Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia

Giorgio Linguaglossa G. Palli Barone Letizia Leone Roberto Piperno 9 marzo 2017

Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone e Roberto Piperno

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia

A partire da Carte sanitarie, pubblicato nel 2008, Letizia Leone sa affrontare, indagando pagine ingiallite di testi di medicina, i temi ardui e dolorosi della malattia e della sofferenza fisica, coniugando scienza, pur imperfetta e superata da acquisizioni via via più moderne, e poesia.  Una poesia che è del corpo e dell’animo , che ella sa rintracciare nel ritmo dei versi di Avicenna o nella sapienza di Paracelso o nei trattati di anatomia fino a smuovere un tessuto apparentemente impoetico, percorrendolo e  facendolo suo.  La sua parola ardita e orfica, concreta e allusiva fa emergere ora le pulsazioni del “grande circo vascolare” ora le emozioni del cuore e di una musica segreta e antica (“La cura degli Dei”)  e ci accompagna al suo secondo libro La disgrazia elementare. Il titolo è quanto mai significativo dell’ombra che grava sulla vita e che –sostiene in postfazione Plinio Perilli – rende Letizia erede degli artisti postimpressionisti tedeschi (Benn Nold, Schiele, Heckel, Werfel, Celan), ma erede anche dell’arte di un Caravaggio, descritta magistralmente nelle volute barocche degli endecasillabi Largire nero ai fondi da La vocazione di San Matteo. L’arazzo dei suoi versi, che nell’intreccio metrico assai sapiente trova il compenso alla spinta centrifuga e dirompente del pensiero, si dirama  sia all’interno di un conflitto aspro tra la realtà dell’esistenza e la parola, pur fragile, che la attraversa –come scrive- “col solo seme nero d’alfabeto”. È questo “seme nero” che illumina le forze ancestrali e  oscure dell’universo, sfiora e fa emergere i chiaroscuri, penetra gli abissi e il buio, cerca unità nella frammentazione e dispersione delle cose,  trova una “goccia musicale”, una visione: “in alto intorno e dappertutto stelle”. Il contrasto che è alla base del suo versificare si evidenzia subito  nell’ossimoro che apre la raccolta Estasi della macellazione: poemetto o, al modo del Posto di vacanza  di Vittorio Sereni, poesia in otto parti ( e si noti il verso che , unico, pare racchiudere il significato profondo del tutto: “Solennemente dolore”). Ispirati al mito di Apollo e Marsia i versi traducono “dai fogli del mito”, dai “fogli del sogno” ( e si noti la cadenza iterativa e la variazione),  la nascita del canto umano in un’operazione violenta e feroce sì che quella che era “soprattutto pelle/ urlante, rantolante, vibrante / in forti spasmi e scosse” diviene “musica d’angeli inascoltabile”, ma anche “pelle/ pelle eucaristica/ stesa per un nuovo e fiammante corpo tamburo./Lenzuola rosa ad asciugare.” L’attenzione al corpo, qui sottolineata dal forte trycolon con rima interna e che rivela pieghe femminili (“bulbi di sangue, tulipani uterini; “tuorlo”), e le voci che rimandano al sacro (bastino “Tutto si squama/ sfarina in briciole giornaliere / con i chiodi arrugginiti della crocifissione” o “cuore eucaristico” detto del sole), sulla linea  di Pasolini, di Amelia Rosselli , ma anche di Sonia Gentili, entrano in un procedimento stilistico che, sia attraverso metafore accese e sorprendenti accostamenti (“i meravigliosi tagli”; “guaina impregnata di vita in convulsione … con dolcezza”; “le armoniche della lamentazione”; “scorie ardenti della metallurgia”) sia  attraverso tecnicismi e  immagini  molto dure, di metallo, di pietra, di elementi terrestri o di prodotti dell’ingegno (“brusio atomico”; “barri di uranite”; “massa di piombo piceo”; “contatore Geiger”; “sali d’uranio”; “sassi lisci”; “pietre storte”, “scorie ardenti della metallurgia”; “scorie”), affronta la storia del cosmo e dell’uomo come rivelazione di distruzione e sopraffazione, ma soprattutto come confronto tra la materia, la “massa delle cose”,  il “silicio frantumato” e le “vibrazioni” dell’anima e il rifugio della  poesia: “io me la godo come sabbia/ come deserto” in commozioni impalpabili, nell’esilio semplice / della poesia”.

Franano le cose; si sbriciola la catena; si spargono sul pianeta “semi di decomposizione”; i monumenti sono solo “sacchi amari e calce bianca dirompente”. Ma ecco le rare aperture di luce e di speranza; ecco versi, nell’Ora minerale, che coniugano musica “primordiale” e rinnovata “aurora” della poesia; ecco l’ intensa componente gnomica e etica del dire;   ecco i colori netti, i “rossi”, il “giallo” dell’Eufrate o la “perla nera bovina”; ecco infine la musica di una passione e di un’energia poetica che comunicano profonda emozione; l’emozione di chi si confronta con la verità e non la nega, ma la riscatta: “Mentre tutto continua a sgretolarsi/ c’è materia per una redenzione” (Notte). E, mutuando per Letizia Leone e variando l’epigrafe da Hölderlin a I riti dell’origine: “Ancora restano tante parole  d’oro nel suo affanno”.

Letizia Leone

Poesie da La disgrazia elementare  

Come se tutta l’ingiustizia bastasse seppellirla nei bidoni.
L’ora minerale è paesaggio inutile, non contemplabile, estinzione di ogni fragranza.
Intatta si, la luce. Ma neppure una maceria d’aroma.
I prati sopra alle miniere dell’uranio ad assaggiarli dovrebbero essere amari.
Erba senza colpa.
Erba che, come se niente fosse, affiora
dallo squartamento medievale di un reo legato a quattro cavalli motori. Oltre le urla più atroci non resta fiato.
Solo gelatina e il tappeto lunare della periferia.

Scrittura fredda ora.

***
Non tutto si può lavare con l’acqua,
le barriere d’arido accumulate in atti informi
per esempio,
o il grumo metallifero
dell’Energia di Satana

che tu hai cacciato all’aria
e gli hai fatto intravedere il tempo, immaginandone virtù,
fuoco d’artificio e riscaldamento

ma per lavare le bombe serve solvente
tossico e maschere di carnevale
stai maneggiando piramide, venere, fuoco

si, ma in caverne basse
a mille metri dal marciapiede
nelle buche rubate ai lombrichi.

Nascondi le tinture,
questo brodo incolore
nei barattoli stagni: lo sai che c’è materia passionale
pericolosa
dentro.

***

Uranio grezzo come un tubero
piombato alla calcolata profondità
del letargo. E così
la stessa rabbia incurabile
l’Antica
esaurita nei cori ionici
per secoli cupi di bestemmie
nel posto sacro della menta selvatica.

Prendere atto del veleno
sui piedi nudi delle bestie che brucano
e le orecchie, infiammate
dalle strida dei grifoni.

Il miscuglio delle discariche deborda
nelle vasche

là, dove le mucche andavano a bere.
***

Antonio Enrico Becquerel
spostando i sali d’uranio
di stanza in stanza si stupì di certi ghirigori
sulle lastre
che di solito fotografava il sole

certi scarabocchi stellari, strane primule
delle prime radiazioni, poi

il signor Curie con sua moglie, la signora Maria
da tonnellate di minerale
separarono un pizzico di alogenuro,
appena appena un soffio di Radio
radioattivo
forse in cucina.

Si salutarono tutti e tre al Nobel nel 1903:
i coniugi Curie e il signor Becquerel.

***

La fossa tossica
e ai margini un orto
per insalate di malve e asfodelo

l’antico rito
– che porta sogno in un fatto infelice –
del pasto pitagorico.

Giorgio Linguaglossa Letizia Leone gabriella Palli Barone 9 marzo 2017

Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone

Una volta era Dio il creatore dei mondi, e senza dubbio
c’è qualcosa che è più antico del sangue,
ma da qualche tempo sono i cervelli a spingere avanti la terra,
e lo sviluppo del mondo fa la sua strada grazie ai concetti umani,
e al momento è questa evidentemente, la sua strada principale e preferita.
(G. Benn)

Poeta patologo.
Corpi aperti sui tavoli
sterili
anemoni di carne degli obitori
e un cervello sgusciato
la sua forma ancestrale e dedalica
emersa dal sangue
nella tua mano
sotto la volta svuotata come cranio
del sotterraneo
brivido.

Così attecchisce
dentro questa stanza di guerra
l’infinito dei mondi
le sue formazioni
col dorso che affiora dei sogni ionici
quale resurrezione;
o collasso
di chi vuole capire
il senso avido dei presagi
stirando le geometrie sterminate
di pieghe e circonvoluzioni
di un encefalo essiccato.

Allora vedi:
se da un lato il dio sole stria e dardeggia
gli smeraldi sulle coppe regali;
dall’altro
si schiudono di notte occhi bianchi
al diffuso lumine lunare;

se da un lato
spezie odorose azzurrano i cortili
mediterranei;
dall’altro organi grigi galleggiano
nei vasi refrigerati
in magazzini che non hanno luce.

Rientri da solo
attraversi la via ghiacciata
tra i detriti di cocci e di croci
mentre la primavera berlinese scongela
con i cadaveri la neve.

E tu ne rivivi
tutta la malattia di statua
la notte
di ogni morte.

****

Lingua Bovina

Di creature divorate nell’inverno
il disegno l’anatomia
la sagoma di sdegno
di ogni grande animale
Alce di fumo o Ariete
la sua marmorea pelle e rosa lingua
mozzata che posa
sviscerata dal vasto muggito
gonfia del pascolo
come massa di sale
sulla pagina di marmo.

Come si leviga nella sua pelle
ogni arto amputato
il fremito si mura alla narice
questa perla nera bovina –
nell’assaggio di creazione.
Perché una smania esausta dimora
intatta nell’umido delle gramigne
ben salda sotto il portacarte fesso
che è zoccolo quadrupede
alito fiuto calamita e
uncina curve di paesaggi d’erba crollati.

Cose della terra a raccapriccio
allora
nei depositi di carestia
il trauma del freddo ne fodera
alle pareti una figura:
bue preistorico
idea epica di bisonte
che non ha più luogo
asportato a questa luce moderna
(quale insorgenza, quale lusinga!)
della caverna.

***

Notte

Notte in crescita dell’aroma conifero
e di diamanti, certi insetti elettrici
i lampiridi. Specie estinta.
In un istante presente
superiore nocte
col suo nome pieno
com’era d’ossigeno
prima del salasso d’aria.

Forza tellurica
quasi resuscitata notte
tra mani foderate di lattice
che sono a dissodare queste piaghe
di ruggine e terra.

Mentre tutto continua a sgretolarsi
c’è materia per una redenzione:
di notte-madre
che bussa dalla sua catalessi
il fiele giallo della morte
pressato bene al fondo
e misteriosa albeggia
riseminando pipistrelli nei pozzi
di spettri il peso del mondo.

Nox noctis diafana
l’antichissima
al boomerang di una campana
orologio dei succubi
ricettacolo di ceri, roghi
che sciamano ombre quando l’errante
chierico vagante
sorpreso per via
-ricordi?-
si rannicchia nella sua invocazione
di luce.

Ma lui, se chiedesse un’altra volta
il brivido
quel ventre di foglie e buio
con sopra il cratere degli astri?

Da questi luoghi privi di senno
emergono cose, ceppi d’anime
scampati alla fusione
perché la merce dello spirito
è refrattaria
e getta in confusione
chi mai potrà conoscerla
la notte.

Un pensiero ti è caduto
dall’occhio
in questa notte a pendolo
di lampadina nuda.

Antonio Sagredo Letizia Leone sorridono 2

Letizia Leone con Antonio Sagredo con la cravatta di A.M. Ripellino

Biblioteca d’argilla d’Assurbanipal

Dentro la terra
in punta di pensiero vertebrato
– peso penetrato –
aderente all’epidermide delle radici
aorte dell’acqua e della luce
nella battitura di cecità:
ma è solo istinto di forma
quel loro rizoma
che carica i fili nervosi verso
l’abisso.

Al punto del nulla più si muove
segni
imbottiti di sepoltura
serrano intatto un nutrimento
d’amido
un umore
nell’amalgama di barite e cenere.
E’ una traversata cieca dello spirito
col solo seme nero d’alfabeto
per arrivare così
senza nessun coagulo di sangue
la bocca sigillata di chi ha dormito la morte
piena ancora di sonno in velluto
dell’azzurro abbagliato
segreto secreto
sulle crete.

***

Da “LARGIRE NERO AI FONDI”
(Caravaggio, Vocazione di San Matteo. 1599-1600 Roma, San Luigi dei Francesi)

Il quadro tela del contemporaneo
tempo come oro avaro mercenario
trattato a chiara d’uovo è pavimento
resistente vernice ai vuoti d’aria

di rapina.

***

Il montatore di scheletri
(L’azione)

Dall’arteria aperta di luce erosa
raggio morto del dio mitraico avanza
il corpo ombra del cielo minore
– a pugno – solida massa di Cristo.

Fin dove arriva il cerchio cerebrale
leggerezza e peso dati – nel cono –
dalla caduta dei gravi lacrima
il più vivo planetario il suo sudore

quell’oro di sangue sulla spina
che scioglie in colature illuvie scure
articolazioni della materia
dure matematiche dei cristalli.

Nella stanza caravaggesca il tratto
stringe ogni gioioso stato d’animo
del montatore di scheletri e i ciechi
labirinti armati per i Pinocchi.

***

Che muro d’ossa ti usura, chiude a terra?

Iaculo, dardo, bisecante accetta
su frutti caduchi e Io sono la luce
decapitata, fetta, nell’incerto
crepuscolo dei sensi e dell’assenza

quel puro paragone oltre l’umano
i nudi piedi a che pianure aeree
della mente assiderata, affondo
lieve di palma scorticata gonfia

papilla. Ma che lucidità…festa
del tatto. O fredde paglie alpine o fresco
vegetale a irritare il plantare.
Sei fiaccato apostolo magro sciacallo

di un te stesso morto paralisi
dell’allegranza di carezze, passo
fermo all’analisi del mondo e tutto
evapora: àncore !
piedi !
àncore !

Gabriella Palli Baroni risiede a Roma. Scrittrice e critica, si è dedicata in particolare a studi sulla letteratura del Novecento e sulla poesia contemporanea. Collaboratrice di numerose riviste, da “Nuovi Argomenti” a “Poesia”, da “Il Ponte” a “Il Caffè illustrato”, da “Moderna” a “Strumenti Critici” a “Poeti e poesia”, ha curato di Attilio Bertolucci il carteggio con Vittorio Sereni Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982 (Garzanti 1994) e, con Paolo Lagazzi, il Meridiano Opere (Mondadori 1997); Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose e divagazioni (Mondadori 2000); l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 2000); la riedizione di Fuochi in Novembre (San Marco dei Giustiniani 2004); Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema (Moretti & Vitali 2009); Lezioni d’arte (Rizzoli 2011) e, con Paolo Lagazzi, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (Diabasis 2014). Curatrice con altri autori del Meridiano L’opera poetica di Amelia Rosselli (Mondadori 2012), ha pubblicato inoltre Tavolozza di Emilio Praga (Edizioni Nuova SI 2008), e il carteggio Giuseppe Ungaretti –Vittorio Sereni, Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969 (Archinto 2013). Suoi versi si leggono in poeti e paesaggi (2008) e poeti domani (2010) (XIV e XV Biennale Internazionale di Poesia di Alessandria).

15 commenti

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15 risposte a “Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia

  1. donfrancesca23

    complimenti!

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  2. OSSERVAZIONI VARIE DI NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

    Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia


    Ci troviamo di fronte ad un percorso poetico culturalmente sanificato da molteplici letture, che si ossigenano in una atmosfera dalle diverse altezze. Queste poesie non si addicono a chi coabita con testi proto-medieveali o cerca le emozioni tra sonetti e endecasillabi. Ciò che Letizia Leone propone è il contatto immediato con un lettore dinamizzato da più esperienze estetiche. Allora sì che l’interazione è possibile, senza alcun trauma o rigetto, perché gli scatti psicodinamici, riportati in superficie, sono voci di un capitolo che richiama la continuità dell’Essere, dentro e fuori la frammentazione della realtà.

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  3. QUELLA QUESTIONE DI FONDO CHE SI CHIAMA ONTOLOGIA ESTETICA

    Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia


    Certo è che l’aria attorno era frustata dalla sua parola poetica: e poi anche nella lettura a mezza voce, casalinga, la sferza – ancora – fa tremar l’aria.
    La ricchezza di questa poesia – per me, che in questo suo percorso scorgo la possibilità della parola di liberarsi e germogliare – è la capacità di farsi (coriacissimo seme) fioritura in terreno aspro.
    La ricerca intorno alla parola è sempre così estremamente attenta, c’è una cura per quel nucleo sacro (non scalfibile certo, ma opacizzato dal cattivo uso di decenni, non solo in ambito poetico): ecco, Letizia Leone riluce l’oscurità del suono, converge e allaccia piani altrimenti non visibili nella loro interezza.
    Una prova importante, che i percorsi poetici possono agire ed essere agiti verso spazi concreti, senza esibizioni di forza, ma con forza, questo sì.

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  4. IL MITO DELLA DEBOLEZZA CHE VUOLE CONVERTIRSI IN FORZA

    Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia


    Certo rimane aperta la questione di fondo:
    al di là delle prospettive cosa c’è?
    Rispondo nella forma che ha suscitato le maggiori critiche,
    ma alla quale sono più legato: questo è il vero mistero.
    Mistero che si rivela a noi come tale, come mistero,
    e cioè come la determinazione finita del nostro pensare

    Vincenzo Vitiello

    Il libro di Letizia Leone si apre con una poesia sulla contesa tra Marsia e Apollo.
    Secondo i miti greci e romani Marsia era un satiro, specie di genio delle acque, dei monti e delle selve. Atena si era costruita un flauto e lo aveva gettato via perché derisa da Era ed Afrodite per l’aspetto deformato del suo viso mentre lo suonava. Marsia lo raccolse e divenne un bravissimo suonatore, famoso tra i seguaci della dea Cibele e tra la gente dei campi, tanto che correva voce che nemmeno Apollo sapesse fare della musica altrettanto bella.
    Apollo non accettava che il suo primato come dio della musica fosse in dubbio e sfidò Marsia ad un confronto: Marsia avrebbe suonato il flauto, Apollo la lira, mentre le Muse avrebbero scelto il vincitore. Le Muse decretarono un pareggio tra i due sfidanti. Apollo non soddisfatto pretese che gli sfidanti dovessero cantare e suonare allo stesso tempo cosa ovviamente impossibile con il flauto. Il dio vinse così la sfida e punì Marsia per la sua superbia facendolo scorticare da uno schiavo della Scizia.
    Secondo un’altra versione della leggenda il dio Apollo pur di garantirsi la vittoria capovolse la sua lira e pretese che altrettanto facesse Marsia col suo flauto! Apollo trionfa grazie ad un vile trucco. Apollo non poteva permettersi di perdere e punì severamente Marsia per la sua superbia. Il mito ci richiama alla debolezza del nostro pensare e della intima «debolezza» di ogni creazione umana; la poesia ci narra della inutilità di voler convertire una situazione ontologica di «debolezza» (il flauto di Marsia) in un atto di onnipotenza: voler sfidare nientemeno che il dio Apollo in persona. Il mito ci dice della inconvertibilità della «debolezza» in «onnipotenza», chi disobbedisce a questo principio sarà condannato alla più orribile delle morti. Scrive Letizia Leone:

    Scrittura fredda ora,
    la mia.

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  5. gino rago

    Considero soltanto le ultime quattro voci di poesia apparse su L’Ombra delle Parole in efficace successione:
    Vincenzo Mascolo, Pier Paolo Pasolini, Donatella Bisutti e Letizia Leone.

    Differenti, sotto tantissimi aspetti, i versi che ci hanno fatto leggere. Ma uniti
    da un filo rosso, benché com’è noto l’esperienze poetica di Pasolini si sia dispiegata tra il ’42 e il ’75 del Novecento: l’aspirazione, o il bisogno,
    di una campo più vasto di espressione e di nuove forme d’arte per i temi
    centrali della loro poesia, motivi e temi anche extra puramente letterari.

    Per un Pasolini, ben ricordato da Franco Di Carlo, che in un certo punto
    della sua ricerca poetica afferma “Le azioni della vita saranno solo comunicate/ e saranno esse la poesia”, per dare spazio alla lingua
    dell’azione adottando altri linguaggi (l’arte cinematografica), oggi troviamo
    una Letizia Leone che rovista la chimica nucleare, l’industria metallurgica,
    e altro, e coraggiosamente immette nei suoi versi “scorie ardenti della
    metallurgia”, “brusio atomico”…
    Fino a qualche giorno fa non sapevo come collocare o spiegare
    questa irruzione in poesia di espressioni così ardìte. Pasolini
    avvertì la necessità di dare ascolto e ospitalità a quella che chiamò
    “La lingua scritta della realtà”.E Letizia Leone? Letizia ha percorso, adottandolo nell’atto reale di scrivere i suoi versi, quello che
    ( per me è la più originale idea partorita negli ultimi dieci anni di critica letteraria), Giorgio Linguaglossa ha proposto come
    “spazio espressivo integrale”. Al di fuori di esso o senza tale spazio
    non si capirebbe la forza estetica e la bellezza assoluta ( ecco la N.O.E.)
    di un verso di Letizia Leone, un verso così compiuto che di per sé e così com’è, è dichiarazione di poetica, Weltanshauung, stato d’animo:
    “I prati sopra alle miniere dell’uranio ad assaggiarli dovrebbero essere
    amari…”
    Gino Rago

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  6. letizia leone

    Nel ringraziare gli amici per le loro letture e analisi mi piacerebbe chiarire alcune delle intenzioni sottese a questo libro del 2011 che come ben detto da Giorgio Linguaglossa durante il nostro incontro, rappresenta un punto fermo nel mio percorso di ricerca. L’occasione di queste “poesie della terra” fu l’Actus tragicus del disastro atomico di Fukushima e il dover rintracciare il senso della parola poetica nell’impasto caotico e irregolare degli elementi (pitagorici) in disgrazia, violati da una invisibile contaminazione radioattiva…una sezione del libro infatti annovera i reperti (naturali/stilistici) stilati in liste da un proto-novecentesco classificatore, una sorta di “archeologia fredda degli oggetti” naturali (ad es. La notte o La lingua bovina, animale e poetica, ecc.) Ma i cardini del mio stile sono già tutti dentro questo libro: la scrittura fredda, oggettiva, lo sguardo fenomenologico, la traslazione dell’asse da una concezione antropocentrica ad una cosmocentrica e le relative conseguenze poetologiche, inoltre la responsabilità civile della parola, il calarsi nella polpa della materia tra attrazione e repulsione, la caratura espressionista e pittorica del dettato e l’arduo confronto/sfida con l’endecasillabo del poemetto sul Caravaggio “Largire nero ai fondi” dove il metro viene strapazzato e frantumato dall’interno, in una dizione che ne smussi il lirismo e ne accentui spezzature e urti…naturalmente queste alcune delle intenzioni personali. Del resto ringrazio per le loro acute analisi critiche sia Gabriella Palli baroni che Giorgio Linguaglossa. Mario Gabriele ha colto profondamente il tentativo di approccio olistico che parte dal realismo dantesco e culmina nel modernismo europeo ed espressionismo tedesco mentre Chiara Catapano si sofferma con acutezza sulle frequenze vibratorie, sulla sonorità, l’effetto della parola detta, pronunciata alla quale da musicista fallita ho sempre dedicato enorme attenzione…

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  7. letizia leone

    Mi ricollego adesso al pertinente richiamo di Gino Rago, allo “spazio espressivo integrale” e al suo riferimento agli ambiti della chimica e della metallurgia e lo ringrazio per la citazione del verso di un testo tratto dal paesaggio contemporaneo:“I prati sopra alle miniere dell’uranio ad assaggiarli dovrebbero essere amari…” Qui l’approccio, il metodo poetico è alchimistico, gli alchimisti nel loro laboratori tra storte ed alambicchi, ragionavano e sperimentavano e miscelavano ( non prodotti, elementi o cose) ma materie vive che palpavano nella loro consistenza, annusavano ed assaggiavano, come le erbe e le cortecce. Da qui l’idea di portarsi un prato alla bocca, di assaggiarlo…

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  8. gino rago

    Nel mio commento ho dimenticato, e me ne scuso, di elogiare l’eccellente
    nota critica di Gabriella Palli Baroni, che accompagna i versi di Letizia
    Leone, facendone parte ineludibile.
    Già sintetizzata “dal mito alla poesia” la sua nota dice tanto.
    Grazie a te, Letizia, per quest’altra prova di cittadinanza attiva nella
    città della poesia.(Non dimenticare, Letizia, che sono laureato in Chimica Industriale, alla Sapienza, e che dopo Lavoisier l’alchimia…)
    Gino Rago

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  9. antonio sagredo

    ieri sera l’ottimo Donato di Stasi all’Aleph in Trastevere ha detto che nessun poeta scrive più la parola FELICITA’ nei suoi versi: io lo contraddico benevolmente e associo questi versi miei leonini agli incisivi versi “benniani” di L. Leone (chissà cosa e come avrebbe scritto il poeta tedesco su Mengele)
    ———————————————————————–
    Hic sunt leones

    Felicità – tavoletta d’argilla,
    creta che canta dal fondo degli argini,
    un qualcosa mi dovevi portare,
    come un cieco tu hai abdicato.

    E mi portavo dietro la vita come una cerniera,
    come una soglia che non sapevo oltrepassare.
    Non avevo la gola pronta al canto del gallo,
    non sapevo come uscire dal rimorso, e dalla notte.

    Mi hai stupito come un aurora recidiva
    che a Leuco oppone un ritegno implume,
    perché il volo di una scrittura sia più d’un calco
    sulla tradita pietra che la storia non sa amare.

    E pure mi dovevi un esangue frangere di suoni
    che ai gridi e ai pensieri incisi con la selce,
    e agli sguardi, e a un futuro ignoto e disatteso
    un aiuto dagli occhi e dalle mani un grecoro – reclamava!

    antonio sagredo

    Roma, 3 febbraio 2011
    (primi alborei)

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    • letizia leone

      Grazie Antonio per questa virtuosa e rara corrispondenza poetica, a conferma del fatto che forse “il volo della scrittura” per superare le interferenze mediatiche o il muro del rumore e della chiacchiera, dovrebbe ritrovare l’incisività e certe qualità materiche della scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla. D’altra parte tu ci dimostri come “la lirica dev’essere esorbitante o non essere affatto”, tanto per riconvocare Benn tra di noi, il quale era convinto addirittura che questo facesse parte della sua essenza.

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  10. antonio sagredo

    più volte e spesso in privato, personalmente intendo, ho espresso ammirazione per i versi di Letizia Leone e non certo per partigianeria… quando un poeta non m’aggrada anche se mia vecchia conoscenza non ho peli affatto sulle mie lingue! – lingue? – Si, essendo un po’ poliglotta ne ho parecchie di lingue da scagliare contro – p.e. – quando sbandierano i loro versi scipiti come stendardi trionfanti al vento, che per me sono puramente abominevoli…
    prediligo – ma ho l’imbarazzo della scelta – la sua raccolta “Estasi della macellazione”, che già di per se il titolo è cosa da ricordare perché ci sbatte dentro all’improvviso i volti dei grandi poeti solidamente coriacei (alcuni sono citati nella presentazione)… i versi della Leone si impongono per la sicurezza delle citazioni che in progressione vengono digerite, macellate ed espulse rinnovate o se volete sputate sulla tela del pittore suo amato di turno rigenerando il quadro senza stravolgerlo ma assicurandogli nuovi sentieri di lettura.
    adieu a. s.

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  11. ALCUNE QUESTIONI ONTOLOGICHE DEL FARE POESIA OGGI

    Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia


    La poesia di Letizia Leone conferma che la poesia italiana è ben viva, si è risvegliata dal lunghissimo sonno durato dalla fine degli anni Settanta fino alla soglia della prima decade del nuovo secolo.
    Una Nuova poesia, cari Claudio Borghi e Salvatore Martino, a prescindere se essa sia “ontologica” o meno, si costruisce soltanto se essa poggia su una PIATTAFORMA STILISTICA ampia e consolidata. Il poeta singolo che fonda da solo e senza alcun aiuto una piattaforma stilistica è destinato al fallimento, a meno che non si chiami Giacomo Leopardi. Da soli non si va da nessuna parte, in specie se si fa poesia in un paese come l’Italia che negli ultimi 40 anni ha visto il deserto di nuove proposte di poetica e di poesia. Lo ripeto, in giro in questi ultimi 40 anni ci sono state delle proposte, anche abilmente manifatturate, ma di corto respiro perché auto pubblicitarie, rivolte tautologicamente a se stessi.

    È ovvio che una nuova piattaforma stilistica non può sorgere dal deserto ma poggia necessariamente su una linea di ascendenze, non è un caso che ci siamo soffermati su un testo come Trasumanar e organizzar (1971), emblematico e tipico, testo nel quale si leggono come in vitro e al microscopio tutte le contraddizioni storiche e stilistiche del fare poesia nel Moderno. Vorrei dire al caro Claudio Borghi che quelle contraddizioni sono ancora vive e vegete, non sono state ancora risolte perché non sono più state pensate e messe sotto osservazione dai poeti venuti dopo Pasolini. Le generazioni che sono venute dopo Pasolini si sono ben guardate dall’esaminare i problemi che c’erano, stilistici e non… e forse non avevano neanche la preparazione culturale e le doti filosofiche per mettere a fuoco certi problemi.

    Adesso ci sono in campo alcuni poeti che si accingono a scrivere una nuova pagina della poesia italiana e a ripensare quelle contraddizioni stilistiche e non che ancora stanno alla base del fare poesia oggi. Mi sembra una buona notizia, no?

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  12. Giuseppe Talìa

    Dopo aver letto il commento di Letizia Leone riguardo alla genesi delle poesie qui presentate, il disastro atomico di Fukushima, mi pare che le sue liriche acquistino, anzi aggiungono significato a significato. In effetti si tratta di strati di significati che si sovrappongono, ed è un tratto distintivo della poetica di Leone: una memoria storica mitizzata che diventa collettiva, memoria culturale. I testi sono ricchissimi, sono dei veri e propri archivi di sensazioni, di immagini, di nozioni e di rimandi che costruiscono e ricostruiscono il corso della nostra esistenza. Leone usa l’ossimoro quando all’”archeologia fredda”, allo scavo, contrappone l’epigenetica: le “parole” stesse mutano e si rigenerano, cambiano pelle, significato e significante diventano fenotipi, si sequenziano in mappe variabili tramite la ricombinazione genetica della “langue”.

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  13. Giuseppe Talìa

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