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Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da Viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie.
Valente critico, nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo “Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento”. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa. L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.
Per ogni altra notizia il sito ufficiale a lui dedicato (http://www.remopagnanelli.it/).

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Appunto di Flavio Almerighi
Di storie di losers (perdenti) sono lastricate le vie. Come non dimenticare il più perdente di tutti, marchigiano come lui, Giacomo Leopardi? Conobbi questo poeta quasi per caso, facendo una ricerca sul cognome Pagnanelli su Google, non trovai l’origine del cognome, ma la sua poesia. Poesia che va riletta, reinterpretata non più dimenticata. Poesia singolare, poesia piena di risvolti disperati e dolorosi, eppure intrisa di autoironia. Remo Pagnanelli, poeta meraviglioso e fondamentale, che propongo ai lettori de L’Ombra delle Parole.
da una nota di Paolo Zubiena
La vicenda umana e poetica di Pagnanelli appare tutta scandita dall’inesorabile richiamo della morte, basso continuo della malinconia. Nessuna semplificazione omologante tra nosologia psichiatrica e scrittura – arte e vita, come si diceva un tempo , ma non può sussistere dubbio che l’esperienza di Pagnanelli poeta ponga le radici nella sua sindrome depressiva, la cui oscillazione tra Stimmung e psicopatologia è da lasciare al giudizio di chi ha potuto conoscerlo. Già nell’incunabolo degli Epigrammi dell’inconsistenza si riconosce un’esperienza di totale investimento del sé nella scrittura poetica, che trae dalla situazione melanconica (esemplarmente delineata nella figura dell’“hidalgo”) una conclusione di auto cancellazione (la “lunga vacanza dalla terra”). In Dopo la pronuncia e i ritmi si dilatano: echi del tardo Montale e del Sereni post Strumenti umani definiscono strutture monologanti in cui prevale però la dominante disforica: si veda al proposito, in Mezzosonno, la traslazione di un Sereni corporalizzato verso il tema del dissolvimento – dal sonno al freddo del rigor mortis tramite la voce che salmodia la tentazione “di scappare verso la morte”. Un periglioso autobiografismo bordeggia lo sfogo, ma spesso consegue il risultato dell’impietoso (e sia pure a tratti masochistico) referto. La nuova stagione di Musica da viaggio e Atelier d’inverno importa un aumento del tasso sperimentalistico e un’alternanza tra la denuncia dell’inadeguatezza dell’io e quella del disastro politico e sociale, con una più diretta voce patemica. Si coglie forse un eccesso di accoglienza di materiali lessicali disparati (tra l’altro il registro basso-corporale, volutamente sgradevole): quasi a voler punire la tenuta stilistica con una brutale imposizione del reale, visto però tal- volta con una lente troppo confidenzialmente egotrofica. Scrive ottimamente Enrico Capodaglio, autore del migliore contributo complessivo sulla poesia di Pagnanelli: “L’autore ricorre a Freud più come al diagnostico che come al pensatore e adotta egli stesso un’attitudine medicale, nel tentativo non solo di esprimere i legami tra il soma e la psiche, ma anche di guarire gli affini con solidale spirito sociale, in virtù della descrizione della malattia. È come se un medico di acuta intuizione diagnostica ci sfogliasse quelle foto crude che si trovano nei libri di patologia, alternando le spiegazioni tecniche con improvvisi, affettuosi, auspici di guarigione e di salute”.
Commento di Guido Garufi
Remo Pagnanelli, uno scrittore centrale del Secondo Novecento
Mi viene chiesto di scrivere del mio più caro amico e sodale, Remo Pagnanelli, che nel 1987 decise il suo viaggio per un altrove. Mi è difficile scrivere perché Remo è sempre presente in me e questo potrebbe generare un eccesso di proiezione da parte mia. Tenterò una via diversa. Pagnanelli era e rimane un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Importante nel suo doppio registro di scrittore e di critico. Notti, pomeriggi, telefonate, passeggiate interminabili nella nostra Macerata, e parole, tante parole, giudizi critici, ipotesi teoriche, nuove griglie interpretative. Persino a cena ( anche con la mamma insegnante di Lettere, Luigina – chiamata affettuosamente da mia madre che la conosceva “Gigetta”, il babbo Franco e, allora, la sorella, una giovanissima Sabina) o dopo cena , facendo una rampa di scale nella sua casa di Via Batà. E poi in camera sua, con le lettere, una macchina a staffa ( non si usava il computer e non c’erano cellulari) e poi la tensione godibile, l’attesa di ricevere lettere da Loi, da Sereni, da Fortini, da Bertolucci… Remo, alla fine della serata, disordinato o smemorato com’era, gettava a terra fogli residui o inservibili, accartocciati, gli stessi che con tenerezza diventano in una sua poesia “palle di neve” che- anche lui citato -, il padre raccoglieva e riponeva altrove. E siamo al 1981: decidemmo allora di mettere su, insieme, una rivista, “Verso”, e così facemmo. Ricordo come fosse ora che condividevamo la doppia lettura: verso come il verso dei poeti, naturalmente, ma anche la sua versione latina, “versus” , che appunto vuol dire “ contro”. Remo sosteneva che la poesia aveva una funzione, quella di essere testimonianza, di “martirio” laicamente inteso. La rivista viaggiava bene, benissimo. Intanto il mio amico pubblicava per Scheiwiller un poderoso saggio su Sereni, La ripetizione dell’esistere, che vinse il Premio Mondello. E contemporaneamente il suo primo libro di versi, Dopo. Gli avevo presentato Giampaolo Piccari e anche io stavo pubblicando il primo libro, Hortus. Ricordo, come fosse ora, che decidemmo insieme la sua copertina, insieme scegliemmo un bel bleu.
Remo era un gran lettore, un lettore affamato, non affannato, onnivoro: poderosa nella sua stanza la filiera di testi di critica letteraria e qualche centinaio di libri di poesia. Penso che il suo armamentario filologico ed ermeneutico fosse davvero interessante, almeno per quei tempi. E tutto questo si deduce dai suoi saggi su Fortini, Penna, Bertolucci, Caproni ed una foltissima schiera di apparenti “minori” del secondo Novecento. Un approccio interdisciplinare, a metà strada tra la critica stilistica e quella variantistica. Alla base, come ho detto ma voglio ripetere, un centrale armamentario teorico, l’ assorbimento di Freud e Jung, sorvolando Lacan, ma soprattutto i Maestri, da Contini ai più recenti, con un affetto incondizionato per Debenedetti e Mengaldo. Ma questo per restare in Italia. Già, perché oltre le Alpi c’erano Ricoeur, Levinàs e una piccola schiera di teologi. Non voglio e non debbo qui fare un elenco, sgradito a me e probabilmente ai lettori. Ma è certo che Pagnanelli sapeva unire il suo fiuto ad una notevolissima e ben digerita retro cultura, fiuto, intuito e studio matto e disperatissimo che oggi mi pare assente. E anche lo stile, nonostante le citazioni bibliografiche, era uno stile piano, “narrante”, alla Serra, per intenderci. Un dolce stile, godibile, argomentante, accattivante …A questi saggi di carattere letterario bisogna affiancare qualche “perla” critica sul versante dell’ estetica, dell’arte, del puro visibilismo e sul paesaggio ( rimane sostanziale quanto Remo ha scritto sul rapporto Leopardi-Natura, dove bene si coglie quella interdisciplinarità della quale ho parlato).
Ho fatto solo qualche cenno al Remo critico. Qui informo i mei ventiquattro lettori che aveva anche una passione di fondo, nascosta , recondita: la musica. Mi disse un giorno che il suo vero sogno sarebbe stato quello di diventare direttore d’orchestra. In salotto c’era un pianoforte che non suonava mai(eccetto che con me, poche volte, e sotto tortura) ma non è casuale questo ricordo, quanto alla poesia. Premettendo, come tutti sanno, che un direttore ha lo scopo di “accordare” i vari strumenti, di unirli e “sintonizzarli” affinché ne possa scaturire una “musica” uniforme e totale, ho motivo di ritenere che Remo abbia tentato di fare qualcosa del genere con le sue raccolte di versi, a partire dalla prima, quella con la copertina bleu, Dopo, proseguendo con Musica da viaggio, Atelier d’invero, e quello finale-terminale, Preparativi per la villeggiatura” , che abbia tentato di inseguire una “sostanza musicale” o una “musica di fondo” come sempre mi diceva e ribadiva nei saggi teorici, laddove si occupava di metrica e fonosimbolismo. E’ stato Giampiero Neri ad “accorgersi” di Remo, a supportarlo. Ed è il lessico tonale di Neri che affascinava Remo, una musica di fondo minimale, apparentemente atonale, eppure massimamente espressiva, simile alla indicazione di Montale sul tema della prosa-poesia.
Non sta a me qui percorrere le raccolte, una per una, ma certamente posso segnalare la “qualità” dei suoi versi, pensanti, “pensieranti”, persino quelli che io, come lui sapeva, non “sentivo” e che tanto invece piacevano a Giuliano Gramigna, che poi infatti curò la prefazione di Atelier d’inverno. In una sezione, come Remo riconosceva, faceva capolino Lacan, e io gli dicevo che quella sezione del libro mi sembrava ingolfata. Lui sorrideva, di un sorriso compiacente, sapeva che quei riferimenti all’inconscio che in quel libro alitavano, servivano unicamente come “scarico” di un dramma analitico, come una interpretazione dei simboli del sogno. Non so, dopo tanti anni, perché io ricordi questo. Probabilmente perché dei sogni, sempre, Remo mi parlava, dei suoi sogni, dico, e mi chiedeva l’interpretazione. Abbiamo sognato tanti anni insieme e c’è una poesia, anche ironica, dove ci sono di mezzo io, nella figura del “biografo”.
Ed è questo che io voglio ricordare oggi. La sua mancanza è centrale, perché è stato un uomo, una persona, uno scrittore, che aveva capito la “responsabilità” e il “peso” della scrittura, il ruolo della poesia. E se mi guardo intorno, ne scorgo pochi come lui, capaci di intendere pienamente ciò che sta scomparendo, la Civiltà umanistica, quel residuo che ancora esita e raramente tocca l’umano, la pietà, lo sguardo e la parola degli altri, e agli altri si rivolge, con tenerezza e speranza di comunicare, ancora con i versi e con il cuore.

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Poesie scelte di Remo Pagnanelli
Nel salone
Non conosco il nome della pianta
né mi interessa di saperlo.
Mi attirano soltanto quelle foglie
inverosimili di plastica
che si allargano fino al soffitto
e lo toccano a una altezza pari
alla vista fuori dell’azzurro.
E’ importante per me notare questo azzurro
intenso e sciroccoso – mentre fuori
tutto si agita e si torce qui
niente fa una grinza e le forme del vuoto
si svelano più facilmente.
E’ importante invece che io tenti paragoni
tra interno e esterno? A tessere
l’elogio del primo non penso
e neppure capire il movimento del secondo
mi smuoverebbe. Non faccio nessun
tentativo di intelligenza,
non scavo, non tento nessun collegamento.
Guardo ancora le foglie larghe
e ogni tanto il cielo.
Non ricordo il nome della pianta.
Da Scherzi per un compleanno
a G.
III
Vorresti prenderti in flagrante,
prenderti sul serio il destino del mondo
sulle spalle. Via, scosta questo orrore
e almeno questa volta non lo fare
IV
Auguri in fretta pestiferi uccelli
scaccia presto in fretta altrimenti
come Ipazia la corsa termina
in un frammento.
(dalla Rivista “Salvo Imprevisti” 1981)
Biglietto da viaggio
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande garantirà per me
questo splendore, parti pure e
non interrogarti (questione di
attimi e scorderai).
*
mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui
ma non necessariamente …
Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 100 e p. 202
*
Les Adieux
infilàti in una nebbianebbione tra ordini e contr’ordini gridati
si rivedono i due vecchi amanti da tempo in un ipotetico oltreche.
Lui può assaporarla giovane come ancora la sognava –
hanno l’opportunità di dire te l’avevo detto che non finiva
… anche qui dandosi incontri che falliscono, dove gli dei
non si avventurano facilmente, tutto retto ancora dal caso.
Ma il sospetto di stare assistendo ad un film d’infimo ordine
non li abbandona … e in qualche modo ne sono fuori
comunque, per un po’ d’odore si rianimano al solo guardarsi
fra le crepe rattrappite dei loro corpi di bacca (in una
nebbia-nebbione)
.
Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 95 e p. 199
[Musica da Viaggio, poi confluito in Atelier d’inverno]
*
nel nulla di una stazione cancellata da fiandre
piovaschi, sulle sete sudicie ma tese delle
palpebre, scorre un rumore d’impalpabile azzurro,
un tremore di palme arrochite, assopite nel lino
orsolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(nel grande fiume di luce apparente, estenuantesi
fino all’estinzione, che porta i morti alla foce
d’un altro destino, dorato da sopra macchie
mediterranee d’una cenere autunnale semplicemente
posatasi, vedo la cupola spenta nel latte del bosco)
(nel treno nella notte chissà se dormi lontana
sorella)
IV TOMBEAU
(pensa nel sonno i sonni fanciulli, li sogna, cigni
neri di inutili cicloni? Le querce gli andavano
dietro, gli echi di lui suonavano dalle rive)
lasse celesti e lunari non castamente mortuarie
(qui) rimarginate da bassa plenitudine e bellezza,
in ciocche decrepite e tiepide urne dove gli occhi
si conservarono (anche le suole alate le sabbie dei
cavalieri)
V
dove gettano leghe di legnometallo, l’oscurità si
sgrana in solventi azzurri, in gomiti cavi di gocce
di cenere (s’animano allora le anime immobili, si
scuote il mare tornato intatto da remale mormorio)
– Chi tu sia, il mio non tronco trattieni con ospitalità
regale, le non più braccia nello stridore sgomento
di una stretta
(non la corrente ma il nuovo gelo ti spaventa,
e tu saltalo, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .
corrompi e sciogli i gorghi, sporcati (poco)
nei liquami – il tuo occhio non regge la visione?
E tu saltala, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .)
VIII
ora dalla tua ferita (per somiglianza figurale
isolanuvola) fluiscono acerbe ragazze dai colli
lunghi e contesi, che si spengono in una cavea
illune, traversata da un postale, dentro cui suonano
iridi felicemente orientali, dai piedi teneri e
conclusi
(in prossimità del canale si staccano una sera
qualunque teste spedite via)
XI
(una valletta di calici e coppe dischiuse)
gloria levantina scorre su stordimento e pianti
fra una moltitudine di rose travolte da increspature
– vi affonda una mano. . . . . . . . . . . .
(a mezza costa la storia ci sorpassa
ci cancella di volo negli essiccatoi
autunnali – siamo nei piovenali
abbandonati)
XII
la risacca è quella degli anni giovani, logorati
su una losanga emersa da un tiglio genius loci,
ala prediletta e luminosa fra le corde dello
scollamento
(da l’Orto Botanico)
*
L’anno ha pochi giorni perfetti.
Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata.
Noi la subiamo come l’eccessivo caldo
o il troppo freddo.
Nel corso passano senza freno i dagherrotipi
della nuova eleganza e ci portano via
le donne e la vita.
.
*
Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse
taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.
*
Vorrei fare una lunga vacanza nella terra.
Mie notizie penerebbe il vetro del mare o qualche animale
dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio.
A chi volesse trasmigrerei nelle stagioni intermedie
il fresco dal mio sottocutaneo (la terra
si raffredda più presto del mare), risolto
nel minerale, spesso in simbiosi col vegetale,
assoggettato in altra specie dall’acqua che disperde
in più sciolto da ogni esperimento di corporeità.
*
Forse l’eterno è in questo dormiveglia
di calce mista a biacca senza bagliore,
che elude in inganno ogni virile
aspettazione. Piè Veloce non agguanta
la sua tartaruga né noi il tratto esiguo
d’una giornata.
Vorrei questi versi riversi come un cane
che si abbandona all’agonia.
(da Epigrammi dell’Inconsistenza)
EXILES
Uccelli di specie lontana salutano
passeggiando come foschie sopra
l’adolescente fanciullo adriatico
nell’estivo rifiorire del mare in
un’erica sepolcrale sorella all’autunno.
Gli orti sono invasi da spume presto secche.
forse è ottobre, forse autunno, non sappiamo,
quando s’inazzurrano, per celarsi, le vene
della città, le piane desiderate già al
primo caldo di pasqua, dolci e struggenti.
Scendiamo a coppie sui laghi bianchi, dalle
punte bionde e fiacche, non traslucidi ma
opachi, come noi sul punto di addormentarsi.
Ora fa buio e le candide pernici (nelle estati,
marroni e scattanti ai nostri brindisi)
s’alzano verso gli chalet delle pensioni
e i mangiatori di fiori graffiano le siepi
delle ringhiere.
CLINICA
Efficiente disordine. Bottiglie morandiane
metà opache, lembi di liquide rose sui
guanciali, veli veloci a coprire……………
nel mattino di sole ci si guarda splendere
tra i palmizi e i vasi della villa vicina,
una lacca d’oro entra sulla lampadina
accesa all’angelo custode…………………..
…………………………………………
……………………… (in pozzi bianchissimi e ruotanti
ascolto l’amata traversare vertiginosi
giardini, ignorare gli aliti imputriditi)
nelle brocche, nei cristalli dei lumini
e delle lacrime il tuono delle regate
mosse di fine stagione, lo zoo vuoto
dalle foglie sanguinanti, la schiera
del gruppo che si sgrana e profonda
nel sudore…..……
ora che il fuoco sottile delle lamine è un sogno
della visibilità, un verde pendant di pellicani neri
si versa secco nel parco opaco e voi, fratelli separati,
che la nebbia sbriciola via corrucciati e spenti,
scendete dando le spalle
(da Le proporzioni poetiche. La poesia italiana fra gli anni Settanta e Ottanta, vol.3, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti,Milano 1987)
*
mi godo questa Luce ultima
della fine senza fine.
Profonda
quanto più nel ritrarsi
pare scalfire.
Che non possiede,
che spossessa le cose e te,
riducendo all’osso e al bianco.
Quant’altra sotto ne dorme
che la pioggia non offusca.
L’ha ribloggato su almerighi.
un poeta da ricordare nel 29 anniversario dalla scomparsa
Come sappiamo, la problematizzazione del discorso poetico del secondo Novecento ha investito il soggetto ed esso è diventato un luogo tropologico e logologico, il soggetto si è territorializzato ed ha iniziato a significare. Dopo Composita solvantur (1994) di Fortini, un certo tipo di poesia è finita per sempre, il soggetto si è scoperto retorizzato, è diventato un luogo retorico e retorizzato, ciò significa che è esploso il privato e il quotidiano con relativa messa in questione del soggetto stesso il quale diventa un territorio che il logos attraverserà con i suoi discorsi antropologici. La poesia di Remo Pagnanelli sta tutta dentro questa problematica tardo novecentesca, rimarrà prigioniera delle antinomie di quella impostazione culturale. Anche le sue ricerche critiche (vedi le monografie sull’opera di Sereni e di Fortini), sono significative di questo tentativo di chiarire a se stesso il nodo di quei problemi che hanno avuto una ricaduta pesantissima sulla poesia degli anni Ottanta inducendola a comporsi in un’area psicologistica del discorso poetico, e quindi a interiorizzare le problematiche stilistiche ed estetiche in chiave psicologica. Questo processo diventerà chiaro negli esiti di altri poeti degli anni Ottanta che avranno una influenza decisiva sulla poesia tardo novecentesca con la soluzione da essi propugnata di una poesia sostanzialmente psicologistica.
Grazie a Flavio Almerighi per aver proposto Pagnanelli, un poeta degno di attenzione; e per aver ricordato Giampaolo Piccari, martire
della nostra poesia.
“Chi si occupa seriamente di Poesia non deve occuparsi di letteratura”: questa frase di Antonio Sagredo potrebbe spiegare molto bene i componimenti del Pagnanelli e l’analisi del Linguaglossa, rincarando, spiega davvero bene il groviglio intellettuale di questo poeta prigioniero delle “antinomie” psicologistiche.
Queste parole: “come Ipazia la corsa termina/in un frammento” danno una visione chiara e non torbida di una identificazione complessa come lo è anche l’itinerario poetico, che si conclude nell’atto estremo. Quando un poeta giunge alla sua ultima stazione s’arresta ogni cosa che lo muove o rimuove e non c’è altra scelta, non c’è alcuna parola salvifica: Che fosse il Pagnanelli un poeta votato al tragico esistenziale lo conferma quello spegnersi di qualcosa ” nel latte del bosco”… (o “latte del bosco”, non ricordo > ne dice la prima volta Trakl; e “il grande fiume di luce” ci riporta al cantore svevo Holderlin, e se volete per alcune visioni quasi etiliche ma contratte alla Dylan Thomas. Ma forse dico cose troppo alte per questo poeta che in definitiva mi pare che si ponga in una linea già battuta tante volte da altri fino ad essere cancellata, ed il rischio è per questi poeti di non essere stati capaci di oltrepassare il fiume infernale di quella quotidianità terribile di fine secolo che ha distrutto la poesia italiana determinando ” una ricaduta pesantissima sulla poesia degli anni Ottanta ” (e ancora una volta il Linguaglossa centra il punto letale). Dunque che resta di quella generazione di poeti? Se non il ricordo d’essere stati poeti di transito, ma non di transizione (questo richiederebbe la distruzione e poi la costruzione di ponti!). A condannare simili poeti, come anche quelli che sono definiti “grandi” nella/dalla nostra letteratura (ma non dalla Poesia!… vedi la frase di Sagredo) è stata la mancanza se non l’assenza totale del “pazientare” per mirare meglio i diversi piani o strati entro cui la Poesia si muove…. il fatto è che personalmente mi sono stancata da quando avevo già 22 anni di leggere la poesia italiana votata soltanto al ripiegamento, alla malinconia spicciola, a quel versificare eguale e perciò paranoico se non psicotico in tutti i versificatori, e tutto ciò ha distrutto la naturalezza dell’andare oltre…
non è dunque una critica personale al Pagnanelli, quanto a quel sistema poetico-intellettuale inaugurato dalla “triade scellerata” (Sagredo): Ungaretti-Quasimodo-Montale e dai loro nipoti e nipotini. Ne stiamo uscendo fuori? L’unico metodo è quello della loro cancellazione totale, assoluta… io credo che si comincia a respirare bene (ma bisogna uccidere (nel senso di buttarli alle ortiche) i Cucchi, De Angelis, Magrelli, ecc. e le migliaia di poetucoli che infestano, così i pittori, ecc.
Gentile signora o signorina ,non so, Favretto. Tra le mie mancanze nei suoi confronti devo annoverare anche quella di non conoscere la sua opera, che immagino di qualità superiore, visto che si permette di demolire poeti che hanno fatto la storia della poesia italiana e guarda caso non hanno niente da spartire con i Cucchi, i De Angelis e i Magrelli. Uno della scellerata triade fu un certo Giuseppe Ungaretti, certamente il punto di rottura più evidente e più violento con la tradizione. Conobbi molti anni addietro il poeta nella sua abitazione romana dell’Eur, e ne ricevetti una impressione folgorante.Credo che ancora oggi in Italia non ci sia nessuno che abbia tessuto una poesia così priva di retorica, , una poesia che aveva sovvertito tutto, tradizione metrica, costruzioni sintattiche, una poesia di folgorante vivacità coloristica, che ridava alla parola una magica risonanza. Così sobria, così precisa con la concisione della frase in mezzo al silenzio degli spazi.. Un atto di conoscenza e di giudizio sulle paure e le fatiche e l’orrore della vita. Una meditazione sulla morte. E mi fermo qui. Credo che se Ella avesse scritto i versi sotto riportati giustamente sarebbe fiera di essere indicata poeta autentico.
Da Ultimi cori per la Terra Promessa
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Mi afferri nelle grinfie azzurre il nibbio
E, all’apice del sole
Mi lasci sulla sabbia
Cadere in pasto ai corvi.
Non porterò più sulle spalle il fango.
Mondo mi avranno il fuoco,
I rostri crocidanti,,
L’azzannare afroroso di sciacalli.
Poi mostrerà il beduino,
Dalla sabbia scoprendolo,
Frugando col bastone,
Un ossame bianchissimo
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Calava a Siracusa senza luna
La notte e l’acqua plumbea
E ferma nel suo fosso riappariva
Soli andavamo dentro la rovina,
Un cordaro si mosse dal remoto
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Soffocata di rantoli scompare,
Torna, ritorna, fuori di sé torna,
E sempre l’odo più addentro di me,
Farsi sempre più viva,
Chiara, affettuosa più amata,
Terribile La tua parola spenta.
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L’amore più non è quella tempesta,
Che nel notturno abbaglio
Ancora mi avvinceva poco fa
Tra l’insonnia e la smania.
Balugina da un faro
Verso cui va tranquillo
il vecchio marinaio.
Mi auguro che la sua scellerata affermazione corroborata da altri sia dovuta soltanto alla non conoscenza dell’opera dei tre poeti, e in questo caso glene consiglierei la lettura.Non voglio poi intervenire sulle sue altre affermazioni buttate là con una sicumera , una arroganza persino quando parla dei poeti degli anni ottanta, come se un poeta potesse rientrare in una misteriosa decade ( io per esempio ho scritto dal 1962 al 2016 quindi anche negli anni ottanta, ma non certo posso essere catalogato solamente in quest’ultima data). Mi creda carissima Favretto vada cauta con codeste sue affermazioni, spesso la realtà è diversa da come ce la dipingiamo. E non se la prenda se le parole di un vecchio poeta possano infastidirla. Affettuosamente Salvatore Martino
,
Alla fin fine è sempre l’invenzione a emergere: quindi è positivo ricordare e valorizzare, ovviamente entro certi limiti.
Io credo che dovremmo tornare a leggere serenamente i versi della “scellerata triade”, ormai più famosa che letta.Leggerli senza pregiudizi, come se fossero sconosciuti che incontriamo per la prima volta;Io l’ho fatto con Virgilio,che, dopo i lunghi studi e la schietta antipatia per il “pius Enea”,finalmente è entrato nel mio immaginario.
FAVETTO, E NON FRAVETTO… da qui deduco che Lei abbia sbagliato persona: me ne dispiaccio, non certo di Cuore!
Io purtroppo non ho mai scritto “una poesia e né una delazione” diceva uno che di poesia s’intendeva benissimo all’inizio del secolo trascorso (aveva 26 anni) e che i poeti suoi amici (avevano più o meno la stessa età e già Maestri!) dicevano “ma come fa a capire tutto?”. Questi poeti suoi amici erano poeti di gran lunga più grandi di quelli che formano “la scellerata Triade” con tutte le pleiadi che ne seguirono: cugini, nipoti, nipotini, fra cui Alfonso Gatto, il misero Luzi, Bertolucci ecc. Zanzotto riuscì in tempo a starsene fuori, e poi quelli che gravati dalle ideologie: Pasolini e famigliari, e dopo questi e tanti altri di cui non mi scuso affatto se non ricordo i nomi: tanto nel silenziario ci stanno bene più che nell’oblio!
Lei è rimasto folgorato da quello – se avesse detto da Palazzeschi lo avrei applaudito! Ma si sa, il poeta italiano zoppica spesso perché va dietro a poeti (reduti grandi) che zoppicano: più zoppicano più sono famosi – non Grandi! – c’è grande differenza!
Poi c’è da dire che siccome m’intendo di letterature straniere assai bene e traduco dicono assai bene, certo traduco i Grandi non certo i piccoli (fra questi escludo per bontà e rispetto p.e. Pasolini) dalla loro lingua alla nostra; traduco i nostri poeti p.e. Campana, e non certo quelli su menzionati,
Comunque io la rispetto e quella sera quando presentò il suo volumone io La applaudii, perché li aveva superati e proprio quelli della Triade!
La saluto
A.M.F.
caro Salvatore Martino,
mi spiace non essere d’accordo (per l’ennesima volta!) con questo tuo giudizio lusinghiero sulle poesie postate di Ungaretti che fanno parte del tardo Ungaretti. Mi appaiono scritte molto sopra le righe, c’è un eccesso di tratti sopra segmentali, un infittimento di «corvi», «sciacalli», «beduini», di esotismi e di maledettismi che mi ingenerano fastidio, distonia. NO, preferisco decisamente il primo Ungaretti. Però, per carità, non facciamone un quadretto sacro. Quasimodo era un raffinato letterato, ma il poeta oggi risulta illeggibile. Montale è di un altro pianeta, ovviamente…
Concordo con Linguaglossa, le poesie del tardo Ungaretti non hanno certo la forza espressiva di quelle del Porto sepolto, si sente una forzatura retorica, un’intenzionalità che le rende a tratti eccessive e meno autentiche. Concordo anche sull’essere stato Quasimodo un raffinato letterato, i cui testi poetici sono spesso appesantiti da una scrittura barocca, fatta eccezione per quelli ispirati agli orrori della guerra, in cui, messa da parte la retorica simbolista-ermetica, la nudità terribile del dolore si espone con forza traumatica, in chiara sintonia con l’Ungaretti del Porto Sepolto. Concordo infine sull’essere Montale di più alta qualità, chiaramente riferendosi, come sta facendo implicitamente Giorgio, alle raccolte da Ossi di seppia alla Bufera, in quanto, chiaramente, da Satura in poi il discorso cambia radicalmente. Credo che Giorgio sia altrettanto d’accordo sul fatto che una liquidazione sommaria della poesia italiana del Novecento, in pratica tutta o quasi, visto che non si capisce quali poeti siano da salvare alla luce del giudizio di Sagredo e Favetto, che si dichiarano orientati verso la grande poesia straniera (si intuisce quella russa, Mandel’stam, Cvetaeva, Pasternak, Achmatova, …), sia da stigmatizzare in una rivista di critica letteraria, dove si dovrebbero bandire giudizi ispirati a un criterio di semplice e semplicistica volontà epurativa. Mi sembra inevitabile che anche i poeti più grandi abbiano avuto una parabola creativa, con un apice e una necessaria fase discendente. Criticare il Montale da Satura in poi è assolutamente condivisibile, come il Pasolini di Trasumanar e organizzar: gli esempi potrebbero essere tanti, ma mi sembra evidente che loro stessi (basta leggere il passo di Pasolini citato da Linguaglossa nel post su Bacchini) si erano accorti di non essere più i poeti che erano stati qualche decennio prima. E hanno giocato un’altra partita, con scaltrezza amara, senza, credo, la pretesa di essere ancora acclamati. Hanno dichiarato, direi onestamente, la propria crisi creativa. Piuttosto, e qui sono pienamente d’accordo con Linguaglossa, la critica non ha saputo prendere le dovute distanze, rimanendo legata al nome dell’autore, come si trattasse di una garanzia di qualità. Laddove manca l’ispirazione, la poesia evapora, rimane solo la struttura retorica, un sentimento enfatizzato spoglio del pensiero che ne garantiva la struttura ritmica e la forza espressiva. Un’ultima nota, necessaria, riguardo al frammento. Salvatore Martino, a proposito di Ungaretti, giustamente parla di “una poesia che aveva sovvertito tutto, tradizione metrica, costruzioni sintattiche, una poesia di folgorante vivacità coloristica, che ridava alla parola una magica risonanza”. Una poesia, a ben vedere, costruita con frammenti, rovine, in chiara, traumatica antitesi con la retorica di certa poesia dannunziana (non tutta, perché D’Annunzio è stato anche grandissimo, basti pensare al Notturno o al Libro segreto, testi in prosa poetica che andrebbero riletti e riscoperti). Mi chiedo: in che relazione sta il frammento ungarettiano col frammento di cui si parla in questa rivista, che si dichiara legato al tempo interno contrapposto al tempo esterno? Sono entrambi risposte a una necessità di uscire da una stagnazione espressiva e spirituale, chiaramente legata a momenti storici e culturali diversi, o si tratta di diverse concezioni di scrittura, visto che qui si parla di un nuovo paradigma poetico? In tal caso, non sarebbe forse più cauto, come criterio di giudizio delle opere, riferirsi a un necessario ritorno all’autenticità, laddove i poeti dovrebbero scrivere solo quando hanno qualcosa da dire?
INTORNO ALLA POETICA DEL «FRAMMENTO»
https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/11/22/remo-pagnanelli-1955-1987-poesie-scelte-un-poeta-del-novecento-da-rileggere-commenti-di-flavio-almerighi-paolo-zubiena-e-guido-garufi/comment-page-1/#comment-16284
Si chiede e ci chiede Claudio Borghi:
«in che relazione sta il frammento ungarettiano col frammento di cui si parla in questa rivista, che si dichiara legato al tempo interno contrapposto al tempo esterno? Sono entrambi risposte a una necessità di uscire da una stagnazione espressiva e spirituale, chiaramente legata a momenti storici e culturali diversi, o si tratta di diverse concezioni di scrittura, visto che qui si parla di un nuovo paradigma poetico?».
Il problema posto ha un suo fondamento, tenterò nei prossimi giorni e nei prossimi anni di approfondire le categorie della «nuova poesia» stando attento alla produzione dei «nuovi poeti», cioè a coloro che sono interessati ad una poesia che rifletta sui cambiamenti del nostro mondo e sulla nostra concezione dell’universo. Ho postato stamani un piccolo commento sul significato di Maria Rosaria Madonna di porre gli aggettivi a termine di ogni verso, è questo un modo per approfondire la riflessione sulla «nuova poesia». Ma per «nuova poesia» non intendo una cosa migliore della «vecchia poesia», non c’è contrapposizione tra nuovo e vecchio, come avveniva per le avanguardie del Novecento, quella è un’altra storia. Certo, la «nuova poesia» in cui noi siamo impegnati è una strada impervia difficile, ostica, più facile è scrivere versi epigonici, ma non è questo il nostro progetto.
Ungaretti è stato un grande inventore della frammentazione dell’endecasillabo, ed ha fatto questo compito come meglio non si poteva, ma non c’è niente in comune con quello che noi stiamo cercando di fare oggi all’ombra delle parole, infatti ho fatto riferimento esplicito al primo romanzo di Salman Rushdie I figli della mezzanotte del 1981 e al Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, ho citato due romanzi proprio per evitare equivoci, ma in altre occasioni ho citato anche il primo libro di Traströmer 17 poesie (1954) e, qui da noi, il primo libro di Alfredo de Palchi Sessioni con l’analista del 1967, anche se qui siamo davanti ad una poetica del frammentismo emotivo e non propriamente al «frammento» come lo intendiamo noi oggi.
Che cos’è il «frammento»? tenterò di spiegarlo nei prossimi post partendo da esempi concreti, da poesie scritte da poeti italiani e stranieri, così almeno cercherò di evitare le incomprensioni.
Il «frammento», che cos’è? Parafrasando Agostino, vescovo di Ippona, dirò: «se nessuno me lo chiede lo so, ma se qualcuno me lo chiede non lo so più». Ecco, il «frammento» è una Contingenza, una Singolarità, un Evento, un Qualcosa che è accaduto per me e per nessun altro in un hic e in un nunc, un Qualcosa che avevo dimenticato o forse rimosso, forse caduto nel sottosuolo o nel sottosuolo del sottosuolo. Un Qualcosa di quella «Cosa» (das Ding) che non c’è. Improvvisamente, esso riappare. Con nostra meraviglia. E ci accorgiamo del suo potere, del suo mana, del suo potere magico, e ne siamo spaventati, restiamo sgomenti. Il «frammento» è un campo chiuso di forze divergenti, congelate come nel flash di un fotografo; una sorta di fotografia del «tempo», una tipografia del «tempo», una deità misteriosa e capricciosa che è diversa per ciascuno di noi, e che cambia di abito di continuo con il mutare dei «tempi». In un certo senso, è affine alla Moda, che è un sistema variabile, un suo parente stretto. Nel «frammento» si verifica qualcosa di analogo a «quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto».1
In ogni «frammento» vi abita un morto, che ritorna in vita per un atto magico di resurrezione.
Il «frammento» può essere colto da un «presagio d’ali» (dal titolo del libro di poesia di Donatella Costantina Giancaspero), da una preveggenza, oppure da uno stato sonnambolico nel quale la vigilanza della coscienza si affievolisce. Il «frammento» compare all’improvviso, nell’immenso disordine degli oggetti, è esso stesso un prodotto di quel disordine, ma, affinché vi sia «frammento» esso deve sortire fuori da una marcatura del tempo. È il tempo il demiurgo del «frammento», suo capostipite e suo padrone. Nel «frammento» c’è tutta la potenza detonante del significante, ma come raggelato e immobilizzato, ed esso ci appare estraneo (Unheimlich), chiuso nell’ambra di un milione di anni millimetri e sepolto nella memoria. E l’assurdo è che il «frammento» ci guarda. Dal lontano passato sembra osservarci e, una volta libero dal nostro sottosuolo, esso ci domina dalla profondità della sua Contingenza.
Scrive Roland Barthes:
«Che cos’è la Storia? Non è forse semplicemente quel tempo in cui non eravamo ancora nati? Io la leggevo la mia inesistenza negli abiti che mia madre aveva indossato prima che potessi ricordarmi di lei… Ecco qui (intorno al 1913) mia madre in gran toilette, con cappellino, piuma, guanti, biancheria fine che spunta fuori dai polsini e dalla scollatura… È l’unica volta che io la vedo così, colta nella Storia (dei gusti, delle mode, dei tessuti): la mia attenzione viene allora distolta e passa da lei all’accessorio che è perito; il vestito è infatti perituro, esso prepara all’essere amato una seconda tomba. Per “ritrovare” mia madre… bisogna che, molto più tardi, io ritrovi su qualche foto gli oggetti che ella aveva sul comò: per esempio un portacipria d’avorio (amavo il rumore del coperchio), una boccetta di cristallo intagliato… oppure quelle pezze di rafia che essa fissava sempre sul sofà, le grandi borse che prediligeva […] La Storia è isterica essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi. Come essere vivente, io sono esattamente il contrario della Storia, io sono ciò che la smentisce, che la distrugge a tutto vantaggio della mia storia… Il tempo in cui mia madre ha vissuto prima di me: ecco cos’è, per me, la Storia.
E qui incominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente? (…) Io la riconoscevo sempre e solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggiva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”… la fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false… Il quasi: atroce regime dell’amore, ma anche condizione deludente del sogno… nel sogno essa ha talvolta qualcosa d’un po’ fuori posto, di eccessivo… E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire proteso, verso l’essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare daccapo».1
Ecco descritto in modo mirabile la fenomenologia del «frammento» nella lettura di una fotografia. Il frammento lo abbiamo davanti agli occhi in ogni istante della nostra giornata. La fenomenologia del mondo si dà in forma di frammento, non dobbiamo scomodare i grandi filosofi per scoprire questo dato di fatto. Noi conosciamo il mondo attraverso «frammenti», e non potrebbe essere diversamente. Io dico solo una cosa: che la nostra attenzione di poeti deve essere sollecitata dalla comprensione dell’intima natura del «frammento», comprendere che in esso c’è non solo un «tempo interno», ma un «mondo interno» che noi non conosciamo, che non riconosciamo più, perché siamo diventati estranei a noi stessi… Io dico solo una cosa: è questo processo di progressiva estraneazione che è tipica del nostro tempo che noi troviamo nella poesia più evoluta di oggi.
1 R. Barthes in La camera chiara (Nota sulla fotografia), Einaudi, 1980 p. 10 e segg.
Trovo interessante l’apertura del dibattito sul tema del “frammento”. Dirò di più. Penso che proprio approfondendo questo versante che sembra “specialistico” possano aprirsi orizzonti di lettura relativi alla poesia “attuale”. Complimenti agli interventi. Guido Garufi
Il «frammento» è nient’altro che una «immagine». L’immagine, dice la fenomenologia, è un nulla di «oggetto». Ma io direi di più, l’immagine della fotografia è, al contempo un di più di immagine e un di meno: una immagine de-realizzata in quanto si tratta di un fermo-immagine, dove la processualità del reale è stata arrestata e il tempo vi si è ficcato dentro, si è cristallizzato. Il «tempo interno» è stato colto nella sua istantaneità e messo in frigorifero. E l’Estraneo si fa avanti.
Scrive Roland Barthes a proposito della immagine della fotografia: «non è soltanto l’assenza dell’oggetto. Ora, ciò che io ipotizzo nella fotografia non è soltanto l’assenza dell’oggetto, ma anche, sullo stesso piano e all’unisono, che quell’oggetto è effettivamente esistito e che è stato lì dove io lo vedo. Ecco, la follia è proprio qui; infatti, sino ad oggi, nessuna raffigurazione poteva assicurarmi circa il passato della cosa, se non per mezzo di riferimenti ad altre cose; invece, con la Fotografia, la mia certezza è immediata: nessuno mi può disingannare».1]
«Il noema della Fotografia è semplice, banale; nessuna profondità: “È stato”».2]
Leggiamo l’inizio di una mia poesia inedita in cui sono stato guidato dalla poetica del frammento:
Preghiera per un’ombra da Il tedio di Dio
II
[…]
Roma. Anni Cinquanta. Strada in salita.
Via Lorenzo il Magnifico n. 7.
Negozio di calzolaio. Mio padre calzolaio.
Una vetrina a gomito.
Cristallo e ottone. Ottone e cristallo.
Una foto su “Il Messaggero” che ritrae mio padre
con il grembiule da lavoro.
Un coccodrillo con i denti gialli. In vetrina.
Scarpe di lucertola, borse femminili di coccodrillo.
Scarpe in vernice.
Nel retrobottega, c’è una seggiola di paglia,
un tavolo con gli utensili da ciabattino.
[Io ci sono, ma fuori scena;
di là, in cucina, c’è il Signor K.]
[…]
[…]
Tanti chiodi. Sottili e massicci. La lesina. La clessidra.
Chiodi a testa tonda. Testa quadrata. Testa a punta.
Arnesi ad uncino, odore di mastice e di cuoio.
Sulla destra, una finestra dà nel vano dell’ascensore.
Sotto, la scala a chiocciola che conduce alla guerra di Troia.
[…]
[C’è mia madre, sul letto, malata.
Una bacinella di sangue, una flebo. In fondo,
la finestra aperta dà sul cortile.
Un cane lupo ringhia contro di me]
[…]
Mi racconta le storie più inverosimili.
Che una dea dal profilo di verderame si è affacciata sul mare,
e soffia nelle orecchie di un re marinaio
che guida una ciurma di ritorno da una guerra lontana.
Di una città data alle fiamme. Di una regina
nella reggia che attende il re marinaio
e inganna il tempo a disfare una tela,
di un’altra regina fatta schiava dal re vincitore,
dell’armata del nord che ha tradito il suo imperatore.3
[…]
[La finestra è sempre aperta sul cortile.
Il cane adesso ringhia contro di me, che non ci sono]
Racconta quell’ombra che un tempo lontano
viveva da qualche parte un tale
che diceva di essere un poeta
[Teatro dei pupi.
Rolando e Rinaldo combattono contro il Saracino
e bramano la bella Angelica]
ma in realtà era un malandrino,
e della peggior specie,
un ubriacone, che passava tutto il giorno al Teatro dei burattini,
ad andare dietro alle sottane…
[…]
Cigolii. La tromba dell’ascensore.
Voci umane appese agli abiti. Abiti appesi alle voci.
Qui a sinistra, una scala a chiocciola in ferro. Il ferro.
Orfeo scende con la lira a nove corde.
Suoni misteriosi, striduli.
[Io ci sono. Sono qui]
[…]
C’è un tale. Dice di essere mio padre.
[Il cane lupo adesso ringhia contro di lui]
Batte sul cuoio con il martello a testa tonda.
Piega la tomaia nel verso dell’alluce
e del futuro.
L’ordine della sintassi segue il disordine dei miei ricordi di bambino. Le frasi sono semplici, banali, accostate non per meravigliare o sedurre il lettore, ma per un mio bisogno di verità, di ricostruire la mia identità. Le immagini sono nella mia memoria come altrettante fotografie, sono state ordinate dalla mia memoria e sono diventate immodificabili. O meglio, forse la memoria le ha ricostruite, ma la mia ricostruzione è la dimostrazione che dietro quelle immagini che dimorano in un luogo del mio cervello non c’è niente, c’è il vuoto, il nulla. Adesso so che quelle immagini mentono perché non ci sono mai state così come le vede la mia memoria e quindi tutto quel mondo è falso, è una ricostruzione della mia mente fatta per rispondere ad un bisogno di identità, la mia identità. Ma, allora, mi chiedo: che rapporto c’è tra la mia identità e l’autenticità della ricostruzione fantasmatica e l’autenticità della costruzione poetica? Mi chiedo se questa gigantesca illusione abbia un senso, e quale. È per questo che ho inserito nella poesia la annotazione che «io ci sono ma fuori scena» perché devo ancora nascere, c’è, però un bizzarro personaggio: il Signor K., l’estraneo, o il Caso, l’automaton che si interlinea negli eventi del mondo:
di là, in cucina, c’è il Signor K.]
Adesso ho capito, questa poesia è per me una sorta di allucinazione: fasulla a livello di verità della immagine, vera a livello del «tempo interno». Mi dico, per rassicurarmi, che il tempo che è contenuto in queste immagini non può mentire, perché lui si è sedimentato all’interno delle immagini e le ha determinate in una direzione che io non avrei potuto immaginare…
1] Barthes R. La camera chiara (Nota sulla fotografia) Einaudi, 1980 p. 115, 116
2] Ibidem p. 115
Posso dire che questa tua poesia mi piace molto, moltissimo? Grazie per la condivisione, oggi 🙂
Condivido pienamente la descrizione della genesi dell’immagine in “rapporto” con il tempo, dico più in particolare della nota finale.
Grazie a tutti Voi per aver ricordato Remo, la cui persona, la cui poesia e la cui intelligenza mancano tanto, Daniela Marcheschi