Anna Maria Curci  POESIE SCELTE da Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015) con un  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e uno stralcio della  Postfazione di Gianfranco Fabbri

Anna Maria Curci è nata a Roma, dove vive e insegna lingua e letteratura tedesca in un liceo statale. Suoi testi sono apparsi in riviste, in antologie e su lit-blog. È nella redazione di “Poetarum Silva”, della rivista trimestrale “Periferie” e del sito “Ticonzero”. Ha pubblicato in rete traduzioni da testi di diversi autori, prevalentemente di lingua tedesca. Sono pubblicate in volume dalla casa editrice Del Vecchio sue traduzioni di poesie da: Lutz Seiler, La domenica pensavo a Dio / Sonntags dachte ich an Gott (2012), del romanzo Johanna di Felicitas Hoppe (2014), di poesie da: Hilde Domin, Il coltello che ricorda (2016). È in uscita, per le edizioni Canopo, la sua traduzione del racconto I fortunelli di Felicitas Hoppe. Sue sono le raccolte di poesia: Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015).

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Dalla lettura del libro, sappiamo che il «principio di realtà» ha sconfitto il «desiderio», e che quest’ultimo si è limitato a non sporgere querela, si è rifiutato di redigere la «rinuncia». Sta qui, in questo gioco ironico di parole e di veti incrociati una delle linee di forza della poesia di Anna Maria Curci. Il principio ironico e il principio di realtà sono però in antitesi, poiché il primo obbedisce al principio di piacere, come Freud insegna. Il soggetto è destinato ad oscillare tra «desiderio» e «principio di realtà», ed ecco allora che gli giunge in aiuto il principio di ironizzazione, che altro non è che una strategia di difesa e di disparizione dell’«io» di fronte alla complessità del mondo. Il risultato è il decentramento del soggetto autoriale dalla struttura poetica. Non è più rinvenibile nella poesia della Curci un soggetto ultimo che dia un ordine purchessia al mondo, tantomeno la struttura poetica può essere abitata dal senso, anche per via della scomparsa della Interrogazione, poiché se non c’è Fondazione non ci potrà più essere neanche una Interrogazione fondamentale, e così la poesia resta in balia di mezze o quasi interrogazioni, di un mezzo parlare, di un montaliano «balbutire». Abbiamo così le frasi sconnesse di «Talia», la musa che presiede alla commedia, poiché il mondo si dà appunto nella forma di commedia ed ha una struttura comediale. Con la scomparsa, dicevamo, del soggetto ultimo, è venuto meno anche il controllo che tale soggetto esercitava sul mondo, e difatti esso si è dileguato anche dalla forma-poesia, sembra dirci la Curci, la quale eccelle nei suoi finti quadretti idilliaci dove non c’è né il soggetto né il destinatario, e non c’è traccia di alcuna angelologia di rilkiana memoria, anzi, gli «angeli» sono diventati dei poveri diavoli,  i poveri angeli devono andarselo a cercare il senso che si è perduto «tra l’ugola e il tubo digerente»:

 La diceria dell’angelo che guarda
prova da tempo a farsi mio custode.
Se è un canto dal silenzio o di sirene,
sta tra l’ugola e il tubo digerente.

Quello che al poeta resta da fare è scrivere «distici del doposcuola» o «distici del disincanto», con uno stile tra l’assioma e l’aforisma senza la pretesa di innescare o disinnescare  il senso (come l’aforisma classico) ma lasciando intravvedere al lettore i mattoni del vuoto che esso aforisma vorrebbe dissimulare. Non è un caso che il libro si chiuda con una sezione titolata «Canti dal silenzio». Un «silenzio» che non è più chiave di nulla, né delle idee platoniche né dell’empirico frastuono del mondo mediatico, né del senso né del non-senso. Si ha l’impressione che sia un «silenzio» che chiude il «discorso poetico», ma non per un eccesso di pessimismo quanto per una esigenza di restare fedele alla assunzione del principio di ironizzazione e del decentramento del soggetto propri della sua poetica. Dalla «nomenclatura» degli oggetti al loro «silenzio», questa sembra essere la parabola della poesia di Anna Maria Curci.

 

dalla Postfazione di Gianfranco Fabbri

Gli “oggetti” di Anna Maria Curci, nello specifico, sono in realtà testi poetici, i quali si configurano come elementi che riescono a parlare dell’uomo, attraverso il “vento” salutare dell’elucubrazione. Il progetto, il libro, pare assemblato con notevole garbo logico: sette sono i capitoletti che lo compongono: Nuove nomenclature, Staffetta, Sonetti sparsi, Dodici distici del disincanto, Distici del doposcuola e Canti del silen­zio. Sette scompartimenti tematici, allora, che indicano no­menclature diverse, ma con una fonte comune: l’uomo e il suo percorso storico.

Prenderò come scampolo esemplificativo le prime due sezioni. Nuove nomenclature pare denotare una sua natura recente, nel corso del tempo; vi si leggono testi come Clandestino, Declassamento, Macelleria, NASDAQ, Rigore, 11 Settembre, tanto per citarne alcuni. Queste poesie posseggono un’ironia notevole, anche se talvolta dolorosa. Sono composizioni fitte di riferimenti, di citazioni di personaggi non solo letterari (Brecht, Bolaño, Musil e altri) dei quali il lettore potrà assorbire la coloritura che più gli riesce evocante, per intuire a suo modo il grande messaggio che la Curci intende emettere all’esterno. Testi gelosi di sé; frammenti, alcuni di essi, con versi gnomi, o rotti, o convulsi, che sembrano vietarsi alla moltitudine. Testi comunque aristocratici che pretendono una volontà di comprendere il loro senso recondito, eppure diretto – quasi spudorato –. [«Manovra / narcotizza / spiazza af­fari //… // Come a Fish / nell’Arturo / Ui di Brecht /…»;  De­classamento, p. 12]. Un dettato molto sofisticato, questo di Anna Maria; a tratti anche violento e sanguinolento, come Macelleria, in cui si possono leggere (ma anche auscultare) gli odori della carne e della morte: «L’ho visto, da bambina, funzio­nante. / Era a Roma, era al monte dei cocci. / Mio padre, col suo ca­mice e coi timbri, / lo conosceva con l’antico nome. //… // Fu la sua sede poi in periferia, / innocuo il nome: solo centro carni. / Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, / pensavo al mattatoio di Testaccio. //…» (pag. 19). Da queste posizioni a quelle della sezione successiva, Staffetta, non è tanto la differenza concettuale che stupisce, quanto l’atteggiamento del dettato, a mio avviso più assonante – più eufonico, come se il branco dei significanti formulasse una musicalità più energica, sincopata al punto da mutare, in un certo senso, la struttura del significato. Vi si gustano, qua e là, assonanze come “rammendo / rammento” o “inadeguatezza / guazza). Come in Massacro in sol maggiore 2011, dove la decodifica appare in più punti ardua, cattiva. Ho pensato: dovrò qui seguire un’altra via per entrare nel muscolo del pensiero di Anna. Come detto pocanzi, mi sono piccato di seguire un binario più eufonico-disfonico, attraverso l’abbigliamento dei significanti. Qui e altrove, a sottendere il discorso apertamente musicale. Su una improvvi­sazione di Jaco Pastorius: “… Pare facile, dici, / dispensare bellezza / da una corda di basso / Ma il drappeggio è salato // … // Alle stelle si urla il prezzo: / di armonie irridenti / è mercato nero.” (p. 38).

Il senso recondito che muta impercettibilmente il punto di vista è catturabile in tutta l’opera; occorre però scendere nel sottosuolo della lingua-radice, affrontando le stalagmiti del derma profondo del tessuto retorico. Un universo bambino, alle origini arcaiche della comunicazione, crea farciture di analogie, di sinestesie. Lontani parenti delle similitudini e dei tessuti metaforici all’interno di un clima che addiaccia le parole senza forma e senza peso.

I Quadri viventi dell’elucubrazione sono di già oggetti del pensiero?

Parrebbe, Staffetta, la parte più sostanziosa del libro curciano: quella che più ha colpito la mia attenzione. Ad esempio, a chi appartiene in Rosso Azerbaigian la voce che consiglia all’autrice quello che dovrà scrivere? Il dettato di queste pa­gine è forte, di senso astratto spinto, e non onirico: non si sa se più mentale o viscerale. Così come nel testo Fuori classe, dove nessuna coordinata dà senso (e quindi ristoro) a questa nomenclatura di oggetti mentali e linguistici, che pare composta da un dio di più buona volontà, ma declas­sato a gestore dell’infernetto generato dal poeta stesso.

Anche le sezioni successive conducono ad un arricchimento di nomenclature, come a significare il lento ma irreversibile cambio della guardia, all’interno delle agitazioni che la lingua e il modo di usarla dell’uomo producono. E l’esito è la lettura che tenta con tenacia un nuovo formulario e un nuovo “codice” aderente alle problematiche dei tempi difficili che il mondo sta vivendo.

 

Macelleria

L’ho visto, da bambina, funzionante.
Era a Roma, era al monte dei cocci.
Mio padre, col suo camice e coi timbri,
lo conosceva con l’antico nome.
Fu la sua sede poi in periferia,
innocuo il nome: solo centro carni.
Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli,
pensavo al mattatoio di Testaccio.
Sociale, sale ancora a narici
marchiate squarto di macelleria.
In cella frigorifera hanno messo
quel ricordo di garretti recisi.

 

Vuoto di valori

Lo sento dire e lo ripeto, così,
schiacciato beneficio d’inventori:
serpeggia, incede, non incontra inciampi
un diserbante vuoto di valori.
Ma c ‘è mai stato un pieno? Il quesito
solletica le froge stupefatte
di cavalli a motore a scoppio tardo.
È aria fritta che sniffano, con blatte.
C’è la fila alla pompa di benzina,
scarseggia il carburante d’ideali
e il vagheggiar d’aedi impavesati
prende quota, è in rialzo, frulla ali.

 

Rosso Azerbaigian

Se raccogli le cocche dell’abito
rincorso tra banchi vecchi di città
e ti disseti assorta e scosti piano
i capelli, pianto sospendi e acquieti.

.
Fuori classe

.
A fatica trascino
le quattro carabattole più amate
case-motto da manto declassate
a ripari ambulanti.

A sostenere il mondo
per velleità prescelta ti condanni
d’abnegazione tu sciorini i panni
e sempre giri in tondo.

Non mi distoglie scherno
e quel pallore mio già m’innamora
l’idillio di natura non ristora
chi sceglie l’auto-inferno.

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anna maria curci

13 agosto 2011

Berlino è piena di inciampi
e moniti, Stolpersteine.
A Bebelplatz leggi lampi
di Hassan, da Almansor di Heine:

«Non fu che un preludio: chi fa
rogo di libri, persone
brucerà». Lo ricordano
stele di cemento a Shoah.
Ma i turisti affollano
i negozi di Ampelmann,
storcono bocche, sbuffano
come a Federico il Grande
il cavallo, che esibisce
capi di stato maggiore
e con la coda spazzola
poeti a Unter den Linden.

Io guardo muri dipinti,
la sera un video di Arte
su JFK, quel giugno, lì.
Se vuoi, dai voce alla storia.

*

Patres

Sono nipote di un eroe di guerra
miracolato a un filo, poi travolto
da un camion per improvvida manovra

e di un coscritto fuggitivo, preso
e recluso nell’isola severa.
Non vidi mai l’eroe, l’altro mi crebbe.

.
Nottetempo

Nottetempo il principio di realtà
ha preso a schiaffi il vecchio desiderio.
Il malmenato, a schiena contrapposta,
ha bofonchiato: non sporgo rinuncia.

.
Traducendo Zärtlich di Oskar Pastior

Con Pastior porto le civette ad Atene;
gelosamente, al ritmo di Tirso.
E mi sorride la saggia noncuranza
del cuore che saltella, carezza
immemore di ingorda indifferenza.

.
Imbatti (incontri veramente fortuiti?)
Cinque: Obliquo

«Sia la tua veste fatta di percalle».
Fu Talia, ancora lei, a sussurrare.
Alle sue spalle scorsi, era penombra,
sagoma incerta e dura a decifrare.

Con la pezza di stoffa sotto il braccio
sigaretta di filo e metro al collo
già mi squadrava Obliquo e scosse il capo:
«Non cercare tra sete il tuo tessuto».

.
Distici del doposcuola

.
I
Diffida sempre dei superlativi:
aggraziate hanno le punte a scomparsa.
II
Se disseta a trattini, non estingue
affogare le righe nell’ordito.
III
Giungono giorni da affondo nell’incavo,
non affiora nemmeno il ripescaggio.
IV
Che ti lambicchi a ricercar parole?
Il sorpasso da destra è autorizzato.
V
Assennata e composta la bambina
sorseggia il tedio tutto fino in fondo.
VI
«Potere contrattuale di un fuscello»
mi disse, calmo e secco, scarrafone.
VII
Avvelenano i pozzi alla riserva.
Gomitate sghignazzano compari.

10 commenti

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10 risposte a “Anna Maria Curci  POESIE SCELTE da Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015) con un  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e uno stralcio della  Postfazione di Gianfranco Fabbri

  1. Fabio Michieli

    L’ha ribloggato su asSaggi critici.

  2. Fabio Michieli

    Voglio ringraziarla, Giorgio, per questa lettura “impolitica” della poesia di Anna Maria.
    Mi sono permesso di riproporla nel mio piccolo spazio.

  3. Ringrazio Giorgio Linguaglossa per l’ospitalità e per aver messo in luce, nel suo “commento impolitico”. lil “principio di ironizzazione”, Sancho Panza, povero e sguarnito, che difende, tuttavia, le sue riserve di disincanto e si ostina a dare una mano alla ribellione.

  4. oggi si è quasi persa la memoria di cos’è che distingue l’ironia dalla meta ironia in un’opera letteraria, concetto questo importantissimo per capire la poesia contemporanea come ci insegnano Laforgue ed Eliot. Oggi in giro in Italia c’è pochissima poesia che è abitata dalla meta ironia… sembrano tutti poeti superciliosi e seriosi, sembrano saliti sui trampoli della seriosità…

  5. belle davvero, Macelleria su tutte

  6. Salvatore Martino

    Dopo due settimane di Toscana, mia patria seconda, disintossicato da computer, web, mail, blog e faziose notiziw torno all’amata Ombra , campo di battaglia e porto di tranquillità.Ho guardato soltantto le ultime postazioni operate da Linguaglossa: poesie(?) della Curci e della Petrillo. Noto che i commenti sono scarsissimi e anche io mi trovo in imbarazzo. Non parlo altrimenti vengo da tutti i frequentatori della rivista bacchettato e quasi ostracizzato. Certo mi spiace non condividere i pareri , comunque degni di rispetto, di Almerighi per il quale sembra che tutti o quasi siano poeti notevoli, e i loro tesi belli davvero. Calzanti gli ultimi giudizi. Io continuo a disperare delle mie facoltà di leggere poesia, sono quasi entrato in crisi, anche dopo le bacchettature di Linguaglossa che mi accusa di essere narcisista , di pensare di costituire io stesso un sole che pretende satelliti di contorno.Mi auguro non sia vero, anche perché lo stesso Giorgio, al quale sono legato à double tour, per anni ha dimostrato grande affetto e stima nei miei riguardi. Non so come gli sia scappata quell’affermazione,distesa in questa rivista letteraria.Ma può darsi che abbia ragione lui. Ho letto anche l’intervista senza domande Almerighi- Gabriele imparando molte cose da una lettura vivace, colta, stimolante, con un linguaggio limpido e coinvolgente. Quanto alle poesie di Gabriele, pur navigando fiumi diversi più stilisticamente che di pensiero, ho apprezzato ancora una volta quell’alone magico, di mistero coagulato intorno alle figure che evoca, ai paesaggi urbani, a questo incalzare del tempo che impallidisce ogni stralcio dell’esistenza, quella sorta di nostalgia per un accadimento divenuto introvabile e irripetibile. E si potrebbe continuare a lungo anche a parlare dei tantissimi riferimenti culturali che si insinuano nelle pieghe del verso. Talvolta mi perdo nei meandri di una scrittura coltissima, dove i riferimenti non sempre sono comprensibili, ma questo semmai aggiunge fascino. Un solo appunto se Gabriele mi consente: trovo una certa ripetitività stilistica, che talvolta mi affatica.
    Caro Mario, Caro Giorgio,
    Vi sottopongo adesso un mio testo dei primi anni ’80, potrebbe essere inserito nella vostra scuola del frammento?
    SEGUE

  7. Salvatore Martino

    Nel gelido orecchio della menzogna

    Disposto a tradire
    a domandare di restare intero

    ma non dover comprendere nessuno
    e neanche se stessi

    accecàti dal sonno dal dolore
    dall’alcool forse e dalla solitudine

    vanificando l’odio
    la menzogna di non essere ombra

    come una preda morta tra gli artigli
    di una specie estinta di carnivori

    non ci sono voci in arrivo
    soltanto dolomiti e crepacci

    la scorza smozzicata della stanza
    troppa angusta a trattenere il vuoto

    seduti a fronte col destino
    quattro petali in mano

    limitiamoci a ridere
    al margine oggettivo del frammento

  8. caro Salvatore,
    nessuno screzio tra di noi, ci mancherebbe, e poi io non ho detto che tu sei il sole e gli altri sono i pianeti che ti girano intorno, ma che tu giudichi la poesia altrui dal tuo punto di vista (rispettabile). E questo è l’errore di tutti i poeti-critici, quello di sopravvalutare coloro che scrivono in modo simile al proprio. Ecco spiegata la ragione delle scelte ad esempio dello Specchio, lì ci pubblicano coloro che scrivono in modo simile a quello di Cucchi. Ma è un errore di impostazione culturale, non soltanto errore metodologico. C’è in giro ottima poesia scritta in modi totalmente differenti dal nostro, questo è indubitabile, bisogna fare uno sforzo per de-soggettivizzarsi per poter comprendere la poesia odierna. Io ci sto provando da trenta anni e passa, e ancora non ci sono riuscito, ma almeno ci provo.

    La rivista l’Ombra delle Parole cerca, anche nella critica che fa, di indicare una metodologia, una strada che non sia autoreferenziale o accademica, o amicale e di sponda. Personalmente, quando faccio della critica cerco di problematizzare l’argomento poesia e di rifletterci sopra. Ripeto, avanzare di un millimetro è già qualcosa, di Giacomo Leopardi ne nasce uno ogni 3 o 4 secoli, e poi anche se nascesse, penso che nessuno lo riconoscerebbe, perché sarebbe troppo in avanti.

    Quanto alla tua poesia, non direi proprio che è una poesia del frammento o che fa uso di frammenti, è una poesia nel tuo stile, che ha un inizio (in tonalità tonante) e prosegue in tono dominante:

    Nel gelido orecchio della menzogna

    e prosegue sulla stessa tonalità di fondo in senso «drammatico», con locuzioni proprie del dramma (tradimenti. menzogna, carnivori etc.). Nella tua poesia c’è, forte, il senso drammaturgico del dramma dell’«io» che si dibatte e si dispera a cospetto del mondo. È questa una concezione della poesia che io rispetto, anzi, per certi versi ammiro, a fronte di tanta poesia di oggi che gioca a fare verbalismi, intellettualismi e sofismi vari sulle gambe di Nicole Minetti, sulle targhe delle macchine e via cantando…
    Direi che nella tua poesia non c’è affatto la decostruzione dell’io, la de-territorializzazione dell’io. Ma questo non è un appunto che ti rivolgo, quanto un dato di fatto. Tu e la tua poesia provenite da una cultura che non mette in dubbio l’io con i suoi assiomi…

  9. Salvatore Martino

    Grazie infinite Giorgio per le tue precisazioni riguardo a quel piccolo fraintendimento che non scalfisce né amicizia , né stima e tantomeno affetto. Concordo sull’analisi che fai della poesia in questione, anche se a me sembra che una certa frammentarietà si avverta. Dissento unicamente dalla tua affermazione che la mia poesia non metta in dubbio l’io con i suoi assiomi, A me sembra che in tutti questi anni di produzione l’io sia stato da me continuamente messo in dubbio. Ma lasciamoci almeno questa divergenza

  10. Pingback: GIORGIO LINGUAGLOSSA RECENSISCE “NUOVE NOMENCLATURE E ALTRE POESIE” SUL BLOG “L’OMBRA DELLE PAROLE” | lacostruzionedelverso

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