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Intrecci
Dalla prefazione di Eleonora Facco
Olga, la donna da Oblomov amata ma perduta per la sua rovinosa apatia, ha sposato il suo più caro amico, Andrej Stolz, e vive felicemente con lui. Ed è talmente felice che, ad un certo punto del loro matrimonio, si intristisce ed è sopraffatta dall’angoscia. Andrej (figura maschile che non sembra uscita dall’immaginazione dell’autore, tanto è vicina all’ideale di uomo che ognuna segretamente costruisce dentro di sé) si preoccupa per lo stato in cui si trova l’adorata moglie e cerca di indagare parlando con lei. Olga è giovane, sana, innamorata e dalla vita sembra aver avuto tutto: non può nemmeno lamentarsi dell’uomo che ha accanto, “simply the best” come cantava Tina Turner. E allora? “Forse tu sei arrivata a quel momento, in cui la vita si ferma… non ci sono più enigmi, essa s’è rivelata tutta…” ipotizza Stolz. “La felicità trabocca, si ha tanta voglia di vivere… e ad un tratto vi si mescola questa tristezza ed amarezza” ammette lei. Suo marito, per confortarla, aggiunge poco dopo: E’ la tristezza dell’anima che domanda alla vita il suo segreto. Semplicemente il migliore, appunto. Anche perché Stolz/Goncharov può voler significare che la sensibilità delle donne è tale da far loro sentire il brivido dell’infinito, del mistero che va oltre l’esistenza. Allora tutto ciò che è terreno, e quindi finito, perde di importanza: persino la gioia non riesce a riempire quel senso di vuoto chiuso da sempre e per sempre in fondo al cuore.
Chiarito questo, possiamo affrontare serenamente le vicende di Valeria e Clara, che vivono l’una con un compagno, Giuseppe, e l’altra con il marito Riccardo e tre figli. L’inizio della narrazione ci fa sentire subito vicino ai protagonisti in questo piccolo mondo quotidiano dove ritroviamo accadimenti, ragionamenti e conclusioni che conosciamo bene e che viviamo ogni giorno in prima persona. Soprattutto nei pensieri, perché la storia si sviluppa nei lunghi monologhi interiori di cui le donne sono tanto esperte; quelli cioè rimuginati nelle lunghe ore di solitudine, mentre gli uomini sono al lavoro e i bambini a scuola, mentre cucinano o stirano o caricano gli elettrodomestici. Gesti talmente di routine da favorire tormentose elucubrazioni mentali; e non importa se si ha la fortuna di avere un lavoro: le incombenze raddoppiano ma l’isolamento resta. Nonostante ciò, quelle ore solitarie sono confortate dall’attesa del ritorno dei propri cari e dalla convinzione che ci si stia sì sacrificando, ma per loro e per il loro benessere, sentendosi pure in colpa se si trovano dei momenti da dedicare a se stesse.
All’aprirsi del sipario – mi sia concessa quest’espressione teatrale che focalizza così bene il punto della situazione – troviamo Valeria che si tormenta macerandosi in un flusso continuo di pensieri, per niente inconscio, quando è sola in casa davanti alla sua solitudine. E’ allora che comincia a interrogarsi sui fatti del suo stare insieme con Giuseppe: troppi segnali, troppi sintomi stanno ad indicare che il loro rapporto è cambiato e non certo in maniera positiva. Ma la cosa che di più brucia a Valeria, peggio di uno schiaffo in faccia, è di venire aggredita dalla più subdola delle violenze: il silenzio. Perché cercare di avere un dialogo con il proprio uomo, fare proposte di viaggi nel tentativo di migliorare il rapporto, essere triste o allegra e ricevere in cambio un silenzio pesante più del piombo è, a tutti gli effetti, una violenza che fa sentire la donna che la subisce umiliata e disorientata. Peggio, impotente di fronte a qualcuno che volutamente fa finta di non aver sentito i suoi richiami e nega in questo modo il suo stesso diritto ad essere considerata una persona, dandole la sensazione non di chiedere, ma di mendicare un gesto di affetto, una parola amichevole.
Per fortuna, almeno per lei, c’è il lavoro fuori casa, la scuola – dove potersi sentire ancora utile a qualcuno – e le amiche, anch’esse alle prese con i propri fallimenti e con i tradimenti maschili, con le quali scambiarsi opinioni e confrontarsi sulla propria infelicità.
In ben altra circostanza si trova Clara, inchiodata a letto con una gamba ingessata: nel tentativo di riporre indumenti e oggetti in cantina, è scivolata per le scale ed è rimasta a lamentarsi nel buio finché il portiere non l’ha sentita. Il più stupido degli incidenti e lei la più stupida delle donne, si ripete con rabbia. L’inattività forzata le fa male più della frattura riportata, acuita dall’atteggiamento generale della sua famiglia – situazione che tutte conosciamo bene – dove l’eccessiva gentilezza e i continui “devi riposare, non preoccuparti” non riescono a mascherare il disagio e il disappunto per il fatto che la colonna portante della struttura domestica è fuori gioco, incapace di eseguire quell’enormità di cose che fa ogni giorno. Difficile ignorare che i suoi cari siano ansiosi che lei guarisca al più presto.
Invece, non c’è nulla da fare, solo aspettare che il tempo passi. Clara lo sa e si rammarica, perché guarire in un batter d’occhio non dipende, purtroppo, da lei. Così, all’improvviso, da lavoratrice moglie e madre superimpegnata, si ritrova a non fare niente, se non ascoltare musica, guardare vecchie fotografie e inventarsi una fiaba da raccontare ai due bambini, Nico e Filippo. Ed è proprio la favola che la fa cadere nella trappola delle variazioni sul tema, dei pensieri vaganti in libertà, dei ricordi dimenticati tanto tempo prima. Dell’interrogare a fondo se stessa. Affiorano allora in superficie le domande che nessuna ha mai voglia di porsi e a cui ci si affretta a trovare risposte confortanti. E’ soddisfatta della sua vita, di suo marito in particolare? Certo, sicuro. Ma intanto si affaccia alla sua mente il nome di un altro uomo, un affascinante divorziato, conosciuto a cena in casa di amici, e di cui ha taciuto l’esistenza al marito.
Con il procedere della fiaba nella sua fantasia, complice l’oppressione dell’ozio, i pensieri di Clara si fanno sempre più profondi e tormentati, fino a quando arriva a chiedersi se le frasi gentili del marito, dei figli e persino delle amiche che vengono a trovarla, non siano altro che maschere per nascondere noia, fastidio, disinteresse. Anzi, giunge a pensare che forse tutto non sia altro che finzione e che nessuno di noi, in realtà, sappia veramente che cosa passa nella testa di chi ha accanto, ma stia solo recitando una parte. Proprio come Erving Goffman, sociologo canadese, scrisse nel suo celebre libro del 1956 “La vita quotidiana come rappresentazione”, in cui paragona la vita sociale ad un teatro quotidiano dove noi, gli attori, agiamo in uno spazio scenico che si divide tra la ribalta e il dietro le quinte e dove il risultato da raggiungere è il riuscire a presentarsi davanti agli altri nel migliore dei modi.

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Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. È un romanzo psicologico
L’autrice ha iniziato a scrivere il romanzo trenta anni fa. Poi è rimasto in un cassetto. Durante questi trenta anni ogni tanto lo riprendeva e ci lavorava. È un romanzo psicologico, ognuno dei quattro personaggi (due coppie) viene indagato nei minimi recessi dei propri risvolti psicologici; tutto il romanzo è una indagine sui minimi, impercettibili movimenti della psiche, un progressivo lentissimo allontanamento dei protagonisti all’interno delle due coppie, e un improvviso repentino loro avvicinamento incrociato. È il tema trattato dal Goethe ne Le affinità elettive (1809). La formula delle due coppie non smette di produrre altra narrativa. Il romanzo psicologico è una forma-narrativa integrale che risponde a precise leggi di composizione, è un genere oggi poco frequentato in quanto i narratori preferiscono accomodarsi in generi, diciamo, d’azione, dai movimenti interni veloci, convulsi, per attirare l’attenzione sempre più debole del distratto lettore di oggi.
Non è da oggi che nella forma-poesia e nella forma-narrativa (che sono spazi espressivi integrali), le istanze saggistiche abbiano preso campo ed abbiano dis-locato le istanze “liriche”; così anche le istanze narrative, quelle proprie della narrazione romanzesca, hanno fatto storicamente ingresso nella forma-poesia producendone una implosione dall’interno. Fino al punto che oggi non si può più scrivere una poesia che sia soltanto afflato lirico, tanti sono gli elementi spuri che sono penetrati dentro la forma-poesia. Nel caso della Dzieduszycka dal nome impronunciabile, è chiaro che qui siamo in un genere romanzesco che narra e delimita un evento, narra un evento e, mentre che lo narra, ce lo mostra, ci gira intorno in modo vorticoso e ossessivo. In un certo senso, è vero che la Zdieduszycka si muove nell’orbita della forma narrativa, e spesso quest’ultima è applicata anche alla poesia; come dire, la poetessa romana si muove tra i due risvolti della narratività (quella propria della poesia e quella propria del romanzo), si muove sull’orlo di un bilico, oscilla tra le due forme senza mai perdere l’equilibrio e precipitare in una o nell’altra. E qui, credo, sta la vitalità della sua poesia.
Ho scritto in altra occasione: «Dissento sull’assunto di Salvatore Martino e Pasquale Balestriere, in particolare sulla loro tesi secondo cui la poesia della Dzieduszycka sarebbe una forma narrativa spezzettata con degli a-capo. È proprio qui il punto, la Dzieduszycka utilizza i rottami del parlato e non solo ma anche delle parafrasi del linguaggio pubblicitario (come ha notato acutamente Martino) con quel verso:
“Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta”
per operare delle tensioni interne alla forma-poesia resettandola sul piano della sequenza narrativa ma poi, con un colpo di direttore d’orchestra, paludarla nella forma-poesia come di ritorno dalla forma narrativa. Si tratta di uno spaesamento semantico tutto interno alla poesia che ha l’effetto di sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa…
Certo che la poesia della Dzieduszycka può essere messa anche in linea, senza gli a-capo, e siccome è una versificazione di provenienza narrativa non ne avrebbe ripercussioni negative ma potrebbe esistere anche in quella condizione. Ma qui quello che è importante a mio avviso è che la Dzieduszycka opera come un minatore nel sottosuolo dei linguaggi narrativi per ribaltarne il valore semantico traducendo il dettato narrativo in una forma-poetica. Si tratta di una pratica post-moderna utilizzata non solo dalla Dzieduszycka, ma anche da un poeta molto diverso che ho postato stamane come Mario Gabriele.
Si consideri che il momento espressivo-metaforico del genere del romanzo psicologico è uno spazio espressivo integrale dove il momento espressivo coincide con il linguaggio pregresso proprio del genere di appartenenza, e anche con il linguaggio poetico della Dzieduszycka che ha questa caratteristica eminentemente narrativa.
Il problema di fondo (filosofico, e quindi estetico) della narrativa di oggidì è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di consapevolezza critica circa le differenze tra i generi narrativi ha determinato, in Italia, una narrativa scontatamente lineare, giornalistica… ne è derivata una narrativa superficiaria e unidimensionale.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo delle scritture romanzesche di tipo giornalistico.

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Brani tratti dal romanzo Intrecci
Ora tocca a me dirigere il traffico…
Valeria definiva in quel modo autoironico il breve soprassalto decisionista che la scuoteva ogni tanto. Le accadeva infatti di prendere con se stessa delle risoluzioni stile parabola, credendole o facendo finta di crederle aderenti alla realtà. Ad essere però appena un po’ obbiettiva, e riflettendoci sopra con un minimo di onestà, capiva benissimo di recitare in certe occasioni una parte piuttosto patetica. Ciò non impediva che a intervalli più o meno regolari, e senza molte illusioni, le refluisse dal profondo qualche rigurgito velleitario. Quasi sempre senza risultato apprezzabile, d’iniziativa o ribellione. Ma non demordeva. Perché senza quello non si muove foglia. E la vita diventa d’una noia mortale. Perfino per una piuttosto tranquilla come me.
Capitolo 1, pagina 15 (Valeria)
L’appartamento era polveroso, grigio, per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre. Abbandonato senza cura né pulizie da tre o quattro mesi, e si vedeva. Quando era stata l’ultima volta che ci aveva passato una settimana in solitudine e con grande sollievo dopo la loro ultima lite, particolarmente sgradevole? Forse in giugno, luglio, comunque prima delle vacanze. Il motivo era stato semplice e banale: si trattava di decidere la data per una breve vacanza agostana, – il mese peggiore dell’anno, anche se bisogna pur viverlo in qualche modo! – Ma era stata soprattutto la destinazione a provocare frizioni tra di loro: mare? montagna? lago? campagna? con amici? senza? Valeria preferiva la campagna, eventualmente la montagna, da soli, in qualche alberghetto tipo pensione di famiglia che a Giuseppe faceva orrore.
Capitolo 4, pagina 30 (Giuseppe)
Almeno si trattasse d’impegni rilevanti o gratificanti – escludeva la scuola da quella lista –, del genere che un po’ cambiano il corso degli eventi. Macché! Non sarebbero stati mai di quel tipo. Ormai ne era sicura. Bisognava rassegnarsi. Ma più tentava di convincersene e più sentiva crescere in sé una frustrazione e una rabbia impotenti. Cercava di controllarle ma sicuramente un giorno o l’altro sarebbero per forza esplose, non essendo lei più capace di trattenerle. Colpa di Giuseppe se sono diventata quella frana abulica? Se così fosse mi avrebbe fatto un danno non da poco. Ma forse sono soltanto scuse che mi cerco per consolarmi. La realtà credo sia diversa. Purtroppo. E la verità è che sono io, probabilmente, io sola, colpa del mio male.
Capitolo 8, pagina 58 (Valeria)
Rievocando il passato e ripescando nella sua memoria alcuni episodi in cui Giuseppe somigliava di nuovo al Giuseppe originale, Valeria si sentiva dentro come un’ondata di calore che la percorreva tutta, e percepiva una piccola voce interiore che le sussurrava: Forse vale ancora la pena insistere. In fondo, qualcosa è rimasto. Qualcosa di prezioso, ricoperto dalla patina dei giorni. Forse se riuscissimo a parlarci. Una volta. In un momento propizio. In un luogo giusto.
Capitolo 12, pagina 80 (Valeria)

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Invece appena si ritrovava completamente sola, e soltanto allora, le cose mutavano. La casa cambiava anima. Diventava raccolta, avvinghiata intorno a lei, ancora più silenziosa; e la sua camera simile a una tana protettrice e calda, un po’ buia in quelle giornate sporche d’autunno avanzato; ma per niente triste; soltanto complice, confidente.
In quei momenti non esistevano più i rumori della vita fuori, né gli accordi della musica, né l’armonia blu della sua stanza, e neanche il tanfo dei fiori ormai quasi marci. Non importava più l’arnese di gesso che l’impalava come un insetto ferito, come un grosso ragno in agguato nel cuore della sua tela.
Capitolo 15, pagina 93 (Clara)
Malgrado tutti i suoi sforzi Riccardo si sentiva sempre più impaziente e nervoso per quella situazione che minacciava di durare ancora parecchio tempo. Nell’immediato non c’era niente da fare se non aspettare. Aspettare che l’osso si consolidasse, che la ferita dell’intervento guarisse, che si possa presto ritirare il gesso e far venire in casa un fisioterapista. Che tutti i pezzi del mosaico si rimettessero al loro posto, nel posto in cui stavano prima. E aspettare non era mai stata la sua caratteristica principale.
Sempre da un cantiere all’altro, sempre affannato e stanco, si rendeva conto che si vedevano poco, che le loro vite correvano su binari paralleli, con pochi punti di contatto agli scambi automatici.
Ora poi, i contatti, almeno quelli ai quali penso, non ci sono proprio più. E dire che sono una bella valvola di sfogo, che finora ha sempre funzionato tra di noi. Spero finisca presto quel periodo maledetto.
Capitolo 19, pagina 117 (Riccardo)
Ma che posso fare? Ormai sono legato al carro. Non mi ci vedo abbandonare tutto e andare a vivere in campagna per piantare cavoli e allevare pecore. Questo si può fare a venti anni, a trenta, se non si vede alternativa, quando ci sono le forze e le illusioni per poterlo tentare. Io sono troppo vecchio ormai per ricominciare una nuova vita. Non ho l’animo bucolico.
Mi rendo conto d’esser stato contaminato, ricoperto da una patina di cinismo, scetticismo, liberismo, consumismo, tutte quelle belle parole in “ismo”, di cui per fortuna ci siamo in piccola parte sbarazzati. Somiglia alla polvere sul mobile di mia madre. Si depone, piano piano. Uno non se ne accorge nemmeno. E se non ne prende coscienza in tempo, si ritrova completamente sommerso. Quello strato si solidifica e si trasforma in una specie di lenzuolo che ti avvolge prima del tempo. Sei già pronto per la bara, anche se ti sembra di aver indossato un bellissimo abito di gala, presto rosicchiato dai topi o mangiato dai vermi.
Capitolo 23, pagina 152 (Giuseppe)
Ora lo guardo, seduto a tavola di fronte a me, con i suoi dieci anni di più la faccia solcata da precoci rughe, la fronte più alta, un abbozzo di barba già sale e pepe, un inizio di pancetta. E mi chiedo: cos’è rimasto del nostro sogno anzi della nostra ferrea volontà di diventare una coppia speciale, che niente potrà mai scalfire; che resisterà agli assalti del tempo, gran
divoratore di entusiasmi, risoluzioni, promesse, in una parola, amore. Parola, quella, logora, consumata, senza più senso.
Non saprei veramente dire, ora come ora, se qualcosa si risveglierà ancora in me nei suoi confronti. Per essere più precisa, ho ancora voglia di scopare con lui? Mi fa ancora sentire in fondo a me quelle sensazioni difficili da descrivere con delle parole che mi trasformavano in una lupa affamata?
Capitolo 26, pagina 162 (Valeria)

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Per la prima volta da molto tempo ho sentito che un uomo mi guardava, intensamente, non in quanto femmina da scopare, né insegnante dei figli, né persona incrociata per caso. No. Mi guardava. Non saprei dire esattamente in quale modo. Ma dentro quel suo sguardo mi sentivo cambiare, piano piano. Diventare qualcun altro. Sentivo che ero di nuovo qualcuno per un uomo. Una donna. Apprezzata, forse ammirata? Posso dire desiderata? Non lo so, perché la cosa era talmente impalpabile, leggera, discreta, che non avrei potuto qualificarla;però non si poteva ignorarla o negarla. Non un’idea inventata, chi sa perché No. Era un fatto reale e concreto. Lui mi vedeva. Ma soprattutto mi guardava: gli occhi, la bocca, un breve sguardo poi alle gambe incrociate e alla mano sinistra senza fede. Neanche lui l’aveva. Ma ormai sono pochi gli uomini che la portano. E questa piccola assenza procura loro un grande senso di libertà di cui sono sempre affamati.
Capitolo 28, pagina 170 (Valeria)
Si sentiva come una gestante colpevole, gravida per le premure di qualche mostro non identificabile, qualche idra piena di teste: orgoglio sempre presente anche se negato, noia, narcisismo, desideri inconfessabili, traumi lontani non completamente seppelliti, che la luce del giorno e il minimo soffio d’aria riducono a poltiglia, vecchi scheletri scoperti per caso dentro grotte profonde.
Richiedevano invece una lente decompressione, una prudente opera di maturazione e riesumazione che esigeva le cure le più sapienti e premurose. E questa necessità contrastava col suo carattere impaziente, di solito attirato da scoperte immediate e positive, da vicende concrete, con uno sviluppo e un esito ben visibili.
In fondo a lei tremavano mille piccole luci, deboli, saltellanti, lampi appena percettibili, leggeri fuochi fatui che temeva di vedere spengersi. Diventava morbosamente gelosa dei propri pensieri.
Li rimuginava, li analizzava, li scaldava con la tenerezza e le precauzioni di una chiocciola. Ci si aggrappava con tutte le sue forze, tremando sempre di dimenticarli o di perderli come la chiave arrugginita di qualche cassetta dal contenuto sconosciuto ma prezioso. Si accorgeva di percepire con un’attenzione e un’acutezza mai provate finora, le più deboli sfumature, le reazioni e gli atteggiamenti delle persone intorno a lei, i minimi eventi della sua piccola vita quotidiana e risicata.
Capitolo 31, pagina 184 (Clara)
Adesso lo so.
Forse l’ho sempre saputo. Bisognerà imparare piano piano a coabitare con quel bruco che mi mangia la testa. A condividere con quell’insetto ributtante le mie gioie e dolori, vedendoli rovinare e saccheggiare le cose belle, assistendo impotente allo scempio.
A farlo ingrassare, trionfante e sghignazzante, con le mie rabbie derisorie e inutili.
Bisognerà rassegnarmi a sentirlo strisciare dentro di me, sempre più immondo e prepotente col tempo che passa e la sua certezza di vincere, bestia schifosa che lecca le ferite e si nutre dei nostri umori sotterranei e ripugnanti, tutti quegli umori che battono e premono alle porte del nostro corpo. Aspettando che si rompano le dighe della compostezza imparata, dell’equilibrio finto, delle abitudini distillate o solamente della vita che scorre. Di tutte quelle cose che ci fanno reggere o recitare, per fluire e defluire con una violenza sorniona e inarrestabile, spazzando via qualunque ostacolo, orgoglio, amore, disprezzo, interesse, vergogna, paura, soprattutto paura.
Adesso so quale è la fine della favola crudele. Non diventerò farfalla. La metamorfosi non avrà luogo. Ma anche se avvenisse sarei sparita prima di averlo saputo. Il verme sta in fondo a me, calmo e beato. Perché dovrebbe abbandonarmi? Ormai facciamo una carne sola. Si ramificherà sempre di più nel mio corpo squartato, penetrerà come una piovra viscida e molle dai mille tentacoli lungo le mie membra inerte, scaverà gallerie nel mio sguardo assente, e nessuno mi vedrà più. Mi trafiggerà in un letto scuro e accogliente, silenzioso e deserto dove potrò finalmente dormire.
Forse non subito. Di me galleggerà ancora per un po’ una piccolissima crosta bianca, dura, fredda come la superficie di un iceberg solitario. Essa rifletterà le luci che mi girandolano intorno, come un caleidoscopio impazzito ingoia e ritrasmette una realtà trasfigurata, difforme e illusoria, l’illuminazione psichedelica di un night di quarta categoria.
Invece nel fondo, succederà di tutto. Nel fondo e nel buio, un po’ prima del buio, si grida, si chiama aiuto, si rantola, si affoga, e nessuno se ne accorge. Nessuno sospetta nulla, e la bocca si riempie di sabbia, perché bisogna tacere, e non dar fastidio a quelli che ballano, a quelli che fanno l’amore, a quelli che fanno la guerra, a quelli che accanto a me, ormai nel silenzio anche loro, affogano e non possono più gridare.
Solo una strana musica, lontana, dolce, un po’ irreale, spanderà la sua armonia triste sopra la voragine rinchiusa.
Capitolo 34, pagina 197 (Clara)
D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli, André Verdet e Federico Zeri), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, prefazione di Giampiero Mughini, Editori Riuniti, 2004. Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007. L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia. Nodi sul filo, racconti, Manni Ed., 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013. Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni di Paola Mazzetti. A pennello, poesia, La Vita Felice, 2013, postfazione di Mario Lunetta. Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Stefano Gallo e François Sauteron, 2014. Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Trivella, Genesi, 2015, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Come se niente fosse, Fermenti Ed., 2016, prefazione di Paolo Brogi. La parola alle parole, poesia e prosa, Progetto Cultura Ed., 2016, prefazione di Giorgio Linguaglossa. Intrecci, romanzo, prefazione di Eleonora Facco, Genesi Ed., 2016. Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura Ed., 2016.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, de Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, préface de François-Georges Dreyfus. Le sol dérobé, souvenirs d’un Lorrain, 1885-1965, Ed. des Paraiges, préface de Jean-Noël Grandhomme, 2016.