DENTRO L’INCANDESCENZA DELLA STORIA: POESIA DAL LAGER.- DIECI POESIE DALL’ANTOLOGIA LA MIA OMBRA A DACHAU – POESIE DEI DEPORTATI RACCOLTE E COMMENTATE DA DOROTHEA HEISER (Mursia EDITORE, 1997) CON UN APPUNTO DI LETIZIA LEONE

shoah-3-david-olere-la-stanza-del-forno-1945

David-Olere-la-stanza-del-forno-1945

Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie (Theodor W. Adorno, 1949)

La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stato un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie. (Theodor W. Adorno)

Forse riguardo ad un genere, quello della “poesia lirica” o “poesia pura” si può rintracciare il punto esatto di non ritorno, la pietra d’inciampo, diciamo pure il certificato di morte datato 20 gennaio 1942, giorno della hitleriana “soluzione finale”.  È stato detto che da quel momento l’anti-significato irrompe nella Storia. La negazione dell’Etica e di tutto il portato millenario delle virtù e dei valori morali della nostra civiltà, sembra abbattersi improvviso e inaspettato sul palcoscenico della Storia: “Noi –perlomeno noi anziani-  abbiamo assistito negli anni Trenta e Quaranta  del Novecento al totale collasso delle norme morali…non solo nella Germania di Hitler, ma anche nella Russia di Stalin”, scrive Hannah Arendt, per poi distinguere (moralmente) la delinquenza ordinaria e antiquata  di Stalin da quella di Hitler: estrema, radicale, diabolicamente raffinata nell’annuncio dell’avvento di nuovi valori. Soprattutto nella scelta cosciente del Male con l’orrendo progetto di industrializzazione e burocratizzazione della tortura e della morte nei campi di sterminio.

Inoltre, “i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano”, ne è convinta la Harendt perché questi semplicemente “non hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli da ciò che fanno.”

“Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade – dallo Zeitgeist, dalla Storia, o semplicemente dalla tentazione. Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici questo male non conosce limiti. Proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero.”

Questo il grado zero della storia. All’indomani della seconda guerra mondiale Th. W. Adorno suonerà le campane a morto per un genere poetico: “La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”.

Eppure la famosa frustrata apodittica del divieto adorniano non riguarda il portato spirituale della poesia ma vale come sottrazione delle categorie del “bello” e del “sublime”, come cesura radicale nel modo di articolare la parola della poesia.

Auschwitz Ingresso

Auschwitz Ingresso

Da questo momento in poi sarà rischioso concepire un’arte serena e contemplativa, osservare il mondo attraverso quella che Paul Celan chiamerà “la prospettiva dell’usignolo”: “Nessuna poesia dopo Auschwitz: qual è la concezione della poesia posta sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo oppure del tordo”.

Dorothea Heiser raccoglie in una ardente antologia poesie scritte dai deportati in dieci lingue diverse, sia nel corso della detenzione, sia negli anni successivi la Liberazione: “nel 1985, Mirco Giuseppe Camia, ex deportato italiano, mi trasmise con le sue l’unica poesia scritta da un codetenuto che sofferse la prigionia a soli 17 anni: La mia ombra a Dachau. L’aveva conservata per oltre quarant’anni…”

Per molti di questi testimoni lo scrivere non è una professione. Eppure una traccia, una sola parola, anche il ricordo di un frammento di poesia si rivelò miracoloso nel lager per non cedere al disfacimento fisico e psichico, alla disumanità.  A Dachau come in altri lager sono nate poesie e altri scritti. Henri Pouzol, poeta francese sopravvissuto ai campi di concentramento di Oranienburg-Sachsenhausen e i Dachau spiega quanto sostegno spirituale poteva dare la poesia: “…In questo contesto terrificante di cinico sterminio…il linguaggio poetico ritrova d’istinto il proprio carattere originale…esso prende la forma ultima della resistenza umana, quella del pensiero e dello spirito…”

La poesia concentrazionaria, sulla quale lui professore di francese scrisse uno studio, viene definita nei seguenti termini: “È una poesia caratterizzata da un punto in comune: essa prova la resistenza della mente…”

Nella densa prefazione al volume Dorothea Heiser raccoglie molte testimonianze anche sulle condizioni in cui è stata concepita questa poesia:

“…La possibilità di poter scrivere dipendeva sempre da un insieme di fattori e ci sembra di capitale importanza il poterli conoscere al fine di apprezzare e commisurare l’importanza di questi poemi nella vita delle vittime o, comunque, delle persone coinvolte. È essenziale l’annotare che, in nessun caso era possibile a un detenuto concretizzare un tale desiderio. “…Tutti gli oggetti personali, quali abiti, calzature, fotografie, documenti, erano tolti al detenuto nel corso della sua registrazione al campo…Non c’era alcun diritto a conservare una matita, una stilografica o della carta, non un fazzoletto, nulla, assolutamente nulla…”.

Nonostante ciò, nel campo di Dachau come nella maggior parte degli altri campi di concentramento o i penitenziari a carattere totalitario, in dispetto alle gravi sanzioni derivanti, diari, notizie, poemi furono scritti in segreto e di nascosto. (…) Kark Röder narra nella sua opera Nachtwache come l’individuo lottava, col pensiero, per conservare il suo mondo interiore, e prendeva attivamente posizione, nei propri scritti, contro l’aspetto distruttore e minacciante del mondo esterno: “…Giammai tante motivazioni per lo scrivere si erano presentate nella mia vita…Uno sgorbio su un lembo di carta poteva significare un arrestarsi della morte…Io nulla volevo scrivere sugli avvenimenti del campo… Per me importava di più l’esprimere pensieri e sentimenti che mi agitavano…e doveva trattarsi di cose estremamente intime…”

Agnes Sassonn che fu abbandonata alla crudele realtà di un campo esterno di Dachau quando era una ragazzina di undici anni, descrive nella sua opera sulle esperienze del campo, pubblicata quattro decenni dopo, quale importanza, anche per lei fanciulla, rivestiva l’assimilazione spirituale delle esperienze vissute: “…Io ho iniziato già a scrivere nel campo di concentramento, ma era un’altra forma di scrittura. Era assolutamente impossibile, sotto il controllo dei guardiani, procurarsi e conservare qualsiasi cosa. I lembi di carta e i mozziconi di matita che trovai casualmente, erano rapidamente scoperti e mi erano ripresi.

Seguivano punizioni varie ed i colpi di bastone erano abituali, divenuti parte della mia vita. Fu così che dovetti improvvisare ciò che concerneva il mio materiale di scrittura; il mio cervello divenne matita e la memoria carta, che io riempivo. Per esprimermi in maniera più conformemente attuale, il mio cervello imponeva alla memoria, attraverso una registrazione, gli incidenti ed avvenimenti come su di una banda magnetica, che poteva essere riascoltata secondo il fabbisogno. La necessità di questa “scrittura mentale” era conseguente alla situazione contro natura nella quale mi trovavo…Non avevamo nessuna sfera intima, alcun bene, alcun riposo alcuna possibilità di sottrarci agli appelli continui, ai colpi, alle ispezioni…e così dettavo alla memoria”.

(Letizia Leone)

 Da La mia ombra a Dachau a cura di Dorothea Heiser (Mursia editore, 1997):

bertolt brecht il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

FELIKS RAK (Borowicwicz, Polonia, 1903 – Polonia 1992)

Dachau nel sole

L’inferno di Dachau l’ho conosciuto nel sole.
Un campo, baracche allineate,
muro di recinzione, un fossato,
filo spinato percorso dalla morte.

Alte torri dove le SS
vegliano notte e giorno,
mitragliere perennemente pronte.
Uomini come ombre vagano affamati.

Giorno e notte, il crematorio fuma,
nessuna sosta, appestandoci la vita.
Colpi di fuoco, da qualche parte.
Dall’alba assassinano, laggiù nella foresta.

Un palo, un “cavalletto”, catena, forca,
strumenti di uso quotidiano.
Mani incatenate, un gancio, un prigioniero pende.
SS gioiose! Cane! Ecco, è fatto!

Non è l’alba che risveglia,
ma mani di Giuda, delle SS.
Così io conobbi il Lager…
Sino a quel giorno sconosciuto dalla storia.

(Dachau, 1941 – Originale in lingua polacca)

.
MARIA JOHANNA VADERS (Aia, 1922 )

BUNKER DACHAU

Una apertura grigia, un muro compatto,
luce solare, anche se ti cerco è cosa vana
non puoi trovare via che a me giunga
sola, io sono sola.

Tre passi avanti, tre passi indietro
mentre declamo poesie,
strofe cariche di ricordi
che canto con vecchie tenere cadenze
come per salvaguardarmi.

Una cella, un freddo pavimento.
Oh, luogo dove un tempo la culla
Era memoria del mio passato lontano.
In un istante fugace rivedo il focolare.
Sola, tu sei sola.

Dachau 123145 (Originale in lingua olandese)

shoah-1-marc-chagall-crocifissione-in-giallo-1938-42

marc-chagall-crocifissione-in-giallo-1938-42

MICHEL JACQUES (Neully-sur- Seine 1920)

Gioco di bimbo

Il piccolo polacco
della Stube tre
ha otto anni
È della sua età
saltare a piedi uniti
i morti della notte
ben allineati
fra due blocchi…

(Originale in lingua francese)

HENRI POUZOL (Jarnac- Francia 1914)

ALBA AL BLOCCO 30, A DACHAU

Alimento pallido venuto dal cielo
alba sporca alba tifica
l’ultima luna cade
la prima luce si leva
i kapos urlano
i kapos sferzano
i kapos strisciano
appare il padrone.

Nude creature tentano d’arrestare il tremore,
ma il tremore delle stremità edemiche
è più forte
e le creature oscillano al vento germanico
e le creature oscillano alle urla teutoniche
e le creature oscillano agli ordini tedeschi
Eins…Zwei…Drei…Alles da.

I denti mordono la putredine
I denti tagliano la lingua
Il compagno di sinistra crolla se mi sposto
Il compagno di sinistra è morto nella notte,
è morto da circa un’ora
alle prime luci dell’alba col primo urlo
nell’ultimo delirio.

Morto?…Non morto?…
Vivo?…Non vivo?…
Alle Stcücke da…Jawohl, lieber Mann* *(Tutti i pezzi qui…Sissignore caro uomo)
Jawohl risponde il corpo ritto
Presente…sono presente…
È presente…Il Kapò è contento
Il padrone è contento
Il conto torna mein Lieber* *(Mio caro)
Il conto torna cane di un Häftling* *(Prigioniero)
Sì…il conto è esatto amico mio
Il conto torna camerata
Ed è giusto che ti tolgano la vita
Prima del delirio di maggio, sotto la neve che
Non ti ricoprirà prima del delirio di maggio
Quello che tu non vivrai
Ma che ucciderà coloro che
Ti sostenevano
In piedi all’ora dell’appello
Ritto fra il blocco 30 e il blocco 28.

Il mio compagno è morto
Lo sguardo perso nella fanghiglia scura
Lo sguardo ha raggiunto l’ultima luna
Chi dunque non l’invidia?
Sei libero camerata
Non sei più costretto al Mützen ab* *(Giù il berretto)
Nel grigio sporco dell’alba
Non hai più da sognare un’alba di caffè scuro
Non devi più enumerare sulla coperta puzzolente
I duecento pidocchi giornalieri
Non devi più arrampicare dall’una all’altra griglia
Non devi più scrutare il cielo
Il cammino lento delle fortezze volanti
E ancora…e ancora…
Non più fughe sotto la sferza
Non più fughe nel fango
Non più cani ad ogni cancello
Non più un kapo ad ogni incrocio
Né calci sulle tue ossa
E vrrroum su Monaco…e vrrroum su Augusta…
Ah il buono, ah il bel lavoro degli uomini liberi
…ma è lontano ma è lontano
Mai più oh non mai più
…ed anche se tu volessi non potresti piangere
Occhio del mio compagno sperso nella fanghiglia scura
Il mio camerata è libero
Ed io sono solo alle prime luci dell’alba
Ed attendo il grappolo fraterno
Si saldi attorno a me
Ho così freddo ho così freddo
Ma se io potessi ma se il Kapo volesse
Andrei alla Waschraum* * (bagno)
Andrei a sedermi sul mucchio di corpi posti come
Le belle cataste di legno nella radura d’altri tempi
E può darsi ch’io veda muovere il dito al mio compagno
E può darsi che io veda aprirsi l’occhio del mio compagno
E può darsi ch’io possa udirlo
Il mio compagno il mio compagno
Il camerata ritto nella fila oscillante
Là il secondo della pila di corpi è lui
Lo riconosco
Mi dirà oh sì sono sicuro mi dirà
Amico mio…vieni vieni con me…
Se tu sapessi quanto è bene
Quanto è meglio di quando dormiamo testa-piedi
Sul tavolaccio della Stube eins* *(camerata uno)
Sono solo alle prime luci dell’alba
O morte, non ti amerò mai e poi mai altrettanto che in questa alba d’inverno
Fra il blocco 30 ed il blocco 28
Nell’anno 1945 a Dachau.

(Originale in lingua francese)

(Zoran Music)

LÁSZLÓ SALAMON (Oradea, Romania, 1891 – 1983)

KAUFERING*
*( Il Kommando esterno di Kauferingraggruppava i campi da 1 a 11 che furono attivi soprattutto nel 1944 – 45. La “Organizzazione Todt” era responsabile dei Kommando di lavoroai quali appartenevano migliaia di lavoratori forzati ebrei, principalmente di origine ungherese e polacca, che furono deportati a Kaufering per costruirvi installazioni sotterranee).

Un nome, mai sentito prima,
un luogo lungo il Lech, ove fragili alberi
si curvano al vento
e la tempesta rugge, selvaggia e crudele.
Un nome mai sentito prima,
nove lettere solo, ancorate alla memoria
per tutta una vita:
Kaufering, caverna di tortura.
Un villaggio bavarese, ai margini del bosco,
attorniato da ombrosi abeti,
abitato da anime cattoliche,
ma il loro dire è minacciante e barbaro.
Foreste profonde, prati umidi,
paesaggio da cartolina postale,
però sei sopraffatto dal terrore.
Jüdischen Lager bei Kaufering.

Un soffio pestilenziale ammorba l’aria,
nell’abisso, chiesa, scuola, villaggio,
non sono altro che le quinte,
la realtà è la piazza dell’appello ed il terrore,
la realtà è il reticolato con le sue baracche
inimmaginabili sono i tormenti sopportati,
anche l’aria che respiro, mi fa male,
oh, luogo spaventoso: kaufering!

Civettuole, linde, tranquille case,
dalle finestre sbuca morbidamente un raggio,
nel mio dorso un fucile SS,
sulla mia spalla gravemente pesa la vanga,
al di sopra delle silenziose case borghesi,
minaccia una nube malefica,
il destino crudele è vicino,
tu sia mille volte maledetta, Kaufering.

Kaufering marzo 1945 (Originale in ungherese)

FRANCO VARINI (1926 Bologna)

DACHAU-KOTTERN MARZO 1945

Cilici immensi cingono lembi di terra
e la nuova Babele voluta dall’odio
brucia vaganti creature senza nome.
Nei cieli senza limiti di spazio
il volo degli uccelli
segna l’impotenza del terrore
a fermare le libere parole
e la rabbia disperata
ne annuncia la fine imminente.

(Originale in lingua italiana)

.
MICHEL JACQUES

SULLA STRADA

Sulla strada che porta al campo
faccio lo spaccapietre
Sulla strada che porta al campo
una casa che ho fatto mia
Ne indovino il camino
il dolce battere dell’orologio antico
due sedie vicine a un tavolo di quercia
e su questo tavolo tre mele
Tre mele
Tre mele e la mia gola si serra
Addio casa che ho fatto mia
il grande camino l’orologio antico
addio tavolo di quercia
Tre mele
Non restano che tre mele
ed io che faccio lo spaccapietre.

(Originale in lingua francese)

shoah-felix-nussbaum-autoritratto-con-carta-didentita-1943

felix-nussbaum-autoritratto-con-carta-didentita-1943

NEVIO VITELLI

LA MIA OMBRA A DACHAU
(Questo unico poema del giovane Nevio Vitelli, nato a fiume nel 1928 e internato a Dachau nel 1944 a sedici anni, ha dato impulso a questa antologia. Dopo la Liberazione rientrato in Italia ammalato vi morì all’età di vent’anni)

Mamma, non torno,
me l’ha detto Iddio.
L’inferno,
senza sensi d’anima
l’ho visto così,
come tocco il corpo che mi duole;
né parole,
mamma, ti so dire,
perché non so ridire
il marchio del terrore.

Io penso che tu senti
oltre il filo pungente e velenoso
di queste baracche,
e penso che mi vedi
con la testa senza peli
e la cornice fosca
delle occhiaie nere,
insanguinato e sporco
e il cuore al tocco
d’una campana a morto.

Che cosa ho fatto, mamma?
Tu lo sai? Dimmelo
e baciami nel sonno,
appena lievemente,
che non mi venga in mente
di ricambiarti il bacio
come quando tu piangevi
di me, il ragazzaccio.
Non voglio spenti i tuoi occhi,
mamma, mi capisci?
Quando la sera, il tuo nome
canto singhiozzando
inconcludente e vano
il gioco del mio labbro
si schiude: tu non rispondi.

… È l’ora della sera
ed i pensieri del giorno
non tornano più
come i primi giorni d’ormeggio
a ridestarmi.
È l’ora della sera
Ed i pensieri sono di domani.

Dachau!

Ora, soltanto ora,
sento una musica che irrora
l’aria di palpiti di stelle,
ma forse no, son palpiti di cuori
e di sangue,
di sangue che guizza nelle vene
dei viventi
ricoprendoli di polvere di sole.

(Maggio 1945 – Originale in lingua italiana)

.
MIRCO GIUSEPPE CAMIA (Milano 1925 -1997)

Ombre
e il passo inconcreto
è lordo di pene e fatica

Duri zoccoli
avvolgono piaghe profonde
dove il pidocchio pullula
annidato in pezze da piede

Ombre
goffe figure
allineate da fauci di cani
da urla feroci

Cose ambulanti sull’acciottolato
sopra il fragore di suole legnose

Di lato i gendarmi
sinistra…due…tre…quattro…
cadenzano il passo
che suoni ritmato
lento valzer di morte

Ombre
aleggia su esse
fantasma luttuoso di gelo
fatto sostanza

Links…Zwei…Drei…Vier…
compagna di danza
oscena puttana avvinghiata
falangi ghiacciate
sfioranti le nuche rapate

La morte

(1946 – Originale in lingua italiana)

shoah-4-zoran-music-particolare-dellimpiccato

zoran-music-particolare-dell’impiccato

BOJAN AJDIČ ( Lubiana 1921 )

OH!

Senza pensieri, senza sole
come talpa sotto la terra
che scava per trovare la larva,
il verme di terra,
dietro la schiera,
nella schiera,
in una terra come questa
dove l’immensità del presente resta uguale
nera e pesante.
senza pensieri, senza sole
come la morte che con la sua falce insanguinata
percuote e tronca
a sinistra, a destra
dietro, e davanti, in avanti…

Oh! Io sono questo
E gli altri!
(26.5.1944 – Originale in lingua slovena)

27 commenti

Archiviato in Senza categoria

27 risposte a “DENTRO L’INCANDESCENZA DELLA STORIA: POESIA DAL LAGER.- DIECI POESIE DALL’ANTOLOGIA LA MIA OMBRA A DACHAU – POESIE DEI DEPORTATI RACCOLTE E COMMENTATE DA DOROTHEA HEISER (Mursia EDITORE, 1997) CON UN APPUNTO DI LETIZIA LEONE

  1. Caro Flavio,
    siamo qui per mettere nuova luce non per sprofondare nella melma degli ideologismi. Quel poco di etica che ci rimane impone che si tenti di trasmettere, e, servisse, all’infinito per sempre, quel che è stato. Ringrazio Letizia Leone per aver trascritto queste poesie intoccabili. Mi riservo di intervenire più avanti per dare anche il mio modesto contributo.

  2. Non ho fatto in tempo a leggere l’intervento di Flavio, ne leggo però gli effetti.
    Muovendosi tra queste poesie, semplicemente, ci si chiede quale onda polemica si possa scatenare, se non la durevole e giusta indignazione nell’addentrarsi in un territorio martoriato come quello delle testimonianze di chi lì fu. Se un ringraziamento è dovuto a Letizia per aver qui condiviso queste spinosissime parole, il resto meglio sarebbe fosse stato silenzio, – non si può polemizzare su questi resti.

  3. Come ha scritto Adorno, noi ancora oggi non possediamo le categorie filosofiche, le parole, per comprendere quello che è accaduto. La più alta cultura critica dell’Occidente è rimasta senza parole dinanzi alle dimensioni gigantesche di questo sterminio, dinanzi al quale ogni altro evento di sterminio di popoli e di diversi riveste un ruolo, diciamo con parole povere, di minore brutalità ed efferatezza.
    Non abbiamo parole. Lo sterminio è qualcosa che esula dal linguaggio umano, ed esula anche dalla nostra stessa immaginazione. Tuttavia, come ci ha ricordato Bauman postato qualche giorno fa, l’Olocausto si può ripetere, perché è incarnato nel DNA della cultura dell’Occidente. Questo, credo, dovremmo chiederci: come è potuto avvenire tutto ciò? Dove è che la mia Ragione vacilla dinanzi a tanta abnormità?

  4. sono stato definito ignorante, isterico, antisemita. Il testo del mio intervento lo trovate qui

    https://almerighi.wordpress.com/2017/01/27/nota-amargine-27-gennaio/

    poi, dopo averlo letto, fatevi la vostra opinione. Può andare bene tutto, anche finocchio e ladro, ma antisemita no! Non faccio più parte di questo gruppo da subito. Buon proseguimento.

    • in effetti non hanno massacrato solo Ebrei, ma tanti altri Popoli, compresi noi italiani meridionali. Non capisco cosa ci sia stato di male nel tuo intervento, da scatenare contro te gli epiteti che riporti del tutto infondati, poi, per chi ti conosce anche solo attraverso il web; ma posso solo imputarlo al fatto che OGGI è una giornata della memoria specifica, che io altrove ho chiesto di intitolare DELLE MEMORIE, ma il debito che abbiamo come ex (forse) paese fascista, ci impone di rispettare prima un popolo e poi altri; quindi, come nella migliore delle tradizioni oggi si schifa la disumanità storicizzata e ieri si è lasciato moire in Canal Grande un cittadino africano.
      Oh Flavio, dovresti sapere bene che l’Uomo predica bene e razzola male, suvvia!! Poi, su quel che si dice e si scrive, caro Flavio, vale sempre l’insegnamento del nostro caro Dante…

  5. domande a cui tutt’oggi non si trovano risposte. Io continuo a cercare. Lo scavo e’ doloroso. Fin troppo. Bisogna riflettere sulle conseguenze prima di commettere l’azione. Prima ancora sul pensiero. Grazie Letizia per queste letture. Su molte non ho potuto continuare fino in fondo.

  6. Di quel che tu dici, Flavio, se ne è parlato e con toni più ragionati anche nel post precedente. Insomma, qui proprio di retorica sionista non ce n’è l’ombra. E mi pare poi che da interventi fatti altrove -nel post di ieri appunto -, si sia iniziato un confronto proprio su quel che a gran voce richiedi: giustizia lì dove ce n’è bisogno. Via le ombre della storia.
    Ma con lo slancio incazzato di chi questa giustizia la pretende, qui, senza volere sporchi. Con slancio di fuoco verso il mondo.
    Mi pare che in verità si stessero dicendo, almeno fino a poco fa, proprio le stesse cose, proprio con lo stesso cuore, tutti assieme. Suvvia, non perdiamo di vista qual che siamo.
    Ci sono riverberi strani, in questi giorni, fan salire su una febbre matta: fuoco di giustizia, appunto. E l’essere umano che è in noi si ribella. Credo fosse questo. Diamine non diamola vinta al male!

    • Chiara, questo suo commento mi colpisce positivamente. Grazie, il suo slancio mi fa apprezzare la persona che altrove avevo solo intravisto in altri scritti. Condivido.

    • I riverberi del Male si trovano nei ragionamenti eristici,che fan pensare di guardare tutti dentro lo stesso schermo al plasma di 1984

    • no, io sono stato tacciato di isterismo, ignoranza e antisemitismo, e poi censurato da parte di qualcuno che ha fatto solo la mossa di andarsene e alcuni hanno abboccato commentando e condannando una cosa che nemmeno avevano letto. Asilo mariuccia altro che redazione di una rivista.

      • letizia leone

        Oggi è postata sull’Ombra una pagina importante: le testimonianze lacerate di chi ha scritto di nascosto con mano tremante su un lembo di carta o stoffa, e poi ha accuratamene nascosto, un pensiero, un verso anche una sola parola o uno scarabocchio come l’ultimo gancio estremo per preservare il proprio “essere” umano. Non si tratta di poesia d’occasione ma di poesia scritta col sangue dei torturati. La considero una testimonianza sacra che appartiene all’umanità. E la Storia e le fosse comuni hanno santificato l’umanità dei lager. Salutare con virulenza come “Retorica della Shoa” queste testimonianze e continuare a inficiare questo post con una polemica sterile che sarebbe più appropriato ai proclami di un post politico e d’occasione come quello di ieri, denota una totale mancanza di sensibilità ed empatia. È la deriva qualunquistica che porta al nichilismo. Questo è il rispetto per la Shoa autografata in questi versi? Queste poesie andrebbero lette come preghiere laiche. I poeti per essere tali dovrebbero conoscere il valore delle parole e del silenzio di cui si nutrono… Grazie.

        • Bene se davi l’esempio per prima senza sollevare tutto questo vespaio, eri la prima a dare il buon esempio e a non inficiare il tuo post. Pensare che volevo addirittura sostenerlo con quanto avevo scritto. Mi sa che aveva ragione il mio amico Ingegnere, pace all’anima sua. Comunque i tuoi giudizi sulla mia persona, compreso l’antisemitismo di cui mi hai accusato, tienili per te. Potrei esprimere i miei sulla tua. … Prego

        • però signora Leone, se oggi, 27 gennaio 2017 continuiamo a perdere di vista le persone, negando loro la libertà di parola peraltro legata ad un commento che un amministratore di blog poteva incanalare, rispondendo alla provocazione contenuta nello stesso (lo rilegga al link indicato e noti come la frase finale che afferma che non abbiamo capito un caxxo colloca tutto nella direzione che lei anche indica) conoscendo la franchezza di chi aveva formulato il commento e che ha ricevuto ingiusti insulti, allora, mi scusi, ma la lezione di questa pagina sul rispetto ha fallito.
          Un uomo è tutti gli uomini che lo hanno preceduto e se deve valere il principio del rispetto, deve valere per tutti. Anche per l’africano lasciato annegare ieri in Canal Grande. Mi scusi, ma temo che tutti abbiamo da tacere, oggi.

          • accogliamo le preghiere laiche odierne e aggiorniamo il Giorno delle Memoria con un piccolo esame di coscienza. La pagina di oggi ci ha insegnato qualcosa in più, grazie a chi l’ha realizzata, però non perdiamo di vista chi abbiamo vicino. Mi scuso per la difesa di un amico, senza un nome specifico. Buon proseguimento in pace, come la Shoah insegna.

  7. antonio sagredo

    Prove mostruose

    (2)

    Quella sera di biacca quand’io svernavo la mia inquietudine sotto la palma di un Oriente devastato… m’accesi… velenosa una lampada per oscurare la vanità di uno specchio doppio… una gloria sinistra e piombata come uno stendardo sull’osceno continente, commercio di colonia il tuo benestare

    quando forse tutte le stagioni alzano a vessillo un nome e s’imbrunisce un core quando una qualunque primavera verrà a cancellare il tuo nome, Antonio! Ed io fui geloso mortale nella tua quinta e in quella scena dove mi uncinai ad una corda della tua voce oscillante, come una glottide ammainata

    per cantar letanie di rosari: luminosi fra le dita i grani accecati

    dal raccapriccio! Avevo una gobba di madreperla, e un deserto di stiletti m’attraversava gli occhi pacifici… anelli, orbite…. croci nella palude lernea e scimitarre decollavano i mostri occidentali: non è più un teatro qualsiasi!… che non è più finta questa guerra vera? –

    io so adesso cosa è una Resurrezione senza fine – un traguardo di tramonto, un’assenza d’aurore!

    Ora non è più un sospetto il piacere di una barbarie recidiva, e l’attesa è la scrittura bianca su nero sfondo, come una finzione antica la smania nostra è la scosciata Europa: zoccola, chiavica che devasti senza rimorsi e requie! Leuca, luce di rivolta! Secolo di universali macelli, ridicoli uncini del

    passato… rovina mediterranea! Canzoni, venite a placarmi questo caos del tempo come allora!… e tu giocavi alla crocefissione… ah, Cristo ’63! Un finto aborto, come la pietà Rondanini… la destra mano incapace d’inchiodarsi… disperazione europea!… femmina da bivio, trivio e quadrivio!

    Le scorregge notturne non sono gradite!
    Veronica: rovina mundi!

    Antonio Sagredo

    Roma, 21 gennaio 2015

    (dall’ora terza alla quarta)
    ————————————————————————————–……
    nb. : nell’incollare versi e strofe sono saltate, così la musica e il resto…

  8. antonio sagredo

    mi disse Vladimir Holan, il poeta praghese che viveva sull’isola di Kampa circondata dalle acque nere della Moldova (Vltava), una sera di un inverno particolarmente gelido del novembre 1973…. mi disse:
    “Antonio, la Poesia è una terra senza muri”…
    s’intendeva bene di muri il poeta, muri di tutte le “nature”, ma tutti mostruosi,
    tutti possibili, “il muro – mi disse – non sa cosa sia l’impossibilità, quando invece per l’uomo tutto è possibile”.
    Quella sera, quando lo salutai e uscii fuori, nevicava e non vedevi nemmeno le torbide onde nerastre, e ogni fiocco per me era una lacrima stellata… avevamo tutti e due gli occhi inumiditi, e strinsi la mano a uno dei più grandi poeti del ‘900… quella sera me ne tornai a casa sotto tonnellate di nevischio, sotto raffiche che t’affliggevano gli occhi, e ogni mio passo sembrava pestare, per gli scricchiolii, ossari senza fine…
    mi ritrovai in una taverna di una lontana periferia a scolarmi birra e alcool, e pensai ad Apillinaire che 71 anni prima veniva consolato da misericordiose donne…

  9. Questa pagina dell’Ombra ha un valore «sacro». Davanti a questi reperti dell’homo sapiens bisogna stare in silenzio, in raccoglimento.

  10. Però, diciamo così, pensando, qualcosa si potrebbe tentar di dire. Ad esempio sul ” bello” e il “sublime”, che come l’Arcangelo Gabriele, nulla possono davanti alla barbarie. Ma soprattutto sul fatto che in questi frangenti si scriva per far sapere, disperatamente, dei fatti. Azzerando speranza e immaginazione…

  11. antonio sagredo

    “quel nulla possono contro la barbarie” stigmatizza un parallelo inquietante con ciò che scrisse Adorno – la sua più grande corbelleria! – che la Poesia non è più possibile scrivere… la poesia testimonia che è superiore ad ogni genere di barbarie, tant’è che ne fa sua materia di canto, denunciando ora liricamente, ora col sublime, ecc., di che natura è fatta, appunto, la barbarie… che a me personalmente non mi tocca affatto poiché appartiene alla “recidività umana” … umana? – la Poesia è la cosa più terribile che esista e il fatto che essa stessa ne tiene conto.. insomma di questa sua “qualità primordiale” fa si che domina qualsiasi genere di barbarie, e in base a questo non teme affatto di perire, essendo la immortalità e la eternità le sue due sorelle di sangue.
    Più volte ho detto qui, e più volte l’ho scritto nei miei componimenti iniziale e finali che la Poesia deve essere spietata, senza pietà, e nello stesso provare
    pietas!

    • D’accordo, ma servono tante stragi, tante nefandezze per arrivare a un briciolo di comprensione?
      “Senza pensieri, senza sole / come talpa sotto la terra / Oh! Io sono questo / E gli altri!
      Di conseguenza, anche la poesia si scarnifica… io questo lo chiamo risveglio.

    • letizia leone

      Concordo pienamente con le considerazioni che il sublime e il bello non possono creare difese immediate contro la barbarie, che vadano riqualificate e ripensate queste categorie che appartengono all’arte e alla poesia, come ha sottolineato anche Sagredo: “Poesia deve essere spietata, senza pietà, e nello stesso provare
      pietas! ” Da questo grado zero sarà rischioso concepire un’arte serena e contemplativa, come specificato sopra con le parole di Paul Celan ed osservare il mondo attraverso quella che chiamerà “la prospettiva dell’usignolo”: “Nessuna poesia dopo Auschwitz: qual è la concezione della poesia posta sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo oppure del tordo”.
      Soprattutto in questo momento storico la parola della poesia deve sforzarsi di ritrovare il peso di una responsabilità etica ed estetica, e non an-estetizzarsi…

  12. CARO ANTONIO SAGREDO, TU SCRIVI:

    «la poesia testimonia che è superiore ad ogni genere di barbarie, tant’è che ne fa sua materia di canto»

    Io ho dei dubbi, forti dubbi su quella presunta “superiorità” della poesia rispetto ad altri manufatti della civiltà, purtroppo, ho perduto questa illusione, anzi, io credo che pensare la poesia, come diceva Celan «dalla prospettiva dell’usignolo» possa essere foriera di poesia ingenua, o finta-poesia, o poesia commestibile, insomma, gastronomica… Il pericolo è quello di fare poesia da intrattenimento come quella di Vivian Lamarque, tanto per fare un nome identificabile, con tutto il rispetto per la poesia e il romanzo da intrattenimento, penso che ci vogliono anche questi generi commerciali, intrattenere il pubblico in modo intelligente sarebbe già di per sé un bel servizio alla collettività. Il problema semmai è quello se la poesia debba essere inttrattenimento o se deve essere altro, se raccontare i fatti di casa propria o del coinquilino sia fare poesia… questo è il problema, se la poesia e il romanzo debbano essere prodotti di «privacy», per scrutare l’interno piccolo borghese dei suoi inquilini.

    Io penso che la poesia, l’arte siano una struttura dinamica significativa e che ogni epoca “produce”, diciamo così, alcune «Forme» e non altre; ogni epoca ha nel proprio bagaglio di «Forme» soltanto alcune possibilità formali ed espressive, e non altre. E poi la poesia stessa è parte integrante di una cultura, non vedo perché mai dovremmo considerarla «superiore» alla cultura di provenienza, in base a quale editto? – Sospetto che questo sia un residuo di pensiero teologico. la poesia è soltanto una struttura significativa in mezzo a una miriade di strutture non significative. Il problema è, appunto, saper individuare queste «strutture significative» E questo è propriamente il compito della critica. Che oggi non esiste.

  13. gino rago

    Letizia, che lavoro prezioso di ricerca poetica hai fatto per il mio arricchimento anche umano attraverso l’altrui dolore…
    Gino Rago

    • letizia leone

      grazie infinite Gino ma io ho solo trovato un preziosissimo volume fuori commercio e conservato in poche biblioteche. I riferimenti per chi volesse approfondire: “La mia ombra a Dachau – Poesie dei deportati raccolte e commentate da Dorothea Heiser”, Mursia Editore, 1997. Prima edizione: J. Pfeiffer Verlag, Monaco, 1993.

  14. antonio sagredo

    si, la poesia è superiore – ed ogni speculazione su questo concetto o principio è vano… Poesia è Canto primordiale prima che esistesse la Poesia stessa come scrittura ( è ovvio!) e come Canto fu testimone dei primordiali massacri, anzi affermo che il Canto stesso è sterminio, altrimenti attraverso quali e altre testimonianze avremmo la prova? L’archeologia sotto tutte le forme di ricerca? Non basta. Lo sterminio canta se stesso per essere cantato, perché solo attraverso questo atroce sentiero è possibile vederne le tracce di auto-denuncia… per questo noi sappiamo degli antichi misfatti e forse oggi siamo in grado di sapere come saranno quelli futuri… ecc.

  15. Giuseppe Talia

    UN PAIO DI SCARPETTE ROSSE

    C’è un paio di scarpette rosse

    numero ventiquattro

    quasi nuove:

    sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

    ‘Schulze Monaco’.

    C’è un paio di scarpette rosse

    in cima a un mucchio di scarpette infantili

    a Buckenwald

    erano di un bambino di tre anni e mezzo

    chi sa di che colore erano gli occhi

    bruciati nei forni

    ma il suo pianto lo possiamo immaginare

    si sa come piangono i bambini

    anche i suoi piedini li possiamo immaginare

    scarpa numero ventiquattro

    per l’ eternità

    perché i piedini dei bambini morti non crescono.

    C’è un paio di scarpette rosse

    a Buckenwald

    quasi nuove

    perché i piedini dei bambini morti

    non consumano le suole.

    (Joyce Lussu)

    https://it.wikipedia.org/wiki/Joyce_Lussu

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.