
Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Steven Grieco Rathgeb e Luciana Vasile
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com
Nota di Lettura di Letizia Leone
L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.
Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59) raccolti in “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.
La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.
Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.
Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.
La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.
Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).
Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.
Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto delle tensioni globalizzanti.
Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.
Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”
Le tue parole si schiusero come un grande fiore.
Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:
Questo mondo, riflettevo, o soltanto / Un’immagine? Ero incerto anch’io.

laboratorio di poesia L’Altracittà, Steven Grieco Rathgeb
La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.
Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).
“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.
Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico.
Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.
E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.
Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.
L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.
“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):
Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.
Laboratorio di Poesia 8 marzo 2017 Steven Grieco Rathgeb
Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive
Abbasso lo sguardo. Su un tavolinetto circolare, appoggiati un po’ alla rinfusa, tanti libri. L’occhio di bue si accende su “Entrò in una perla”. Mi cattura. È un Caso – nel quale non credo – che abbia messo a fuoco solo quella copertina, il resto nella nebbia? In effetti quel titolo conferma la mia convinzione che sia il vuoto a disegnare il pieno. Il pieno della perla disegnato dal vuoto rarefatto del pensiero che si fa parola. Anima contenuta nel corpo, e non viceversa, come istintivamente saremmo indotti a pensare. Ingrandisco ancora l’immagine: l’autore Steven Grieco-Rathgeb.
Ora quel libro ce l’ho fra le mani. Lo sto per aprire. Sono curiosa. Scoprire in me le sensazioni che mi donerà la sua lettura. Perché la parola prima di tutto è comunicazione. Sono consolatori i momenti nei quali si supera la solitudine, alla quale è condannato l’essere umano, quando si trova consonanza, vicinanza fra l’IO che legge e il TU che scrive. Dipende da ciò che si tatua nella nostra sensibilità e comprensione nell’anelito di ri-conoscersi che è un attimo e/o del conoscere che è molto più lento. Sono pronta a dedicarmi all’ascolto.
Scorro con lo sguardo i segni neri e gli interstizi. A gruppi di non più di tre/quattro versi la distribuzione sul foglio bianco. Eloquenti le pause, geografia nel mare aperto del non detto. Anche la poesia ha una sua rappresentazione grafica, il disegno-progetto partecipa al significato. Io assorta. Non resto colpita nei sensi, ma il desiderio è di penetrare il frammento di un pensiero che a distanza rincorre altro pensiero, dove la mente divaga libera, galleggia nelle immagini e lancia concetti. Dice il poeta (pag. 61): Nel silenzio la poesia parlò/ le sue parole come liane/ di un rampicante/ che saliva/ ogni nodo più alto/ verso un aprirsi, una trama/ sorpresa/ in altro esistere/ … Primo attore del libro è l’IO-pensiero che dialoga e palpita con la natura, gli alberi, i fiori; con lo sciabordio dell’acqua; con la realtà del mondo nelle sue molteplici espressioni; con l’inseguire la luna e raccontarne, attraverso lo stupore, il mistero della sua pienezza (pag. 19):
Ora che sei sorta, luna-cenere,/ quasi invisibile nella notte appena fatta,/ nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,/ mi chiedo come questo orlo di luce/ esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina/ del tuo sferico splendore./ … Possa io stanotte/ dimenticando la distanza/ dire l’oscura sfera della tua pienezza.
Da parte del poeta una continua attenzione alla parola, che esiste nella sua stessa negazione, nel suo stesso inganno (pag. 35) :
Impara l’etimo di leggere./ Significa raggiungersi dentro e oltre se stessi,/ sfiorare in ogni attimo la follia?/ O esiste chissà dove la soglia/ che varchiamo verso un’origine nascosta?/ Le parole che da ogni lato si volgono false,/ non ti mostreranno tutto il visibile/ (ché lo stesso guardare così presto vanifica)/… (pag.39) … così le parole mi volano dalla bocca/ e qualcuno tende un filo/ di sillabe al cielo/ e non so come farle/ ricadere giù, una dopo l’altra,/ sprofondate nel sonno.

Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017
Da parte del poeta una intensa riflessione filosofica nell’approfondimento del sé (pag. 41):
… come se il nostro rischioso oscillare/ fra l’identità e il suo inganno,/ fosse “noi”,/ scissi per sempre fra questo e quello:/ … E ancora fino a spingersi all’orlo dove alberga l’anima (pag.43): … E se l’universo fosse”un basamento intorno/ alla bocca del pozzo”: un basamento/ di pietre tratte dall’unico splendore/ delle sue stelle remote;/ con quanta fiducia/ ci spingeremmo all’orlo, per scorgere/ acqua limpida in fondo a quel baratro,/ berla profondamente con i nostri occhi!.
Rallegra la sintonia fra il TU che scrive e l’IO che legge, che un giorno parlò della liquidità dell’anima, indicando che bisogna fare una capovolta di 180° per immergersi in quel pozzo senza fondo, con coraggio esplorarlo.
Steven Grieco Rathgeb rifiuta la metrica come prigione, evita la musicalità come distrazione, il pensiero è libero – anche da se stesso? -. Privilegia la prosa poetica che meglio si addice a ricreare la frammentarietà del linguaggio interiore fatto di immagini flash non necessariamente conseguenti l’una all’altra, con un nesso logico o seguendo una trama, ma che esprimono lo spazio “dentro” arredato di ricordi, esperienze, visioni, in un tempo dell’IO senza cronologia, incurante del battere le ore della pendola. Tutto si dilata in un eterno presente. Il qui e ora è il tempo della scrittura (pag. 89) : …
I giorni si muovono veloci o pesanti,/ contraddicendosi: identici/ in come tornano sui propri passi,/ La loro irreplicabilità mozza il fiato./ Mirabile, il poema che narra questo/ inesausto rinnovarsi,/ Ciò che nelle sue pagine hai appreso ieri/ lo ascolti oggi, e forse avrà un altro senso./…
Come lettore è più diretto individuare in sé le emozioni, le suggestioni dell’Altro che scrive quando riescono a coinvolgerci, pizzicare l’anima senza intermediari. Steven Grieco Rathgeb invece ci costringe, attraverso i suoi versi, ad un impegno più faticoso, e forse per questo intrigante. Quasi una sfida. Ci invita ad entrare, senza timore, nel mondo a volte celato, criptico dell’immagine-pensiero-parola e i suoi estrosi giochi. Ma non tutto sta scritto è decifrabile ed è dato capire. Anzi, si dice, che la poesia possa essere anche mistero, che affascina e fa scattare in avanti, alla ricerca. Partendo dal fatto che istintivamente adoro le cose semplici, ma non mi piacciono le cose facili, mi dico, forse si può arrivare alla verità che, io penso, sia semplice – oppure alle emozioni, che ci fanno intravedere la verità quando lacerano i sensi – anche attraverso la complessità?
Ultimata la lettura, introitate le parole – da quale parte sono entrate? dagli occhi, dalle orecchie, dai pori della pelle che si alzano attenti, dalle sollecitate papille gustative o olfattive, dalla mente che ragiona o dallo stomaco centro dell’IO? – tanti gli interrogativi e le domande, soprattutto a chi come Grieco Rathgeb si muove nella ricca esperienza di diverse civiltà e realtà, e nel percorrere la parola di più lingue madri. Per esempio, Steven in quale idioma pensa? in quale idioma sogna? Per quanto mi riguarda, io, continuerò a ruminare. Ci sto prendendo gusto.
Poesie da Entrò in una perla (2016)
He entered a pearl
He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries
someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears
The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back
On such a rugged upward path
the way was changed into air!
into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness
Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid
Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom
And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons
ill I thought this life will last forever
Entrò in una perla
Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido
qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime
L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono
Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!
in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione
Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto
Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo
E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno
*
Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream
You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained
– always so decisive – and every blacknight moth alive
every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld
astronomer beyond thin partitions wondering,
every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –
expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment
– tangible, visible splinters to unseen frontiers
and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and
came hurtling like cries!
Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper
with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers
yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet
Via Merulana, 11 February 2013
Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno
Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta
– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena
ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo
astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena
un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso
discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:
tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere
ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano
lanciate come grida!
Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi
inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –
eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco
Via Merulana, 11 febbraio 2012
Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo
Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.
What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…
And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!
Supersymmetries – Florence, 1999
*
Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo
Il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.
Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …
E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!
Supersimmetrie – Firenze, 1999

letizia leone
Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012).
Luciana Vasile è nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus.Ha conseguito numerosi premi per la prosa e la poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, 2008 Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi.
“Danzadelsé” – Ho ballato per Paparone e altre storie, 2012 ProspettivaEditrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebook. Ha vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.
VERSO UNA POESIA TOPOLOGICA?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/11/laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-roma-8-marzo-2017-libreria-laltracitta-lettura-del-libro-di-steven-grieco-rathgeb-entro-in-una-perla-mimesis-hebenon-2016-n/comment-page-2/#comment-18886
Pensare ad un’opera di poesia come ad una carta geografica, qualcosa che si possa leggere contemporaneamente, passando lo sguardo dall’alto al basso, da destra a sinistra; pensare ad un libro che non sia un mero “diario”, o un mero “viaggio”, tutte cose ormai esperite migliaia di volte e ormai obsolete. Dicevo: pensare ad un libro che possa essere svolto e scritto come a seguito di una intuizione fondamentale, qualcosa che non si potrebbe esprimere né tanto meno scrivere come un libro che ha un inizio ed una fine, un libro diviso in capitoli e in paragrafi, un libro “tematico” con tanto di sotto temi etc. tutte cose ormai esperite. Pensare a qualcosa di completamente nuovo,
Ero appunto preso in questi pensieri quando mi sono trovato davanti questa riflessione del filosofo Vincenzo Vitiello il quale a domanda risponde:
Vitiello: Alla domanda “che cos’è topologia?” rispondo: all’inizio è stata una pratica, un esercizio, e solo successivamente, e direi per necessità operativa, la formulazione di una teoria ermeneutica. Un esercizio di pensiero, una melétē dianóias; e dico dianóias – e non noéseos – perché era un esercizio proprio dell’intelletto e non della ragione. Mi spiego: avvertivo l’esigenza di scrivere un libro non legato al ‘tempo’, alla successione dei capitoli, l’uno dopo l’altro. Un libro che fosse come una carta geografica: la si apre e si ha tutto davanti. Il tempo non è negato, ma appartiene allo sguardo che scorre la carta geografica, e non alla carta. Così è nato Topologia del moderno, insieme pratica e teoria. Già, perché non essendo attuabile questo progetto – come stampare su un unico foglio anche solo il contenuto di un libricino di settanta ottanta pagine? e con quale criterio piegare il foglio? e come aprirlo e tenerlo tutto dispiegato davanti agli occhi per leggerlo? –, dovetti ripiegare sulla consueta successione delle pagine propria dei libri ‘tradizionali’. Delle pagine, non dei capitoli. La successione delle pagine doveva avere la stessa funzione dello scorrimento dello sguardo sulla carta geografica. E come lo sguardo è libero di andare a destra o in basso del foglio, verso est o verso sud, di sostare sulla penisola iberica o sul golfo del Messico, così il lettore doveva essere libero di passare da una sezione all’altra del libro, secondo l’interesse, o anche solo la curiosità, che volta a volta lo guidava. Divisi Topologia del moderno (1992) in parti, sezioni e sottosezioni – queste ultime, in particolare,avevano la funzione di transiti da un ‘luogo’ all’altro del libro – secondo la mia prospettiva. Dividevo in tal modo in libro in molti libri, indicando varie ipotesi di lettura. Non mancando di precisare che le diverse ipotesi suggerite realizzavano solo una prospettiva, quella del primo lettore del libro, che era suscettibile di indefinite altre letture. La formulazione ‘teorica’ della topologia ha questa ‘modesta’ origine. La formulazione, non però la pratica ad essa sottesa. L’ideale di una ‘scrittura’ filosofica diversa, non distesa nel tempo che tutto ingloba e nega, ma raccolta nello spazio aperto che nulla respinge, mi derivava indubbiamente da Hegel. Dal primato del presente che non passa, ma è; del presente che non tramezza passato e futuro, ma li ha in sé, li con-tiene; e cioè: dal concetto ontologico e non metodologico o psicologico della “contemporaneità della storia”…