
chagall-crocifissione-bianca-1938
(Parte terza)
Cita il vocabolario Treccani:
Olocausto. Forma di sacrificio praticata nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui la vittima veniva interamente bruciata. Presso gli Ebrei l’ōlāh, istituito, secondo la tradizione, da Mosè, rappresentava la più completa espressione del culto offerto a Dio e consisteva nel bruciare interamente la vittima sull’altare dopo l’immolazione (perciò il termine ebraico fu tradotto nella Settanta con ὁλοκαύτωσις o e nella Vulgata con holocaustum), senza riservarne alcune parti per usi rituali, e dopo averne versato il sangue attorno all’altare stesso. La vittima poteva essere il toro o il vitello, l’agnello o il montone, il capretto o il capro, sempre di sesso maschile, e tra gli uccelli, la tortora e il colombo, e doveva restare sull’altare tutta la notte, fino alla mattina.
Nell’antica religione greca l’O. si distingue nettamente dal tipo comune del sacrificio offerto agli dei, fondandosi sulla norma particolare che escludeva la partecipazione del sacrificante alla consumazione della vittima, per preservarlo dal contatto con il destinatario del sacrificio.
Con il termine Olocausto, si indica la persecuzione e lo sterminio totale degli Ebrei da parte del regime nazista (➔ shoah).
Sacrificio. Atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano a un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio. 1. Generalità Il sacrificio è di centrale importanza nella maggior parte delle religioni; … culto. In generale, la manifestazione del sentimento con cui l’uomo, riconoscendo l’eccellenza di un altro essere, lo onora. Si distingue in culto profano e culto religioso. Quest’ultimo è il più comune e include le nozioni di manifestazione esterna del sentimento religioso, adorazione del divino e relazione…
Mosè (ebr. Mōsheh) Nella Bibbia, liberatore del popolo d’Israele dall’Egitto e suo legislatore nel deserto. Secondo il racconto dell’Esodo, nacque dalla stirpe di Levi, mentre gli Ebrei in Egitto erano perseguitati. Sua madre, invece di farlo gettare nel fiume secondo i decreti della persecuzione, lo … Shoah Termine ebraico («tempesta devastante», dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11) col quale si suole indicare lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale; è vocabolo preferito a olocausto in quanto non richiama, come quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile.
Olocàusto s. m. e agg. [dal lat. tardo holocaustum (holocaustus come agg.), gr. tardo λόκαυστον (sinon. del più com. ὁλοκαύτωμα), neutro sostantivato dell’agg. ὁλόκαυστος «bruciato interamente», comp. di ὅλος «tutto, intero» e καίω «bruciare»].
Giacomo Marramao
«Non credo vi sia contraddizione, ma al contrario produttiva ambiguità, nel corpo di queste Tesi, tra l’enfasi sulla Jetzeit [ n.d.r. di W. Benjamin Tesi di filosofia della storia, 1940]- sull'”adesso” o “tempo-ora” come rottura del continuum entropico del Progresso, della “meretrice ‘C’era una volta’ nel bordello dello storicismo” -e la “rappresentazione (Darstellung) del passato”. Occorre allora intendersi una volta per tutte sul significato benjaminiano di rappresentazione. Essa non ha più valore metodologico, e neppure meramente teorico, ma soprattutto etico-pratico nel “tempo della miseria”, che riceve il suo contrassegno non già dalla coppia (cara a tante palesi od occulte, “filosofie della vita”) Erlebnis-Form ma dall’endiadi Erfahrung-Armut, la Darstellung allude al punto – punto infinitesimale, margine pericolosamente minimo – in cui soltanto può darsi la sutura tra riappropriazione del passato e immagine dell’umanità redenta.
“Il passato”, si legge nella seconda tesi [ di Benjamin Tesi di filosofia della storia, 1940] reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione”. Sta qui racchiuso anche il significato della “debole forza messianica” (schwache messianischeKraft) trasmessaci in dote, di cui si parla subito dopo. Essa si spiega precisamente con il fatto che il margine di convertibilità reciproca tra “diritto” del passato e “redenzione” è inesorabilmente esiguo: anzi – ancora una volta – pericolosamente minimo. Ritengo sia fortemente presente a Benjamin (a onta delle critiche tese, come quella per esempio di Jurgen Habermas, a liquidare la sua riflessione come “gesto” estetizzante la consapevolezza che la tendenza infuturante del tempo storico progressivo, la cui prospettiva volge al futuro la fronte ( e non le spalle, come l’angelo di Klee, il cui viso è invece rivolto al passato) e trasforma la catastrofe della storia in una trionfale “catena di eventi”, rappresenti il fattore che ha espropriato gli uomini non solo del passato (ridotto a “immagine eterna”, neutralizzato in “patrimonio culturale”) ma della stessa dimensione del futuro. Benjamin avrebbe probabilmente sottoscritto la proposizione con cui Raymond Queneau apre Une historie modèle:
“I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini“.
Con la differenza che per lui la via di accesso alla comprensione di questa infelicità non può essere data né da una mitopoiesi narrativa… né da un ritorno all’immagine ciclica dell’apocatastasis… bensì da una rappresentazione ipermoderna la cui chiave concettuale si trova depositata proprio nell’ultima tesi”: il fatto che la Torah vietasse agli ebrei di investigare il futuro, istruendoli invece alla memoria, non vuol dire affatto che il futuro diventasse per loro una homogene und leere Zeit, un “tempo omogeneo e vuoto”. Al contrario, ciò costituiva la sola condizione per rappresentarsi il futuro come un tempo all’interno del quale “ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia”».1
1 Giacomo Marramao Minima temporalia lucasossellaeditore, 2005 pp. 85,6
Katarina Frostenson
da Tre vie (Aracne, 2015, trad. Enrico Tiozzo)
[…]
Guardo verso le gabbie dei balconi che sporgono dai palazzi, somigliano a nidi. Una testa grigia spunta fuori come una testa di tartaruga dal suo carapace. Si ritira rapidamente, scompare dentro, viene come risucchiata dentro la stanza là dietro.
Le stanze dietro i muri scanalati.
L e s t a n z e.
Volumi. Soffitti bianchi. Pareti pallide. Tracce di dita sulla carta da parati,
vaghe righe di sporco.
Stanza — che cosa dà la parola? Penso la parola come un silenzio fumante.
Stanze come il silenzio stesso. Non ne esce mai.
Il silenzio.
L’immagine della sala da pranzo è la prima. Un tavolo rotondo con una tovaglia a quadretti bianchi e marroni. Apparecchiata con piatti orlati di blu, un piatto con pezzi di carne o un pesce intero da cui spuntano spine gialle, forse gambi di verdure. Latte in bicchieri di vetro infrangibile. Duralex — significa che il bicchiere non si rompe quando cade sul pavimento, dovevamo imparare, e si vide che era spesso così.
È giorno festivo e c’è silenzio. Accade che la radio sia accesa, che arrivi un salmo. “Sollevati mia lingua”. Qualche volta mio padre invita a un canto o una preghiera in un’improvvisa passione religiosa: “a lodare”. Noi continuiamo a bassa voce: “l’eroe che sulla croce”. Ripetiamo i versi finché il canto prende il comando della stanza e delle teste.
Più alto!
Solle
vati, mia lingua,
a lodare
l’eroe che sulla croce
per noi sanguinò

Guido Galdini
Guido Galdini
il maggior punto d’incomprensione
lo si raggiunge di fronte alla crudeltà
men che gratuita, dannosa
per chi l’ha comandata o commessa:
gli encomenderos che per passatempo
nelle ore d’ozio sterminavano i propri schiavi,
ritrovandosi privi
di sufficiente forza lavoro;
la precedenza che per decreto era data
ai convogli dei deportati
rispetto a quelli dei militari feriti
di ritorno dal fronte
come più consona appare
la cura di Gengis Khan
nell’innalzare torri di teste umane,
ad assedio concluso,
per incoraggiare alla resa
gli abitanti delle città successive,
oppure il massacro preventivo
di Cortés a Cholula
che insinuò nei superstiti
la convinzione di trovarsi di fronte
a chi leggeva senza impedimenti
nel nascondiglio dei loro pensieri
tuttavia è un modo pavido, il presente,
di affrontare l’oceano dell’orrore,
nel tentativo di stabilire
una gradazione alla profondità delle tenebre:
come se avendo
davanti a noi la vastità della foce
continuassimo a preoccuparci soltanto
di misurare la frenesia dei torrenti.
.
Note
Cholula – Località del Messico centrale. Cortés, che vi risiedeva prima dell’ultimo attacco all’impero azteco, informato preventivamente del progetto di una rivolta, ne massacrò immediatamente quasi l’intera popolazione.
Encomenderos – Cittadini spagnoli a cui veniva affidato il governo di un territorio nel Nuovo Mondo, comprensivo della popolazione locale, in un’istituzione assai simile al feudalesimo.
.
Joyce Lussu
UN PAIO DI SCARPETTE ROSSE
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
‘Schulze Monaco’.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
Francesca Dono
-là più di qualcuno-
____là più di qualcuno.
Con la matita ritaglio un cappotto.
Quasi lo scatto.
La foto sfocata
in questo grumo di anagrammi.
Celan legge sopra l’asse della terza
baracca. Grigio scuro la sacca di tela
che copre mia sorella.
Dietro la finestra sonnecchio.
Dal 23 Novembre il nostro amore
è uno spruzzo d’infarto ormai spolpato.
Radio Londra.
-Le journal sur la face des les coquins.-
Fuggiamo. Le macchine ci vengono addosso.
I faggeti neri. Le fattezze ombrose.
Nessuna luce- sirena nella notte.
Una bottiglia di retsina in via del cratere spento.
Il palloncino-mandarino. Beatrice viene maritata.
Un suono gutturale. Il mio sepolcro con Lazzaro-scorpione a Dachau.
____________—– Fluttuante un fiore al buio.
.
Shoah
l’inferno riesumato.
Le pieghe azzannate verso
una montagna di scarpe.
In città c’erano i barbari con le stellette.
Nel quadratOsceno il granonero spiava i
gemiti del vento.
Tutto dentro l’acquario gassato.
-Una madre disse: brucerete anche i nostri bambini?-
Sette angeli ci abbeveravano
dai teschi ferrosi. Abgail non riusciva a trovare
il posto per la macchina.
Un fiore gracile sopra la neve.
Capelli ossigenati e pelliccia di carne
per le padrone del bordello.
-La mamma mi prese per mano-.
Ringhiavano randagi i cani lungo lo sterrato-cenere.
Un colpo di fucile.
La minestra di legno.
Tu cadi e rialzi il fango recidivo fino all’inguine.
-Ho fame_ dico al carceriere.-
L’inverno scolpito sotto il sole-madreperla.
Si numeravano le ombre fino alle nuvole
della notte.
Dormo la morte .
Alla parete il forno del Borgomastro.
L’aria congelata.
_______Il pendio in Lagerstrasse

Chagall Resistenza, Resurrezione, Liberazione 1952
Mariella Colonna
Memoria presente, oggi, Chagall
Una strada sostiene la tua croce.
Dal cielo alla terra, Gesù di Nazareth,
Dio Figlio dell’uomo, nato da una donna ebrea, Maria.
Il grande sognatore anch’egli ebreo, Chagall,
angelo del colore, ha messo ali invisibili ai personaggi,
crocifisso il Figlio dell’uomo, il suo popolo affranto.
Chagall “vede” il popolo ebreo nel bianco paesaggio
sconvolto. Prospettive sconvolte. Intorno, case in fiamme
rovesciate, le fondamenta verso un cielo atterrito,
cose abbandonate sulla neve: una sedia, un libro
il Rotolo della Legge; a sinistra, soldati, due bandiere rosse,
quasi tutti sollevati da terra; fantasmi o anime di ebrei
si muovono smarriti tra corrusche nuvole.
Persone coperte di miseri panni, sguardi ciechi
in primo piano fuggono o avanzano verso di noi
stringendo tra le braccia neonati avvolti in coperte.
Molti uomini su un barcone di legno alzano le braccia
Forse per chiedere aiuto o significare che esistono
Siamo nel 1938 ma c’è un tempo dell’essere,
in cui domina la memoria di ciò che dovrà accadere
e che si ripete in noi, in un futuro più futuro. Oggi.
E oggi ricordiamo che circa due millenni prima
un ebreo di nome Gesù è stato ingiustamente crocifisso.
L’ebreo Chagall dipinge il Crocifisso, in bianco, in giallo
e, nell’opera intitolata “Resistenza,”in rosso fiammeggiante:
il Cristo in croce e il cielo, la terra e le case in blu.
Figlio dell’uomo, i sacerdoti del tuo Dio ti hanno giudicato
indegno e blasfemo.. ma Chagall dice che hai fatto il bene
perché hai avuto pietà dell’uomo,
che sei “l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi”.
Adesso, il tuo popolo soffre persecuzioni e condanne.
Sei tornato, non nella gloria, ma in croce, come gli uomini
sofferenti che Chagall ha dipinto e che tu ami
di un incomprensibile amore.
Eri presente anche ad Auschwitz, crocifisso,
come ti ha dipinto Chagall? O forse lì sei sceso dalla croce
e ti sei unito ai martiri della Shoah? Io lo so, eri lì tra di loro,
nelle camere a gas, qui e dovunque. Adesso.

giuseppina di leo
Giuseppina Di Leo
Il muro invisibile
Le parole di Enea non furono capite
sulla linea di confine abbarbicate.
Si sono cercate le ragioni
aperte finestre sui vuoti d’aria
sperimentati tentativi di corsa nelle strade
se non fosse guerra
quelle che vediamo sarebbero maschere del carnevale
se non fosse che sono vere; i proiettili dal terrazzo
salirebbero al cielo esplodendo in scintille
darebbero spettacolo di colori; la seconda immagine
sarebbe una scena idilliaca: la bimba esce correndo
dalla sua casa per abbracciare il vecchio padre.
Se non fosse disprezzo per l’uomo
di un uomo vedresti farsi dolce il viso
la mano aperta nasconderebbe una barca di carta da regalare
la violenza avrebbe un’anima di cartone, una calza di maglia fina
conterrebbe la mela acerba della conoscenza, il seme
di Adamo da non disperdere nel sangue.
Per tutto questo vorrei dirti: abbracciami, fratello
parla le parole che non conosco
vesti i colori della tua terra
in una casa alzata contro il vento della mia ignoranza.
Porta il mio messaggio al vecchio Pink
presso la Funny Farm, come rimando a capo
come una sgrammaticatura coperta con il bianchetto
demolendo con l’urto dell’urlo il muro tra noi invisibile.
(marzo 2012)
.
Il maestro
Di contro, nuovamente,
il valore della parola
sottilmente evidenziava,
poi tutto ritornava
fragile e incerto.
Un sospetto scomposto
s’insinuava nella storia
volgendo i molteplici momenti
inappellabili
senza alcuna voce.
Pagine intere
bianco su bianco
al vento condannate:
storie lontane di infelici amanti.
grazie mille a tutti. Essere qui ,nella partecipazione del giorno della Memoria, con autori di grande calibro e’ un onore per me. Felice del contributo.
I versi di oggi, tutti, sono degni del massimo rispetto per serietà di ricerca e vitalità linguistica.
Ma, con quelli di “Due nel crepuscolo” di Montale e “Genova” di Campana – per restare alla sola lirica italiana – i versi di “Un paio di scarpette rosse” di Joyce Lussu mi inceneriscono. Onori a G.Talìa e a G. Linguaglossa,
al primo per averli riesumati a hoc, al secondo per averli riproposti.
L’icasticità della scrittura di Mariella Colonna, poi, sia nel metodo ermeneutico, sia nella sapienza di trasformare la critica d’arte in poesia
(come nel caso dei “Crocifissi” di Chagall), icasticità che ben si ricollega a quella fin qui espressa di Chiara Catapano, mi inducono a esclamare:
“Mariella, i’ vorrei che tu e Chiara ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ ad ogni vento
per mare andasse a dare forza a L’Ombra…”
Gino Rago
Caro Gino, tu, con il tuo spirito cavalleresco e le tue citazioni poetiche hai immerso in un’aura tutta particolare il momento “storico” della doppia presentazione della tua poesia “Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto”, grazie alla quale io e la dolce Chiara abbiamo avuto l’appellativo solenne di “tue vestali”, cioè di “sacerdotesse” dell’evento poetico. Quale onore!, tanto più gradito quanto meno previsto. Non sai quanto mi affascini il Dolce stil novo e in particolare il sonetto di Dante che hai citato: mi ha fatto sognare da quando, giovinetta, ho avuto la gioia di leggerlo per la prima volta a scuola. Grazie, per aver espresso il desiderio di fare una bella navigata poetica con Chiara e me: potremmo andarcene verso i lidi greci, magari ad Itaca. che ne dici? Per quanto riguarda la mia poesia sulla Memoria, ti ringrazio per l’apprezzamento, ma è una breve storia: l’ho scritta per “partecipare” all’evento poetico, ma forse è stato un errore perché non ho avuto il tempo per approfondire di più. Devi sapere che io, all’inizio, l’avevo scritta per “La Crocifissione bianca” (1938) che ho sempre considerato uno dei capolavori di Chagall. Nel tentar di copiare la Crocifissione bianca” ho trovato le altre numerose Crocifissioni di Chagall e sono stata colpita da quella rossa, ce penso tu abbia visto e che è stata dipinta molti anni dopo, o forse ripresa e modificata, tra il 1938 e il 1948, cioè forse durante e dopo la Resistenza. Nel corso della ricerca ho scoperto che Chagall era di religione ebraica! Mi ha colpito che avesse collegato il martirio di Gesù Cristo al martirio degli ebrei…e, molti anni dopo, alla Resistenza, che, evidentemente, per lui ha avuto il valore ontologico di una guerra non soltanto eroica…ma anche e perfino “sacra” Ho trovato tutto questo di estremo interesse.
Grazie e…alla prossima!
Riporto l’inizio di un articolo ospitato sul’Ombra delle parole nel 2014:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/08/sfere-di-peter-sloterdijk-narrare-in-condizioni-postmoderne-la-campana-a-morto-della-modernita-un-tentativo-postmoderno-di-descrivere-il-mondo-le-tre-fasi-della-globalizzaz/
Narrare in condizioni postmoderne
Nel 1979 il filosofo francese Jean-François Lyotard dà alle stampe un pamphlet di circa un centinaio di pagine, tratto da una ricerca sul “sapere” commissionata in origine dal governo canadese, che diventerà decisivo per la storia delle scienze umane in generale e della filosofia in particolare: La condizione postmoderna.
La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una “grande narrazione”, cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Lyotard, con ironia e semplicità, sostiene che, alla luce del “secolo breve” e delle acquisizioni dello strutturalismo, ogni tentativo di ricostruzione che voglia dire la totalità sull’uomo e dell’uomo ricade inevitabilmente nella violenza della totalizzazione, e nell’ingenuità di una descrizione che non può, costitutivamente, rendere giustizia a ciò che è stato detto, fatto, pensato, narrato, costruito, reso arte, immaginato nella sua molteplicità e irriducibilità ad unicum.
Ogni narrazione è una prospettiva, che ha una storia e una geografia concreta e delle premesse (più o meno) inconsce, che la condizionano inevitabilmente dall’origine. Pensare di liberarsene è illusorio e tracotante: siamo consegnati irrimediabilmente e irriducibilmente – condannati – al frammento.
Quest’idea è stata una determinante portante per più di un trentennio all’interno delle scienze umane europee, e un costante avversario teoretico (il che ne attesta la diffusione e, in qualche modo, la legittimità anche se in forma negativa) per quelle di origine, metodologia e “stampo” anglo-americano.
Tempo fa, per festeggiare l’ultimo compleanno del compianto Poeta Mario Luzi, predisposi dei miei “fogli colorati” per segnare una favola che piacque molto allo stesso Maestro; in una delle tavole citai un passo di Primo Levi:
” …così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente… ”
Primo Levi: “Se questo è un uomo.”
Non aggiungo altro: codesto stralcio la dice lunga circa il senso civico del post in esame, un mio plauso personale alle Autrici/Autori, con amarezza
r.m.
Dopo la per me appassionante sfuriata dei frammenti, mi è gradito il ritorno al pensiero scorrevole, dove sola è rimasta Francesca Dono (come una postilla, ma in grassetto!), però subito dopo “Un paio di scarpette rosse”… Pensiero denso e comunicante, mai scontato; anzi, perfino in dialogo come tra Guido Galdini e Giuseppina Di Leo: dove Giuseppina scrive “parla le parole che non conosco” – che sì, nella sua poesia hanno un altro significato – e Galdini racconta, spiega, fa capire e sentire. Poeta interessante, Galdini, nel senso di intrigante… perché lampante (si perdoni il) (Riletto il suo post dell’anno scorso). Nella stanza di Katarina Frostenson, una preghiera, le cose che si raccontano da sé. E Chagall secondo Mariella Colonna – poesia che avevo già letto e discusso, anche troppo da parte mia, in altri spazi – dove si constata come l’uso del presente ravviva le cose passate; e le interruzioni, il punto. Sento dire da Gibreel, l’Arcangelo de I versi satanici : Se Dio vuole, è finita anche la giornata della Memoria.
Caro Lucio Major, non hai commentato troppo, anzi! E’ bello e giusto che ci sia un produttivo scambio di idee! A me piace imparare dagli altri e accogliere conoscenze nuove e credo che tutti dovremmo farlo, evitando di commentare soltanto gli amici. Ma, purtroppo, il tempo per farlo non c’è perché abbiamo altri lavori da concludere. Comunque grazie anche a te.
Francesca Dono ha quel certo dono…
Pingback: Perché la Memoria? Perché la Poesia? Perché l’Olocausto? I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini – La poesia è memoria dell’umanità. | l'eta' della innocenza
e’ un cognome che andrebbe benissimo per Natale Giuseppe. Grazie mille. Non e’ neanche calabrese . Storia lunga.Un caro saluto a tutti.
Beh sì, Dono, Natale, come anche Campo Santo o Santo Campo. Lasciamo perdere.
I suoi quadri. Tra figurativo ed astrattismo. Pittura fortemente femminile. Novembrina.
Mago.
GILBERTO FORTI
(1922-1999)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/31/poesie-per-la-memoria-perche-la-memoria-perche-la-poesia-perche-lolocausto-i-popoli-felici-non-hanno-storia-la-storia-e-la-scienza-dellinfelicita-degli-uomini-la-poesia-e-memo/comment-page-1/#comment-17756
Nel Giorno della Memoria, e in Appendice alle poesie qui pubblicate, desidero riportare un testo di Gilberto Forti da: Il piccolo Almanacco di Radetzkj – Adelphi, Milano, 1983, su: Poesia Civile e Politica dell’Italia del Novecento, a cura di Ernesto Galli della Loggia, BUR, Saggi-Rizzoli-2011, che è la storia eroica e personale di un soldato tedesco durante l’ultimo conflitto mondiale, di nome Josef Schulz, chiamato a far parte di un plotone di esecuzione per fucilare quindici ragazzi slavi partigiani, a Smederevska Palanka in Serbia, ma che al momento di sparare, si strappa le mostrine, buttando a terra il suo fucile, dicendo al comandante:”Io non sparo”. Ed è la sua condanna a morte. Sul monumento eretto dopo la guerra, c’erano tutti i nomi dei ragazzi fucilati, tranne quello di Schulz il cui esempio fu dimenticato ingiustamente, nonostante il coraggio dimostrato e l’opposizione ad un ordine ricevuto.
Josef Schulz:
“Io non sparo, io non sparo”
Serbia, 1941,1974,1980
Quindici nomi, ma ne manca uno.
Scritti sul monumento i loro nomi,
di tutti i fucilati, tranne uno,
quindici nomi di ragazzi uccisi
a Smederevska Palanka, in Serbia,
in un giorno d’estate, il 20 luglio
del 1941.
Bendati tutti, spinti uno per uno
contro il fienile al sole, il plotone
d’esecuzione già formato, e uno
degli ufficiali pronto a dare l’ordine,
e i soldati in fila per sparare
sui quindici, i ribelli catturati
il giorno prima, i banditi slavi.
In fila, tutti pronti a fare fuoco
su Slavomir, su Bogdan, e su Josip
su Petar, Branko, Milovan, e gli altri,
sui quindici, i banditi catturati
il giorno prima con le armi in pugno.
Tutti pronti a sparare, tranne uno.
Un passo avanti, fuori dal plotone
schierato in mezzo al campo, avanti a tutti,
e il fucile gettato giù tra l’erba,
e tre parole dette in faccia a tutti,
al comandante del plotone, ai suoi
camerati obbedienti e ai morituri,
ai quindici bendati: “Io non sparo”,
le tre parole dette in faccia a tutti.
Via l’elmetto, via dall’uniforme
qualunque distintivo, Anche quell’uno
ribelle e traditore come i quindici,
spinto contro il fienile anche lui,
con i quindici, là, tra i morituri,
accanto ai banditi slavi, lui,
il soldato tedesco, uguale a loro,
disarmato, soltanto un po’ più vecchio,
l’uniforme non più tanto diversa
dagli stracci dei quindici banditi,
dopo le tre parole:”Io non sparo”.
Quindici bende bianche sopra gli occhi
dei condannati, e solamente lui,
il soldato tedesco, ad occhi nudi
sulle canne puntate del plotone
per quelle tre parole:”Io non sparo”.
Un ordine, la vampa dei fucili,
un urlo, un altro, gli estremi rantoli
e i colpi di grazia per qualcuno
ancora da finire in mezzo al mucchio,
contro il fienile, in quel luglio
del 1941.
Quindi fucilati, e i loro nomi
subito conosciuti e presto scritti
sul monumento, e poi anno per anno
commemorati, nel mese di luglio,
per molti anni, senza l’altro nome,
senza il sedicesimo, il nome
tedesco del soldato traditore,
del soldato ribelle dopo quelle
tre parole:”Io non sparo” il 20 luglio
del 1941.
Un nome ignoto per trentatre anni,
poi rivelato, ma non accettato,
troppo diverso da quello dei quindici,
troppo tedesco, troppo inopportuno.
Un nome ordinario, come tanti,
così comune, ma così tedesco,
come Schmidt, come Weber, come Muller:
soldato Josef Schulz, anni 31,
imbianchino renano, nato a Wuppertal,
mandato nei Balcani a costruire
l’ordine nuovo del più grande Reich
voluto dal supremo imbianchino.
Scritti sul monumento tutti i nomi,
di tutti i fucilati, tranne uno:
soldato Josef Schulz, il traditore
tedesco tra gli slavi:”Io non sparo”:
soldato Josef Schulz, un nome infame
dopo le tre parole:”Io non sparo”;
soldato Josef Schulz, nome tedesco
come le tre parole:”Ich schiesse nicht”,
le tre parole dette il 20 luglio
del 1941.
La memoria è un atto di lucida coscienza, per questo condivido le riflessioni di Giuseppe Talia su come l’indifferenza sia una forma volontaria di mancanza di memoria per negare l’evidenza.
Su questo tema e sulle pressanti domande del post (Perché le Memoria? – Perché la Poesia?) mi piace riportare un breve stralcio di una devo dire splendida introduzione, di Valeria M. M. Traversi, tratta dal libro “Farfalle di spine. Poesie sulla Shoah” (Palomar, 2009):
«In occasione del conferimento della laurea *ad honorem* da parte dell’università di Firenze a David Grossman nel gennaio 2008, lo scrittore israeliano ha sottolineato con forza e convinzione il ruolo insostituibile dell’arte, di ogni forma d’arte, per fare della memoria della Shoah un avvenimento universale, soprattutto ora che stanno scomparendo gli ultimi testimoni diretti […].
Certo, esiste un pericolo in uno strumento umano «meraviglioso ma fallace» (P. Levi, I sommersi e i salvati) come la memoria, ossia quello di trasfondere quelle persone, le loro storie, le loro voci in oggetti da museo da visitare magari solo in un giorno preciso dell’anno, di indurre una commozione a comando; esiste il rischio, quando alla memoria si dà voce attraverso le forme d’arte, di estetizzare l’evento come ispiratore di arte. Il rischio c’è, ma tra l’arte, che è indubbiamente un *medium* tra la realtà e la percezione che di essa hanno gli uomini, e l’oblio, quest’ultimo sarebbe di sicuro il rischio più grande e pericoloso. Nel 1955, nei versi di *Argumentum e silentio* il poeta ebreo Paul Celan rappresentava con un’immagine molto efficace i rischi che la poesia “dopo Auschwitz” comportava: «Messa alla catena/ tra oro e oblio:/ la notte. Entrambi su essa/ stesero le loro mani. Ed essa/ entrambi li lasciò fare». Dunque, se la poesia in quanto tale, ossia nell’accezione tradizionale (l’oro celaniano, gli orpelli retorici), poteva attenuare il Male, era altrettanto pericoloso, se non più colpevole, un silenzio che avrebbe significato un’ulteriore e definitiva cancellazione delle vittime dalla storia umana.»
La questione, continua Traversi, non è se ricordare o dimenticare, ma far sì che si stabilisca un ponte tra passato e futuro, e questo «nuovo rapporto» può avvenire mediante lo strumento dell’arte.
Il libro contiene poesie legate agli orrori di quel periodo. Riporto quella di Rose Auslander, perché in qualche modo dà un’interpretazione forse diversa su Dio rispetto alla scritta sul muro di Auschwitz (“Se Dio esiste, dovrà chiedermi scusa”).
*Il suo silenzio sublime
Ed ogni sorriso si fece dolore,
persino le Madonne dalle loro cornici
guardano afflitte il tempo,
e il figlio, affinché ci ami.
Ma le sue orecchie si fecero bronzo,
contro cui si sfracellano coloro che invocano,
e anelando fluiscono verso il suo cuore,
come stanche onde alla riva.
E tutte le parole si fecero lamento.
Ed ecco emanare da lui un silenzio sublime,
di fronte al quale, sopraffatti, angeli muti
di colpo si inchinano profondamente.
La nota che segue alla poesia spiega che in Auslander non c’è accusa verso Dio; «di fronte al lamento degli uomini il Suo silenzio è già segno di presenza e anche gli angeli, sopraffatti, si inchinano.»
In merito poi alle ‘responsabilità’ che, a vario titolo, hanno fomentato l’antisemitismo e sorretto l’odio contro il diverso, riporto la parte che qui interessa di un brano che – credo un anno fa – postai come commento su Poliscritture:
Ascoltavo la testimonianza di una donna sopravvissuta ad un lager nazista, ed ero rimasta colpita sia dalla compostezza con la quale riesumava ricordi atroci sia per la profondità del suo pensiero. In particolare, l’anziana signora evidenziava come il ‘regime’ abbia saputo non solo manipolare il pensiero di un intero popolo, ma di quanto abbia attinto informazioni dalla gente comune attraverso un’operazione lucida e pervicace di indottrinamento, sottile ma assillante, portata avanti contro il ‘diverso’, lo ‘sporco’, il ‘ladro’, cioè contro l’ebreo. Ricordava in particolare, che per raccontare un fatto di cronaca (un piccolo furto) i giornali avevano cominciato ad usare espressamente la formula che si trattava di un “ladro ebreo”, ponendo cioè l’accento sull’appartenenza religiosa come ‘differenza’ rispetto alla ‘norma’, o ritenuta tale, e di come ciò abbia generato e fomentato l’odio, fino alle delazioni (compensi da cinquemila lire per gli informatori), alle deportazioni, ai lager, ai forni crematori. È bastato un fiammifero per accendere i forni crematori, disse la sopravvissuta. Intendendo per fiammifero proprio quegli atteggiamenti discriminatori – apparentemente insignificanti – messi in atto dai media, poi dai singoli, per finire alla intera società. Le leggi razziali furono il risultato evidente della manipolazione, acclararono cioè un processo che era già in atto.
GDL
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/31/poesie-per-la-memoria-perche-la-memoria-perche-la-poesia-perche-lolocausto-i-popoli-felici-non-hanno-storia-la-storia-e-la-scienza-dellinfelicita-degli-uomini-la-poesia-e-memo/comment-page-1/#comment-17762 Il fatto ricordatoci da Mario Gabriele del rifiuto del soldato Josef Schulz il quale, posto nel plotone di esecuzione dinanzi a 15 giovani serbi condannati alla fucilazione, dichiarò semplicemente «io non sparo», ci pone il seguente problema: È possibile una vita autentica in mezzo alla inautenticità generale? – La risposta di Josef Schulz è netta e lui l’ha data in tre parole: «io non sparo», pagando con la propria vita il prezzo di quelle tre parolette.
È inutile fare tanti giri di parole, è il medesimo problemino dinanzi al quale siamo posti mille volte tutti noi tutti i giorni: quante volte dovremmo dire in faccia, pubblicamente, il nostro pensiero segreto? Dovremmo avere mille vite al giorno per esprimere ogni volta ad alta voce il nostro pensiero recondito. Di solito, diciamo così, questo non accade mai, nessuno di noi si sogna di esprimere in parole chiare il nostro pensiero recondito (che diventa sempre più recondito).
Le nostre parole, le nostre azioni hanno un prezzo. Tutto sta ad accettare di dover pagare quel prezzo. Josef Schulz, in un istante, ci ha pensato su e ha deciso. Ha deciso che la sua vita non valeva di essere vissuta se avesse sparato a quei 15 ragazzi.
Sì, davvero, ha ragione Heidegger nel dire che l’autenticità si situa all’interno della Leben zum Tode. Tutto sta nell’accettare ogni volta di essere uccisi, esiliati, lapidati, messi al bando, proscritti etc ogni volta che rendiamo pubblico il nostro pensiero segreto.
Questo è un ottimo pensiero. Anche di questo ha bisogno la «nuova poesia ontologica», ha bisogno di gesti pubblici, manifesti.
condivido Giorgio. Si paga un prezzo altissimo tutte le volte. Se sei autentico sei anche consapevole degli ostacoli . Non bisogna scoraggiarsi anche se i momenti deboli sono prevedibili per l’essere umano.
Caro Giorgio, condivido in pieno il tuo pensiero , soprattutto se colleghiamo il gesto dell’essere Poeta – quindi capace di esprimere valori sentimenti autentici con le parole – e l’essere Uomo, cioè capace di “gesti dell’Essere” che includano anima mente e corpo – in cui, in un modo o nell’altro, si mette in gioco la propria vita. Per me la “Nuova poesia ontologica” è stata esattamente questo: un corrispondere dell’atto di scrivere ad un gesto dell’Essere sempre più in profondità, cioè un Heideggheriano “essere nel mondo” aprendosi agli altri: nel mio caso a voi dell’Ombra e della Scialuppa di Pegaso. E mi collego all’importante citazione di Mario Gabriele da te incisivamente commentata: Le parole di Josef Schulz “Io non sparo” seguite dall’accettazione della propria morte in cambio della vita di un giovane condannato sono, dal punto di vista etico e ontologico, infinitamente più di una poesia per la “Memoria” e comunque un esempio clamoroso (non l’unico) di “Essere per la morte” non certo nel senso di dispezzare la vita, ma nel senso opposto: “essere per la morte che salva la vita”. Comunque l’atto eroico non è di tutti i giorni nè alla portata di tutti: e per i poeti la Poesia ontologica apre un nuovo universo di significati e ci invita al doppio movimento del “diventare quello che siamo” per quanto riguarda noi e dell’ “aprirci al mondo” per quanto riguarda gli altri: da qui una nuova intuizione dello spazio e soprattutto del tempo, cioè un approfondimento della memoria storica e un riportarla in vita non soltanto con le parole ma anche per quello che, della nostra vita, mettiamo nelle parole.. Grazie a tutti voi per quello che mi date delle vostre esperienze poetiche e culturali.
Mah!
La compromissione di Heidegger con il nazismo è un dato incontrovertibile e ciò rende ambiguo il senso della sua ontologia. Ma soprattutto citarlo in occasione del Giorno della Memoria, mi sembra davvero un fuori luogo.
Posso dire solo, povero Josef Schulz.
Se qualcuno avesse desiderio di sapere qualcosa di più sulla mia poesia associata, nelle pagine precedenti, alla “Crocifissione rossa” di Chagall, può leggere la mia risposta a Gino Rago. Spiegazione sommaria, ma può servire a comprendere il senso del mio intervento poetico. Grazie
Poesie della memoria.
Vorrei tornare sul fatto ricordatoci da Mario Gabriele: «il rifiuto del soldato Josef Schulz il quale, posto nel plotone di esecuzione dinanzi a 15 giovani serbi condannati alla fucilazione, dichiarò semplicemente «io non sparo», perché esso segna una linea divisoria tra l’autenticità e l’inautenticità. Posto dinanzi alla scelta se obbedire ad un ordine e sparare o disobbedire all’ordine decidendo di non sparare e condannarsi a morte certa, il soldato Josef Schulz sceglie la seconda possibilità con un formidabile atto di decisione anticipatrice della morte.
La morte è una possibilità dell’esserci, è la possibilità più propria (concerne l’essere stesso), incondizionata (l’uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa.
Con la anticipazione della morte, l’uomo comprende autenticamente sé stesso, ma ha anche la situazione emotiva dell’angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, che è possibilità dell’impossibilità di possibilità.
Essere-per-la-morte. La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisone anticipatrice di essa, sostiene Heidegger: non è il suicidio o l’attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), la soluzione, ma è tenere presente che questa possibilità c’è sempre. Accettare quindi con la decisione anticipatrice la possibilità della morte, ci richiama al nostro destino di mortali.