Per una Critica autentica
Difficile, e forse prematuro, cercare una caratteristica nella poesia prodotta dall’ultimo Novecento fino ad oggi: rigurgiti di post‑ermetismo, di neo‑romanticismo e perfino di crepuscolarismo (avversione verso una società impenetrabile e sempre più indecifrabìle) hanno pregnato e continuano a pregnare la maggior parte dei testi poetici contemporanei. In particolare, nell’ultimo quarto del secolo scorso sembra che la poesia italiana abbia segnato il passo dentro un’area in cui nulla-c’è-da-dire-perché-tutto-è-stato-detto. Solo sforzi individuali e improbabili sperimentalismi hanno tentato di esprimere in maniera diversa ciò che altri avevano già descritto nel passato.
La Parola come strumento di segno e di suono
E allora, in questo lasso di tempo, gli autori sembrano essersi affidati di più alla parola come strumento di segno e di suono che come valore di contenuto, in una sorta di riconversione della comunicazione che non vuole tendere più al rapporto intrinseco diretto ma che vuol tendere ad una sorta di tam tam generale al quale si può comunque accorrere (con le dovute avvertenze) senza però sapere a cosa si va incontro. E la questione nasce proprio con la struttura stessa della singola poesia, con una preordinata e seppur involontaria organizzazione di grafemi che lasciano già intravedere un “fonetismo visivo” che poi diventa sonoro nel momento in cui viene data voce al testo, o quando questo viene “solfeggiato” mentalmente durante la lettura.
Ne è prova un certo recente risveglio dei dialetti, per la verità non proprio accessibili a tutti: le traduzioni (e i tradimenti) possono restituirne i significati, ma quel che inizialmente conta è il suono e la musicalità che ciascun dialetto porta al suo interno. Un esempio a noi vicino, tanto per entrare in argomento, ci è dato dalla poesia del siciliano Nino De Vita, il quale pur avvalendosi delle consuete atmosfere appartenenti alla dimensione rurale e contadina in genere, affida però alla specifica parlata della contrada Cutusiu di Marsala, dove l’autore ha vissuto l’infanzia, quella discriminante fonica che da sola riesce a donare vigore a tutta quanta l’espressione poetica. “La sua, lungi dall’essere la lingua siciliana della Koiné, appare piuttosto la trascrizione, quasi magnetofonica, del modo di esprimersi di quello sperduto angolo di mondo che è la sua contrada…” ebbe a dire in proposito Lucio Zinna in un suo saggio del novembre 2002. La stessa cosa si può dire per i testi di Albino Pierro, di Biagio Marin, di Franca Grisoni (tanto per rimanere nel registro dialettale), dove il principale strumento è quello che scandisce il ritmo linguistico, rispettivamente, del dialetto tursitano, di quello gradese e di quello sirmionese.
Altro esempio per questo breve discorso sono gli Esercízi di tiptologia (1992) di Valerio Magrelli. Già dal titolo si viene a conoscenza che “la tiptologia” è la tecnica usata per decifrare i colpi sui tavolini dei medium o il battito convenzionale sui muri divisori delle celle dei carcerati. Nell’estensione dei testi, colpisce subito la prevalenza ludica e ritmica delle parole che danno all’insieme una pirotecnìa verbale ammaliante ma pur sempre estranea ad una comunicazione affabulante o coinvolgente. Trabant, trabís, canèfore, gnifgnaf, fricativo, xochimilco, anti‑mazur, subsídenza sono alcuni lacerti lessicali che fanno parte di artificiose aree semantiche di certo consentite essenzialmente ai messaggi in codice. E allora, chi può colga soltanto il suono dei versi magrelliani degli Esercizi: “Ah vagoni frenati, ah parole‑trattino / io fricativo, ritratto dell’attrito questo il futuro, la spola, il traslato, / il tempo manovale e citeriore, / trasferimento e tropo, / la ditta di trasloco”.
Ulteriore esempio massimo è la poesia “a percussione” di Toti Scialoja scomparso nel 1998, il quale in una dichiarazione di poetica disse per l’appunto che “nel processo di seduzione della parola … è come se le sillabe si sbriciolassero in una sorta di polline e vibrassero di sonorità… le parole della poesia si trasformano in un’incantevole musica mentale”. Basterebbero solo i titoli delle sue raccolte (Scarse serpi, La mela di Amleto, Le sillabe della Sibilla, I violini del diluvio, Il gatto bigotto) per comprendere l’operazione gioco sillabíco/non senso portata avanti dall’autore.
E cosa dire dell’infinita avanguardia letteraria di Edoardo Sanguineti basata su di una impostazione strutturale che ci ha sempre portato esiti di versi foneticamente tambureggianti ed ortograficamente similari a degli spartiti musicali, anche se qui il non senso viene praticato in maniera “culta” e filologica? E, guarda caso, Sanguineti ha anche fornito alcuni testi per l’esasperato e monocorde ritmo delle canzoni rap.
Anche nella poesia di Elio Pagliarani abbiamo trovato un’articolazione ritmica, metrica e semantica a volte imprevedibile. “Il lavoro di Pagliarani – dice Gabriella Sica – tende alla riattivazione del linguaggio poetico su un tempo doppio, come nella musica… Ad un testo attraversato da ritmi e giochi verbali se ne oppone un altro con un linguaggio più razionale”. Testi acclaranti sono contenuti nelle raccolte Lezioni di fisíca e Doppio trittico di Nandi.
Anche il poeta-giullare Valentino Zeichen, che può essere considerato – come egli stesso sostiene – un futurista di ritorno, ritiene che la scrittura debba essere “sonorizzata” attraverso la rappresentazione vocale (o addirittura teatrale) dei testi. Ulteriori esempi riferiti a questi nostri giorni li ritroviamo nell’esibizione dei testi di Lello Voce (nomen omen), di Rosaria Lo Russo e di Luigi Nacci, testi che vengono affidati sostanzialmente all’oralità, alle variazioni di cadenza, ai ritmi sonori nonché alla cantabilità della voce recitante degli stessi autori, a volte accompagnati perfino da gestualità e da piccole movenze del corpo, quasi a raggiungere nel complesso la fisionomia d’una gradevole ballata.
Riferendoci sempre all’attualità, sembra che a un certo punto anche i poeti abbiano metabolizzato inconsciamente le nuove pulsioni e i diversi algoritmi provenienti soprattutto dalla tecnologia e dall’informatica, tali da modificare il proprio spazio interiore con le cadenze imposte dai particolari suoni (talvolta a perdere) e dai particolari ritmi che le moderne impostazioni quotidiane elargiscono. Pertanto, il flusso ritmico derivante dalla realtà esterna può inconsciamente cristallizarsi pure nel linguaggio, per quella che è una delle classiche testimonianze del proprio tempo.
La comunicazione della Parola
La parola ormai non sembra avere più il suo significato primigenio nella comunicazione, ad una stessa parola possono corrispondere diversi significati nell’odierno caos interpretativo, tanto vale sostituire alle parole i suoni che comunque generano curiosità ed attenzione, alla stregua del vecchio suono delle campane i cui rintocchi, diversamente modulati nei toni e nelle frequenze, annunciavano nelle campagne momenti di gioia o di dolore. Come ultimo esempio vorrei qui indicare, uno fra tutti, il percorso di Andrea Rompianesi, uno dei più validi poeti emergenti in questo passaggio di secolo. Ne La quercia alta del buon consiglio, del 1999, leggiamo a caso: All’ombra del glicine/ e lungo il corso sabbioso e le larghe spiagge/ attraverso il sentiero e il rivo/ fosse giunto il tuo nome assolato/ ci sei ora e qui/ fossero le terre vaste intorno a Aurangbad/ o lungo il mare di Bombay/ fossero i tuoi occhi chiari. Certamente una poesia di largo respiro e di condivisibile sensualità lirica. Ma dalla sua successiva raccolta «Fides», estrapoliamo il seguente paradigma, che è un lacerto omogeneo a tutta quanta la raccolta: Coniugo a voi l’arresto il tarlo/ o compiaciuto lasso supposto a torso/ l’averti scelto assiso compiuto tasso/ d’avvertito desco a lucida rimessa/ quale abitualmente fuga rinomata/ spaesata senza nuova virtù moresca. Che dire? In questo caso ci è dato osservare che nell’arco temporale di un concerto poetico le “percussioni” si sono sostituite ai “violini”.
Ho assunto degli esempi estremi per poter additare e probabilmente discutere tale prevalente fonetismo, anche perchè molta contemporaneità continua a produrre polifonìe che, senza pretese di probabili “ismi”, possono di certo farne ricavare qualcosa.

Nicola Romano
Nicola Romano risiede a Palermo, dove è nato nel 1946. Giornalista pubblicista, dal 1987 al 1996 è stato condirettore del periodico “insiemenell’arte” e attualmente collabora a quotidiani e periodici con articoli d’interesse sociale e culturale. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione su riviste spagnole, irlandesi e romene. Nel 1997 ha partecipato, su invito, ad incontri di poesia in Irlanda insieme all’attrice Mariella Lo Giudice ed ai poeti Maria Attanasio e Carmelo Zaffora, con lettura di testi a Dublino, Belfast, Letterkenny e Londonderry. Nel 1984 l’Unicef ha adottato un suo testo come poesia ufficiale per una manifestazione sull’infanzia nel mondo svoltasi a Limone Piemonte. Con il circuito itinerante de “La Bellezza e la Rovina” ha recentemente partecipato a letture insieme a noti poeti italiani.
Tra le sue ricerche, particolare attenzione ha prestato ai poeti Vittorio Bodini, Raffaele Carrieri, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Alfonso Gatto ed allo scrittore Antonio Russello.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia:
- I faraglioni della mente (Ed. Vittorietti, 1983);
- Amori con la luna (Ed. La bottega di Hefesto, 1985) con prefazione di Bent Parodi;
- Tonfi (Ed. Il Vertice, 1986);
- Visibilità discreta (Ed. del Leone, 1989) con prefazione di Lucio Zinna;
- Estremo niente (Ed. Il Messaggio, 1992) con una nota di Melo Freni;
- Fescennino per Palermo (Ed. Ila Palma, 1993);
- Questioni d’anima (Ed. Bastogi, 1995) con prefazione di Aldo Gerbino;
- Elogio de los labios (Ed. C.Vitale, Barcellona, 1995);
- Malva e linosa, haiku, (Ed. La Centona, 1996) con prefazione di Dante Maffìa;
- Bagagli smarriti (Ed. Scettro del Re, 2000) con prefazione di Fabio Scotto;
- Tocchi e rintocchi (Ed. Quaderni di Arenaria, 2003) con prefazione di Sebastiano Saglimbeni;
- Gobba a levante (Ed. Pungitopo, 2011) con prefazione di Paolo Ruffilli.
- Voragini e appigli (Pungitopo, 2015) con prefazione di Giorgio Linguaglossa
Ebbi un incontro con Albino Pierro nel 1993, lo andai a trovare nella sua casa a Monteverde a Roma. Gli portai in dono il libro di poesie di Arsenij Tarkovskij tradotte da Donata De Bartolomeo edite dallo Scettro del Re. Mi tenne inchiodato alla sedia raccontandomi e mostrandomi tutte le traduzioni che nel mondo avevano fatto della sua poesia, passando dalla Cina all’Iran etc, mi parlò poi della congiura ai suoi danni orchestrata dai letterati italiani per impedirgli di accedere al premio Nobel… insomma, un incontro che mi lasciò perplesso alquanto su questo personaggio. Ci lasciammo promettendoci di rivederci presto. Dopo alcuni giorni tornai a fargli visita, e di nuovo mi tenne inchiodato per altre due ore con il racconto della mancata assegnazione del premio Nobel, della congiura e di altre cose che non mi interessavano proprio. Gli mostrai un articolo che avevo scritto sulla sua poesia in dialetto. Pierro lo prese, lo lesse e mi chiese di pubblicarlo giudicandolo positivamente. Io gli chiesi se aveva letto il libro di poesie di Tarkovskij che gli avevo portato nella precedente visita e lui non si ricordò neanche del libro. Allora, capii che avevo di fronte un povero uomo, un provinciale innamorato soltanto delle proprie poesie in dialetto e di nient’altro. D’improvviso provai noia e disgusto per quell’uomo solitario preoccupato soltanto del mancato Nobel e delle questioni di lotte tra conventicole letterarie.
Lo salutati freddamente e all’uscita da casa sua gettai l’articolo tra i rifiuti e non ne volli più sapere di quel poeta rinchiuso totalmente nella propria solitudine, nel proprio narcisismo e provincialismo di professore di lettere in pensione.
Per tornare alle questioni dell’oggi, penso che per capire a fondo la poesia che si fa in Italia e in Europa (parlo della poesia in lingua italiana perché di quella in dialetto non ho cognizione e sono anche scettico sul suo valore), bisogna impiegare nuove categorie ermeneutiche, siamo usciti fuori da una intera cultura e stiamo entrando in un mondo che vede la scienza e gli scienziati apripista delle nuove frontiere della conoscenza umana, siamo alle soglie di una rivoluzione tecnologica (vedi le nanotecnologie, i superconduttori e le nuove teorie sull’universo) che avrà (ed ha già) profonde ripercussioni sul modo di scrivere una poesia e un romanzo (che non siano mere opere di intrattenimento).
Le avanguardie, come le ideologie, sono morte e sepolte. Tuttavia, esse offrivano almeno qualcosa di buono e d’interessante su cui riflettere. Oggi non esiste più autentica avanguardia, ma solo un “fonatismo” che è voglia di strafare e una vera presa per i “fondelli”. La poesia non può fare a meno del significato. Non può essere un gioco di parole e usare la parola solo come “strumento di segno e di suono”. Se priva di senso, la parola cessa di essere tale e non c’è poesia là dove manca la parola! La poesia è soprattutto musica, e questa è unione di suono e di senso.
http://www.epigeneticpoetry.altervista.org/index.html
Ciò che ci riferisce Linguaglossa su Albino Pierro mi trova alquanto consenziente e subito come in una visione multipla mi sono apparsi davanti le centinaia di Albini Pierri che popolano ogni contrada italiana, forse saranno un po’ meno di un milione di Albini in circolazione ad ogni generazione e che bisognerebbe affossare… mi trovo consenziente con ciò che scrive il Romano ma in parte poi che sarebbe stato necessario agire di coltello per affettare alcuni dei poeti che menziona, ma va bene lo stesso…
Tornando agli Albini – e del Pierro avevo letto qualcosa che mi piacque molto allora – essi sono come il sale che tutto annienta… costoro si ambientano bene in qualsiasi circostanza, sono invincibili – quanti ne ho conosciuti di famosi anche fra gli accademici, quanti di costoro vincono premi! ecc. possiamo già dire di “nanopoesie!
Tutti le poesie create per la voce, sono comunque testi scritti; derivano cioè dagli stessi procedimenti mentali. Sarebbe diverso se la poesia venisse improvvisata a voce. Ricordo che ci provò Tomaso Kemeny – anche se non ne sono del tutto sicuro perché, chissà, potrebbe aver detto a memoria – ormai parecchio tempo fa, negli anni ’80.
Nel 2010, per tre anni, con alcuni amici poeti facemmo questa esperienza nel nostro laboratorio: 3 minuti a testa per improvvisare parlando; poi anche dialogando a due, a tre, oppure tutti insieme. Avevamo davanti il vuoto… era tremendo. Se qualche buon verso ne usciva, allora arrivavano gli applausi. Erano parole al vento… comunque un buon esercizio.
mi fai ripensare a quando, in anni molto più verdi, facevo il direttore artistico in una radio privata. Tra i miei compiti c’era quello di selezionare gli aspiranti speaker. Il provino cui li sottoponevo era per certi versi tremendo e molto simile al vostro esperimento. Infilavo una cassetta dentro una piastra per la registrazione, facevo mettere il candidato in posizione davanti al microfono, gli dicevo “dopo che l’ho acceso parla, io non so quando torno, può essere tra 15 secondi o tra 15 minuti”… e, ti dirò selezionavo ottimi speaker.
caro Nicola, ti volevo comunicare che ho ricevuto il tuo libro, la tua scrittura è arguta e colta e sa farsi leggere… ti faccio i miei migliori auguri per la pubblicazione, già il titolo è espressivo della nostra condizione di «trambusto» globale… la prefazione è ben combinata e ben scritta… Auguri e buone cose…
un saluto.
g.l.
Il giorno dom 25 set 2016 alle ore 08:30 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona