
Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone e Roberto Piperno
Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012).
Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia
A partire da Carte sanitarie, pubblicato nel 2008, Letizia Leone sa affrontare, indagando pagine ingiallite di testi di medicina, i temi ardui e dolorosi della malattia e della sofferenza fisica, coniugando scienza, pur imperfetta e superata da acquisizioni via via più moderne, e poesia. Una poesia che è del corpo e dell’animo , che ella sa rintracciare nel ritmo dei versi di Avicenna o nella sapienza di Paracelso o nei trattati di anatomia fino a smuovere un tessuto apparentemente impoetico, percorrendolo e facendolo suo. La sua parola ardita e orfica, concreta e allusiva fa emergere ora le pulsazioni del “grande circo vascolare” ora le emozioni del cuore e di una musica segreta e antica (“La cura degli Dei”) e ci accompagna al suo secondo libro La disgrazia elementare. Il titolo è quanto mai significativo dell’ombra che grava sulla vita e che –sostiene in postfazione Plinio Perilli – rende Letizia erede degli artisti postimpressionisti tedeschi (Benn Nold, Schiele, Heckel, Werfel, Celan), ma erede anche dell’arte di un Caravaggio, descritta magistralmente nelle volute barocche degli endecasillabi Largire nero ai fondi da La vocazione di San Matteo. L’arazzo dei suoi versi, che nell’intreccio metrico assai sapiente trova il compenso alla spinta centrifuga e dirompente del pensiero, si dirama sia all’interno di un conflitto aspro tra la realtà dell’esistenza e la parola, pur fragile, che la attraversa –come scrive- “col solo seme nero d’alfabeto”. È questo “seme nero” che illumina le forze ancestrali e oscure dell’universo, sfiora e fa emergere i chiaroscuri, penetra gli abissi e il buio, cerca unità nella frammentazione e dispersione delle cose, trova una “goccia musicale”, una visione: “in alto intorno e dappertutto stelle”. Il contrasto che è alla base del suo versificare si evidenzia subito nell’ossimoro che apre la raccolta Estasi della macellazione: poemetto o, al modo del Posto di vacanza di Vittorio Sereni, poesia in otto parti ( e si noti il verso che , unico, pare racchiudere il significato profondo del tutto: “Solennemente dolore”). Ispirati al mito di Apollo e Marsia i versi traducono “dai fogli del mito”, dai “fogli del sogno” ( e si noti la cadenza iterativa e la variazione), la nascita del canto umano in un’operazione violenta e feroce sì che quella che era “soprattutto pelle/ urlante, rantolante, vibrante / in forti spasmi e scosse” diviene “musica d’angeli inascoltabile”, ma anche “pelle/ pelle eucaristica/ stesa per un nuovo e fiammante corpo tamburo./Lenzuola rosa ad asciugare.” L’attenzione al corpo, qui sottolineata dal forte trycolon con rima interna e che rivela pieghe femminili (“bulbi di sangue, tulipani uterini; “tuorlo”), e le voci che rimandano al sacro (bastino “Tutto si squama/ sfarina in briciole giornaliere / con i chiodi arrugginiti della crocifissione” o “cuore eucaristico” detto del sole), sulla linea di Pasolini, di Amelia Rosselli , ma anche di Sonia Gentili, entrano in un procedimento stilistico che, sia attraverso metafore accese e sorprendenti accostamenti (“i meravigliosi tagli”; “guaina impregnata di vita in convulsione … con dolcezza”; “le armoniche della lamentazione”; “scorie ardenti della metallurgia”) sia attraverso tecnicismi e immagini molto dure, di metallo, di pietra, di elementi terrestri o di prodotti dell’ingegno (“brusio atomico”; “barri di uranite”; “massa di piombo piceo”; “contatore Geiger”; “sali d’uranio”; “sassi lisci”; “pietre storte”, “scorie ardenti della metallurgia”; “scorie”), affronta la storia del cosmo e dell’uomo come rivelazione di distruzione e sopraffazione, ma soprattutto come confronto tra la materia, la “massa delle cose”, il “silicio frantumato” e le “vibrazioni” dell’anima e il rifugio della poesia: “io me la godo come sabbia/ come deserto” in commozioni impalpabili, nell’esilio semplice / della poesia”.
Franano le cose; si sbriciola la catena; si spargono sul pianeta “semi di decomposizione”; i monumenti sono solo “sacchi amari e calce bianca dirompente”. Ma ecco le rare aperture di luce e di speranza; ecco versi, nell’Ora minerale, che coniugano musica “primordiale” e rinnovata “aurora” della poesia; ecco l’ intensa componente gnomica e etica del dire; ecco i colori netti, i “rossi”, il “giallo” dell’Eufrate o la “perla nera bovina”; ecco infine la musica di una passione e di un’energia poetica che comunicano profonda emozione; l’emozione di chi si confronta con la verità e non la nega, ma la riscatta: “Mentre tutto continua a sgretolarsi/ c’è materia per una redenzione” (Notte). E, mutuando per Letizia Leone e variando l’epigrafe da Hölderlin a I riti dell’origine: “Ancora restano tante parole d’oro nel suo affanno”.
Letizia Leone
Poesie da La disgrazia elementare
Come se tutta l’ingiustizia bastasse seppellirla nei bidoni.
L’ora minerale è paesaggio inutile, non contemplabile, estinzione di ogni fragranza.
Intatta si, la luce. Ma neppure una maceria d’aroma.
I prati sopra alle miniere dell’uranio ad assaggiarli dovrebbero essere amari.
Erba senza colpa.
Erba che, come se niente fosse, affiora
dallo squartamento medievale di un reo legato a quattro cavalli motori. Oltre le urla più atroci non resta fiato.
Solo gelatina e il tappeto lunare della periferia.
Scrittura fredda ora.
***
Non tutto si può lavare con l’acqua,
le barriere d’arido accumulate in atti informi
per esempio,
o il grumo metallifero
dell’Energia di Satana
che tu hai cacciato all’aria
e gli hai fatto intravedere il tempo, immaginandone virtù,
fuoco d’artificio e riscaldamento
ma per lavare le bombe serve solvente
tossico e maschere di carnevale
stai maneggiando piramide, venere, fuoco
si, ma in caverne basse
a mille metri dal marciapiede
nelle buche rubate ai lombrichi.
Nascondi le tinture,
questo brodo incolore
nei barattoli stagni: lo sai che c’è materia passionale
pericolosa
dentro.
***
Uranio grezzo come un tubero
piombato alla calcolata profondità
del letargo. E così
la stessa rabbia incurabile
l’Antica
esaurita nei cori ionici
per secoli cupi di bestemmie
nel posto sacro della menta selvatica.
Prendere atto del veleno
sui piedi nudi delle bestie che brucano
e le orecchie, infiammate
dalle strida dei grifoni.
Il miscuglio delle discariche deborda
nelle vasche
là, dove le mucche andavano a bere.
***
Antonio Enrico Becquerel
spostando i sali d’uranio
di stanza in stanza si stupì di certi ghirigori
sulle lastre
che di solito fotografava il sole
certi scarabocchi stellari, strane primule
delle prime radiazioni, poi
il signor Curie con sua moglie, la signora Maria
da tonnellate di minerale
separarono un pizzico di alogenuro,
appena appena un soffio di Radio
radioattivo
forse in cucina.
Si salutarono tutti e tre al Nobel nel 1903:
i coniugi Curie e il signor Becquerel.
***
La fossa tossica
e ai margini un orto
per insalate di malve e asfodelo
l’antico rito
– che porta sogno in un fatto infelice –
del pasto pitagorico.
Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone
Una volta era Dio il creatore dei mondi, e senza dubbio
c’è qualcosa che è più antico del sangue,
ma da qualche tempo sono i cervelli a spingere avanti la terra,
e lo sviluppo del mondo fa la sua strada grazie ai concetti umani,
e al momento è questa evidentemente, la sua strada principale e preferita.
(G. Benn)
Poeta patologo.
Corpi aperti sui tavoli
sterili
anemoni di carne degli obitori
e un cervello sgusciato
la sua forma ancestrale e dedalica
emersa dal sangue
nella tua mano
sotto la volta svuotata come cranio
del sotterraneo
brivido.
Così attecchisce
dentro questa stanza di guerra
l’infinito dei mondi
le sue formazioni
col dorso che affiora dei sogni ionici
quale resurrezione;
o collasso
di chi vuole capire
il senso avido dei presagi
stirando le geometrie sterminate
di pieghe e circonvoluzioni
di un encefalo essiccato.
Allora vedi:
se da un lato il dio sole stria e dardeggia
gli smeraldi sulle coppe regali;
dall’altro
si schiudono di notte occhi bianchi
al diffuso lumine lunare;
se da un lato
spezie odorose azzurrano i cortili
mediterranei;
dall’altro organi grigi galleggiano
nei vasi refrigerati
in magazzini che non hanno luce.
Rientri da solo
attraversi la via ghiacciata
tra i detriti di cocci e di croci
mentre la primavera berlinese scongela
con i cadaveri la neve.
E tu ne rivivi
tutta la malattia di statua
la notte
di ogni morte.
****
Lingua Bovina
Di creature divorate nell’inverno
il disegno l’anatomia
la sagoma di sdegno
di ogni grande animale
Alce di fumo o Ariete
la sua marmorea pelle e rosa lingua
mozzata che posa
sviscerata dal vasto muggito
gonfia del pascolo
come massa di sale
sulla pagina di marmo.
Come si leviga nella sua pelle
ogni arto amputato
il fremito si mura alla narice
questa perla nera bovina –
nell’assaggio di creazione.
Perché una smania esausta dimora
intatta nell’umido delle gramigne
ben salda sotto il portacarte fesso
che è zoccolo quadrupede
alito fiuto calamita e
uncina curve di paesaggi d’erba crollati.
Cose della terra a raccapriccio
allora
nei depositi di carestia
il trauma del freddo ne fodera
alle pareti una figura:
bue preistorico
idea epica di bisonte
che non ha più luogo
asportato a questa luce moderna
(quale insorgenza, quale lusinga!)
della caverna.
***
Notte
Notte in crescita dell’aroma conifero
e di diamanti, certi insetti elettrici
i lampiridi. Specie estinta.
In un istante presente
superiore nocte
col suo nome pieno
com’era d’ossigeno
prima del salasso d’aria.
Forza tellurica
quasi resuscitata notte
tra mani foderate di lattice
che sono a dissodare queste piaghe
di ruggine e terra.
Mentre tutto continua a sgretolarsi
c’è materia per una redenzione:
di notte-madre
che bussa dalla sua catalessi
il fiele giallo della morte
pressato bene al fondo
e misteriosa albeggia
riseminando pipistrelli nei pozzi
di spettri il peso del mondo.
Nox noctis diafana
l’antichissima
al boomerang di una campana
orologio dei succubi
ricettacolo di ceri, roghi
che sciamano ombre quando l’errante
chierico vagante
sorpreso per via
-ricordi?-
si rannicchia nella sua invocazione
di luce.
Ma lui, se chiedesse un’altra volta
il brivido
quel ventre di foglie e buio
con sopra il cratere degli astri?
Da questi luoghi privi di senno
emergono cose, ceppi d’anime
scampati alla fusione
perché la merce dello spirito
è refrattaria
e getta in confusione
chi mai potrà conoscerla
la notte.
Un pensiero ti è caduto
dall’occhio
in questa notte a pendolo
di lampadina nuda.

Letizia Leone con Antonio Sagredo con la cravatta di A.M. Ripellino
Biblioteca d’argilla d’Assurbanipal
Dentro la terra
in punta di pensiero vertebrato
– peso penetrato –
aderente all’epidermide delle radici
aorte dell’acqua e della luce
nella battitura di cecità:
ma è solo istinto di forma
quel loro rizoma
che carica i fili nervosi verso
l’abisso.
Al punto del nulla più si muove
segni
imbottiti di sepoltura
serrano intatto un nutrimento
d’amido
un umore
nell’amalgama di barite e cenere.
E’ una traversata cieca dello spirito
col solo seme nero d’alfabeto
per arrivare così
senza nessun coagulo di sangue
la bocca sigillata di chi ha dormito la morte
piena ancora di sonno in velluto
dell’azzurro abbagliato
segreto secreto
sulle crete.
***
Da “LARGIRE NERO AI FONDI”
(Caravaggio, Vocazione di San Matteo. 1599-1600 Roma, San Luigi dei Francesi)
Il quadro tela del contemporaneo
tempo come oro avaro mercenario
trattato a chiara d’uovo è pavimento
resistente vernice ai vuoti d’aria
di rapina.
***
Il montatore di scheletri
(L’azione)
Dall’arteria aperta di luce erosa
raggio morto del dio mitraico avanza
il corpo ombra del cielo minore
– a pugno – solida massa di Cristo.
Fin dove arriva il cerchio cerebrale
leggerezza e peso dati – nel cono –
dalla caduta dei gravi lacrima
il più vivo planetario il suo sudore
quell’oro di sangue sulla spina
che scioglie in colature illuvie scure
articolazioni della materia
dure matematiche dei cristalli.
Nella stanza caravaggesca il tratto
stringe ogni gioioso stato d’animo
del montatore di scheletri e i ciechi
labirinti armati per i Pinocchi.
***
Che muro d’ossa ti usura, chiude a terra?
Iaculo, dardo, bisecante accetta
su frutti caduchi e Io sono la luce
decapitata, fetta, nell’incerto
crepuscolo dei sensi e dell’assenza
quel puro paragone oltre l’umano
i nudi piedi a che pianure aeree
della mente assiderata, affondo
lieve di palma scorticata gonfia
papilla. Ma che lucidità…festa
del tatto. O fredde paglie alpine o fresco
vegetale a irritare il plantare.
Sei fiaccato apostolo magro sciacallo
di un te stesso morto paralisi
dell’allegranza di carezze, passo
fermo all’analisi del mondo e tutto
evapora: àncore !
piedi !
àncore !
Gabriella Palli Baroni risiede a Roma. Scrittrice e critica, si è dedicata in particolare a studi sulla letteratura del Novecento e sulla poesia contemporanea. Collaboratrice di numerose riviste, da “Nuovi Argomenti” a “Poesia”, da “Il Ponte” a “Il Caffè illustrato”, da “Moderna” a “Strumenti Critici” a “Poeti e poesia”, ha curato di Attilio Bertolucci il carteggio con Vittorio Sereni Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982 (Garzanti 1994) e, con Paolo Lagazzi, il Meridiano Opere (Mondadori 1997); Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose e divagazioni (Mondadori 2000); l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 2000); la riedizione di Fuochi in Novembre (San Marco dei Giustiniani 2004); Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema (Moretti & Vitali 2009); Lezioni d’arte (Rizzoli 2011) e, con Paolo Lagazzi, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (Diabasis 2014). Curatrice con altri autori del Meridiano L’opera poetica di Amelia Rosselli (Mondadori 2012), ha pubblicato inoltre Tavolozza di Emilio Praga (Edizioni Nuova SI 2008), e il carteggio Giuseppe Ungaretti –Vittorio Sereni, Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969 (Archinto 2013). Suoi versi si leggono in poeti e paesaggi (2008) e poeti domani (2010) (XIV e XV Biennale Internazionale di Poesia di Alessandria).