
Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà via Pavia 106
Vincenzo Mascolo: Riflessione intorno alla propria poesia
Parlare della propria scrittura credo sia sempre difficile. Per me lo è sicuramente, perché i dubbi sulla qualità poetica del mio lavoro non mi abbandonano mai, suggerendomi un pudore che ostacola la condivisione pubblica del suo humus e dei tentativi di poetica. Il timore di non essere in possesso di un apparato teorico adeguato, la paura di cadere nella trappola dell’autoreferenzialità, la scelta di pubblicare con misura per evitare il rischio di ripetermi inutilmente e la convinzione che i testi possano essere più esplicativi di ogni dissertazione, poi, mi inducono a una presenza particolarmente prudente. Seguo però con interesse ogni riflessione sulla poesia contemporanea perché credo sia necessario un rinnovamento e un superamento delle modalità attuali, che sembrano entrate in una fase di stagnazione. Non so dire quali possano essere le strade da percorrere, né quale sia la destinazione da raggiungere. Avverto, tuttavia, la necessità di una trasformazione, l’esigenza di una poesia che abbia una maggiore ampiezza di sguardo, che sia più energica verbalmente e più attenta al valore semantico della parola.
Prova a muoversi in questa direzione la mia poesia, che corre parallelamente alla ricerca di conoscenza alla quale mi dedico da tempo. Ne è, anzi, strumento privilegiato perché contribuisce in modo rilevante al lavoro di scavo nella realtà, personale e del mondo circostante, di cui quella ricerca si nutre. Inevitabili le interazioni e le reciproche influenze tra scrittura poetica e studio della conoscenza. Così gli aspetti strettamente letterari e stilistici assumono un minore rilievo e, affrancato da codici, canoni e altri orpelli, mi sento libero di scrivere utilizzando registri diversi, combinando io e non-io, ordinario e sublime (per usare una terminologia cara a Adam Zagajewski), materia e spirito, scienza e umanesimo, forma chiusa e verso libero, rima e prosa. La mia ricerca, del resto, tende a ridurre a unità il duale nel quale siamo immersi. E la poesia che ne scaturisce non può non rappresentare questa volontà di unificazione, che cerco di esprimere restituendo centralità al significato, in un (difficile) equilibrio tra pensiero, etica e estetica. Anche il linguaggio è parte di questa idea: lo immagino asciutto, terso, essenziale e denso, lontano da stilemi e arcaismi, quotidiano, ma comunque in grado di restituire quella musicalità alla quale, secondo me, anche il verso libero e quello prosastico non dovrebbero mai rinunciare. Un linguaggio improntato alla chiarezza, che possa sostenere anche testi molto discorsivi e, nel contempo, permettere al significato di essere il protagonista del testo.
Amo il rarefarsi della notte
e il risvegliarsi muto degli eventi,
amo il suono impercettibile del cosmo,
il separarsi occulto delle cose
in atomi e molecole, frammenti
della materia che si ricompone,
sostanza indivisibile del tempo.
Così,
di particelle infinitesime d’inchiostro
amo il turbinare che trasforma
la dura concrezione del silenzio
in altro spazio, in una nuova
forma, pulviscolo di corpi luminosi
che passano attraversano i sentieri
delle città, i reticoli del tempo,
chiarore ineludibile del giorno,
sostanza incorruttibile,
poesia.
Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà via Pavia 106
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Ho scritto una volta che il linguaggio di Celan sorge
quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia
Vincenzo Vitiello
Le vie verso la verità sono sentieri interrotti
Friedrich Nietzsche
Vincenzo Mascolo «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non poetico. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico. Antinomie del contemporaneo, commenterei.
Un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.
Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo: ma oggi la crisi si è stabilizzata, i linguaggi artistici sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e vulnerabili, e questa invisibilità e vulnerabilità così tipiche del nostro tempo non deve affatto meravigliare, è la stessa invisibilità e vulnerabilità dello Zeit-raum che è diventato un contenitore vuoto, vuoto perché mero contenitore di altro vuoto.
Bisogna quindi ripartire da una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie forti e onnicomprensive; ma ciò non significa affatto fare poesia «debole». Le due «cose» non si equivalgono.
La «Nuova ontologia estetica» sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità; sorge non da un sommovimento sociale, ma sì da un sommovimento epocale: dalla consapevolezza della messa in liquidazione dei linguaggi poetici epigonici.
Scrivevo in occasione della pubblicazione dell’opera di esordio di Vincenzo Mascolo
(Il pensiero originale che ho commesso Torino, Ed. Angolo Manzoni 2004 pp. 112 € 12,00):
Come opera d’esordio questa di Vincenzo Mascolo, nato a Salerno ma poeta di adozione romana, si distingue per una originale sicurezza del taglio e una non desueta padronanza del linguaggio poetico. Innanzitutto, il «taglio»: e con questo termine intendo ad un tempo la struttura e il plot dell’opera. «Più che una consueta raccolta di poesie, Il pensiero originale che ho commesso è un lavoro “metateatrale”, articolato in quattro brevi atti, ciascuno seguito da una raccolta poetica, le cui liriche sono armonicamente tenute insieme dal sottile filo dell’anima», recita il risvolto di copertina. Ora, appare evidente che la dislocazione in «atti» consente all’autore di perseguire l’intento dell’oralità quale vero discrimine stilistico della sua poesia; in secondo luogo, consente altresì uno sviluppo tematico e psicologico dentro l’articolazione dell’opera. Significativamente, il primo atto inizia con «un uomo solo seduto al tavolino di un bar. Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo». È la condizione umana quella che sta a cuore al poeta, lo scandaglio della condizione esistenziale, la diversità e la divergenza dalle poetesse del minimalismo, Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque
«Hai ragione, Patrizia,/ le poesie non si scrivono/ per cambiare il mondo./ Il cambiamento/ è molto più profondo»; «Un poco, sai, ti invidio,/ lo dico con rispetto./ Per me non ci sarà/ nemmeno mezza riga/ sulla garzantina universale:/ sono un poetino al di sotto della media,/ un uomo che non sa/ di essere normale»
dove l’elegante ironia del tono serve da disincanto e disincantamento verso le poetiche deboli da economia curtense del sistema maggioritario del conformismo. Ma, ad uno sguardo più approfondito, per andare al di là della mera denuncia stilistica l’aspetto che più mi convince è il rigore con cui il discorso poetico viene portato avanti passando tra la stretta cuna pasoliniana di «trasumanar» e «transumar» l’io poetico attraverso la delimitazione tra «Arte e oratoria» e la presunta «disarticolazione del linguaggio» che inficerebbe la poesia contemporanea; la tesi di Vincenzo Mascolo è ben diversa: non la disarticolazione del linguaggio sarebbe il responsabile delle odierne difficoltà dello scrivere poesia ma proprio il contrario, la scarsa capacità di ascolto e di dialogo tra le istanze dell’io poetico e le istanze dell’io, la insufficiente ricezione delle istanze di autenticità che salgono dalla materia stessa della vita e del mondo. È questo, per Vincenzo Mascolo, il segreto della crisi della poesia moderna. È così che l’autore costruisce la sua poesia, onesta e dimessa, che non ammicca a chissà quali dilaceranti problematiche né a intellettualismi di sorta; una poesia colloquiale che coniuga con accortezza poesie d’amore e poesie d’occasione, riferimenti impliciti alla Tradizione «alta» e collusioni esplicite con le pastoie del quotidiano, il tutto con uno stile semplice e una dizione nitida, priva di scalfitture improprie e di orpellismi decorativi. Ed infine, una salda presa di distanza dal pendio del nichilismo contemporaneo:
«Ci sarà poi qualcosa tra il nostro essere e il nulla,/ una virgola, un punto, quantomeno un trattino/ che separi dal nulla ciò che invece noi siamo, perché forse altrimenti si dovrebbe pensare/ che sia essere nulla il nostro vero destino/ e che vivere in fondo per ognuno sia vano/ perché pure esistendo noi comunque non siamo».
Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive e lavora a Roma. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta Il pensiero originale che ho commesso, Edizioni Angolo Manzoni. Con la casa editrice LietoColle ha pubblicato nel 2009 Scovando l’uovo (appunti di bioetica). Nel 2010 un estratto del libro inedito Bile è stato pubblicato nell’antologia Lietocolle Orchestra – poeti all’opera (numero tre), curata da Guido Oldani. Per LietoColle ha anche curato le antologie Stagioni, insieme a Stefania Crema e Anna Toscano, La poesia è un bambino e, con Giampiero Neri, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi. E’ il curatore di Ritratti di poesia, manifestazione annuale di poesia italiana e internazionale promossa dalla Fondazione Roma.
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.
La ricerca poetica di Vincenzo Mascolo si situa nell’orizzonte di una poesia con i battenti aperti, una forma-poesia larga e capiente che faccia entrare il mondo con tutte le sue contraddizioni, l’eteronomia del mondo mediante un linguaggio che non è più koiné, non è più un linguaggio di linguaggi o un meta linguaggio ma un linguaggio di provenienza prosastico, inglobato nella forma-poesia. Uno spazio espressivo integrale, dunque.
L’ATTESA
Scena:
Un uomo solo seduto al tavolino di un bar.
Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo.
Riascoltando questa vecchia canzone di Edith Piaf,
che arriva soffusa e lontana come i miei ricordi,
mi viene da pensare che anche io non mi pento di niente,
anzi, che non ho niente di cui voglia pentirmi.
Perché se lo volessi dovrei farlo proprio adesso,
intendo in questo istante,
tra un bicchiere e l’altro di prosecco
che mi vengono serviti al tavolino,
davanti a coloro che, come me,
sono seduti in questa sala
in solitaria attesa che si compia qualcosa
che non sappiamo nemmeno cosa sia.
Reciterò però con devozione i vostri miserere
da sgranare uno a uno quando viene sera
per non aver paura
ma non chiedetemi atti di dolore
perché è già dolore
questo mio essere diviso
tra la terra e il cielo,
il vero senso che non colgo,
la mia postura.
I versi di Mascolo cantano l’ “astrale quotidiano”: e non è da tutti; ma non dovrebbe il verso ripiegarsi troppo su stesso: la parola liberatoria non è che il suo gesto: teatralità come questi versi che seguono sarebbe una ottima medicina per i suoi versi. E dalla teatralità gridata di quegli anni alla “eredità” di questi tempi, il Tempo è insensato quanto basta per denigrarlo.
a. s.
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8° poema (di un) idiota
Propongo di dare inizio
a nuove cose, perciò
eccomi qui, solo
con una faccia stiracchiata,
con una penna in mano
su di un tavolo rotondo,
con un foglio bianco di cadavere
che aspetta d’essere sgualcito ed annoiato
da parole disusate
o già troppo usate,
affogato e stritolato
da fantasie pazze (ma quali fantasie?)
da chissà quali pensieri inattuali
per un cervello che s’affitta
stati di concetto e pregiudizi
per strani attimi così inospitali
per un bacio sui bottoni dei razzi.
È un labirinto una memoria vecchia
i cuori coi loro tic-tac arrugginiti
i fondali delle carni ormai appiattiti
gli ideali fuori uso
le fantasie giovanili da inorridire:
questo secolo c’imbroglia!
La misura dei nostri tempi
ci scivola come buccia di banana,
quanti cretini martiri e santi
quanti minestroni da saggiare
cosa amare? – se ci scoppia dentro
una granata di violenze!
Le nostre teste sono poligoni
irregolari: difficile centrare
spigoli angoli e vertici.
spazzatura è il nostro nome,
futili i motivi di successo
difficile levarti la saliva appiccicosa
dei manifesti e dei colori
delle mode e degli insulti.
È inutile mettere in moto
i cervelli già quadrati:
l’astrattezza è una grande attrezzatura!
Cosa volete?
Che canti i monti,
i fiumi i cieli i fiori
le stagioni con tutte le loro
sacrosante manifestazioni?
Io sono astrale
e più non m’interessa
con voce umana e più che usata
cantare, girare e rigirare
con morbide parole
nuovi quadri panoramici.
Non m’importano
i giri di boa dei cervelli
e delle idee
caduta dei valori
è un ’antica religione
da sfrattare.
La coda che vi mozzi il respiro
sia di lacca e di mostarda.
Sono carico di bestemmie e di leggende.
……………………………….
………………………………………
E ancora una volta
sono un mago di misere quisquilie
che sbaglia misture
a misurare astrali invenzioni
con motti di sterco-parole
a catalogare su carta-materia
il giardino-cervello
a leccare con voce crespata
pentagrammi deserti
a schiodare con denti arruffati
sezioni di cosmo, di astri
di semplici stelle marine
in un mare canuto
smargiasso di corna… abissali!
La distanza
la fuga
tinsero di rosso-mattone
i cieli infantili
scaduti a pozzanghere
in un riso di stracci
si staccarono
come castelli in aria
gli specchi beffardi.
a.s.
Roma, febbraio-marzo 1971
(rev . 1986)
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eredità
Mai conoscerò gli spazi che mi sono dati,
solo le latitudini del tuo cordoglio.
L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti
sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi.
Non offrirò più istanze a un Dio estremo,
il ferrigno secolo è già morto sulla soglia.
È una fede che sopporto prima della mia rovina,
per te decreti il futuro e i rintocchi.
Come il grido genera silenzi clamorosi
quando il governo della castità è carne corazzata!
La lingua del feto succhia latte di giumenta.
I meridiani del tuo orgoglio segnano un passo d’oca.
I sudari sono sazi di canti salomonici,
la notte è un classico che rifiuta i nostri occhi.
Il tempo che m’è dato non accetto:
getta il sale sulla mia ipocondria!
Il trono genera Poteri e antiche Madri
e nega al sangue una sorgente demoniaca.
L’immortalità è alla deriva come le bandiere,
non sposo il grano che nutre la tua falce!
Tutto nel futuro è un viola egemonico,
di gelatina è la traccia della tua semenza.
Ha una ferita viola il tuo fondo schiena,
di madreperla è il mio furore libertino!
E ti apri tutta dai capelli alla ceneri,
per me balbetti intatta una tribale danza.
Ancora m’innesti le stagioni e i lamenti,
più della carne sono le ossa gli ultimi vagiti.
Il bacio della vulva è il mio silenzio.
Com’è banale la reliquia di santa Clitoride!
Ti dono una piramide eccitata dai misteri,
tutto ti sono dentro, e nel tuo sangue il mio si sfarina!
La selce… è lei!… è, per me, morire!
Non è mio il tempo del tuo futuro!
Sono gli occhi i passaporti per la cecità:
certificati d’ansia, autostrade infelici.
Tradussi gli amori, le orchestre dell’orrore,
tutte le speranze in disamori!
Non cercate più il mio canto eterno nel furore:
una condanna, un disonore la Destinazione.
Quale eredità noi lasciamo per i loro occhi?
Sarà l’età dell’oro delle carneficine – senza nome!
Sommario di stermini, di massacri – senza requie!
Scandaglio delle ossa – carne!
“la pupilla armata convoca il delirio”:
dubita come coltelli che latrano alla Gioia.
Quanto lo spazio fra il morire e la morte?
E va bene: fine della teologia e del suo girovagare!
antonio sagredo
Roma-Vermicino, 06/27 settembre 1999
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LO SPAZIO ESPRESSIVO INTEGRALE NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/13/vincenzo-mascolo-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-8-marzo-2017-una-poesia-inedita-e-racconto-del-proprio-itinerario-di-poetica-e-un-commento-impolitico-di/comment-page-1/#comment-18634
Nello “spazio espressivo integrale” – riprendendo la limpida idea di Giorgio Linguaglossa – di questa proposta poetica, un dato per ora, e per me,
merita d’essere dal contesto enucleato, un dato non secondario nella storia di un poeta: la coerenza piena fra la dichiarazione di poetica, la quale, poi, ben articolata com’è, è un’autentica weltanshauung, e la qualità reale
dei versi oggi letti. Coerenza che in Vincenzo Mascolo emerge, in tutta la sua problematicità, allorché il poeta dichiara l’aspirazione alla ricomposizione del dualismo (materia/spirito, corpuscolo/onda,
prosa/poesia…) in cui si sente consapevolmente immerso e il sentirsi
problematicamente sospeso fra “terra e cielo”.
L’acutezza di questa dialettica è percepita dal poeta come “atto di
dolore”.
Proprio in questo “spazio espressivo integrale” del lavoro poetico di Vincenzo Mascolo le tre categorie elencate da Giorgio Linguaglossa in un suo recentissimo commento, “nome”, “immagine” e proposizione”
già sono operanti; ma chiedono a questo poeta di valore d’essere ascoltate e riconosciute….
Gino Rago
NOTERELLE SU UN ASSIOMA DEL TRACTATUS E LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/11/laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-roma-8-marzo-2017-libreria-laltracitta-lettura-del-libro-di-steven-grieco-rathgeb-entro-in-una-perla-mimesis-hebenon-2016-n/comment-page-1/#comment-18641
caro Claudio Borghi,
io modificherei il penultimo assioma del Tractatus così:
Di ciò di cui non si può parlare, si deve pensare.
Inoltre, penso che le tre categorie fondamentali della nuova ontologia estetica e di qualsiasi ontologia estetica siano: il nome, il metro e l’immagine. Dimmi come tratti queste tre categorie e ti dirò che poesia fai. È semplice? Direi di no. È sommamente complicato.
Mi piacerebbe chiedere ai poeti invitati che idea hanno di queste tre categorie; ne verrebbe fuori il caos completo, temo, perché quasi nessuno dei «poeti» ha chiara idea di come interpretare e trattare nel proprio lavoro queste tre categorie. Categorie peraltro fondamentali per poter porre la matita sulla carta.
L’assioma di Wittgenstein è stato fin troppo citato, anche a dismisura, ed è stato interpretato come un aut aut, o di qua: per l’indicibilità, o di là: per la dicibilità. Io invece penso che quell’assioma fosse diretto soltanto alle proposizioni filosofiche e non alle proposizioni poetiche, perché il linguaggio poetico esula da questa gabbia di ferro, le proposizioni poetiche possono anche svariare nella indicibilità, ma lo devono fare per mezzo delle «immagini», questo è il punto. Come usi una «immagine», questo è il vero atto politico, intendo di politica estetica.
Per questo nutro grande rispetto per quelle strade, come ad esempio quella seguita e perseguita da Vincenzo Mascolo, lastricata di parole «povere» e «deboli», una poesia fatta di «cose» concrete, riconoscibili, ma ordinate in un nuovo modo. Capisco le difficoltà di scrivere poesie nel modo di Vincenzo Mascolo, perché devi fare i conti con la poesia della tradizione recente del novecento, il peso di quella tradizione epigonica non aiuta a mettere a fuoco il problema e i problemi, direi il problema dei problemi. Per questo nutro stima anche del tentativo della poesia di Claudio Borghi di salvare il salvabile, di salvare il bambino con i suoi vestiti, la «musica» e la musicalità del verso tardo novecentesco (quello che va da Saba a Bacchini, per intenderci), con i nuovi postulati della nuova poesia ontologica (non mi sembra che sul campo ci siano altre proposte diverse da quella della ontologia estetica propugnata da questa rivista).
Per questo nutro grande rispetto e anche simpatia per quell’atto di modestia e di responsabilità profferito da Vincenzo Mascolo quando dichiara di non essere neanche degno di una minima menzione nella garzantina ufficiale…
Il problema è comporre uno «spazio espressivo integrale» dove far collidere e comporre quelle tre categorie fondamentali del linguaggio poetico in un modo nuovo. Tutto qui. Detto così, sembrerebbe semplice, ma semplice non è affatto. È per questo che stiamo qui a pensare l’impensato e lì’impensabile e a fare una poesia che coniughi in modo nuovo il nome, il metro e l’immagine.
Cito di nuovo dal Tractatus:
«L’immagine è un fatto». 2.141
«L’immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa». 2.1511
«Essa è come un metro apposto alla realtà». 2.1512
«Il linguaggio traveste i pensieri…» 4002
Ecco qui esemplificati i punti filosofici dai quali ogni nuova ontologia estetica deve ripartire.
Forse il concetto più importante della nuova ontologia estetica è il concetto di Evento (Ereignis) inteso come rottura della temporalità linguistica. Concetto neanche sfiorato dagli esegeti della poesia moderna e dagli addetti alla poesia. È su questo punto che vorrei attirare l’attenzione dell’uditorio, se qualcuno ha delle idee in proposito. E certo è che ogni poeta ha un suo modo di intendere la «rottura spazio-temporale» dell’evento: Steven Grieco Rathgeb ne ha uno, Lucio Mayoor Tosi ne ha un altro, Mario Gabriele ne ha un altro ancora…
L’Evento è un istante privilegiato…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/13/vincenzo-mascolo-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-8-marzo-2017-una-poesia-inedita-e-racconto-del-proprio-itinerario-di-poetica-e-un-commento-impolitico-di/comment-page-1/#comment-18649
Mi permetto di aggiungere un mio piccolo contributo al dibattito.
Mi pare non vada trascurato il fatto che Wittgenstein non si sia fermato al Trattato, in cui si era illuso di aver liquidato ogni problema filosofico, e sia andato a fare il giardiniere in un convento.
È tornato e ha scritto le Ricerche filosofiche, immergendosi nel mondo del linguaggio, girovagando in tutte le direzioni senza un fine o una fine.
Alle tre categorie che lei propone (nome, metro, immagine) mi viene spontaneo aggiungerne una quarta: il verbo. Il verbo si contrappone al nome: il nome “è”, il verbo “fa”, il nome è nello spazio e il verbo nel tempo. Certo, in una prospettiva ontologica il nome non ha rivali, ma in tema di poesia (poien, fare) anche il verbo può e deve avere il suo ruolo.
Proprio in questi giorni sto riprendendo testi letti trent’anni fa, che girano attorno al concetto di “Atto linguistico” di Austin e Searle: il linguaggio che opera, che agisce, che fa… L’ontologia scivola nella pragmatica: le poesie (come tutte le parole) agiscono (o vorrebbero agire) nel mondo.
PICCOLE QUESTIONI DI ONTOLOGIA ESTETICA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/13/vincenzo-mascolo-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-8-marzo-2017-una-poesia-inedita-e-racconto-del-proprio-itinerario-di-poetica-e-un-commento-impolitico-di/comment-page-1/#comment-18650
Caro Guido Galdini.
riprendo qui alcuni concetti del filologo Carlo Diano che avevo già postato in un articolo su questa rivista:
La chiusura dell’Evento è il Nome
Per gli Stoici “il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a Socrate sta esercitando la sua virtù”.
Carlo Diano nei Quaderni preparatori per Forma ed evento (1967) e Linee per una fenomenologia dell’arte (1968) ricorda che per gli stoici l’essenza della proposizione risiede nel verbo e che il nome è considerato del tutto secondario, infatti, per Aristotele «l’uomo cammina» equivale a «l’uomo è camminante». Ancora Diano:
«Nome e verbo. Difficoltà in cui si trovano i linguisti nel definirli – Con la mia teoria si spiega tutto – Il verbo è sempre τό συμπίπτον = τό συμβεβεκός – eventum – Il nome è per eccellenza la forma, la struttura – ciò che non significa senz’altro la sostanza – o la significa in senso lato – Bisogna ritornare alla logica dei sofisti fino ad Aristotele – La logica sofistica non distingue la sostanza dall’accidente – il nome dal verbo – Ogni percezione ha una sua struttura temporale – il nome e il verbo si sono confusi: l’acqua scorre è un unico fatto – separate le due dimensioni e avrete il nome e il verbo – Ma è una separazione precaria perché il loro rapporto è dinamico».
«Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l’evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento… solo lo spazio è rappresentabile»
Per liberarsi dallo stupore e dall’horror generati dal trovarsi di fronte all’infinità, al gorgo in cui tutto è possibile, al fatto di sentire, dietro la cosa come evento, l’azione di una potenza inafferrabile, l’uomo cerca di superarne l’infinità, dando a essa un Nome e specificandola. Il nome è una forma di chiusura, circoscrive la cosa e permette di individuare l’evento. Specificando la potenza che si rivela nell’evento, il nome ne supera l’infinità, rendendo così possibile all’uomo di liberarsi dallo stupore e di dare una direzione alla propria azione. Non a caso la categoria dell’Evento viene ripresa da Heidegger e posta in posizione centrale quale «struttura» del Dasein nell’In-der-Welt-sein (Essere-nel-mondo).
Il Nome è la forma eventica (l’hic et nunc) che si dà nella ripetizione (ubique et semper), come ad esempio nel rito. La ripetizione chiude la forma eventica restituendoci il Nome.
Il nome permette di riprodurre l’evento e di farlo presente (ed è per questo, sottolinea Diano, che alcuni nomi sono tabù). La ripetizione trasforma un «vissuto» in un «rappresentato»: alla fine di questo processo di trasposizione da un livello (il vissuto) all’altro (il rappresentato) la ripetizione cede il passo alla specularità che l’arresta.
L’arte come sintesi di Forma e di Evento
«Con la Forma appaiono le “cose” e lo spazio si separa dal tempo, e, come spazio visto e non più vissuto, è definito per intero dalla figura ed è interno ad essa. Per Aristotele appunto il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c’è spazio se non come “intervallo” rispetto a un’altra figura… A questo spazio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come “numero del movimento secondo il prima e il poi”. Ora, la forma di per se stessa è immobile… L’unico moto di cui essa è capace, è la specularità con se stessa, ma la specularità è fuori dello spazio e non è un moto: perciò non v’è neanche il tempo».1]
«E però si deve dire che tutte le arti tendono alla parola, ma la parola al silenzio. Qui è l’ultimo limite e l’estremo periechon dell’arte, che però è via e non fine, ed è sempre via, come lo è la vita, che riprende sempre e non s’arresta mai, e, toccando in ogni opera il suo culmine, lo cerca ogni volta e sempre in un’altra». 2]
La dottrina stoica ripone l’essenza della proposizione nel verbo e considera il nome secondario – laddove per Aristotele “l’uomo cammina” è uguale a “l’uomo camminante” – ha la sua origine prima nel sentimento linguistico di Zenone che era un semita.
1 [C. Diano Linee per una fenomenologia dell’arte 1968, pp. 37-8]
2 [C.Diano Linee per una fenomenologia dell’arte 1968, p. 122]
QUESTIONI SAGREDIANE DELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/13/vincenzo-mascolo-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-8-marzo-2017-una-poesia-inedita-e-racconto-del-proprio-itinerario-di-poetica-e-un-commento-impolitico-di/comment-page-1/#comment-18651
“la pupilla armata convoca il delirio”:
dubita come coltelli che latrano alla Gioia.
Quanto lo spazio fra il morire e la morte?
E va bene: fine della teologia e del suo girovagare!
*
Incasellato autunno, Arlecchino appollaiato, lucida cateratta, frescura
e fregio di vigne, spirale d’alghe di nidi marini.
“Fra i papaveri, balconi a groppa di madreperla, sogno giardini rosa, scabrosi
oleandri. Giullare illusione, catapecchia di sole e di licheni a stormo, staffe
di zucche e calici fischianti dalle bocche, nelle feste di muschio!”.
Sulla pietra tenaglia marina, (vede) navi uncinate, pavoni di boschi e bicchieri:
“Io ti farò lampada, Arlecchino: Don Giovanni, Poesia, Mare!”.
(Antonio Sagredo)
In questi versi di Antonio Sagredo il «Tutto» mi sembra chiarissimo. Il Tutto è Falso. Più chiaro di così non si potrebbe dire. Anche questo è un modo di orbitare fuori dal novecento italiano ma restare ancorato al novecento europeo, caro Claudio Borghi. Non ci sarebbe un Antonio Sagredo se volessimo condurre il Sagredo alla ragione e alla prudenza, se lo volessimo convincere della bontà del novecentismo delle ultimi decadi del Novecento. Insomma, Sagredo non sa che farsene delle Maschere e degli Psicopompi del tardo Novecento. È questo il punto. Per fortuna di Sagredo lui può poetare in questo modo perché ha gettato tutte le zavorre in mare e alle ortiche… se non lo avesse fatto non poeterebbe così, non sarebbe il Sagredo che conosciamo.
Parole-chiave di questa pagina, in prospettiva poetica della N.O.E.?
– “Spazio espressivo integrale”;
– ” Nome”. ” Immagine” .” Proposizione” . (“Verbo?”)
– Novecento poetico nell’eurocentrismo critico (versi di Antonio Sagredo
interpretati da Giorgio Linguaglossa).
– Modo di stare di Vincenzo Mascolo in poesia?
Il ” Desiderio “. Il desiderio della poesia, come “agostiniano” movimento
indotto dall’attrazione verso quel qualcosa che desideriamo, un
“movimento” che non trova mai il suo compimento perché quel qualcosa che ci attrae siamo coscienti di non possederlo..
– Modo di stare di altri in poesia?
Quasi totale assenza del ” desiderio “, del desiderio di poesia. Perché questi altri dicono a se stessi: “Io quel qualcosa, la poesia, già la possiedo”.
E in essi si annulla la forza attrattiva verso quel “qualcosa” e si spegne il
desiderio di quel qualcosa.
– Tutte le parole di “Forma ed evento” riproposte a hoc dal commento di Giorgio Linguaglossa.
– “Quanto lo spazio fra il morire e la morte?” di Antonio Sagredo.
(Naturalmente, secondo me)
Gino Rago
condivido molto di quello che l’autore sostiene circa la poesia da rinnovare ei suoi versi mi muovono a complimentarmi con lui