Flavio Ermini POESIE SCELTE da Il giardino conteso L’essere e l’ingannevole apparire Moretti&Vitali (2016) e PROSE da Della Fine Formebrevi edizioni, 2016 – La poetica della notte dell’Occidente – Dopo l’Esilio, Dopo la Guerra di Troia – La notte: Siamo destinati ad avanzare nelle tenebre. Siamo noi stessi elementi di tenebra – Nel buio l’uomo viene trasformato in insetto

Flavio Ermini è nato il 15 dicembre 1947 a Verona, dove vive e lavora nel campo dell’editoria. Poeta narratore e saggista, dirige la rivista di ricerca letteraria Anterem, fondata nel 1976 con Silvano Martini. I suoi interessi di ricerca e di studio sono concentrati in due ambiti precisi: da un lato la ricerca poetica di una lingua inaugurale, che consenta di riguadagnare la continuità originaria tra parola e mondo; dall’altro, la ricerca di un “pensare” che possa strettamente coniugarsi con il “poetare”, alla luce di un rapporto sempre nuovo tra parola e senso. Ha tenuto conferenze e lezioni magistrali nelle facoltà di Lettere e Filosofia di numerose università europee, tra cui: Toulouse (Université de Toulouse – Le Mirail), Losanna (UNIL), Roma (Roma Tre), Milano (Statale), Trento (Statale), Venezia (IUAV), Chieti-Pescara (D’Annunzio). Ha curato con saggi interpretativi di accompagnamento l’edizione di opere letterarie e filosofiche di autori quali Yves Bonnefoy, Félix Duque, Jean-Luc Nancy, Vincenzo Vitiello, Romano Gasparotti, Aldo Giorgio Gargani. Fa parte del comitato scientifico della rivista internazionale di poesia ‘Osiris’, della rivista di studi filosofici ‘Panaptikon’ e della rivista di critica letteraria ‘Testuale’. Firma la rubrica “Le abitazioni della poesia” sulla rivista d’arte “Equipèco”. Ha curato le antologie poetiche Ante Rem (premessa di M. Corti, 1998); con A. Cortellessa e G. Ferri, Verso l’inizio (premessa di E. Sanguineti, 2000); con A. Contù, Poesia Europea Contemporanea (premessa di C.C. Harle, 2001). Per MorettieVitali, dirige la collana «Narrazioni della conoscenza», che ospita, tra gli altri, volumi di Nancy, Duque, Montano, Mati, Bonnefoy, Finazzer Flory, Moroncini, Vitiello, Folin e altri. Per lo stesso editore cura con Stefano Baratta la collana di psicoanalisi e filosofia «Convergenze». Per Anterem Edizioni cura la collana di poesia «Limina» e, con Ida Travi, la collana di saggistica «Pensare la letteratura». Per Cierre Grafica dirige, con Yves Bonnefoy, Umberto Galimberti e Andrea Zanzotto, la collana «Opera Prima», e cura, con Ida Travi, la linea editoriale «Via Herakleia – Forme della poesia contemporanea». Suoi testi poetici e narrativi sono stati tradotti in francese, inglese, spagnolo, slavo, russo. Collabora all’attività culturale degli ‘Amici della Scala’ di Milano.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il giardino conteso L’essere e l’ingannevole apparire Moretti&Vitali, 2016

Della Fine Formebrevi edizioni, 2016

Odisseo che scrive a Telemaco nella famosa poesia di Brodskij è una meditazione sul Nuovo Mondo. È una poesia dell’annuncio. In un certo senso, siamo tutti figli di quella grande poesia, siamo tutti nelle condizioni di Odisseo che ritorna alla sua Itaca e trova il buio, il tramontante tramontare, l’oblio della luce, Penelope vecchia, sterpaglie, porci e pitosfori. L’Odisseo di Brodskij ci parla da Dopo l’Esilio, da Dopo la Guerra di Troia, dalla distruzione che ha attecchito nel suo paese, la Russia. Forse, oggi, un poeta può parlare soltanto dal suo esilio in terra straniera, il suo non può non essere che un pensiero dell’esilio. Anche noi, qui in Occidente, parliamo da Dopo il Moderno e da Dopo la Grande Guerra Fredda, dopo le tre guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa e in mezzo a quest’ultima guerra, che si fa a pezzi, in altri continenti. Adesso sono rimasti soltanto i filistei delle vetrine mediatiche che officiano i loro riti apotropaici alle Icone del Successo e della Ricchezza.

Nel 1971 il presidente americano Nixon annunciò la fine del cambio fisso del dollaro con l’oro. Il Capitale Finanziario è stato liberato dal cambio fisso con l’oro; da allora questa deità ci domina, è il nuovo Demiurgo, il nuovo Moloch che esercita il dominio assoluto sugli uomini. Noi a ragione possiamo parlare come l’Odisseo di Brodskij: da Dopo il Tramonto dell’Occidente. E che altro è la poesia e il pensiero di Flavio Ermini se non un pensiero poetante che medita sul Tramonto? Sulla Luce che lentamente si estingue?, anzi, che si è estinta del tutto e della quale non rimane che una fuggevole e precaria rammemorazione?.

Così recita la scheda del libro dell’editore de Il giardino conteso: «L’apparire dell’essere è sempre enigmatico, talvolta ingannevole, in ogni caso incalcolabile. Così è pure il suo celarsi. Quali sono le vie che portano l’essere ad apparire? Come si manifesta l’essere? Dove si cela? Ogni sua manifestazione è davvero illusoria? Ce ne parla Flavio Ermini in questo libro, indicandoci quali conseguenze comporta fare esperienza del mondo e del suo incessante scaturire.

Il giardino conteso si articola in sei parti, dedicate ciascuna a un momento specifico della contesa che è sempre in atto tra essere e apparire. Quella contesa indica che a fondamento della vita sta la consapevolezza di essere al mondo. Accorgersi di vivere, infatti, è muovere un passo nell’esperienza originaria dell’esistenza. Testimoniare e custodire il senso di tale esperienza è un compito al quale non possiamo sottrarci. La coscienza di vivere chiama all’appello le insistenti e dolorose erosioni degli anni. Eppure questa consapevolezza è la condizione irrinunciabile per potersi accostare alla verità. Bisogna prendersi cura della sofferenza che ci assilla, esserne coscienti, al fine di perfezionare la conoscenza del bene congiunto di bellezza e verità».

Il discorso poetico de Il giardino conteso si iscrive nella fenomenologia del Tramonto quale condizione esistenziale per poter esperire l’avvicinamento alla «verità». Il pensiero poetante prende alloggio nel buio, oscilla tra prosa e poesia, è sempre en plein air, ma di un’aria nera, colloidale, collosa e schiumosa, chiama il lettore nella sua magia verticale, lo vuole raggelare dentro i riverberi del buio del proprio daltonico periodare. Dopo il tramonto della Luce, il pianeta intero è immerso nella notte buia. La notte dell’Occidente. Il deserto spirituale. È in questo tramontante tramontare del buio che non sembra avere fine che la poesia di Ermini si staglia come una nera nube minacciosa e inquietante. Sembra di udire la maledizione che Albert Caraco lancia agli uomini dell’Occidente: «animali spermatici». Gli uomini della «Morte del sole» di Mario Sgalambro. La poesia di Ermini è un mormorio sommesso e soffocato che proviene da un «cielo disabitato», sotto il quale i «nascenti», «creature animali», sono costretti in una «valle pietrosa», ed espulsi « dall’alto dei cieli nel loro insistente decadere». Con una dizione prosastica e un verseggiare ipotonico e isometrico, il periodare poetico di Ermini ci annuncia la fine della poesia così come l’avevamo conosciuta nel lontano Novecento e la sua, la nostra, metamorfosi in «insetto», un animale che si muove nel buio, a tentoni, illuso di agire nella libertà e nella luce. Un «animale» inconsapevole che percorre la sua «china distruttiva» senza requie e senza rimorso nell’equinozio del buio, «destinati ad avanzare nelle tenebre». «Nel buio l’uomo viene trasformato in insetto. Il buio è la condizione in cui avviene il mutamento in semplicemente vivente».

da Il giardino conteso L’essere e l’ingannevole apparire Moretti&Vitali (2016)

La rupe delle ali e il cielo disabitato

s’incarna in molteplici forme quanto all’apparenza è familiare
lungo questa china distruttiva che determina l’accadere
senza che nelle tenebre siano costretti i nascenti a valicare
la valle pietrosa entro la quale le stesse creature animali
espulse dall’alto dei cieli nel loro insistente decadere
trovano con il tempo dimora al riparo della rupe e delle ali

*

diviene la propria negazione e in pari tempo se stesso
l’essere mortale divorato in alto dalle ombre
quale efflorescenza cresciuta su poca terra e nell’esitazione
allorché sul bordo di un precipizio arretra con sgomento
strettamente connesso com’è all’opaco fondo preumano
da cui si erge l’essere che di carne e fragile argilla è fatto

L’ingannevole terraferma e il regno intermedio

sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre
prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere
secondo il silenzioso modo di muoversi e di agire del padre
alle soglie di un deserto tra le cui dune il figlio mai
si sarebbe spinto se ciò non gli avesse consentito
di farsi più vicino alla casa imponente da espugnare

*

profondamente lacerata da un dolore senza rimedio
è in espansione la materia e svela che c’è il deserto
dopo questo regno intermedio e notte fonda sul divenire
dov’è soppressa ogni nozione di assoluto per l’uomo
che si volge ciecamente alle forze che fondano l’inizialità
per negarsi con vana ostinazione all’angusto mondo che lo limita

Il fortilizio da presidiare e la valle divisa

combatte la sua estrema battaglia l’orda d’oro del figlio
nel suo implacabile avanzare sotto lo spazio inerte del cielo
quale avamposto dell’ingannevole apparenza che ci attornia
pur consistendo in una lotta contro la morte l’invasione
cui oppongono i vecchi resistenza nel fortilizio da presidiare

*

non l’interezza è all’origine di queste mutilate apparizioni
ma un grido sottratto ai viventi quando viene loro impresso
all’impietoso sorgere del sole il marchio dell’obbedienza
anche se altro non fanno che sfuggire all’esilio
votate come sono all’illusione di condividere con i caduti
la verità che la donna con il cesto dei fusi annuncia
percorrendo a ritroso una tenue curva in collisione
con l’orizzonte che tra cielo e mare si configura
e con dolore fa pensare a molti uomini in catene

La terra contigua alla dispersione e la forma segreta delle ceneri

davanti al vuoto arretra la figura genitrice
consapevole del proprio inarrestabile impoverimento
trascinando con sé la vittima designata
nell’impazienza di compiere il gesto sacrificale
idoneo sulla terra a inaugurare il giardino insepolto
in questa insensata contesa in atto tra i vecchissimi

*

nel carattere incerto di una sembianza ignota e singolare
propria dell’entroterra dove l’essere umano grida per il terrore
è una realtà conosciuta e uniforme la compostezza dei morti
pur se operata sulla linea di faglia mandata in frantumi dai viventi

 

da Della Fine Formebrevi edizioni, 2016

La notte

Siamo destinati ad avanzare nelle tenebre. Siamo noi stessi elementi di tenebra. Strisciamo nel fango e mormoriamo affannosi salmi tra inesauribili smarrimenti di senso.
Viene meno la distinzione tra vita e morte in questa notte senza mattino. L’alternanza luce-oscurità si è interrotta e resta colo il dilatarsi del buio. La barriera tra ragione e delirio è abbattuta. L’insopportabile avanza tra figure umbratili, quanto noi orrende. Le categorie vacillano.
Dell’ultima alba non rimane che il ricordo.
L’oscurità rivela una condizione di pericolo. Ma i nostri occhi sono invano spalancati. Con questo buio non scorgono nulla di familiare. temiamo di essere sottoposti a un processo incontrollato di mutamento.
Il giorno è declinato e ci ha consegnati all’estinzione, condannandoci ad avanzare nel deserto. Non c’è speranza nel regno dell’oscurità informe. restano spente le stelle e manca qualsiasi punto di orientamento.

Il pericolo

Nel buio l’uomo viene trasformato in insetto. Il buio è la condizione in cui avviene il mutamento in semplicemente vivente.
Siamo diventati insetti senza che ci sia dato neppure il tempo di pensare. Non c’è il tempo di pensare in questo precipitare dell’essere umano verso un’animalità oscura e immanente, a un passo dall’estinzione. Siamo animali e abbiamo paura. Siamo animali e facciamo paura; come paura fanno tutti gli animali che non si vedono, perché vivono nella notte.
Siamo caduti. Siamo avvolti da una foschia che nasconde ogni sorta di luce. Non abbiamo colpa, eppure siamo caduti come il più abietto dei peccatori.
Fuggiamo sempre ppiù lontano, verso l’interno, inseguiti da un’ombra che altro non diffonde che orrore e desolazione. Siamo imprigionati nella fuga. La nostra prossimità alla fine è accompagnata da ulteriori ombre che condizionano con oscure minacce il nostro contegno.
Il buio è parte integrante della nostra casa. È di pietra come di pietra sono le rovine tra le quali ci aggiriamo, seguiti dalle ombre del crepuscolo.

L’ombra

Non possiamo sfuggire alla condizione di esseri umani destinati a diventare insetti per subito dopo estinguerci.
Morire senza che venga conferita alla caduta la possibilità di una risposta. Morire senza che venga riconosciuto un senso alla caduta… È l’istantaneo sorgere delle ombre. È la vita che scompare sul ciglio dell’oblio. È la notte su un cielo che va solcandosi di uccelli rapaci, destinati a stringersi intorno a noi per straziarci con i loro artigli.
in questa condizione affrontiamo le atroci sofferenze della nostra sorte di semplicemente viventi, condannati a essere una minaccia per noi stessi.
Vorremmo rimanere sulla soglia. Aspettare che quello spietato infierire abbia termine. Vorremmo essere spettatori. Ma non ci è concesso. Siamo risucchiati nei moti vorticosi della materia e della sua irriducibile volontà di annientamento.

Il declino dei giorni

La corsa verso il precipizio è terminata. Il passo verso il baratro è compiuto. Ci troviamo nel sottosuolo. Non c’è più speranza dopo la furente dissipazione del crepuscolo. Il sottosuolo è il terribile mondo che ci assalta da dentro e da fuori, nella notte che sopraggiunge improvvisa dopo il declino dei giorni. È la stanca replica del disadorno dolore della vita. È la tempestosa disperazione della barca che affonda nel gorgo dell’angoscia, nel mare del non-detto
Ci troviamo nel sottosuolo. Ce lo rivela l’affannoso respiro di quelle figure che delle tenebre hanno fatto il loro rifugio, la loro casa.

Il crepuscolo

Il dolore mai s’interrompe. Il suo sotterraneo fluire è incessante. Nessuno può sottrarsi alle frustrazioni e alle insidie che minacciano le proprie scelte. Ognuno deve farsi carico degli inganni e delle cadute sino alla suprema disfatta.
Il nostro pensiero è arroventato dall’ansia di fronte alla morte, davanti a questa luttuosa parvenza, scortata da invincibili mostri di desolazione e di pena.
Ogni volta che scende il crepuscolo il tempo non è più scandito dalle nostre azioni, ma da volontà tanto più atroci quanto maggiormente si fa bruciante la domanda sul senso della nostra esistenza. I confini dell’oscurità finiscono con l’intrecciarsi a quelli del nostro destino.

*
Fin dal primo momento l’essere umano avverte che la sua esistenza è precaria; il suo dolore, difficile da reggere; la morte, insopportabile. La prospettiva della fine atterrisce; fa apparire vana ogni impresa, ogni edificio umano, per quanto imponente sia. Ogni nostro gesto, teso ad alleviare l’intensità del dolore, si rivela inutile: la nostra vita obbedisce unicamente alla legge universale della sofferenza. La casa in cui dimoriamo rimane identica a se stessa, ma in essa la nostra vita va dileguando. Siamo confusi e immettiamo confusione tra le cose del mondo.

Questo nostro tempo è così povero da non sapere neanche più riconoscere la propria indigenza […] La vita è malattia e intolleranza. L’essere umano cerca di farsi spazio in mezzo alle cose; si rivolge ovunque, ma dovunque è respinto. Tutte le direzioni che intraprende portano a una deviazione; ognuna è un passo falso […] Siamo sulla soglia. Qui la posta in gioco è l’aperto, ma dell’aperto ci è preclusa persino la vista […] Siamo a un passo dal Maelstrom… Lacerati dall’angoscia, stiamo immobili sul crepaccio, pietrificati dalla notte che ci minaccia costantemente con l’orrore della sua insensata nudità… […] La terra sulla quale cadiamo non ci è familiare. È il luogo della dissipazione. Non c’è tregua. Con la caduta avviene la nostra radicale separazione dal fondamento. Procediamo precipitando. Siamo irriconoscibili a noi stessi… la casa natale è quel traghetto di morti; è la conferma inappellabile di un destino di solitudine e di abbandono […] Noi sappiamo bene cos’è il male. La storia recente ce ne ha offerto prove schiaccianti… La vita è una traversata dal nero al nero»
[…]
L’esistenza non potrà mai realizzarsi in alcun modo. Non è un disagio particolare. È una sconfitta. La bambola chiude gli occhi e diventa estranea al bambino, suscita spavento. Si fa avanti la realtà umana. Si fa avanti l’unica certezza: l’angoscia. È la certezza che tutto, oltre l’angoscia, è illusione. Chiudendo gli occhi la bambola non racconta altro che la nostra impossibilità di trovare una risposta convincente al dramma della vita».
[…] Il Minotauro aspetta il nostro sacrificio. Fuggiamo… Ogni piano di fuga è un inganno, un sogno ad occhi aperti. In realtà procediamo costantemente verso noi stessi. […] Il mondo è il pericolo che ha preso forma. L’esistenza è la vera minaccia […] Noi deboli abitanti del sottosuolo riconosciamo di essere insetti […] Uscendo dal buio l’essere umano trova il buio. Del futuro non c’è da aspettarsi nulla… L’ultima parola decreta lo scacco.
[..] L’uomo si dà come sparizione, come rovina, dissoluzione senza compimento… Zero il passato. Uguale a zero il futuro».

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17 risposte a “Flavio Ermini POESIE SCELTE da Il giardino conteso L’essere e l’ingannevole apparire Moretti&Vitali (2016) e PROSE da Della Fine Formebrevi edizioni, 2016 – La poetica della notte dell’Occidente – Dopo l’Esilio, Dopo la Guerra di Troia – La notte: Siamo destinati ad avanzare nelle tenebre. Siamo noi stessi elementi di tenebra – Nel buio l’uomo viene trasformato in insetto

  1. Mi giocherò i rapporti con Anterem, ma raramente ho letto poesia così nata vecchia, ridondante e vuota. Il De Sagredibus è tutt’altra stoffa. Per quanto riguarda la parte non poetica, trovo invece la lettura più interessante, il buio è tante cose, ma soprattutto la forma più vicina al niente che la mente umana riesce a concepire. Ognuno di noi, a suo modo, ha paura del buio.

  2. “Il giardino conteso è la testimonianza della fragilità umana” – si legge a pag. 234, nell’Excursus-Il dolore, le fiamme e l’angoscia – e lo stesso capitolo si chiude e chiude il libro, affermando che “Nel giardino conteso l’ineluttabilità del dolore certifica la nostra disfatta”. La poesia, occupa l’ultima parte dell’intero libro e forse giunge nel momento in cui non è più possibile “ragionare” sulle questioni o, forse giunge a chiudere un circolo, un percorso ben evidenziato dalle pagine di tutto il libro.

    La contesa di cui nel titolo è quella tra essere e apparire, cioè tra quello che l’uomo è e quello che diventa all’esterno, immerso nella realtà e nella contingenza. Il libro nel risvolto interno di copertina ci dice che “Accorgersi di vivere, infatti, è muovere un passo nell’esperienza originaria dell’esistenza” e tenta di spiegare questa esperienza (cioè qualcosa che è accaduta, che abbiamo vissuto e da cui abbiamo imparato qualcosa) originaria, cioè antecedente a tutto il resto, dalla quale siamo poi scaturiti nel nostro apparire. Flavio Ermini, in quello che a me è sembrato quasi un percorso iniziatico, ci mette in guardia sul fatto che “la coscienza di vivere chiama all’appello le insistenti e dolorose erosioni degli anni. Eppure questa consapevolezza [quella del dolore s’intenda] è la condizione irrinunciabile per potersi accostare alla verità. Bisogna prendersi cura della sofferenza che ci assilla” e, in un mondo come quello attuale, dove siamo talmente immersi nella sofferenza e nel dolore da esserne stati letteralmente anestetizzati, non mi sembra qualcosa da poco.

    Il libro (mi riferisco sempre a Il giardino conteso; purtroppo il secondo di cui si parla nell’articolo spero di leggerlo quanto prima) è uno scrigno di spunti e di letture che porterà ognuno ad approdare al porto più vicino a se stesso, come è giusto che sia. Io in quei pochi scritti di Flavio Ermini che ho letto, ho inteso che la sua è una ricerca nel buio, che non mira a sottolineare la fine, bensì l’origine, ossia quella riva da cui poi tutti abbiamo preso il largo e la deriva, osservando come da una posizione differente – e penso all’occhio del filosofo e del poeta in un’unica persona – lo svolgersi della vita dell’uomo moderno che, secondo me, oggi è solo capace di aggrapparsi agli altrui fasciami vaganti in mare giusto per non annegare. La continua ricerca dell’origine, dell’ante-rem, che sempre Flavio Ermini semina anche negli editoriali della sua rivista di ricerca letteraria, sottolinea il buio per meglio far emergere – tra l’altro – la funzione del poeta e della poesia.
    A pag.150 de Il giardino conteso, si legge: “Sotto l’inchiostro, la scrittura si enuncia nei termini di una separazione e si precisa come un cammino di salvezza. Non è un’acquisizione di conoscenze, ma un mutamento dell’anima”; credo che tutto il libro miri a questo mutamento, ma ancor più a questa presa di coscienza sulla ricerca di quella parte più profonda di noi, capace poi, in un secondo momento, anche di creare una poesia che possa non essere più “così nata vecchia, ridondante e vuota”, come Flavio Almerighi ha trovato.

    (Aggiungendo un ringraziamento per la proposta odierna, che ho apprezzato moltissimo, chiudo ammettendo che la bellezza del libro e dell’articolo sta anche nel fatto che ci si potrebbe scambiare opinioni e aprire una discussione per un tempo lunghissimo…cosa che troppo spesso non accade, però).

    Angela Greco AnGre

  3. ANTICIPO QUI IL Retro di copertina DEL MIO PROSSIMO LIBRO DI CRITICA, Per una meta-critica della post-critica:

    Probabilmente oggi che alla poesia non è richiesto più nulla, forse proprio oggi alla poesia è posta la Interrogazione Fondamentale. Finalmente, la poesia è libera, libera di non dire nulla o di dire ciò che è essenziale e inevitabile. Questo è molto semplice, è un pensiero intuitivo che tutti possono far proprio. Nel momento della sua chiusura clausura, la poesia si trova sorprendentemente libera, libera di porsi la Domanda Fondamentale, quella Domanda che per lunghi decenni nel corso del Novecento non si aveva l’urgenza e la necessità di porsi. La poesia, dunque, si trova davanti alla inevitabilità di dire ciò che è. E questa io credo che sia la più grande possibilità che il mondo moderno concede alla Poesia.
    Esprimere nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle del Pensiero pensato e non pensato dell’Occidente, il sottosuolo del sottosuolo che giace ancora più a fondo del sottosuolo costituito dal pensiero ordinario in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente. Una poesia che si ponga l’ambizioso obiettivo di pensare l’impensato, le cose del sottosuolo more geometrico di un precedente more geometrico sotterraneo. Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata. Trarre dunque la forza dalla propria debolezza.

    • Colgo un legame tra due versi di Ermini (“Si volge ciecamente/alle forze che fondano l’inizialità”), e le parole di Linguaglossa, che seguono immediatamente(“le cose del sottosuolo more geometrico
      di un precedente more geometrico”): una posizione che scava nel profondo, ma non esclude la possibilità di una via di uscita, di un volo caritatevole verso cieli umanamente accessibili.

    • “Trarre dunque la forza dalla propria debolezza.”
      Ecco, Giorgio, volevo dirti grazie per questo.

  4. Pensieri di una pastiglia di aspirina effervescente, fatta cadere nell’acqua di un bicchiere profondo cent’anni. Mentre precipita: “la nostra vita va dileguando”.
    Il poeta non s’accorge dell’umana effervescenza, del brulicare delle sue parole?
    Chiederei a Borghi, poeta scienziato, se non sia effervescente l’aria che respiriamo, e anche la materia.
    LInguaglossa: “Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata”.
    Disabitata da poesia?
    Si–può–fare! Basta avvolgere la pastiglia con un involucro di plastica, poi aspettare… per altri miliardi d’anni.
    In questo inferno?

    • Claudio Borghi

      Quello che paralizza in questi pensieri è il senso di rassegnazione impotente di cui sembra preda la mente dell’autore e che imprigiona, di conseguenza, anche la mente del lettore. Lucio Mayoor Tosi mi chiede un parere circa l’effervescenza dell’aria e della materia. Rispondo indirettamente, riferendomi alla continua mutazione che si produce all’interno del nostro organismo mentre siamo vivi, al punto che pare quasi miracoloso il nostro permanere con la stessa identità. Chiaro che l’esistenza individuale non è un obiettivo della natura, gli individui sono condensazioni occasionali temporanee di qualcosa che trascende il tempo, senza dover pensare a divinità o concetti simili. Quello che forse dovremmo imparare a fare è adattarci al ritmo naturale del tempo, intonare il tempo interiore coi ritmi della natura, un po’ come insegnano da millenni le culture orientali, mentre noi occidentali abbiamo imposto il nostro ritmo tecnologico al mondo, come ne fossimo la chiave. In quest’ottica mi commuove l’immagine di Ermini, che scrive “Nel buio l’uomo viene trasformato in insetto. Il buio è la condizione in cui avviene il mutamento in semplicemente vivente.” E’ la consapevolezza di non esser mai qualcosa di definito, di poter essere tutto e niente, in quanto “semplicemente vivente”.

  5. https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/10/05/flavio-ermini-poesie-scelte-da-il-giardino-conteso-lessere-e-lingannevole-apparire-morettivitali-2016-e-prose-da-della-fine-formebrevi-edizioni-2016-la-poetica-della-notte/comment-page-1/#comment-15632
    caro Lucio Mayoor Tosi,

    È un pensiero a prima vista paradossale: L’AMMINISTRAZIONE GLOBALE HA IMPARATO A GESTIRE LA CRISI IN QUANTO LA CRISI È UN PRODOTTO DELLA STAGNAZIONE PERMANENTE ECONOMICA E SPIRITUALE DELL’OCCIDENTE. È avvenuto un fatto sorprendente: La Crisi è diventata stabile, e la stabilità della Crisi ha stabilizzato i problemi: psicologici, affettivi, erotici, ideologici, stilistici, religiosi etc. delle masse. La Crisi ha stabilizzato anche i generi artistici. Se guardiamo alla produzione di romanzi, di poesia, delle arti figurative, della musica contemporanea, ci rendiamo conto, senza ombra di dubbio, di questa evenienza. Anche il «dolore» da quello di Leopardi a quello di Heidegger e di Flavio Ermini, rientra nella «analitica dell’esserci», è stato, per così dire, ontologizzato, e quindi reso invulnerabile, ineliminabile, invincibile.

    Anche il «dolore» ormai fa parte della stabilizzazione della Crisi, è una parte integrante della Crisi e viene utilizzato dal pensiero teologico e filosofico per amministrare esso medesimo, come già aveva intuito Leopardi con finissimo intuito. Il romanzo privatistico e la poesia privatistica di oggidì rientrano tra i generi che la Crisi produce e amministra, sono le pastiglie di aspirina effervescente che la crisi ci propina e amministra, con il che contribuiscono anch’esse a produrre consenso. Uno degli epifenomeni della Crisi è che essa produce «consenso», essa è diventata uno strumento di controllo e di amministrazione degli uomini. Se non si capisce questo punto non si capisce nulla neanche di ciò che è avvenuto ed avviene anche nella produzione artistica, essendo anch’essa amministrata dalla Crisi. Non era Valéry che cento anni fa scriveva che «l’arte nell’economia universale è diventata meno libera e più ottusa»? – Perché stupirci se la poesia che si fa oggi in Europa è una poesia minore? Sostanzialmente amministrata dalla Crisi dell’Amministrazione globale?

    Come tu hai compreso perfettamente, la mia posizione di poeta che riflette sulla poesia (e che tenta di farla), si basa sulla comprensione dei mutamenti fondamentali che dal 1922 anno di pubblicazione di The waste land di Eliot, arriva ai giorni nostri. Il Novecento è stato un secolo ricco e convulso, che ha visto un susseguirsi rapidissimo di mutamenti di paradigma. Dopo Eliot la poesia europea e occidentale è cambiata. Ma prima di Eliot una rivoluzione analoga era stata introdotta da Mandel’stam con la sua idea di una poesia basata sulla «metafora tridimensionale».
    In Italia, la poesia del neorealismo e del post-ermetismo è ancora attestata su un concetto arretrato e non evoluto di forma-poesia. Questa arretratezza impedì la lettura e la ricezione di un libro come Sessioni con l’Analista di Alfredo de Palchi (1967) e tuttora è presente una fortissima resistenza, come sappiamo, alla rivisitazione del paradigma poetico dominante. Con Satura di Montale (1971) le cose cambiano, ma, a mio avviso, in peggio, perché si continua a pensare ad una poesia lineare progressiva in linea di continuità con la tradizione italiana che si faceva iniziare da Myricae (1903) di Pascoli. È restata estranea alla cultura poetica italiana l’idea di una poesia come modellizzazione secondaria del fattore Tempo, cioè una poesia che non seguisse più il modello lineare progressivo. Sfuggiva, e sfugge ancora oggi che la poesia più evoluta in Europa è stata la poesia che va sotto la denominazione di poesia modernista, non si arriva a comprendere che la poesia italiana ha oggi bisogno urgentissimo di un nuovo tipo di DISPOSITIVO ESTETICO che contempli la adozione di un concetto di poesia tridimensionale, se non addirittura quadridimensionale, ovvero, fondata sulle proprietà del «peso temporale» e sulla «forza gravitazionale» che ha ogni costrutto linguistico-stilistico. E qui mi fermo.
    http://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/roma-anni-sessanta-una-poesia-di-giorgio-linguaglossa

    • Grazie,
      nello scrivere “disabitata” pensavo a queste non so se poesie di Ermini e all’assenza di imprevisto; al tono martellante di questa denuncia, che non lascia spazio ad altro, tantomeno a speranze e consolazione. Mi fa pensare ad una installazione di Kounellis che vidi a MIlano: una brandina di ferro, poverissima, con su una copertina militare, posta tra nude pareti. Mi commossi e lo amai. Una casa vuota, disadorna… da abitare. Sì, il senso è questo.

    • Salvatore Martino

      Condivido pienamente il giudizio di Almerighi sulla poesia di Ermini e anche le sue prose mi appaiono di una banalità sconcertante . Le infinite divagazioni di poematica, al confine della filosofia e talora della scienza, gettate sul tappeto con grande coraggio e passionalità , con convinzione quasi fondamentalistica da Linguaglossa contengono preziose illuminazioni, anche se a me appaiono non sempre chiare, e cerco di assimilare quelle notazioni che comprendo appieno.Alla fine penso che la liberazione introdotta in poesia dal verso libero e quindi la caduta dell’asservimento ai canoni prefissati, abbia concesso una grande libertà al poeta , il quale può scegliere molteplici direzioni dove indirizzare il suo discorso. Non sono un critico e non mi voglio addentrare nella disanima della produzione del novecento in Italia, prendo, per buona l’affermazione di Pedota che ci trasmette Rago, anche se in me permane l’avversione per tutti gli ismi, sostanzialmente poi traditi da i firmatari stessi dei “manifesti”.
      “La poesia italiana ha oggi bisogno urgentissimo di un nuovo tipo di DISPOSITIVO ESTETICO che contempli la adozione di un concetto di poesia tridimensionale, se non addirittura quadridimensionale, ovvero, fondata sulle proprietà del «peso temporale» e sulla «forza gravitazionale» che ha ogni costrutto linguistico-stilistico. E qui mi fermo”.

      Davanti a queste parole mi fermo anch’io perché non le capisco. nonostante le abbia lette più volte. Mi piacerebbe avere un esempio di poesia quadrimensionale. Ho l’impressione, forse errata, che il troppo ragionare intorno all’oceano poesia in termini intellettualistici possa condurci fuori dallo spazio creativo, forse tutto è più semplice, meno arzigogolato, ma parlo da poeta che in tanti anni pur aggrumato da tantissime letture ha sempre cercato una sua via, quasi inconsciamente determinato dai Grandi divorati e digeriti.E ovviamente penso che ogni poeta dovrebbe operare in questa direzione. Così hai ragione tu carissimo Giorgio quando affermi che faccio ruotare tutto intorno alla mia persona, come ogni artista. Io ho la sfrontatezza di professarlo.

  6. gino rago

    Nel saggio “La nuova poesia ontologica di Giorgio Linguaglossa” (LietoColle, 2007), a un certo punto l’indimenticabile Giuseppe Pedota
    scriveva: “(…) Facciamo un momento un passo indietro, nel Novecento italiano possiamo notare subito una vistosa lacuna: non abbiamo avuto un equivalente del surrealismo francese, come non abbiamo avuto un equivalente dell’espressionismo tedesco; assente risulta essere anche un equivalente dell’imagismo anglosassone e russo…”
    Non è da escludere, dunque, che la forma-poesia dell’esperienza poetica italiana, dal secondo Novecento ai giorni nostri, sia andata via via verso una profonda afasia anche per tali lacune, colte e segnalate dal Pedota.
    Gino Rago

    • in Italia abbiamo avuto l’alibi dell’ermetismo

      • gino rago

        E’ vero, caro Flavio Almerighi. E non dimentichiamo che “l’alibi ermetico”
        fors’è stato, nella dialettica causa-effetto, una diramazione delle parole che storicamente l’hanno preceduto e che cito lungo il filo della memoria:
        parole scapigliate, parole carducciane e anticarducciane, parole pascoliane e antipascoliane, parole dannunziane e antidannunziane, parole elettrico-futuriste e parole crepuscolari, parole vociane e parole
        impressioniste, parole rondiane e ungarettiane…
        Con Lui, o con i Canti, o con lo Zibaldone o con le Operette morali, sempre come faro nel centro della notte…

  7. caro Salvatore Martino,
    per risponderti, riprendo un mio commento all’ultimo libro di Roberto Bertoldo (Il popolo che sono, 2016), un poeta tra i più significativi oggi in Italia:

    Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

    Non era Nietzsche che affermava che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?».

    La questione del Logos ci porta a pensare le fondamenta interrogative del linguaggio poetico, per eccellenza la forma di linguaggio più problematica che esista, problematica perché ci induce a riflettere sulla sua natura spirituale e sulla sua origine magico-numinosa. A rigore, quando si impone una nuova dimensione spirituale, si trova anche una nuova dimensione del linguaggio poetico.

    La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo si fonda sul ricordo della antichissima funzione magico-numinosa del linguaggio e sul suo ripristino in chiave critica. Il suo modo di costruzione dei versi segue il modello del solenoide o della scala a chiocciola, un cinetismo auto vorticante che si inoltra nell’inesplicito, nella zona d’ombra del linguaggio, dove le parole si nascondono, forse per dissimulare un antico oltraggio da esse ricevuto e mai accettato. Di qui la ribellione delle parole belligeranti.

    L’esplicito linguistico è certo risposta, ma risposta ad una domanda soggiacente, che non può essere pronunciata. Allora, ecco che l’inesplicito altro non è che una risposta ad una domanda precedente collegata con la prima da domande inespresse, nascoste nelle pieghe del linguaggio e nelle pieghe del sociale, della vita quotidiana degli uomini, della loro storialità. Ed ecco che il mondo appare quando viene esplicitata la domanda fondamentale attraverso l’implicito del linguaggio, il lato interno del linguaggio, le sue pareti interne. «Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime / lo so». Scrive Roberto Bertoldo:

    Le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
    delle parole che restano nel fodero

    Altrove, parlando della poesia di Bertoldo ho discettato sul concetto di «cicatrice linguistica» come proprietà qualificativa delle sue metafore, appunto alludendo ad un retroterra linguistico, ad un retroscena inespresso, ad una dimensione che non può accedere alla superficie della scrittura poetica. Perché sia chiaro che non tutto può accedere alla poesia, essendo quest’ultima appena la punta dell’iceberg che affiora alla superficie linguistica di un idioma. Al poeta non resta altro da fare che approntare una trappola per la cattura delle parole. Una trappola per tropi. Bertoldo è un cacciatore di parole e un cacciatore di frodo, cacciatore di menzogne. Nella poesia bertoldiana si nota con grande chiarezza la conversione dall’esplicito all’implicito. Un implicito elaborato dallo spirito, direi.

    La poesia che utilizza soltanto il linguaggio esplicito, non elabora le proprie istanze di fondo ma si limita a registrare le domande come un pubblico ministero utilizza le frasi durante un interrogatorio. Questa è appunto l’istanza di fondo di ogni realismo, che si arresta ad una procedura di validazione del letterale al suo referente, alla fedeltà del primo rispetto al secondo. Ma si tratta, ovviamente, di una procedura miope fondata su un concetto ingenuo del reale e dell’arte come mero rispecchiamento.

    Quest’oggi parlerò ai torcicolli che invadono la palude.

    Ecco l’incipit di un’altra poesia bertoldiana, dove è chiaro che «torcicolli» è la migliore traduzione possibile dal profondo di una ferita linguistica che non può essere espressa in altro modo e con altri termini. La parola è appunto un «termine». Dove termina il linguaggio, là è la parola. O dove inizia. Il che è lo stesso. Perché il linguaggio inizia e termina con la «parola». Ed è chiara qui la vocazione metaforica e metonimica della «parola» bertoldiana che indica se stessa nel mentre allude al luogo della sua cattura, della rivelazione. Il «temine» bertoldiano è apocritico (cioè dissolve la domanda sottostante) ma non del tutto, attraverso il suo corpo lascia intravvedere il tragitto spirituale che esso ha percorso dopo un lungo girovagare. Così, quel «torcicollo» allude ed indica esplicitamente qualcosa che ha costretto il «termine» ad una torsione, pressato da forze impellenti e considerevoli. Analogamente, l’impiego dei verbi, dei sostantivi e dei qualificativi è sottoposto alla pressione di una gigantesca pressa che torce, deforma, dilacera la fisionomia e la fisiologia delle parole, in tal modo distorcendone anche l’uso comunicativo, il significato, che non collima più con il significato che quelle parole avevano nel linguaggio relazionale. E ne viene distorto anche il significante. Insomma, tutto il tonosimbolismo della poesia bertoldiana viene ad essere distorto e stravolto da una forza imponente che tutto sovrasta e tutto travolge, la forza di una gigantesca pressa che preme su ogni millimetro quadrato della «parola» bertoldiana che passa da un implicito, elaborato dallo spirito, ad un esplicito chiamato convenzionalmente linguaggio poetico. Un procedimento esattamente opposto e di direzione contraria a quello che avevamo lumeggiato all’inizio di questo scritto definendolo un processo che passava da un esplicito ad un inesplicito.

    La poesia bertoldiana invera quell’assunto che dice che il locutore ha cessato di essere il fondatore. Bertoldo non fonda alcunché, la sua parola ondeggia, fraseggia, inferma e impotente, senza pentagramma, senza uno spartito, senza una chiave di violino. Abbandonata a se stessa, fuori del pentagramma sonoro, non le resta che affidarsi alla acustica dei rumori, essa stessa rumore, infermità e inermità del rumore. La poesia bertoldiana chiarisce quanto la parola poetica abbia fatto fiasco nelle sue pretese ergonomiche ed assiologiche di erigere una resistenza o una resilienza di contro al «mondo», quando invece si scopre essere mera retorizzazione del soggetto, che si sottrae, tende a disparire, irresoluta, presa nella morsa tra la malafede e la falsa coscienza, l’infermità e l’inermità, la diplopia e la distopia, la gratuità e la colpa, l’ingenuità e il disincanto, l’autenticità e la vita inautentica.

    Nelle poesie di Bertoldo puoi scorgere chiaramente il disagio del poeta dinanzi agli oggetti e il disagio degli oggetti dinanzi al poeta. Di qui la dis-torsione, la lacerazione, lo stravolgimento di ciò che ci è familiare (Heimliche) in ciò che non riconosciamo più (Unheimliche). Tutta la poesia bertoldiana si basa su questa procedura, che è un modo di ridare agli oggetti il loro posto nell’umano; far diventare gli oggetti dei piccoli mostri che inseguono l’umano, lo braccano, lo tentano.
    La dialettica tra Heimliche e Unheimliche è la caratteristica della poesia bertoldiana. L’inquietante di certe sue immagini e di certo lessico riflettono il rimosso della nostra cultura, ciò che non può essere detto. Freud dedica un ampio studio nel quinto volume di Imago, le cui conclusioni sono molto significative. Freud vede nell’inquietante (Unheimliche) il familiare (Heimliche) rimosso. «Questo inquietante non è in realtà nulla di nuovo, di estraneo, ma piuttosto qualcosa che è da sempre familiare alla psiche e che solo un processo di rimozione ha reso altro». Il rifiuto di accettare come immodificabile la degradazione dei facticia mercificati, si esprime crittograficamente nell’aura minacciosa che avvolge le parole dei versi di Bertoldo, quelle parole che non ci fanno più stare al sicuro e al riparo nelle nostre abitazioni profumate ma che ci inducono a malessere e in angoscia.

    Roberto Bertoldo, Il popolo che sono, Mimesis, Milano 2015

    Io parlo poesie
    .

    Io parlo poesie come i fabbri schegge
    e festuche i falegnami,
    amo per quel diluvio
    che non potete dimenticare,
    vivo come i veggenti,
    scrivo da passatore.
    Ho spade di legno
    e l’arca di ferro,
    una pagina di idee
    e altri materiali sul ceppo.
    Conosco la morte
    perché è stata sulla penna
    che ha scritto ‘bambini’,
    conosco le mani disonorate
    perché il vento vi ha inciso
    le sue folate,
    so dei rapaci che volano bassi
    più della mia colpa
    e aspettano che forgi il verso
    di cui farmi sepolto.
    Ma io ho, dentro di me,
    il popolo che sono.
    .

    I distici della notte
    .
    Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
    per affrancarvi dalla parola venduta,
    la poesia ha decretato l’offesa:
    non morirete con il canto alla gola,
    le nostre mani che hanno terra
    tra le fessure delle falangi
    gridano con gli ultimi tendini,
    fino a troncare il colore pingue
    dei vostri aggettivi.
    La notte opprime i distici,
    vuole un’ampia dichiarazione,
    impoetica per di più.
    Sulla grata del confessionale
    i versi si frantumano,
    la tonaca si macchia di rime
    e accessori annessi,
    il rosario che sproloquia
    sulle gambe del messia
    sputa i semi delle metafore.
    Qualcuno ha gridato la verità
    più fortemente delle vostre lamentele,
    nababbi di apollo,
    gentilizi dell’anima.
    Oh poeti, poeti, quale emblema
    il mio osso di popolo vi estorce
    quando la bocca avete sulla platea
    per la tenia degli applausi?

    Poema delle folate (il popolo tradisce)
    .
    Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
    per il perdersi dei giorni
    forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
    e avrà carezze per i marmi
    ma le notti di solitudine nascondono la pelle
    come fosse mille volte dietro i ceri
    e file di pellegrini dalle mani bacate
    non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
    Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
    li porta sul sorriso della sua lama
    e chi ha assistito alle folate dei secoli
    tra i miei capelli sepolti
    sa che gli inverni portano ancora
    i fiocchi freddi dei deserti.
    .

    Iraq
    .

    Fatemi delirare l’amore
    prima di sorprendere i mercati
    coi vostri deliri di glicerina nitrata,
    io li conosco gli avventori,
    i loro occhi, la bocca e lo scarnito,
    la fame che farfugliano,
    rinvengo le verità e le altre carabattole
    nel campo delle mie aritmie.
    Oh, questi versi che marciscono
    per troppa passione, tra le mie scapole
    incontrano la notte che ghermisce.

    • Sto rileggendo queste poesie di Roberto Bertoldo che Giorgio Linguaglossa ha proposto; un lavoro complesso, che si estende su differenti piani del sapere e del sentire. Non semplice oltrepassare l’idea di poesia come la si legge e intende troppo spesso, ovvero avere a che fare con una poesia completamente spoglia di lirismo e di orpelli, dove ogni parola – come giustamente ha osservato lo stesso Linguaglossa – è un termine, un punto di arrivo, un capolinea da cui è anche possibile intraprendere la corsa successiva, ma dove il più delle volte ogni termine è un piccolo mondo a se stante dove sostare, ruotando il capo intorno per riuscire a percepire l’intera poesia. Questi quattro testi di Bertoldo si configurano nella mia mente in una scena precisa (e già siamo oltre la semplice immagine in cui una poesia riuscita dovrebbe configurarsi; ancor di più qui l’esito finale sembra essere dato dalla poesia e dal lettore insieme): il lettore, solo, immerso in uno spazio senza muri e senza limiti, quasi vagasse nell’universo, simile all’astronauta che esce dalla navicella e inizia ad esplorare uno spazio del tutto nuovo, mentre su di lui convergono, da ogni punto i termini e i versi, come frecce appuntite che colpiscono in ogni punto.
      E, suppongo, che in questo si concretizzi quella pluridimensionalità di cui in un altro commento sempre di Linguaglossa, ovvero una poesia capace di procedere in ogni direzione, che ti arriva addosso e dentro e tu devi muoverti a 360° e sopra e sotto anche, per intenderla nel suo insieme, nella sua pluralità.

      Sono sicuramente poesie in cui il poeta si pone in un luogo privilegiato, come se già conoscesse qualcosa che è accaduto [Io parlo poesie; Conosco la morte] e tentasse di dirne al lettore; ma, di fatto, nonostante la precisione di alcuni riferimenti (mestieri e materiali ad esempio) non è dato di sapere il luogo e il tempo della poesia. Sempre nel primo testo, il valore dell’Io è di fatto un plurale, che viene reso manifesto dall’ultimo verso [il popolo che sono] e, quindi, un uso del pronome agli antipodi con quanto accade nella poesia maggiormente diffusa oggi, dove “io” è accentramento, egocentrismo, personalismo, qui, invece, l’io sviluppa una forza centrifuga. Ancora nel primo dei testi proposti, si legge:

      so dei rapaci che volano bassi
      più della mia colpa
      e aspettano che forgi il verso
      di cui farmi sepolto

      una metafora in cui incontriamo uccelli in procinto di predare qualcosa, forse anche lo stesso poeta, che sa bene che questa sua poesia lo condurrà a questo scontro, tra lui e coloro che aspettano il suo passo falso; il poeta, però, trae forza [Ma io ho, dentro di me, / il popolo che sono] da tutto quanto ha ed è ed è interessante notare come Bertoldo in due soli versi sia capace di racchiudere tutta la tradizione e il vissuto nella parola “popolo”, che comprende tutto un campo semantico della vita quotidiana, storica, sociale e civile.

      I versi seguono una consequenzialità che (forse) è nota solo al poeta e al lettore non rimane che arrendersi a questa onda – sinusoide per la precisione, come lo ha definito Giorgio Linguaglossa, che bene rende l’idea materialmente grafica – seguendone i movimenti di serpente, abile con un solo tratto (quello del verso steso sul foglio simile a quello del rettile steso sul terreno) a schivare ogni ostacolo e capace di percorrere ogni distanza in qualsiasi verso-direzione (e penso al serpente-verso che sulla sabbia-foglio procede in diagonale, ad esempio); intendendo con questo che a questa poesia, se fosse un essere vivente concreto, non servirebbero mani e piedi per spostarsi, ma le basterebbe la sua sola natura, ovvero sottolineo l’eliminazione di tutto un corredo di elementi superflui di cui spesso la poesia è infarcita. Un sinusoide-serpente, la poesia di Bertoldo, capace di staccarsi anche dalla superficie piana dov’è adagiata, toccando ambiti intimi-interiori, come si può leggere nel “Poema delle folate (il popolo tradisce)”. In quest’ultima poesia, scelta non a caso credo per questa piccola rassegna estratta dal libro “Il popolo che sono”, il poeta appare meno spigoloso e più comprensibile anche ad una lettura meno approfondita – assolutamente necessaria, mi sembra, per ogni testo – in cui anche la malinconia abbandona il suo connaturale significato e non scade in un abbandono, quanto piuttosto sfocia in una sorta di dimostrazione dello stato dei fatti [ma le notti di solitudine nascondono la pelle]; il poeta-popolo (perché in quell’io, io continuo a leggere un plurale) rimane vigile e non cede alla lusinghe del sentimentalismo in cui troppo spesso deriva la malinconia stessa:

      Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
      li porta sul sorriso della sua lama
      e chi ha assistito alle folate dei secoli
      tra i miei capelli sepolti
      sa che gli inverni portano ancora
      i fiocchi freddi dei deserti.

      Dell’ultima poesia proposta, “Iraq”, mi ha colpito il fatto che la verità sia qualcosa di poco conto [rinvengo le verità / e le altre carabattole /nel campo delle mie aritmie], che si rinviene al di fuori del ritmo ordinario dei giorni [aritmie], che altera il normale andamento del battito cardiaco ormai intonato sul ritmo della non-verità. Una presa di posizione netta, fin dal titolo, che mette in luce pur senza dirlo, il ruolo del poeta…

      Una lettura molto impegnativa, che fuga ogni dubbio sulla semplicità che taluni intendono per “poesia” e sulla relativa semplicità di scriverne; una poesia che vaga dentro per molto tempo prima di trovare approdo alla comprensione e alla quale non è consigliato opporsi, cercando il senso stretto di ogni termine o, appunto, la comprensione logica di ogni verso, ma alla quale è consigliato affidarsi, una volta percepita la medesima lunghezza d’onda.

      Angela Greco AnGre

  8. letizia leone

    “Siamo destinati ad avanzare nelle tenebre. Siamo noi stessi elementi di tenebra” questo frammento esplicativo della poetica sottesa ai testi di Flavio Ermini mi riporta alla memoria ciò che scrisse San Tommaso “La creatura in quanto viene dal nulla è tenebra” indicando come costituzionale alla materia e ad ogni creatura questa tenebra iniziale, questo nulla, questo abisso infinito, il “disabitato” per l’appunto e l’ineffabile (e non a caso la prima attestazione nel volgare della parola ineffabile è da attribuire a Dante, poeta delle “Petrose”, della pietrificazione ma anche degli stati di gravità e levitazione). La gravità ieratica e il tono epico che risuonano dalle scritture di Ermini mi sembrano del tutto funzionali e adeguati al “pensiero poetante che medita sul tramonto” dell’Occidente come evidenziato da Linguaglossa. Mi sembra una poesia armata di “forza gravitazionale” che affronta la Caduta con il peso del sasso, del macigno, della pietra che è il “minimo e il massimo di Essere”, dove ogni scintilla vitale è pressata, coagulata, immolata ma anche in grado di rinvenire. E molte sono le risonanze che irradiano dal denso dettato meditativo e salmodiante che Angela Greco definisce iniziatico, in effetti una vera catabasi contemporanea, uno stato dell’essere.
    “Busso alla porta della pietra – Sono io fammi entrare” recita con andamento anaforico una poesia della Szymborska…dove è nascosto forse l’accesso alla mitica pietra filosofale…

  9. Pingback: Roberto Bertoldo, quattro poesie da Il popolo che sono commentate da Angela Greco | Il sasso nello stagno di AnGre

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