Luciano Nota POESIE SCELTE da Le cose viste dalle crepe (EdiLet, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Luciano Nota lavora per modificazioni e scarti minimi di luoghi retorici. Le «crepe» sono quelle fessure che ci consentono di sogguardare e traguardare il reale, come da una feritoia

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 Luciano Nota è nato ad Accettura, in provincia di Matera. È laureato in Pedagogia ad indirizzo psicologico, e in Lettere Moderne. Vive e lavora a Pordenone svolgendo attività di Educatore. Ha pubblicato: Intestatario di assenze (Campanotto, 2008), Sopra la terra nera (Campanotto, 2010), Tra cielo e volto (Edizioni del Leone, 2012, con prefazione di Paolo Ruffilli e postfazione di Giovanni Caserta), Dentro (Associazione culturale LucaniArt Onlus, 2013, con prefazione di Abele Longo). Sue prime poesie sono state pubblicate su varie riviste letterarie e in diverse antologie: “Solo buchi in un barattolo” (Ibiskos-Ulivieri, 2011, a cura di Aldo Forbice), “Poesie del nuovo millennio” (Aletti, 2011), “Arbor poetica” (LietoColle, 2011), “Dedicato a… Poesie per ricordare” (Aletti, 2011), “Parole in fuga” (Aletti, 2011), “Tra un fiore colto e l’altro donato” (Aletti, 2012), “Agenda 2012” (Ibiskos-Ulivieri), “Verba Agrestia” (LietoColle, 2012), “Le strade della poesia” (Delta 3 Edizioni, 2012), “Le strade della poesia” (Delta 3 Edizioni, 2013 ), “La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio 1990-2012 (Kairòs Edizioni, 2013, a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo), il saggio critico “Dopo il Novecento” di Giorgio Linguaglossa (Società Editrice Fiorentina, 2013), “L’Amore ai tempi della collera” (LietoColle, 2014). Ha fondato e dirige il blog letterario “La Presenza di Erato”.

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 Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Come sappiamo, la gran parte della odierna poesia, è una sorta di sub-derivazione del minimalismo, con tanto di sublime o di anti sublime nel sub-jectum. Oggi si scrive in quel super latino mediatico della comunità internazionale qual è diventato il gergo poetico in Occidente, di cui l’italiano è una sub componente gergale. Ma, è ovvio, qui siamo ancora e sempre sul vascello di una poesia leggera, che va a gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi liofilizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo linguaggio come un tappeto ci si accorge che ci sono cibi precotti, già confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci sono più limiti, norme, regole. Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può, i linguaggi del cielo stellato etc. Siamo in una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso una nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso uno stile aforistico; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi liofilizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.

Nei linguaggi poetici di oggi puoi scorgere, soggiacenti, come in vitro, tutte le contraddizioni e le antinomie che già stavano al fondo della poesia di questi ultimi decenni, intendo da La Bufera (1956), e più ancora da Satura (1971) di Montale in poi. Negli anni Settanta è accaduta una cosa del tutto nuova nella poesia italiana: una particolare investitura dei linguaggi poetici che si auto legittimavano mediante le tematiche che la linguisticità tele mediatica offriva  in abbondanza, dalle «occasioni» che non svelavano più alcun simbolo, tantomeno metafisico, che non svelavano nient’altro che un segno, il lacerto di memoria, al lapsus, al commento, alla notizia di cronaca o di storia o di geografia o di botanica etc..

Il fenomeno divenne visibile con la famosa Antologia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Il pubblico della poesia (1975). Da allora,  la poesia si è democratizzata, prosasticizzata si è creduto così di fare una poesia per tutti, di portare la poesia alla massa dei lettori (che nel frattempo si estinguevano). Ovviamente, ci si ingannava. Con l’invasione della cultura di massa e delle emittenti linguistiche e stilistiche come la moda, il design, la tele digitale e analogica e internet, il mondo è diventato altro. La poesia in risposta ha tentato di inseguirlo quel mondo diventando sempre più democratica, demagogica, seduttiva, permissiva, sproblematizzata. E così la poesia è diventata una piccola nicchia di retroguardia, una nicchia felice di linguaggi felici che si auto legittimano. Una terribile china in discesa che sembra non aver fine.

Mi correva l’obbligo di fare questa premessa prima di affrontare il libro di Luciano Nota, perché il poeta lucano ha intuito da tempo che per superare l’impasse in cui si trova la poesia contemporanea, occorre tornare a fare una poesia dell’«esperienza», una poesia attenta ai temi esistenziali.

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Il percorso di Luciano Nota dal libro di esordio a questo suo ultimo, non è stato facile. È stato un percorso ad ostacoli, complesso e contraddittorio quello del poeta lucano già da Intestatario di assenze (2008). Il trasferimento dalla Lucania a Pordenone ha avuto questo di buono, che ha aiutato il poeta lucano ad adeguarsi ad un «prospetto» di poesia non più legato ad una poesia geograficamente determinata, quella lucano-pugliese, ma ad un concetto di poesia vista come «conversazione» con un interlocutore, conversazione di fatti del quotidiano, una poesia di ispirazione esistenzialistica. Ogni conversazione è nient’altro che un monologo, così il monologo lirico di Nota deriva da un esilio ed oscilla tra la fedeltà alla «terra» (con tutti i simboli e le metafore che ne conseguono di cui abbondano i libri precedenti dell’autore) e la fedeltà alle problematiche esistenziali proprie di una società post-industriale. Di fatto, quella di Nota è una poesia che ritrae, racconta, cerca di capire, definire, che costruisce un senso delle «cose viste dalle crepe». E cosa sono queste «cose»?, in poesia esse sono  «figure» che danno un senso alle «cose» e ne fronteggiano l’insensatezza, il disagio, il vuoto. Dalle «crepe» si vedono molto meglio le «cose», questo sembra dirci Nota. È una poesia in forma di dubbiosa conversazione monologante col mondo, che cerca un pubblico  perché lo vuole, lo aspetta, lo ha costruito e inseguito con pazienza e ansiosa dedizione, e forse un giorno lo troverà, chi può dirlo?

La poesia che dà il titolo al libro è una sorta di utopia civile e morale e una dichiarazione di poetica, vuole significare la forma del dialogo che fonda lo sguardo. Lo sguardo è già conversazione. La conversazione segreta è la cifra nascosta di questa poesia, la sua struttura profonda, rivela che la solitudine è fatta di dialogicità con se stessi. Della «conversazione» quasi tutte le poesie hanno il ritmo, il passo, il calore e l’ansia di persuasione e di auto persuasione. Anche il monologo, anche quello più doloroso, non è altro che la continuazione di una conversazione che l’autore tiene con se stesso. E d’altra parte il monologo non è altro che un dialogo con se stessi, soltanto che è cifrato, scritto in una forma non manifesta, non indirizzato ad un pubblico presente ma ad un «interlocutore» assente: ciò che si racconta è qualcosa di intimo, ma non privatistico, di una intimità che è demanio di tutti. Raramente la forma teatrale ha il sopravvento, tanto meno quanto più il tono è dimesso e colloquiale, il dettato è come se si parlasse di cose minime, cose dimenticate, di trasalimenti, e invece si tratta di momenti essenziali, momenti di verità, dove la verità (se tanto mi dà tanto) balugina tra le parole ricche di reminiscenze tra le quali riconosciamo il colore di Sinisgalli, il poeta lucano amato da Luciano Nota, ma non Gatto, poeta troppo sonoro e lirico per la prosodia di Nota, non i lombardi, dai quali però Nota ha appreso l’attenzione al registro minimale delle cose, la lezione della Szymborska.

Dal punto di vista stilistico, Luciano Nota lavora per modificazioni e scarti minimi di luoghi retorici. Le «crepe» sono quelle fessure che ci consentono di sogguardare e traguardare il reale, come da una feritoia, che ci consentono una maggiore chiarezza di visione. L’autore lucano lavora soprattutto sulla lingua di relazione e sulla retorizzazione del soggetto, perché questa lingua già esiste nella vita comune e la poesia la deve sempre di nuovo ri-costruire, in un processo infinito. È una poesia che si nutre di uno stile dichiarativo, come ho scritto in altra occasione, che unisce il tono algido a un lessico sobrio tipico del registro basso che fa uso di enunciati del quotidiano, fattuali, di entità riconoscibili, concrete. È una poesia concreta, sfaccettata, che si nutre di aneddoti, ricordi, amnesie, e anche di fatti di cronaca, che prende pensieri di altri e li fa propri, che esternalizza il proprio interno.

L’ispirazione didascalica, o semplicemente didattica, è forse la più costante caratteristica di Nota, quel suo voler fare chiarezza, quella voce che ha ripide impennate, quasi invisibili, in sotto voce perché l’autore sa tenere il registro lirico al punto più basso, lo rischiara con poca luce e pochissimo colore. È questo il punto di arrivo della recente poesia notiana, si tratta di uno sviluppo della sua poetica che annuncia una poesia attenta ai dettagli, agli spigoli del quotidiano, a quel «tragitto alterato» dalla percezione del nostro «occhio orbo».

Tempo fa una poetessa, Donatella Costantina Giancaspero, ha scritto: «il libro di poesia ha lo svantaggio di dover fare a meno della “trama” rispetto al romanzo e al giallo; ha lo svantaggio di non poter prendere il lettore per il colletto e trascinarlo nel luogo del delitto che ha deciso il narratore di thriller; il libro di poesia è inerme, non ha alcun potere sul lettore, non il potere della seduzione da risultato né quello di seduzione da abilità che ha invece il romanzo (e in specie il thriller)». La poesia di Luciano Nota ha questo di buono: non ha alcun «potere» sul lettore, non annuncia redenzioni o minimalismi inquieti. Questo è a mio avviso il suo più grande pregio. I modesti poeti fanno dei surrogati: la fibrillazione e l’estroversione dei palpiti dell’io; i poeti di livello superiore invece non ricorrono ad alcuna di queste seduzioni, si limitano a disegnare un’atmosfera, un profumo, il minimo rumore delle «cose».

Luciano Nota Poesie

Visione leggera

Del muro, della lastra, della pietra
ho sempre avuto una visione leggera
nonostante il muro, la lastra, la pietra
m’avessero accerchiato.
È sempre stato un tragitto alterato
simile ad un occhio orbo
che ha voglia di scrivere sul marmo
che il vento, il muschio, la luce
non sono mai esistiti.

.
Pila d’acqua

Dietro la porta oserò poggiarti
parte di me, un’unghia, un capello,
o, se preferisci, la perdizione
del nostro tempo, dentro un ciocco.
Vedi, è troppo il mare, la sua grandezza
fa male, bisogna ridurre.
Il detrito è un corpo stabile,
nessun colpo potrà dividerlo.
Vieni, osiamo farci falda,
resa armonica oltre la porta.
Muoviamoci in quella pila d’acqua.

Le scale

Le scale
questi ansanti tabernacoli bianchi
marmi sui quali gli umani
pavimentano l’anima.
Scale fatte d’aria
dove non ruotano i venti.
Scale adorne
che separano i ferrati dai lenti.
Scale in stile gotico, apostolico
che non portano a Dio
né alla sacralità dell’Essere.
Scale intime, abissali
sotto boschi
dove urlano i corvi.
Le scale
questi penosi tabernacoli bianchi
dalle antiche radici di ferro
che non danno colore
non spargono odore
a chi stringe più in alto lo scettro.

.
Liuto

Muto, nel silenzio più assoluto
ascolto te che parli ai tarli.
È una regola che tutto muti.
E non par vero che il legno
con le piaghe in eccesso
sia regno, sia liuto.

Brevità

Assomiglio più a te
e che questo sia vero
lo dice la tua presenza
sulla tavola da pranzo
dove al posto del piatto
tu ci posi una parola.
Che questa non sia piena
francamente poco importa.
I miei palazzi sono alti
le tue vetrate sempre scure.
Coraggio quindi
mettiamoci le scarpe
e andiamo.
Ti chiedo solo questo:
non seguirmi come al solito
non metterti più a nudo
(è facile pensare che tu sia
la mia coscienza).
E ti raccomando
non svanirmi al primo sciopero del sole.
Siamo entrambi verità
la brevità di chi ha parvenza.

.
Aspetto te

E se non mi avvicinassi
se non toccassi neppure per un attimo
la tua corda
l’intero tuo fianco che vacilla
tra cupole e mattoni.
La mia mano somiglia
al remoto sentimento
del cosmo.
Non ti tocco.
Aspetto te
continuamente
nel torbido lucente.

.

La rosa

Ecco, prendiamo quel vaso
e in quel vaso mettiamoci
una rosa, che sia bianca o gialla
rossa o arancione.
Cogliamola però in quell’orto
di fronte al quale s’erge il muro.
È quello che abbiamo lasciato,
credo, dieci anni fa, ricchissimo
di tagli ed incisi,
il più affollato di erbe.
Se vuoi, prendiamo anche queste,
e posiamole più in là;
poco distante c’è la fontana
colorata di frutti.
Ma se preferisci mettiamole nel fosso.
Hai scelto la rossa. Contrasta
col tuo colore, madre.
Riponila pure nel vaso.
Anch’esso è bianco e stanco.
Dove sei?
Stavo immaginando.

14 commenti

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14 risposte a “Luciano Nota POESIE SCELTE da Le cose viste dalle crepe (EdiLet, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Luciano Nota lavora per modificazioni e scarti minimi di luoghi retorici. Le «crepe» sono quelle fessure che ci consentono di sogguardare e traguardare il reale, come da una feritoia

  1. Caro Giorgio, stamattina mi sconvolgi, con questa condivisione. Conoscendo sia te che Nota, credimi, sono curiosissima di leggere il commento di quest’ultimo… Però mi piace imparare sempre e da chiunque, complimenti ad entrambi.

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    • «il libro di poesia ha lo svantaggio di dover fare a meno della “trama” rispetto al romanzo e al giallo; ha lo svantaggio di non poter prendere il lettore per il colletto e trascinarlo nel luogo del delitto che ha deciso il narratore di thriller; il libro di poesia è inerme, non ha alcun potere sul lettore, non il potere della seduzione da risultato né quello di seduzione da abilità che ha invece il romanzo (e in specie il thriller)»

      mi appunto pure questa parte, perché temo davvero di non aver capito niente, ma proprio niente di poesia. Caspita, grazie di cuore per tutto quello che sto imparando oggi! Complimenti, assai, a ciascuno, assai.

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  2. La poesia é uno strale parte dalla scocca,colpisce, e non perdona,la brevità,la sintesi,é un avviso,questo la caratterizza,a mio parere. Non sono adatta a commentare un poeta mi piace “Visione leggera”

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  3. Pur non conoscendo l’intera opera di Luciano Nota, ma perché seguo da tempo il suo lavoro e quel che pubblica sui social, penso che si distingua tra i poeti italiani per la forte identità, sicché una sua poesia la puoi riconoscere facilmente tra le tante. Lo considero tra i migliori nell’uso della metafora; riesce a rendere immagini traendole dallo spazio ignoto alle parole mantenendosi fedele alle cose per come sono, senza alterarle, ma con uno scavo, una visione ravvicinata tale da renderle più evidenti – materia, fisicità, sostanza…– Mi pare di riconoscere nell’invenzione metaforica il piacere che trae dalla scrittura. Il tono colloquiale in qualche modo serve a bilanciare quel che altrimenti apparirebbe oscuro al lettore.
    Non è molto, non ho letto molto; mi pare di un’altra via, per certi aspetti parallela a quel che vado cercando – diciamo nell’essenziale – ma si mantiene vicino alla tradizione e al paesaggio italiano, che è di antica data.

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  4. donfrancesca23

    amo la brevità. In queste poesie, poi, avverto leggerezza ed anche incisione.

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  5. Giuseppe Talìa

    Bravo. Una poesia di metonimia come pure di campi sensoriali, di metafore chiare, il tono colloquiale e la sintassi paratattica rendono questi testi “evento”.

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  6. gino rago

    Luciano Nota POESIE SCELTE da Le cose viste dalle crepe (EdiLet, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Luciano Nota lavora per modificazioni e scarti minimi di luoghi retorici. Le «crepe» sono quelle fessure che ci consentono di sogguardare e traguardare il reale, come da una feritoia

    Luciano Nota, anch’egli “dalle parti d’Orazio”, come sottolineò Ungaretti nella prefazione alle 18 Poesie che segnarono l’esordio di Leonardo Sinisgalli, propone un ” Io ” poetante né minimalista, né piccoloborghese, né narcisisticamente legato alle piccole muffe d’una stanzetta al buio, ma un “Io” capace di universalizzarsi di fronte alle epifanie della natura, in cui il linguaggio dei fiori gioca un certo ruolo, disseminata com’è dal poeta da sapienti correlativi oggettivi.
    Nella nota introduttiva di Giorgio Linguaglossa viene colto oserei dire tutto della poetica e della scrittura di questo poeta oggi meritoriamente proposto da L’Ombra… Così come altro sanno aggiungere la competenza e l’intelligenza dei commenti che precedono il mio. Mi pare che almeno in questi versi odierni Luciano Nota tenda anch’egli verso quella nuova ontologia estetica ben sostenuta dalla nostra Rivista…
    Quel traguardare e sogguardare il reale attraverso la luce delle «crepe» è un nuovo modo di porre a fuoco gli ogggetti, di svelarne la loro vera natura di cose estranee alla nostra esistenza.
    Gino Rago

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  7. Steven Grieco-Rathgeb

    Poesia eccellente.
    Brevità e minime smagliature nel testo creano effetti elettrizzanti.

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  8. Grazie di cuore a Giorgio per l’accurata e diligente recensione alla mia silloge, e grazie a voi, amici, che avete commentato con elogio. Quanto allo “sconvolgimento” di Angela Greco le rispondo con una parabola rielaborata: “Il regno dell’amicizia è simile a un uomo che aveva “seminato” amore per il mondo. Ma mentre era distratto, venne un nemico e “seminò” odio in mezzo al mondo e se ne andò. Quando l’amore “crebbe” ed ebbe “fatto frutto”, allora apparve anche l’odio. Gli amici dell’uomo vennero a dirgli: non avevi seminato amore per il mondo? Come mai, dunque, c’è odio?. Egli disse loro: un nemico ha fatto questo. Gli amici gli dissero: vuoi che andiamo a sconfiggerlo?. Ma egli rispose: no, perché, combattendo l’odio, non distruggiate insieme con esso l’amore. Lasciate che tutti e due crescano insieme sino alla fine; e, al tempo dovuto, dirò a voi: sconfiggete l’odio e bruciatelo; ma l’amore, raccoglietelo nei vostri petti”. Ogni bene a tutti voi. Buon lavoro, caro Giorgio!

    Luciano Nota

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    • « Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio. » (Matteo 13,24-30)
      Mi sono permessa di riprodurre la parabola evangelica nel testo di Matteo, lasciando intatta l’immagine arborea del grano e della zizzania (loglio) chiaramente comprensibili nel linguaggio metaforico proprio delle parabole.
      Caro amico Luciano, mi congratulo con te per il pregevole libro di poesie accolto in questo “hortus”, ma ti ricordo che prima del grano (amore) deve essere raccolta e bruciata la zizzania. “Ipse dixit”.
      Un caro saluto

      Giorgina Busca Gernetti

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  9. Le relazioni verticali in poesia
    sono fittizie.
    In realtà ogni verso è parte
    di un lungo testo orizzontale,
    che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
    come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

    (Michal Ajvaz)

    Questo brano di uno dei maggiori poeti cechi di oggi mi sembra che colga un punto importante: la poesia è parte di un «testo orizzontale» che «per un attimo si rende visibile» «quando attraversa la pagina». Non potrebbe essere detto in maniera più brillante ciò che noi andiamo dicendo da un pezzo, che è molto più importante la orizzontalità della verticalità. Le epifanie del passato (alla Ungaretti) sono ormai cose del passato; oggi le uniche epifanie per noi commestibili sono quelle della orizzontalità, quelle dozzinali di tutti i giorni… E mi sembra che la poesia di Luciano Nota si situi in questa direzione di ricerca…

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  10. Ricevo alla mia email e la trascrivo la nota di lettura a firma di Sabino Caronia:

    Se la raccolta Sopra la terra nera (2010) portava una epigrafe di Leonardo Sinisgalli («la luce era gridata a perdifiato / la sera che il sole basso / arrossava il petto delle rondini a sera»), la successiva raccolta Tra cielo e volto (2013) già nel suo componimento d’apertura: «Sono Adamo. / Non ho ombra che mi veli. / Non ti intralci la mia naturalezza / accomodati.» era una implicita dedica a Raffaele Carrieri.
    Scriveva Ravegnani nel 1961: «Quando incontro Raffaele Carrieri mi pare di toccare un filo elettrico…». E lo stesso Carrieri in un suo brogliaccio di consigli ad un giovane poeta così si esprimeva: «in una poesia il grado di calore di umidità di tensione e di verità è assai più importante della preparazione filosofica e filologica dell’autore».
    Dunque la «naturalezza», la quasi visceralità, la predilezione per i versi brevi è ciò che contraddistingue la poesia di Luciano Nota e la apparenta a quella di Carrieri. Si pensi ad uno dei primi componimenti di Carrieri, Attesa di niente in Lamento del gabelliere (1945): «La luce non mi è stata compagna / sulla terra né l’acqua sorella. / L’affabile acqua piovana / che materna addormenta / il vecchio gabelliere / e la giovane rana. / Avrei voluto chiudere il cielo / come una semplice porta / per restare una giornata / acquattato nell’erba / in attesa di niente».
    Se il tema di Tra cielo e volto era il rapporto tra il paesaggio (le Dolomiti lucane e il Carso) e la persona (l’io e il suo doppio: leggansi le composizioni: Volto, Pierrot, e soprattutto Dalle perle che cadono dal cielo, che significativamente si conclude: «Punto dritto al maldestro / all’inetto, al resto»), con particolare attenzione al motivo della madre a cui lo lega una «stessa scioltezza di cuore, stessa pienezza di affetti» (i titoli più significativi sono 25 agosto, Inverno e, soprattutto, Le anziane lucane. Il motivo dell’ultima raccolta), quello di La luce vista dalle crepe (2016) è ancora la terra materna («La mia terra è ciò che incide / duramente il dorso / e nel petto si stagna, / e non sarà mai spina, / ma cima».
    Non a caso l’epigrafe della raccolta è esplicitamente una poesia di Carrieri «Il vento ci somiglia» che fa parte della raccolta Il trovatore (1953): «Il vento ci somiglia/ e pure l’eco / dentro la conchiglia / che rimormora lo spreco / delle maree».
    Dicevamo della naturalezza, della visceralità e non a caso la sezione delle poesie d’amore è introdotta dai versi di Catullo: «Odi et amo…». Dicevamo ancora della brevità e sicuramente uno dei componimenti cardine della raccolta è intitolato «Brevità».

    (Sabino Caronia)

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