finale, si apre con un augurio dolcissimo, la cui unica origine è solo l’amore del padre verso il fi glio: «Расти большой, мой Телемак, расти» (Diventa grande, mio Telemaco, grande). L’unico sentimento che traspare da queste parole è l’amore paterno di Odisseo verso quel figlio che egli giustamente chiama «mio», il suo desiderio che il figlio cresca, pur conscio della probabilità di non poterlo vedere crescere: «Лишь Боги знают, свидимся ли снова» (Solo gli Dei sanno, se ci rivedremo). La probabilità è nelle mani degli dei, unici a conoscere il destino futuro degli essere umani.

Contro il dolore del distacco e della perdita, ancora una volta, l’unica via è il rifugio nel passato, nella memoria: «Ты и сейчас уже не тот младенец, / перед которым я сдержал быков» (Già non sei più quel bambino, / davanti al quale ho trattenuto i buoi).

Il riferimento è alla famosa narrazione secondo la quale Agamennone, accompagnato da Menelao e Palamede, si recò a Itaca per convincere Odisseo ad unirsi alla spedizione contro Troia. Odisseo, ammonito in precedenza da un oracolo di non partecipare a questa spedizione, altrimenti sarebbe tornato in patria dopo venti anni, solo e in miseria, si finse pazzo. Agamennone, Menelao e Palamede lo trovarono mente arava un campo, con un bue e un asino aggiogati assieme all’aratro e gettando nei solchi manciate di sale. Palamede, per smascherarne la finzione, mise il piccolo Telemaco davanti alle zampe degli animali. Odisseo, per non travolgere il figlio, fermò l’aratro e dimostrò in tal modo di non essere pazzo.

La simulata pazzia di Odisseo viene interpretata come profezia dell’inutilità della guerra: Odisseo che simula la pazzia porta il cappello a cono, che contraddistingueva mistagoghi e veggenti; il bue è animale di Zeus e l’asino di Crono, ossia l’estate e l’inverno; ogni solco riempito di sale significava un anno perduto. Palamede fa sì che l’aratro si fermi al decimo solco, profezia del decimo anno come di quello in cui sarebbe avvenuta la battaglia decisiva. Tali premesse, rafforzano l’interpretazione appena data dei versi brodskiani, anche se il poeta parla di «buoi» al plurale, senza distinguere tra l’asino e il bue della narrazione mitologica.

Il verso «Когда б не Паламед, мы жили вместе» (Non fosse per Palamede, vivevamo assieme) attribuisce a Palamede, che assume il ruolo di segno, di agente del fato, la colpa della ventennale separazione di Odisseo da Telemaco. Odisseo si vendicherà di Palamede.

Palamede, il cui nome viene da palàme (palmo della mano, prodezza, espediente) e in conseguenza indica colui che è ingegnoso nell’invenzione, nell’astuzia e nell’artificio, è un antagonista per Odisseo: egli svela la finzione della pazzia per non partecipare alla spedizione contro Troia; egli rimprovera a Odisseo di essere stato codardo e di non aver riportato dal viaggio in Tracia le provviste necessarie ai greci; egli è il rappresentante della più antica cultura cretese. Odisseo lo accuserà di aver tradito i compagni e di aver ricevuto dell’oro da Priamo; ma si tratta di un’accusa falsa, architettata e messa in atto dallo scaltro signore di Itaca per vendicarsi di essere stato per ben due volte smascherato come uomo che desidera la vita e non l’immortalità eroica.

Gli anni sono trascorsi e Odisseo non è più certo che quella di Palamede sia una grave colpa, mette in dubbio che le conseguenze siano state negative, ammette l’eventualità che le azioni di Palamede siano state per il meglio: «Но может быть и прав он: без меня / ты от страстей Эдиповых избавлен, / и сны твои, мой Телемак, безгрешны» (Ma, forse, egli è nel giusto e senza di me / sei preservato dalle passioni di Edipo, / e i tuoi sogni, mio Telemaco, sono innocenti). L’assenza del padre diviene positiva per il figlio: lo libera dalla contesa con l’antagonista. Telemaco, a differenza di Edipo, non sarà geloso del padre, non amerà la propria madre, resterà un innocente. L’aggettivo possessivo «tuoi», riferito ai sogni del figlio, è in contrasto all’aggettivo possessivo «mio», per la terza volta anteposto al nome del figlio. Odisseo diviene l’io poetico brodskiano e viceversa; il poeta comprende e ammette che la sua assenza dalla Russia sarà un bene per il figlio, il quale non dovrà scontare colpe non sue; il figlio non correrà il rischio di subire l’influenza del padre; Brodskij, con l’intonazione trattenuta che è una sua caratteristica, lascia trapelare una spia della misura del suo amore paterno.

La seconda parte di Odissej Telemaku si distacca in modo netto dalla prima: nella prima l’attenzione è rivolta alle vicende che hanno coinvolto Odisseo e un tempo già trascorso, nella seconda l’attenzione si sposta verso il figlio e un tempo ancora da venire.

Lo sguardo di Odisseo in questa poesia è uno sguardo da lontano, uno sguardo estraniato. L’identificazione autoreferenziale di Brodskij, del poeta e dell’uomo, con Odisseo, particolarmente evidente nella seconda parte della poesia, fa sì che lo sguardo del poeta nei confronti delle vicende che hanno appena sconvolto la sua vita sia molto più lontano nel tempo rispetto alla realtà e questo aumento della distanza spazio-temporale ne accresce la componente di estraneità e, al contempo, di poeticità. Il poeta, dice Brodskij, deve guardare a ciò che gli accade come da una posizione ‘a latere’; egli deve descrivere fatti personali come fossero altrui, con distacco; la coscienza di ciò può, talvolta, generare una situazione pazzesca e colui che scrive ha coscienza della scissione che deve operare rispetto a colui che piange o che ride, che soffre o che è felice.

Venti anni dopo, nel 1993, Brodskij scrive la poesia Itaka (Itaca), che deve idealmente essere collegata a Odissej Telemaku; la prima strofe merita di essere citata integralmente: «Воротиться сюда через двадцать лет, / отыскать в пеcке босиком свой след. / И поднимет барбос лай на весь причал / не признаться, что рад, а что одичал» (Tornare qui dopo venti anni, / cercare nella sabbia l’impronta del proprio piede nudo. / Il cane leverà il suo latrato su tutta la banchina / non per confessare chi felice, ma chi inselvatichito). La strofe è autoreferenziale, sono trascorsi venti anni da quando Brodskij è stato costretto ad abbandonare Leningrado, che nel 1991 è tornata a chiamarsi San Pietroburgo. Brodskij torna idealmente nella sua città e quindi Itaca è l’altro nome di Pietroburgo, ma non in forma ufficiale. Le pessime condizioni di salute e poi la morte gli impediranno di aderire all’invito dell’allora sindaco Sobčak.

Sembra, per altro, che sia Brodskij che Baryšnikov rifuggissero da un ritorno ufficiale con cerimonie pubbliche di accoglienza e che più di una volta abbiano progettato un ritorno, assieme e camuffati con barba e baffi , addirittura con una nave da Helsinki, per soli tre giorni, dormendo sulla nave stessa, il che non richiede il visto di entrata e di uscita.

L’intertesto con l’Odissea è dichiarato, ma ogni elemento intertestuale appare qui rovesciato rispetto al testo originale: la vecchia nutrice è morta e non potrà riconoscere la cicatrice, non c’è agnizione; Penelope non la si può ritrovare da nessuna parte, poiché in realtà si è concessa a tutti; il figlio, ormai adulto, lo guarda con rimprovero e lo accusa di averlo abbandonato; colui che ritorna non è più in grado di parlare con coloro che sono rimasti: «И язык, на котором вокруг орут, / разбирать, похоже, напрасный труд» (E la lingua, nella quale urlano all’intorno, / identifi carla sembra un’inutile impresa). L’Odisseo-Brodskij di venti anni dopo non è certo che l’isola sia proprio quella e, soprattutto, non è certo che l’occhio voglia riconoscerla, meglio affidarsi alla memoria contenuta nell’onda: «от куска земли горизонт волна / не забудет, видать, набегая на» (da un lembo di terra l’onda l’orizzonte / non dimentica, con evidenza corrugandosi contro di esso). Torna l’immagine dell’‘onda’ quale contenitore della memoria che è stata appena sottolineata e che si ritroverà frequente nelle poesie degli ultimi anni, in particolare in Podražanie Goraciju (Ad imitazione di Orazio) del 1993.

Vanno, però, considerati gli altri due possibili riferimenti intertestuali, ai quali si è accennato: il sonetto Itaca di Kavafi s e Ulisse di Saba.

A proposito del sonetto di Kavafis, Kovalëva ne legge la somiglianza ma con temi invertiti; in realtà, essi sono invece assolutamente simili e non speculari. L’io poetico di Kavafis augura a colui che vuole tornare a Itaca che il suo viaggio duri a lungo e che esso sia denso di vicende e conoscenze; che il viaggiatore comprenda che i mostri esistono solo se essi già sono dentro il suo cuore; che egli possa acquisire mercanzie dai Fenici e sapienza dagli Egiziani.

Il sonetto termina:

Sempre devi avere in mente Itaca −
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole signifcare.

L’Itaca di Kavafis è sineddoche della conoscenza, della maturità di pensiero che prima l’allontanamento e quindi il lungo, più lungo possibile, cammino del ritorno può regalare: «che cos’altro ti aspetti?», «già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare». L’Itaca di Brodskij è un’isola, un golfo che «l’occhio schizzinoso» non riconosce, ma senza l’allontanamento non ci sarebbe stato «l’orizzonte» contro il quale «l’onda» si infrange, conservandolo nella memoria. Anche quello dell’io poetico di Brodskij è un viaggio di conoscenza; come egli stesso ha detto:

In realtà, ed è questa la cosa più importante, per tutta la vita ho pensato a me stesso prima di tutto come ad un’entità metafisica. Prima di tutto, mi ha interessato quello che accade all’individuo sul piano metafisico. In un certo senso, i versi sono un risultato accessorio, anche se si pensa sempre il contrario.

Non è importante ciò che accade alla persona fisica e al poeta, al contrario, è forse meglio che di essi resti il meno possibile: Lo sa quello che, personalmente, mi andrebbe meglio? Quello che mi andrebbe benissimo? Il destino di un autore antico, un certo Archiloco, dei cui versi sono rimaste solo labili tracce e niente di più. Ecco il destino che si può invidiare. Brodskij ricorre al paragone con un poeta del VII sec. a.C., dei cui versi sono rimasti solo frammenti e, forse, pensando a Brodskij, non è un caso che ad Archiloco si ascriva l’invenzione della parakataloghè, il recitativo musicale della poesia giambica. I versi di Archiloco rappresentano, inoltre, uno spostamento dalla tradizione epica e da ciò che in essa contraddistingue l’eroe: l’eroe epico è bello e buono; l’eroe in Archiloco non è necessariamente né bello né buono; dall’individuo quale membro di una comunità-gruppo si passa al singolo che è importante in quanto tale, l’uomo che possiede una propria e privata vita autonoma. È interessante il fatto che Brodskij dimostri una conoscenza così dettagliata della letteratura greca antica; è interessante quanto già scritto, per cui Odisseo, l’eroe che deve tornare ad Itaca, è forse il meno eroico degli eroi omerici; ancora più interessante che, negli anni Novanta, passata la cinquantina, Brodskij sembra voler dire che l’etica non va ridotta alla sola bontà, così come l’estetica non esiste solo in riferimento alla categoria del bello.

Umberto Saba ci presenta un Ulisse desideroso di conoscenza, che non teme di confrontarsi con la vita e preferisce il viaggio per mare all’approdo in un porto sicuro. Nella poesia Ulisse, che chiude la raccolta Mediterranee del 1946, ci sono a chiusura questi versi:

Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirto
e della vita il doloroso amore.

È un Ulisse non domato; la terra non è quella di Nessuno-Odisseo, questa è veramente la terra di nessuno, con la lettera minuscola, è il regno dei morti; nonostante tutto, questo Ulisse non è annientato, ama la vita e ha sete di conoscenza. La vicinanza con l’eroe brodskiano è evidente e, inoltre, è altrettanto evidente il legame con la poesia Ja kak Uliss di oltre trent’anni prima. Inoltre, Saba scrive anche la poesia Lettera, che chiude la raccolta Epigrafe del 1947-48, dove richiama espressamente il nome di Telemaco; ricordiamo che Brodskij ha tradotto in russo questa poesia, assieme a molte altre del poeta italiano.

206 Cfr. L. V. Zubova, Stichotvorenie Brodskogo Odissej Telemaku (La poesia di Iosif Brodskij Odisseo a Telemaco), in “Staroe literaturnoe obozrenie”, 2, 2001, pp. 64-74.
207 Ivi, p. 64.
208 Cfr. S. Pavan, Iosif Brodskij. Un poeta e la lingua, cit.; Ead., About the Concept of ‘Muse’ in Brodsky’s Poetics, cit.
209 I. Koval’ëva, Greki u Brodskogo, cit.
210 Cfr. S. Volkov, Dialogi s Iosifom Brodskim, cit., pp. 276 e sgg.
211 Di questa precisazione sono debitrice a Lev Losev.
212 Cfr. Polieno, VI, v. 52; Igino, Fabula, v. 201; Sofocle, Aiace, v. 190; soprattutto, il nome di Ipsipilo è nel ciclo dedicato a Odisseo di Epicarmo di Megara, drammaturgo citato sia da Platone nel Teeteto, sia da Aristotele nella Poetica.
213 Cfr. L. V. Zubova, Stichotvorenie Brodskogo Odissej Telemaku, cit., p. 65.
214 Ibid.
215 J. Faryno, Ja pomnju (čudnoe mgnoven’e…) i Ja (slovo) pozabyl… (Ricordo
il meraviglioso istante… e La parola, io l’ho dimenticata…), in “Wiener Slawistischer
Almanach”, Band 16, Wien 1985.
216 Aristotele, Metafi sica.
217 Ovidio, Metamorfosi, XIII, vv. 5-18.
218 Ovidio, Metamorfosi, XIV, vv. 669-671. Curioso, apre un ventaglio di possibili ipotesi interpretative, il fatto che nel dicembre del 1990 Brodskij scriva e dedichi all’amico Gianni Buttafava, morto da poco, un lungo poema in sedici parti intitolato proprio Vertumn.
219 Cfr. L. V. Zubova, Stichotvorenie Brodskogo Odissej Telemaku, cit., p. 65; K. Ičin, Brodskij i Ovidij, cit., pp. 230-31.
220 Studenčeskoe Naučnoe Obščestvo (Società scientifi ca studentesca).
221 Cfr. L. V. Zubova, Stichotvorenie Brodskogo Odissej Telemaku, cit., p. 66; A.
N. Vorob’ёva, Poètika vremeni i prostranstva v poèzii I. Brodskogo (La poetica del tempo
e dello spazio nella poesia di I. Brodskij), in Vozvraščennye imena russkoj literatury (I nomi restituiti della letteratura russa), Samarskij Gos. Ped. In-t, Samara 1994, p.
187 ; M. O. Kreps, O poèzii Iosifa Brodskogo, Ardis, Ann Arbor 1984, p. 155.
222 Cfr. L. V. Zubova, Stichotvorenie Brodskogo Odissej Telemaku, cit., p. 67.

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8 risposte a “Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18894
    Si tratta di una “epistola” ed è scritta nella forma di una “epistola”, una lettera che il padre Odisseo scrive al figlio Telemaco. In questa lettera il padre dice al figlio delle cose importanti, a propria giustificazione, è un’autodifesa e una autocritica della propria posizione nel mondo. Odisseo tenta di scagionare se stesso dall’accusa di aver trascurato i doveri della famiglia e del padre, tenta di giustificare la sua “assenza”. In questo contesto formale la poesia va giudicata, e solo entro questo contesto formale e filosofico. È quindi una poesia ragionamento, una poesia di riflessione nell’orbita della più grande poesia europea da Leopardi in poi. Una poesia che ci riguarda tutti, o almeno chi è padre: il perché della “assenza” del “padre”, il perché il padre sia stato costretto (magari contro la propria volontà) ad andare per il mondo, andare in guerra (quale guerra? Tutte le guerre?); e qui il senso della poesia si allarga fino a diventare cosmico, universale. La poesia si rivolge a tutti i padri che hanno abbandonato il figlio in tenera età per andare in guerra, parla di loro, parla di noi. Di qui il tono lievemente nostalgico dell’ “epistola”, un messaggio in bottiglia che il padre invia al figlio. E poi quell’incipit dichiarativo (il tono di una persona che vuole nominare le cose), quell’andante largo che introduce il tema universale dei tanti morti che è costata la guerra

    Telemaco mio,
    la guerra di Troia è finita.
    Chi ha vinto non ricordo.
    Probabilmente i greci: tanti morti
    fuori di casa sanno spargere
    i greci solamente.

    Non a caso abbiamo inserito anche la poesia sulla guerra di Bertolt Brecht, anche lì si dice che nell’ultima guerra ci sono stati vincitori e vinti, che il tempo della Storia confonde gli uni con gli altri e che anche il poeta non ricorda bene chi fossero stati i vincitori… E’ il grande tema della riflessione sulla storia degli uomini, sul significato profondo della guerra, di tutte le guerre. È una poesia che ha del sacro in sé, che tocca profondamente il “sacro”, non è una poesia individualistica, non è una poesia magrelliana (con tutto il rispetto per Magrelli), qui si toccano i centri nevralgici problematici della nostra civiltà, della civiltà occidentale, mi pare. Mi fermo qui.

  2. gino rago

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18895
    Giorgio Linguaglossa interpreta la poesia-lettera al figlio di Brodskij nella unica, grande chiave interpretativa possibile.
    Ma vi è in questa poesia, nascosto fra le parole che a noi giungono dalla traduzione in italiano, almeno così sembra di avvertirvi, il sentimento di
    Brodskij verso lo scontro fra doxa e aletheia, fra opinione e verità, fra percezione fenomenologica sensibile e verità delle cose…
    Insomma, Brodskij conosce il mito platoniano della caverna ma non lo rende chiaro: gli manca lo spazio espressivo integrale.
    Cosa che al contrario non si verifica nella poesia “Preghiera per un’ombra”
    di Giorgio Linguaglossa, poesia che, sebbene in una manciata di minuti,
    cercherò di trattare nel Laboratorio Poetico, perché nello spazio espressivo
    integrale inventato da Giorgio L. il mito dell’ombra e della caverna si dispiega in tutta la sua verità, in tutta la sua forza sulla condizione dell’uomo costretto a vedere le ombre delle cose e non le cose…

    Gino Rago

  3. La Nuova Ontologia estetica, se ne è capace, si deve occupare di queste cose: del tema della civiltà occidentale
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18897
    Questa di Brodskij è una poesia che io ho sempre tenuto presente come una vetta inarrivabile. È una di quelle poesie dove si condensa e si concentra tutto il significato di una civiltà (la civiltà occidentale). Qui non c’è niente di biografico, a Brodskij non importa un fico secco di raccontarci le sue vicende private (come va di moda purtroppo oggi presso tutti gli addendi epigoni che scrivono milioni di pseudo poesie). Questa di Brodskij non è una poesia di oggetti, qui di oggetti non c’è neanche l’ombra, ci sono altre «cose». Come tu, caro Gino, hai ben colto qui ci sono le ombre e il mito della caverna platonica. Raramente ad un poeta, anche ad un grande poeta, è dato giungere con così perfetta chiarezza ad un dettato poetico che dice solo l’essenziale; ma la poesia è significativa anche e soprattutto per quello che non dice, per tutto ciò che Odisseo non dice al figlio Telemaco, e non lo dice perché la sua falsa coscienza, la sua inautenticità glielo vieta. E, paradossalmente, in questo modo Odisseo diventa, per un attimo, autentico. Vedi come sono intrecciate le cose degli uomini, come non possiamo separare la pula dal grano (come scrive Mario Gabriele) come separare ciò che è autentico da ciò che non lo è.
    In un certo senso anch’io in quella poesia “Preghiera per un’ombra” (sono contento che ti sia piaciuta) ho voluto riepilogare la storia dell’universo (ovviamente non so se ci sono riuscito, mi accontenterei di esserci riuscito per un milionesimo). La poesia, ogni poesia, se è riuscita, in fin dei conti è la traccia di una formidabile abbreviazione della storia dell’universo… altro che le chiacchiere di un “io” presunto che favoleggia di un mondo presunto…
    La Nuova Ontologia estetica, se ne è capace, si deve occupare di queste cose: del tema della civiltà occidentale, dobbiamo rimettere al centro della poesia il tema universale della civiltà occidentale…

  4. La NeuZeit – L’oblio della memoria
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18901
    Nella poesia Odisseo a Telemaco del 1972 di Iosif Brodskij abbiamo il primo esempio di una poesia che abita la distanza inabitabile. Una poesia sulla distanza. Non più una poesia su un luogo, o su un personaggio o su un oggetto o vari oggetti; direi: non più una poesia linguistica fatta di polinomi frastici che si organizzano attorno ad un nucleo tematico come ci ha insegnato un certo novecento, qui siamo davanti ad una poesia argomentante che medita da una distanza fitta di temporalità e di spazi. Ormai nel nostro mondo globale gli spazi sono diventati troppo grandi, le temporalità si sono moltiplicate in modo vertiginoso e l’uomo si accorge che tutto ciò ha nuociuto alla sua memoria, e la memoria si è assopita e poi dissolta. Il poeta si accorge che l’uomo della fine del novecento non può più abitare la distanza perché questa distanza è diventata abissale, vertiginosa e l’uomo non può che perdersi in essa e perdere la memoria in essa, e con essa perdere la sua identità; la sua stessa ragione di vita non è più nel viaggio o nella ricerca dell’ignoto, la sua condotta lo ha portato in prossimità di un pensiero nichilistico, in prossimità di un abisso, in prossimità di un orizzonte degli eventi. Forse mai nessun pensiero è stato così totalmente nichilistico come questo che Brodskij rappresenta ed indaga: l’uomo contemporaneo non può più abitare alcuna distanza, anzi, la distanza è diventata inabitabile, ha annientato la sua volontà di potenza, gli mostra il nulla di cui è fatta la sua esistenza. È questa la straordinaria scoperta di Brodskij, d’ora in avanti l’uomo dovrà fare i conti con se stesso, abituarsi a non poter più abitare alcuna distanza, il mondo è diventato troppo vasto e incomprensibile e inabitabile e la memoria, quel fragile vascello con i suoi marinai sperduti nel gurgite vasto, si è inabissata nel fondo del mare.

  5. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18902
    Che cos’è la memoria? Forse è un luogo? Un punto infinitesimale? Una zona del nostro cervello? Forse è un evento immaginario che noi rimodelliamo di continuo? Forse è una forma del tempo interno? Chissà.

    Enrico Castelli Gattinara scrive: «Già Bergson aveva parlato della memoria come di un vero e proprio non-luogo , un altrove che avvolge costantemente il presente ma che appartiene come a un’altra dimensione. Perché, diceva, non sono le cellule nervose ad essere la sede dei ricordi, ma solo ciò che permette di attivarli o meno. Così, allo stesso modo, un neurone o una delle sue numerose terminazioni non vengono “riempiti” o “svuotati” quando c’è o scompare un ricordo: di cosa sarebbero riempiti o svuotati nel processo di memorizzazione e di oblio? Di cosa è fatto un ricordo?».1

    1 http://www.aperture-rivista.it/public/upload/Castelli10-2.pdf

  6. antonio sagredo

    a C. B.

    Dirà un attore le sue parole – bestemmie!
    rubini spargerà sulla lingua di un pagliaccio
    e nel furore di una impossibile finzione
    lagrime… lagrime di colei che non sa!

    Le maschere avranno il frivolo passo dell’inchiostro
    inutile come una lettera d’amor – o lo schianto:
    sono geloso della distruzione di Troia!

    antonio sagredo
    Roma, marzo 1981

    ———————————————

    Accordiamo gli strumenti con gli occhi,
    violini, viole d’amore, violette!
    le destinazioni agli otto angoli universali,
    e che i falchi ricordino più che il volo le traiettorie
    sui tamburi africani dove s’impiglia la vista non acuta dei passeri,
    gli ex-voto dei pellegrini in gramaglie, metastasi di speranze,
    ma il miracolo è un perdono irrisolto come l’estasi
    di quella troia di Penelope che tramava mestrui e coiti altrui,
    si, si… di quella troia che simulava l’orgasmo ruttando come una chiavica:
    il trivio ha fatto ottusa più d’una generazione umana!

    (da Oriana, 2010)

    ———————————————-
    Senza fine

    Quando attratto per ogni dove mi ritrovai malato di battelli
    e i viventi prestavano un sorriso ai morti per il tempo di leuca
    fino alle ceneri le nostre parole mi risposero con uno sberleffo
    dietro la quinta dov’io svernavo con tutti i miei affanni i gesti e

    le parole. Accompagnatemi, nastri funebri! Anche i corvi sono fuggiti
    dai cipressi sotto neri cieli dopo le aurore! Gli stendardi di carni
    come risacche straziati da tramonti in fuga e i marosi sulle rocce a picco –
    banderuole di lacrime dei venti e le rose sfatte sui moli dell’oblio.

    Cremate la musica, le note e i suoni all’ora sesta nel patio
    perché la guerra di Troia non è finita e chi ha perso lo ricordo
    bene quando sulle rive lasciaste astragali che sparlavano di vaticini
    e i vermi a squarciagola: a quando, quando l’immortalità alla Morte?

    Antonio Sagredo
    Maruggio-Brindisi, giugno 2016

  7. antonio sagredo

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/29/stefania-pavan-saggio-su-odissej-telemaku-odisseo-a-telemaco-di-iosif-brodskij-la-guerra-di-troia-e-terminata-chi-abbia-vinto-non-lo-ricordo/comment-page-1/#comment-18951
    L’intervento di Stefania Pavan è degno di nota come del resto ci si attende da studiosi seri e professionali… mi trovo d’accordo su tutto o quasi e come non potrei dato che comuni interessi culturali ci avvicinano, nella fattispecie gli studi slavistici. Certo che i miei giudizi su Brodskij sono molto critici ma questo non significa affatto che non lo riconosca come poeta tra i migliori della sua generazione…. e di questa generazione molti poeti sono degni di nota quanto il Brodskij e forse ancora di più dello stesso. Basta scorrere le pagine di uno studio oramai divenuto classico e fondamentale per comprendere la poesia russa dal dopo guerra (la seconda guerra mondiale, intendo) fino al disfacimento del comunismo (che resti fra di noi, continua sotto mentite spoglie), Insomma quello studio è un lavoro di un giovane e valente slavista, Marco Sabbatini, dal titolo: [ – “Quel che si metteva in rima” – CULTURA E POESIA UNDERGROUND A LENINGRADO”] – Collana di Europa Orientalis – Salerno 2008, a cura di M. Capaldo e A. D’Amelia. Il volume notevole per mole e precisione è di pagine 466 (comprese 80 di Bibliografia e 11 di Indice dei nomi). La Poesia russa dalla fine di quella guerra viene praticamente analizzata in tutti i suoi risvolti e ci fa vedere, come definisco una “poesia visibile” allo scoperto coi suoi compromessi non facile col potere (ultimo rappresentante è stato E. Evtusenko morto il 1° aprile 2017) e una “poesia invisibile” (ma non tanto poiché il potere teneva a bada con punizioni e interventi brutali) ,che è quella del “samizdat”… quella che lo stesso Sabbatini definisce “underground”. I rapporti tra i due aspetti della poesia furono sempre radicalmente conflittuali e i poeti di entrambe le posizioni non (si) lesinarono critiche aspre e pungenti.
    Bisogna davvero leggere questo volume e sarà chiaro anche al non esperto quali furono le problematiche che agitarono quei due aspetti della poesia russa. Il volume termina giustamente ( e io approvo pienamente) con queste parole:
    “Ormai abitanti di un universo decaduto, i poeti risalgono dalla penombra del sottosuolo e, abbagliati dalle luci del nuovo mondo, vagano orfani e storditi nel rumore assordante della parola libera. Lasciano a noi in eredità, i frutti della loro opera artistica: un grande corpus poetico, il cui valore attende il giudizio del tempo e dei lettori. Anche se sono ancora necessari studi che analizzano l’opera dei singoli autori, la spontaneità della loro esperienza conferma che l’anomalia era costituita dallo schema costretto e riduttivo in cui hanno operato gli scrittori ufficiali sovietici e non viceversa.”.
    I più famosi di questi scrittori ufficiali all’estero furono: Bella Akhmadulina, Andrej Voznesenskij e Robert Rozhdestvenskij, lo stesso Evtusenko, e altri – non numerosi, che beneficiarono di piccoli privilegi, come viaggiare all’estero, ecc.
    Quando Sabbatini scrive dei poeti della “poesia invisibile” ( e vale relativamente per quella visibile), che >> “vagano orfani e storditi nel rumore assordante della parola libera”, intende orfani del Potere, senza il quale – e non è un paradosso! – la poesia russa non sopravvive a se stessa: Potere della Poesia e Potere del Potere si sono così combattuti per secoli che è quasi impossibile distinguerli, se non ci fossero, a marcare i confini tra due mondi opposti/paralleli, le uccisioni e le torture dei Poeti. Che badate bene continuano sotto l’era putiniana, ma non se ne parla. Per ora a morire sono i giornalisti combattenti amanti delle “varie” verità… e la storia continua sembra su altri binari, ma il binario è sempre lo stesso, quello della oppressione sotto varie forme, raffinate ecc.
    Per ora, basta.

  8. Pingback: Iosif Brodskij (1940-1996), Lettera al generale Z. (1968), Brodskij e la Guerra, inedito, prima traduzione italiana a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova | L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

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