Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

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Intervento di Steven Grieco Rathgeb

Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.

Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”

Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se  questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento.  “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (E le più deboli.) E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. E’ inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”,  “Ne consegue che il montaggio  è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.”  In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.

E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del  prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

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Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.

Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.

E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione.  In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.

Completo con una mia poesia del 1976:

Senza Titolo

sorge il sole degli addormentati
inonda di rosso i visi

dalla botola di luce dilaga
un cielo basso incendiandosi

i visi sono serrati in solitudine
le fronti riflettono fiammate di luce
dietro, navigano in sogni illimitati

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Laboratorio, backstage

Letizia Leone

Lettura e interpretazione di una poesia di Gottfried Benn, REQUIEM, dal ciclo “Morgue”, 1912. Una bibliografia.

Requiem

Auf jedem Tisch zwei. Männer und Weiber
kreuzweis. Nah, nackt, und dennoch ohne Qual.
Den Schädel auf. Die Brust entzwei. Die Leiber
gebären nun ihr allerletztes Mal.

Jeder drei Näpfe voll: von Hirn bis Hoden.
Und Gottes Tempel und des Teufels Stall
nun Brust an Brust auf eines Kübels Boden
begrinsen Golgatha und Sündenfall.

Der Rest in Särge. Lauter Neugeburten:
Mannsbeine, Kinderbrust und Haar vom Weib.
Ich sah, von zweien, die dereinst sich hurten,
lag es da, wie aus einem Mutterleib.

*

Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
Ora petto a petto in fondo a un secchio
Ghignano a Golgota e peccato originale.

Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero.

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Laboratorio Backstage

Partiamo da un testo di Benn del 1912, tempi nei quali il poeta ventiseienne esercitava la professione di assistente patologo nelle cliniche berlinesi, per rintracciare le coordinate stilistiche di una poetica centrata sull’assenza di pathos e sul procedimento paratattico e frammentato.

Qui stilisticamente siamo sulla rotta di quella poesia “anti-lirica” che ha un grande teorizzatore in Thomas Stearns Eliot, colui che nel ‘ 900 modifica la concezione del linguaggio poetico, rimodellando la distanza tra linguaggio poetico e lingua della prassi: “…è la legge per cui la poesia non può discostarsi troppo dalla lingua quotidiana che noi stessi parliamo e sentiamo parlare. La poesia – sia essa accentuativa o sillabica, rimata o non rimata, di forma chiusa o libera – non può perdere il contatto col mutevole linguaggio dei comuni rapporti umani. Può sembrare strano che, pur essendomi proposto di parlare della “musica” della poesia, io insista particolarmente sul linguaggio della conversazione…”

Per tornare al nostro testo, l’anti-lirismo benniano si configura nella crudeltà descrittiva, nella assoluta assenza di pathos, nella freddezza enunciativa del referto autoptico, nella neutra nomenclatura anatomica dei resti, nell’epifania asettica di una “natura morta con parti di cadavere”, come è stato detto. Il grado zero della lingua stride potentemente con la perfezione formale del componimento: una sapiente strutturazione fonica giocata sulle rime alternate, sulle rime interne, rimalmezzo e paronomasie, il cui effetto è un accrescimento della tensione comunicativa.

Qui non c’è canto ma cinico disincanto. Un effetto dissonante e disturbante.

L’apparente armonia (eufonica), lo schema metrico coerente, come la mano di vernice fresca sulla dissoluzione nichilista (“Lo smalto sul nulla”) che fissa il realismo grottesco dell’uomo senza contenuto, “l’uomo del quaternario”. Ma che fissa anche il valore assoluto dell’arte, quella religione dell’arte, quale ultima espressione spirituale dell’uomo nuovo “così stanco”.

Un testo che appartiene al grande teatro della dissezione (e del decostruttivismo) novecentesco dove l’autopsia pertiene, contemporaneamente, alla parola. Il poeta doctus “viviseziona sillabe” e “trapianta consonanti”, scrive poesia disumana, senza nessuna sfumatura emozionale o sentimentale.

La crudeltà di “Morgue” è lontana da tentativi di fuga o astrazione, né si avvale di procedimenti metaforici.

L’andamento del discorso poetico è un continuo “staccato”, è un procedere per lemmi, gli enunciati sono blocchi statici (Poesia statica) avulsi da influssi esterni, ambientali, temporali. Il frammentarismo, la descrizione spezzettata, l’uso strategico della punteggiatura rafforzano l’isolamento di ciò che viene enunciato aumentandone la tensione.

Strategia dello stile nominale: “Soprattutto via tutti i verbi. Buttare tutto sul sostantivo, erigere torri di sostantivi”. (Benn- Lettera 1926) e ciò coincide con l’uso del participio con funzione di aggettivo.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.

 

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Letizia Leone che parla e Rita Mellace

Assistiamo cinematograficamente, dai primi piani impietosi al montaggio fascinatorio delle immagini, alla dissezione e dissoluzione di interi apparati culturali, la crisi epistemologica segna la fine delle grandi religioni e delle ideologie antropocentriche.  La desacralizzazione del corpo umano ne è il correlativo oggettivo. Se pensiamo che in Eliot il correlativo oggettivo è un brano di conversazione, una descrizione o spesso la citazione di autori antichi e moderni, qui si può dire che l’intero testo funziona quale correlativo blasfemo della decadenza irreversibile di un mondo intero e conoscibile.

Ora frammentazione, precarietà o assemblaggio di relitti epistemologici.

Ora: questi cadaveri di uomini e donne sul teatro operatorio della nuova poesia, un tavolo, “Alcova e Altare”, da osservare con occhio solitario, cinico e pornografico.

Bibliografia sommaria:

 Benn, Morgue, a cura di Ferruccio Masini, Einaudi, 1986

  1. Benn, Pietra, verso, flauto, Adelphi Edizioni, 1990;
  2. Benn, Frammenti e distillazioni, Einaudi, 1986;
  3. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, 1994;
  4. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti, 1989;

T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e sulla critica, Bompiani, 2016;

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Giorgio Linguaglossa e Rita Mellace

Giorgio Linguaglossa

Sulla «Nuova ontologia estetica». Le parole abitano la Memoria. Le parole sono entità temporali

Ho esposto rapidamente qual è il senso di chiamare oggi la poesia che stiamo facendo «Nuova ontologia estetica». Brevemente. La domanda fondamentale che un poeta si deve porre quando scrive una poesia è: Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio? Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.

Perché la «Nuova ontologia estetica»? Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse all’interno di una nuova visione di essa.

Parlare di «ontologia estetica» è parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico la prima non si dà senza la seconda, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola» all’interno del «metro».

Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa  il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».

La «parola» quindi è una entità per sua essenza variabile (può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità con frequenza ondulatoria). Dirò, per semplificare, che non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle (leggi, la parole) che vagano nell’universo.

Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica e la poesia segmentata e iconicamente frammentaria di un Antonio Sagredo; ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, il discorso poetico «caleidoscopico» di Steven Grieco Rathgeb e il mio frammentismo metafisico, la frammentazione di autori nuovi come Angela Greco con il suo recentissimo libro Anamòrfosi (Progetto Cultura, 2017), ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone e il frammentismo peristaltico dei poeti nuovi come Francesca Dono con il libro di prossima uscita con Progetto Cultura Fondamenta per lo specchio. Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina, un piccolo mattone. È la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia che albeggia, un modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio 17 poesie.

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Antonio Sagredo

Questo nuovo concetto cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è  più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.) ma che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.

Ed ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Le parole abitano la Memoria. Le parole sono entità temporali.

Lettura di una poesia  di Maria Rosaria Madonna (1942-2002) tratta dalla Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, 2016)

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.

Commento analitico di Giorgio Linguaglossa

«È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.
Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio, qui siamo nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.
Il quinto verso cambia spartito, c’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dal vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente il «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.
Il sesto verso. Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere. Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?
Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’Essere che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.

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da sx Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino e Gabriele Pepe

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Costantina Donatella Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero

 lettura di una poesia di Petr Král e della lettera inviata dal poeta ceco ai lettori italiani.

(Petr Král)

Evo Moderno

ad Yves

Gli eroi sono andati via;
al loro posto infila il corridoio
soltanto il sospiro di spettri di flanella,
nel cassetto a ricordo dell’antica gloria del corpo
soltanto un ciuffo di peli dimenticato.

Niente allori, maschere dorate di collera o benevolenze divine:
solo un busto stinto senza faccia all’angolo della mensola,
scarabocchiato rapidamente dal gesso della paura.

La breccia del fulmine passa senza fretta
per la grigia pietra del cielo.

I lampioni sono comunque tornati all’imbrunire,
per continuare a vegliare le stoffe nel silenzio dei negozi.

*

La lettera di Petr Kral avverte i lettori italiani abituati ad una poesia «melodica», che si troveranno dinanzi ad un diverso tipo di poesia che impiega un concetto di «reale» molto diverso da quello perseguito dalla poesia italiana del secondo Novecento, ovvero, un «reale» statico che sta al di qua dell’io contemplativo che invoca una scrittura elegiaca o anti elegiaca (la differenza è di secondaria importanza). Quello di Kral invece è un concetto di poesia che fa uso intensivo e interattivo delle immagini stranianti, unite però da un filo rosso ben preciso che affida al lettore una grande responsabilità nella interpretazione e ricostruzione mentale della poesia. Quella del poeta ceco è una interessante versione di un nuovo concetto di poesia finalmente liberata dalla coazione mimetica.

gino-rago-in-grigioInterventi del pubblico di Gino Rago

Tra gli interventi del pubblico si segnala quello di Gino Rago il quale ha rilevato che la poesia ontologica e la connessa pratica di una poesia per «frammenti» è cosa filosoficamente diversa dal frammentismo vociano degli anni Trenta. Qui siamo davanti ad una compiuta teoria filosofica di nuovo conio che ha numerosi riferimenti alla filosofia del Novecento pre e post Heidegger, e molti riferimenti alla filosofia di Derrida, Levinas Lacan, e alla psicanalisi di Freud come anche al pensiero ontologico di Emanuele Severino. In particolare, la poesia del Novecento si è basata sostanzialmente su un uso del tempo consequenziale, ne deriva si giunge a metà o alla fine di una poesia in virtù di un continuum (lirico o post-lirico), al contrario, nella nuova ontologia estetica di cui stiamo discorrendo ogni verso ha una sua compiutezza. In questo nuovo concetto di poesia, l’impiego della punteggiatura e del punto riveste un ruolo essenziale in quanto ogni punto implica una distanziazione e una spazializzazione del verso dal precedente e dal seguente. Il verso singolo diventa quasi indipendente dal contesto, e addirittura lo si può anticipare o posticipare senza che l’economia estetica generale del componimento venga compromessa. Fermo restando che la scelta definitiva spetta sempre e soltanto all’autore.

Altro intervento significativo è stato quello di Sabino Caronia il quale ha parlato di un saggio di Italo Alighiero Chiusano sul poeta Gotfried Benn, soffermandosi sulla assenza nella tradizione della poesia italiana del Novecento di una corrente espressionista.

Infine, il poeta Salvatore Martino ha dato lettura di una sua poesia inedita ed ha espresso riserve sulla novità della ontologia estetica che si va profilando, affermando che ogni volta che sulla scena letteraria compare una nuova poesia essa si fonda sempre su una nuova ontologia estetica, e che il postulato del «frammento» in poesia è ancora tutto da dimostrare.

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Sabino Caronia

22 commenti

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22 risposte a “Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

  1. donfrancesca23

    bel lavoro. Condivido !!!

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  2. Grazie per la citazione e soprattutto per la condivisione di questa esperienza pubblica, che riprende come “laboratorio” l’etimologia stessa del termine poesia, ovvero il fare, il produrre, che, in tempi di estrema virtualità come quelli che corrono, mi sembra davvero una cosa positiva.

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    • Salvatore Martino

      Non avrei mai voluto introdurmi in un corridoio di commentari che coronano questo numero de L’Ombra delle parole. Ma visto che sono stato tirato in ballo voglio precisare che trovo “inaudito” il fatto che in questo stralcio di blog si sia voluto mortificare a quattro insensate parole il mio intervento di circa dieci minuti, nel quale venivano poste alcune riflessioni sul frammento e la nuova poesia ontologica e comunque su quello che io intendo intorno alla poesia. Mi rendo conto che la piega di codesta Rivista Internazionale sta volgendo sempre più verso un crinale fondamentalistico: chi:è con me bene, chi non è con me è contro di me. Ne prendo atto con una certa amarezza…ma forse va bene così.

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  3. annamaria ferramosca

    Grazie per l’interessante report

    Il 6 feb 2017 07:41, “L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria

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  4. antonio sagredo

    caro Salvatore, non sei stato affatto mortificato, anzi Ti sei difeso cosi bene che t’ho applaudito. – Invece sei stato mortificato al tempio di Adriano perché un coglione ha preso il Tuo posto in prima fila, non sì è alzato scusandosi, anzi è intervenuto un tizio che più Caio non si può e Ti ha rabbonito, e poi hai letto i suoi versi. Questo è stato estremamente scorretto: io me ne sarei andato indirizzando loro qualche parolina.
    La rivista non è fondamentalista per due motivi:
    1) che questo termine una volta nobile è alla portata degli scemi linguistici. – 2) accogliamo persone preparate; quelle non preparate si auto-eliminano.

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  5. Steven Grieco-Rathgeb

    Ben detto. Grazie.

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  6. letizia leone

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino


    Caro Salvatore,
    nessun crinale fondamentalistico, ti assicuro, di fronte a fatti ed eventi che affermano il contrario. Infatti proprio un laboratorio pubblico, nella sua specificità di dialogo vivo, “in carne ed ossa” ad una certa ora ed in un accogliente salotto culturale come la libreria “L’altra città”, si pone quale momento fondamentale (non fondamentalista) di scambio, apertura, confronto dialettico e ascolto di tutte le istanze. Ogni persona presente ha la possibilità di parlare liberamente e senza censure, esporre idee, dissensi o semplicemente esporre la propria esperienza di scrittura, la propria idea di poesia senza animosità ma nello spirito del dibattito vivace. L’intento è l’esatto contrario del dogmatismo. Nella parola Laboratorio è implicito il senso della sperimentazione e della ricerca…I fondamentalismi bisognerebbe cercarli nelle fedi calcistiche o nelle ortodossie di chiese, congreghe e partiti, ma non nello spirito avventuroso di chi percorre i sentieri (più o meno inesplorati) dell’arte e del linguaggio…Tra l’altro nel post sono state pubblicate parte delle relazioni degli argomenti affrontati nella prima ora, e non gli interventi estemporanei del dibattito della seconda parte dell’incontro che purtroppo non è stato registrato. Un caro saluto.

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  7. La “Nuova ontologia estetica” trova nel web la sua collocazione storica, allo scoccare del primo decennio del secolo duemila. E’ in questo ambito che vanno a confluire poesia, critica e storie personali, come la vicenda di Giorgio Linguaglossa risalente a Poiesis e all’affettuosa amicizia con i protagonisti di allora, Pedota e Maria Rosanna Madonna. Grazie alla rete web, poeti che non si sono mai incontrati di persona hanno potuto riconoscersi in un percorso letterario inedito.
    Le novità concrete, le più manifeste, non hanno molto a che vedere con il linguaggio ma con la scrittura. E’ la scrittura quel che si presume faccia da spartiacque tra il prima e il poi nella poesia odierna italiana; segnalo la scrittura perché è neutra e può accogliere in sé stili e tematiche assai differenti tra di loro.
    Ringrazio per il report che approfondisce ulteriormente alcuni tra gli aspetti più complessi che si celano all’interno di questa mutazione artistica e ne delineano la poetica. Straordinarie le poesie di Benn, Král e Madonna. Grazie a Steven Grieco per l’utile parallelismo con il cinema di Andreij Tarkovskij. E grazie a tutti.

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  8. Nel nuovo appuntamento del Laboratorio fissato per l’8 marzo mi concentrerò sulla problematica del TEMPO INTERNO e del TEMPO ESTERNO in poesia, prendendo lo spunto da due famosi versi di Tranströmer:

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

    Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
    giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

    In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso (concretamente linguistico) che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale.

    Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini.

    Scrive Giacomo Marramao: «i paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene a incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come “qualcosa” di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali […] Coordinata-tempo e coordinata-spazio, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui e ora dell’Ego. Tale modello è documentabile non solo in sede metaforologica e iconologica, ma anche linguistica e glottologica. È sintomatico al riguardo che non soltanto filosofi come Henri Bergson o Heidegger, ma anche epistemologi e scienziati contemporanei, come per esempio René Thom, si siano appellati al linguaggio naturale per comparare le relative “profondità ontologiche” dello spazio e del tempo (…) Thom ritiene di poter pervenire alla conclusione che “il tempo abbia una ‘profondità ontologica’ superiore a quella dello spazio”. Un opposto scenario ci viene prospettato da quei glottologi che si sono soffermati sugli aspetti linguistici della modellizzazione del tempo. Essi non si limitano a constatare che il principale ostacolo nel cogliere l’enigma della dimensione temporale sta nel fatto che i “precetti” che la compongono “possono essere confrontati tra loro solo memorialmente”: e che pertanto a essere comparate sono “le esperienze portate dal tempo, non la dimensione che lo porta”. Ma ritengono addirittura di poterne concludere che il solo modello “percepibile nella sua interezza” a cui l'”insieme dei riferimenti temporali”, sarebbe, per l’appunto, “lo spazio” (Giorgio R. Cardona)» 1]

    «In tutte le rappresentazioni del tempo, siano esse “linguistiche” o “iconiche”, entra dunque il gioco un “fattore soggettivo” strettamente interconnesso al punto di osservazione “rispetto a Ego”, nota sempre Cardona, “il tempo è visto come un asse orientato nel senso davanti-dietro: ego rappresenta l’adesso (così come rappresenta il qui nel modello spaziale), davanti gli giace il futuro, alle sue spalle sta il passato” […]».2]

    Vorrei dire, per inciso, che la poesia proposizionale che fa affidamento sul tempo lineare unidirezionale si taglia fuori da questa visione ontologica delle cose. Ancorata ad una visione prospettica e unilineare essa si affida ad una vecchia ontologia non più adeguata alle nuove cognizioni scientifiche e filosofiche dell’universo e della psiche.
    Nei due versi citati di Tranströmer è visibile una nuova intuizione della ontologia estetica: tra significato letterale e significato metaforico, si apre un abisso. È chiaro che quando il poeta svedese parla di «posate d’argento» non si riferisce al servizio di posate di argenteria che ogni buona famiglia borghese tiene in bella mostra nella credenza del salotto, ma a qualcosa d’altro che ha a che fare con il «mondo di retroscena». Il significato letterale del «mondo di avanscena» si scolla, diverge dal significato di retroscena, assume una risonanza simbolica e temporale. Ed è essa risonanza che amplifica la portata della significazione simbolica a un livello inusitato per la poesia pre-tranströmeriana.

    Copio e incollo uno scambio di battute intervenuto, su questa Rivista, tra me e Mario Gabriele sulla questione del «tempo interno» in poesia:

    IL «TEMPO IN POESIA» E IL «TEMPO INTERNO» DELLA POESIA

    https://lombradelleparole.wordpress.com/…/…/comment-page-1/…

    Ultimamente, quando parlo del «Tempo in poesia» mi sembra di parlare a un uditorio di sordo muti e sordo ciechi, tranne qualcuno dei miei amici che mi segue e si sforza di seguirmi. Io non mi stanco di ripetere che dobbiamo imitare e seguire il coraggio degli scienziati, dei fisici della teoria del Tutto, dobbiamo imparare molto da Prygogine e Stepehn Hawking, dobbiamo imparare molto dalla musica di Morton Feldman, Ligeti e Giacinto Scelsi e dalla musica contemporanea più alta. Da pittori come Rothko, Morandi, De Chirico… Il Tempo, che cos’è il tempo? E il tempo in poesia? Qualcuno si è mai chiesto quale rapporto c’è tra il Tempo e la parola poetica? Intendo non il tempo considerato come un intervallo tra una nota e l’altra, tra una parola e l’altra, non soltanto, ma come «tempo interno» della «parola», «tempo interno» della «immagine». Penso, anzi, sono convinto che la nuova poesia non potrà nascere se non con una nuova concezione del tempo nel linguaggio poetico. Anzi, dirò di più: il linguaggio è una delle innumerevoli manifestazioni del «tempo». Se ci pensiamo un attimo, il linguaggio, qualsiasi linguaggio, secondo i linguisti, è formato da 22 massimo 26 suoni che combinandosi tra di loro formano lo scheletro fonetico di ogni lingua conosciuta. E questo cos’altro è se non una manifestazione del tempo che si esprime mediante fonemi? Non c’è alcuna differenza tra il tempo della musica e il tempo delle parole. Sta al poeta, se è poeta, trovare le parole che esprimano questo «tempo fonetico».

    «È la scansione del tempo, non il Tempo in sé, che è stata spacciata per l’essenza della musica» scrive Feldman. E ancora: «A me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo» –, ma anche sui fili misteriosi che legano da sempre Arte e Società: «la società, per come la vedo io, è una specie di mastodontico apparato digerente, che tritura qualunque cosa gli entri nella bocca. Questo smisurato appetito può ingollare un Botticelli in un sol boccone, con una voracità da terrorizzare tutti tranne il guardiano di uno zoo. Perché l’arte è così masochista, così desiderosa di essere punita? Perché è così ansiosa di finire dentro quelle gigantesche fauci?».

    La poesia italiana è ancora ferma alla concezione del «tempo esterno» in poesia. Ci sono due poeti che, a mio avviso, fanno poesia con una nuova concezione del «tempo interno», e precisamente: Steven Grieco-Rathgeb e Mario Gabriele. Come ci siano arrivati io non lo so ma lo posso intuire. L’importante era arrivarci a questo traguardo. Quando stigmatizzo che la poesia italiana dopo Satura di Montale è rimasta prigioniera di un concetto di tempo esterno eguale per tutto e per tutti, non mi reputo un profeta ma lo dico con la chiarezza teorica del critico letterario, del poeta che opera Oggi in Occidente.

    Io posso dare un consiglio ai poeti. Di rileggere le proprie poesie ascoltando la musica di Morton Feldman, così apparirà loro chiaramente la discrasia tra la loro poesia e il «tempo interno» della musica di Feldman.

    Fare poesie sulla Luna? E perché mai caro Sagredo dovrebbe essere una operazione da passatista? Chi l’ha stabilito? Chi lo statuisce? Liberiamoci una volta per tutte da tutte le cognizioni deteriori e prosaiche che abbiamo sentito miliardi di volte. Gettiamo alle ortiche queste cose e andiamo al centro delle «cose». La «finzione»? Ebbene, Che cos’è la «finzione»? Chi decide quando io «fingo» o altri «finge»? Chi ha statuito che la poesia sia «finzione»? E finzione di che?

    Ci ricorda Feldman: «Lo straordinario degli anni Cinquanta è stato il fatto che per un breve attimo (che so, sei settimane) non c’era nessuno che capiva l’arte – perciò sono potute succedere tutte quelle cose. Perché per un attimo, gli artisti sono stati lasciati in pace. Sei settimane bastano per cominciare, ma oggi in questa città non c’è nessun posto in cui puoi andarti a nascondere per sei settimane. Ecco, questo voleva dire essere un artista. A New York, a Parigi, ovunque».

    E allora? Oggi siamo nelle migliori condizioni per scrivere poesia, perché nessuno ci capisce niente in fatto di poesia…

    Mario M. Gabriele
    13 novembre 2016 alle 18:22 Modifica
    Caro Giorgio,
    Il tuo reportage su Morton Feldman è un prezioso documento di retrospettiva storica e artistica di un musicista d’avanguardia, che cercava le note musicali, armonizzandole in una diversa struttura. I suoi incontri con gli artisti della sua epoca e di poeti come Beckett, mi hanno riportato in un’America che ha rivoluzionato la cultura, modificandola internamente. Anche se si tratta di innovazione, e di proposte alternative alla prassi normale del concetto di Arte, e più in specifico di Musica, non si può non sottostimare lo sforzo creativo di un musicista, come Feldman, di creare certi schemi musicali, e qui il pensiero va anche a Cage, che mi pare di aver trattato tu ed io, già precedentemente su l’Ombra delle parole, quando abbiamo avuto occasione di discutere della dodecafonia. Sono queste le eccezioni culturali ed estetiche che mettono in allarme le “sentinelle” dello “status quo”. Eppure, quanto lavoro, quanta fantasia e quanta solitudine vi sono dietro ogni progetto di rinnovamento. Il post che hai redatto è un acrilico dagli innumerevoli riflessi, che non possono non sfuggire ai lettori. E quindi a te, va il mio più sincero ringraziamento.

    1] G. Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005 p. 14,15
    2] Ibidem p. 16

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  9. gino rago

    Nessun vento è utile al marinaio che non sa la rotta. E se non sa la
    rotta non conosce nemmeno il suo approdo.
    Buona parte del mio estemporaneo, imprevisto intervento si è acceso sulla linea diciamo “gestaltica”, cioè sulla “gestalt”, sulla forma della nuova poesia che della non dissipazione del “tempo” fa il suo baricentro.
    Non dissipando il tempo, i versi non creano attriti di scorrimento fra di loro,
    a tutto vantaggio della densità linguistico-espressiva del componimento in cui si riducono al minimo – tra verso compiuto e altro verso compiuto – le
    dissipazioni entropiche per quasi totale assenza di attriti tra un verso e l’altro. Nella poesia della nuova ontologia estetica non conta soltanto ciò che il poeta, con il suo temperamento, mette nell’opera ma ciò che l’opera stessa induce, indipendentemente dalle intenzioni stesse del poeta, nel tempo e nello spazio dei lettori, tempo e spazio dei lettori che possono anche non coincidere con quelli dell’autore. Perché in fondo, com’è nell’Arte, la poesia non è questione soltanto di senso, ma è questione di forze, di campi di forze vibrazionali e di tensioni. Cioè, di forma.

    Gino Rago

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  10. “vizi privati e pubbliche virtù” non so perché, ma a me sembra così ultimamente.
    Io, da persona non preparata mi auto-elimino, seguendo i consigli sopra esposti.
    “So di non sapere” e questo basta per fare la differenza.
    Buon lavoro a ciascuno.

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  11. Donatella Costantina Giancaspero

    Cari amici,
    siamo qui, sulla Rivista come nel Laboratorio e, direi, nella Vita, per conoscere, per comprendere mediante la lettura, l’ascolto e il confronto democratico con tutti, le istanze di una rinnovata poesia: ovvero, quella “nuova ontologia estetica” di cui dibattiamo animatamente, sì, ma senza animosità, sempre. E la discussione, a mio avviso, sarà tanto più interessante e stimolante, quanto più darà spazio alla voce di chi dissente. Solo un costruttivo contraddittorio, infatti, può condurci a un’onesta visione critica, libera da condizionamenti e preconcetti. Al di là di ogni personalismo, lo scopo che perseguiamo è uno soltanto e si esprime in poche, semplici parole: operare in favore della Poesia. Dunque, che il dibattito prosegua a tutto campo, affrontando i temi di “forma”, “tempo”, “metro”, “parola-immagine” e di tutto quanto, insomma, avremo desiderio di sapere, interrogando i nostri colleghi e noi stessi. Ma tutto con spirito positivo, orientato verso la ricerca, ricerca anche di quell’Autenticità, che, scherzosamente, potremmo definire altro “tormentone” del nostro dibattito sulla poesia. E tutto senza zone grigie, né scie di malcontento, in nessuno, da nessuna parte.
    Un abbraccio

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  12. Steven Grieco-Rathgeb

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino


    Mi permetto di incollare qui una mia recentissima poesia sula luna, per vedere se funziona. Ho voluto qui esprimere tutta la disperazione (meglio dire, con Sartre, la nausée) che il poeta talvolta sente, quando immagina che il tempo, il mondo, gli altri, gli abbiano rubato la materia con cui scrivere. Poi si avvede che è lui che deve plasmare: la materia c’è, non è mai andata via, ma rimane inerte finché lui non la tocca con la mano invisibile della sua immaginazione

    L’irrilevanza del poeta (3)

    Una immagine spaccata sta al centro del mio torace.
    Parole, come ratti, entrano strisciando all’interno.

    E’ il disco rotto di una luna nuova,
    qualche frantume di vetro scuro giace sparso qua e là.

    Fra gli interstizi,
    con alberi e colline notturne versate nella luce di latte,
    un paesaggio sognato ancora racconta fandonie spudorate.

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  13. Saggio e sapiente son tra loro differenti.
    Il saggio vive leggero, sa del cielo, della terra, delle galassie, della vita e della morte, ma mentre cammina bada solo ai propri passi. Il sapiente non si separa mai dalla propria conoscenza, la vita è per lui un bagaglio pesante.
    Il poeta saggio sa di stare all’interno di una grande poetica, ma bada unicamente a scrivere; le sue risposte sono semplici perché stanno nell’istante. Il poeta sapiente, ahi! quanta fatica deve sopportare.

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  14. Caro Steven,

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino


    a me sembra che il titolo della poesia: “L’irrilevanza del poeta” sia azzeccato. Il poeta come persona fisica e spirituale è davvero irrilevante, tutto quello che può fare è creare una cornice teorica ed esistenziale per intercettare «la poesia» che aleggia in un’altra dimensione, quella fantasmatica. La verità è che la poesia abita il «vuoto». Nel senso che prima di essere stata scritta era nel «vuoto» e, dopo l’atto della scrittura, abita il «pieno» delle «Forme». Il poeta è nient’altro che una canna pensante che nuota tra il pieno e il vuoto, il silenzio ed il rumore. È costretto a sostare tra le parole false e le parole vere, tra l’inautenticità e l’autenticità, l’angoscia e la gioia.

    Questa tua poesia aggiunge un altro tassello a quella cosa mostruosa che è la poesia del nostro tempo. Le parole sono quei «ratti [che] entrano strisciando all’interno [del torace]».

    Quello che tu, io, Mario Gabriele, Gino Rago, Costantina Donatella Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi e altri (pochi)… ciascuno in modo diverso, stiamo facendo è cercare le parole-ratti. Non è un bel mestiere il nostro, ma non abbiamo altra scelta. La tua poesia narra questo problema, che non è soltanto del poeta singolo ma è comune anche agli altri uomini: quale parole usare? Quali parole non pronunciare? – Oggi, quello che tu avverti è la insufficienza, la irrilevanza, la spudoratezza di questo andare a caccia delle «parole-ratti» muniti di un esiguo acchiappafarfalle.

    Oggi si pone al poeta del nostro tempo un problema che in altri periodi non si poneva in modo così chiaro e pressante: la questione dell’autenticità di essere nella poesia, forse perché noi, dico noi intendendo quelli della nostra età o giù di lì, siamo stati per troppi decenni immersi in un fiume di sperimentalismo, orfismo, quotidianismo, privatismo, talqualismo etc per cui abbiamo dovuto lottare contro corrente.
    Direi che ancora dobbiamo andare contro la corrente principale della poesia della «comunicazione», quella che arriva già telefonata, fatta con un linguaggio già telefonato… La tua poesia è quanto di più privatistico si possa pensare… eppure, non narri mai eventi privati, faccende private… il lettore voyeur viene deluso, nelle tue poesie non c’è mai nessun cedimento al lettore-voyeur… c’è molta «aria» tra le parole della tua poesia, c’è molto «vento», si sta in mezzo alle correnti ascensionali e perpendicolari, si viaggia a bordo delle parole come a bordo di esili aquiloni… e si rischia di periclitare a terra ad ogni momento…

    Del resto, è nostro compito ricomporre la catena generazionale che è stata spezzata in questi ultimi decenni. Si è interrotta, per ragioni di piccole lobbies letterarie che volevano imporsi a danno di altre concorrenti, la catena generazionale, così che non si sa più quali siano stati i poeti validi del recente passato e quali rileggere, ci si è perduti in una selva rigogliosissima di quasi poeti e pseudo poeti. Così, è accaduto che una poetessa come Anna Ventura è stata abilmente messa da parte, non la si legge, non la si sa più leggere. Ricordo un poeta di oggidì il quale qualche tempo fa mi confidò in un orecchio che la Ventura era una poetessa di valore… ma poi non fece nulla per dare seguito a quelle parole… Ecco, viviamo in questa medietà generalizzata dei letterati medi…

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  15. Steven Grieco-Rathgeb

    LA NUOVA POESIA ONTOLOGICA DI STEVEN GRIECO RATHGEB
    Caro Giorgio https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/06/laboratorio-pubblico-di-poesia-del-1-febbraio-2017-presso-la-libreria-laltracitta-roma-via-pavia-106-riassunto-degli-interventi-di-steven-grieco-rathgeb-letizia-leone-giorgio-linguaglossa-do/comment-page-1/#comment-17855

    in questo tuo commento hai raggiunto un punto molto alto della tua analisi spassionata e spietata della condizione della poesia di oggi. Tutto quello che tu dici in modo così grave, quasi doloroso, è verissimo, infatti io penso difficile che un poeta non si riconosca in queste tue parole.
    Il fatto però è che dalla analisi spassionata, profondamente reale – per esempio “La verità è che la poesia abita il «vuoto». Nel senso che prima di essere stata scritta era nel «vuoto» e, dopo l’atto della scrittura, abita il «pieno» delle «Forme»” (discorso “critico” di incredibile poeticità) da qui, dico, il tuo parlare inizia d’un tratto – quasi non ce ne eravamo accorti! – a salire, salire, raggiungendo come delle vette non esito a dirlo di riflessione così compiuta, effortless, e ormai espressa in brevi frasi, da diventare discorso elevato, narrazione epica, profetica del nostro tempo.
    Ridano pure i sornioni alle parole che ho appena usato, “epico”, “profetico”. Perché ancora non si vuole capire una cosa: le parole di Giorgio sopra, non solo descrivono esattamente la poesia di oggi, descrivono ahimè anche il mondo di oggi: perché la poesia e i poeti questo sanno fare talvolta! descrivere il mondo, strappare via il velo dell’auto-referenzialità, mettere a nudo l’inenarrabile banalità di tempi vuoti e crudeli e sazi d’ogni ben di dio.
    Ecco perché parole visionarie, profetiche.
    Perché un commento come questo di Giorgio non lo legge chi è avverso oggi a che la poesia cambi, si avvicini al mondo, sappia dire più profondamente? Abbiano il coraggio di uscire allo scoperto, e ammettere una volta ogni tanto che c’è anche un tipo di discorso critico che è poesia tanto quanto lo sono i versi. E riconoscere che ogni tanto l’eloquio di una persona sale alta a circoncingere l’intero orizzonte. Di questo ti ringrazio, caro Giorgio.
    E hai perfettamente ragione, sai? Una poetessa come la nostra Anna Ventura che ho a presente l’onore di tradurre in inglese, scrive poesie che potrebbero nemmeno essere lette. Eppure vai a leggerle bene, ci troverai, delicatissimo, il sentimento del tempo, ci leggerai la profezia inconscia della vacuità e inanità del nostro mondo contemporaneo, che spero davvero non si porti giù il tempio su stesso come fece l’amico Sansone.

    Da Golos iz chora (Una voce dal coro) di Aleksandr Blok:

    O если б знали вы, друзья
    Холод и мрак гядущих дней!

    O se voi sapeste, amici,
    il freddo e il buio dei giorni futuri!

    O un’altra sua poesia che forse tutti conoscono, modernissima, vicina allo spirito di certo Kavàfis, che in qualche modo è tutta frammenti e traduco qui alla spicciolata:

    Notte, strada, fanale, farmacia,
    insensato e oscuro mondo.
    Vivi così anche per un quarto di secolo-
    tutto sarà così. Non esiste uscita.

    Morirai – comincerai di nuovo dall’inizio
    e tutto succederà ancora come in antico:
    notte, gelido incresparsi del canale,
    farmacia, strada, fanale.

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  16. antonio sagredo

    LA NUOVA POESIA ONTOLOGICA – POESIA INEDITA DI ANTONIO SAGREDO

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

    Mi afferravo agli anelli erranti che clementi come in una zana mi dondolavano
    E in quel cantuccio, sotto una nera scala di servizio come il poeta
    Vivevo e pensavo a ciò che dell’ignoto conoscevo…
    E non era un errore questo mio viaggiare con loro
    Come nel grembo la creatura si agita per il volto della madre che non sa
    E per questo già vive nel mistero… proprio lui che è mistero del segreto!
    Così noi viviamo in un linguaggio che non sa chi noi siamo!

    E nella notte, noi, ancora gli occhi sui fuochi teniamo desti
    Perché nei terrori temiamo le nostre fluide maschere
    Che di giorno si dissolvono per esser fuori da ciò di cui siamo formati
    E dissipiamo i sogni sui capestri
    E dopo i roghi raccogliamo, ciechi, le nostre ceneri – disperse!

    E mi specchiai nudo prima della mia creazione
    E innocente con la mia apparente eternità.

    (da “Parole Beate”, gennaio 2016)

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  17. LA NUOVA POESIA ONTOLOGICA: POESIA DI ANTONIO SAGREDO COMMENTATA DA GIORGIO LINGUAGLOSSA

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

    Antonio Sagredo

    Mi afferravo agli anelli erranti che clementi come in una zana mi dondolavano
    E in quel cantuccio, sotto una nera scala di servizio come il poeta
    Vivevo e pensavo a ciò che dell’ignoto conoscevo…
    E non era un errore questo mio viaggiare con loro
    Come nel grembo la creatura si agita per il volto della madre che non sa
    E per questo già vive nel mistero… proprio lui che è mistero del segreto!
    Così noi viviamo in un linguaggio che non sa chi noi siamo!

    E nella notte, noi, ancora gli occhi sui fuochi teniamo desti
    Perché nei terrori temiamo le nostre fluide maschere
    Che di giorno si dissolvono per esser fuori da ciò di cui siamo formati
    E dissipiamo i sogni sui capestri
    E dopo i roghi raccogliamo, ciechi, le nostre ceneri – disperse!

    E mi specchiai nudo prima della mia creazione
    E innocente con la mia apparente eternità.

    (da “Parole Beate”, gennaio 2016 – Inedito)

    Caro Antonio Sagredo,

    Ci sono tre tipi di inferenza: l’inferenza segnica, l’inferenza simbolica e quella iconica. Tu, come al tuo solito, oscilli tra tutte e tre queste inferenze, senza optare mai per l’una o per l’altra, tu, come sempre, fai poesia sulla poesia, mediti, in un modo tutto tuo, su ciò che è la poesia, da dove viene e dove va e se c’è una strada, o più strade… parli, con un tuo personalissimo modo, dello stupore, della tua esaltazione e dell’abominio. Ecco, quando tu deliri compiutamente, raggiungi esiti elevati. Ma devi delirare nel modo che sai. C’è sempre il tuo «Io» nelle tue poesie, un «Io» che ingombra il passo, un «Io» tra le macerie, i singhiozzi, i dittonghi, le esclamazioni (molte esclamazioni sono delle interrogazioni dissimulate). Quell’incipit:

    Mi afferravo agli anelli erranti…

    è splendido, ci proietta da subito in un mondo di illusioni ottiche, di fantasmagorie, che è il mondo che tu prediligi e nel quale ti riconosci e ti disconosci, perché la tua poesia oscilla sempre tra riconoscimento e disconoscimento, altare e fogna, verità e menzogna, Hamlet e clown, Arlecchino e Riccardo IIII, tra il barocco e la licenziosità, la Controriforma e il controspionaggio (a parte la battuta). Poi, nel secondo emistichio, cambi marcia, inserisci una proposizione relativa:

    [che] clementi come in una zana mi dondolavano…

    Ora, noi sappiamo che la «zana» è una “ampia cesta di forma ovale, fatta di listerelle di legno intrecciate” ci recita il dizionario del Corriere, un termine di origine popolare, della vita quotidiana che però è entrato nel lessico colto. Ma le «zane» sono ormai introvabili, se non a Porta Portese qui a Roma o nel mercato delle rigatterie. Tu scherzi, ovviamente, con finto candore. Nel secondo verso scrivi:

    E in quel cantuccio, sotto una nera scala di servizio come il poeta…

    E lasci tutto in sospeso come un abile regista di teatro, lasci il lettore con il fiato sospeso in attesa del terzo verso. Complimenti, là dove un altro poeta avrebbe messo l’enjambement, tu invece lasci in sospeso la situazione, dribbli il lettore e lo inviti ad entrare nel terzo verso, che in realtà serve a sconcertare vieppiù il lettore malcapitato perché tu scrivi:

    Vivevo e pensavo a ciò che dell’ignoto conoscevo…

    E quindi dai per scontata una cosa di cui invece nei due versi precedenti non c’era traccia alcuna: quella parolina l’«ignoto», che balza fuori dalla cesta di vimini intrecciata ad indicarci il vero tema della tua poesia, che è l’«ignoto», quell’abisso che si apre in ogni momento della nostra giornata e che subito si richiude. E poi ci sono ben due verbi («vivevo e pensavo») declinati al passato e alla prima persona singolare quell’«Io» che riempie le tue poesie ossessivamente.
    Ma mi sorge un dubbio: se quel tuo «Io» è così invasivo che lo si ritrova dappertutto, una vera invasione di «Io». E mi chiedo: non è che questo avviene perché quell’«Io» di cui tu ti fai latore è invece definitivamente scomparso, defunto?

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  18. antonio sagredo

    OSIP MANDEL’STAM POESIA “PIETROBURGO” COMMENTO INEDITO DI ANGELO MARIA RIPELLINO E DI ANTONIO SAGREDO

    Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino


    “in quel cantuccio, sotto una nera scala di servizio come il poeta…” :

    così mentre componevo mi venne la visione di Mandel’stam della poesia “Pietroburgo”, che si mescolò alle mie visioni.
    Ecco la poesia:
    ——-
    Sono tornato nella mia città, nota sino alle lacrime,
    sino alle nervature, sino alle glandole gonfie dell’infanzia.

    Tu sei tornato qui – dunque inghiotti al più presto
    l’olio di pesce dei fanali del fiume di Leningrado!

    Riconosci al più presto il giorno di dicembre,
    dove il sinistro catrame è mescolato al giallo d’uovo.

    Pietroburgo, io non voglio ancora morire:
    tu hai i numeri dei miei telefoni.

    Pietroburgo! Io posseggo ancora gli indirizzi,
    dove troverò la voce dei morti.

    Io vivo su una scala nera, e sulla tempia
    mi batte un campanello strappato con la carne.

    E tutta la notte io aspetto ospiti cari,
    squassando i ceppi delle catenelle della porta.

    dicembre 1930. Leningrado
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    (mia nota n° 1 al Corso su Mandel’stam di A.M.Ripellino, 1974-75)

    “A. M. Ripellino cita questa poesia dall’edizione americana Osip Mandel’štam – Collected Works in Three volumes, ed. Inter Language- Literary Associates, 1967, vol. I, p. 158. La successione cronologica di questi tre volumi è: 1967, 1969, 1971. Nel 1981 il 4° volume. Ma nel 1956 fu pubblicato un primo volume delle poesie di Mandel’štam; mentre il secondo in Sobranie sočinenij v dvuch tomach, vol. II, New York 1966 In questi versi su Pietroburgo (Leningrad), più che in quelli profetici e melodicamente lirici di Blok, si esprime la preghiera invocativa e realistica di Mandel’štam, tesa e protesa all’ascolto: qui è il senso dell’udito, più che gli altri quattro sensi, ad essere preminente; e così vivido e realistico è questo senso che ti appare come un enorme orecchio, più grande della stessa metropoli, ma che si tormenta in un spazio così ristretto, umidamente malsano da non poter udire quelle risposte che il poeta attende, invano! Il telefono gioca un ruolo di primissimo piano fra i poeti russi. Anche per Mandel’štam, come per Majakovskij, è qualcosa di terribile, tanto che questi nel poema Bene dice: “Il telefono è impazzito/ mi rintrona nell’orecchio/ come una mazzata:/ l’enfiagione della fame/ ha chiuso quegli occhi scuri”. In Majakovskij- Opere, a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, 1972, p. 411. L’Achmatova, quasi ripetendo Mandel’štam, così parla di Leningrado a Lidija Čukovskaja : ” Leningrado, in generale, è una città straordinariamente adatta alla catastrofe. Questo fiume freddo su cui ci sono sempre nuvole pesanti, questi tramonti minacciosi, questa spaventosa luce teatrale… L’acqua nera coi riflessi di luce gialla…Tutto è terribile: non riesco ad immaginarmi che aspetto avrebbero catastrofi e sventure a Mosca: là tutto questo non c’è”.; in Lidija Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova 1938-41, Adelphi 1990, p. 73. (vedi anche nota 276, pgg.131-132) ////// Quanto al colore giallo: vera ossessione dei poeti simbolisti, acmeisti, e futuristi (la gialla blusa di Majakovskij!)! La fine del secolo XIX e l’inizio del XX sono dominati dal giallo. Viktor Šklovskij apre il suo saggio dedicato a Ejzenštejn, rivivendo le atmosfere e i colori di Pietroburgo dominati: “Il cielo non ha alcun alone rossastro, brillano sempre le stelle. I lampioni a gas mandano una luce lilla. Nelle vie del centro ronzano i carboni ravvicinati dei lampioni ad arco: intorno ad essi la luce è azzurro-giallognola….i lampioni a petrolio somigliano a collane dalle perle molto diradate…. Di mattino ….la luce dei lampioni a petrolio assomiglia alle macchie sbavate di piscio equino in mezzo alla neve….La vita è lenta… Di questa lentezza rende ancora testimonianza Blok all’inizio del nostro secolo….Nelle scuole si mostravano nebulosi quadretti, che venivano proiettati su uno schermo a Pietroburgo, Mosca, Riga, da gialle lanterne magiche, scintillanti per le viti di rame e il legno laccato.”in: Viktor Šklovskij –Sua Maestà Eisenstein – Biografia di un protagonista, De Donato, 1974,; stupenda traduzione di Pietro Zveteremich. Mentre una edizione indegna è quella del 1998 a cura di Liborio Termine, Il leone di Riga, ed. testo&immagine, che offre una traduzione raffazzonata, imprecisa e, ripeto, parecchio incompleta (non sono tradotti interi capitoli!), e addirittura vengono saltati decine e decine di interi passaggi. Come esempio, proprio all’inizio del testo : “Chaplin non ha compiuto ancora 11 anni! Edison ha già brevettato il cinematografo. La parola non è ancora matura”, ( a p. 9. nella traduzione del 1974), è un passaggio assente nel testo edito del 1998, p.. 41. Al lettore viene sottratta quella puntualità storica che per Šklovskij è essenziale, e quindi edizione da stracciare! (vedi n. 260, p.121). ////// “scala nera”… in effetti è propriamente la “scala di servizio”. //////// La traduzione del Leone di Riga fu commissionata da C. De Michelis alla russista Caterina Graziadei, e mai dalla stessa più rivista perché non si parlò più di pubblicazione; molto tempo dopo uscì la edizione del 1998, nello stato deplorevole di cui ho già detto sopra, e di cui non è responsabile la russista Graziadei, che se ne disinteressò poco dopo aver terminato la traduzione”.
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    (commento di Ripellino a questa poesia):
    “Quando si pone dinnanzi a noi il nome di Mandel’štam ci si ricorda subito del grande martirologio della letteratura russa. La letteratura russa non è uno strumento di facile svago. Essere scrittori in Russia è stato sempre una lotta col destino, col potere, con la tirannia. Pensiamo al nostro secolo: Mandel’štam è morto in un campo di concentramento a Vtoraja Rečka, vicino a Vladivostok, nella seconda ondata delle purghe staliniane, nel 1938-39 .
    Mandel’štam si aggrega ad una lunga serie di poeti scomparsi, fucilati, deportati o morti di crepacuore: Gumilëv e Blok nel 1921, Majakovskij suicida nel 1930, Esenin suicida nel 1925, Marina Cvetaeva suicida nel 1941, dopo essere tornata dall’Occidente. È una lunghissima fila di poeti scomparsi o deportati, un elenco che include quasi tutta l’intellighenzia russa degli anni ’20; bisogna aggiungere che Mandel’štam è un poeta ebraico e, come diceva la Cvetaeva: “Tutti i poeti sono ebrei”, perché tutti i poeti sono perseguitati e tartassati dai mali, e sono torturati e odiati dal potere, il quale si può servire di loro, ma finisce sempre con l’opprimerli.
    Quando fucilarono Gumilëv , che era il capofila della scuola a cui Mandel’štam appartenne, un altro poeta che viveva in Crimea, Maks Vološin , scrisse una poesia intitolata Sul fondo dell’inferno del 1921.
    Mandel’štam ci sorprende perché nell’epoca della rivoluzione è riuscito a fondere, lui che era un ebreo di origine polacca russificato, innumeri strati di cultura, come se la rivoluzione avesse sommosso tutta la cultura del mondo togliendole la specifica temporalità e l’avesse fusa insieme.
    Mandel’štam era un poeta di citazioni, cioè che vive della citazione di diversi strati culturali”.

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    • Steven Grieco-Rathgeb

      Oggi è stata una giornata massacrante per me, arrivo adesso all’Ombra, e vedo che Giorgio ha commentato la poesia ha già commentato la poesia di Sagredo, che effettivamente è interessantissima, per questo suo andamento molto denso e anche sfuggente. Ci senti mille riferimenti che di colpo sfuggono, come un vuoto in cui echeggiano tutte le letture appassionate del poeta, gli anelli erranti, forse i poeti che lo hanno formato in tempi passati, e adesso rimane questo mirabilissimo sottoscala nero. “Così viviamo in un linguaggio che non sa chi noi siamo.” Niente di più eloquente! In effetti mi sembra che tutta la prima strofa parli proprio del rapporto fra il poeta e i suoi antesignani. Un rapporto ricco e vivificante allora, ma che i tempi sembrano aver tradito.
      Un materiale densissimo che mi riserverò di commentare al prossimo laboratorio.

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