Alfredo de Palchi
da “Bellezza versus bruttezza” 1 – 16 agosto 2016, (da rivedere)
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Vorresti essere ”scabro ed essenziale”. . . quanto il martire cristiano Eusebio glorificato da Anton Raphael Mengs nell’affresco della chiesa Sant’Eusebio a Roma. . .nobile nome che tu hai dimesso preferendo quello plebeo di Eugenio. . . I tuoi lustrascarpe leccapiedi ruffiani e amici ti chiamano Eusebio per sentirsi più importanti di coloro che usano Signor o Maestro Eugenio. . . chi non ama la tua bellezza poetica benché sia di radice anglosassone. . .
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ignota sulla tua faccia da bulldog con penduli labbroni sussurranti immagini virili e di potenza. . . di figure femminili che ignorano la figura della tua presunta bellezza visiva. . . e della tua squallida cafonaggine sgridata alla Mosca cieca “ma stai zitta tu che sei così brutta”. . . a Milano 1961 all’uscio del ristorante con un banchiere e signora e l’autore di La coda di paglia e signora. . .
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nessun sorriso a luna piena quella notte che hai perso il giovane amico conosciuto tramite Robert Lowell dopo due mesi di conoscenza quotidiana. . . appoggiato al mio braccio ti accompagnavo al giornale di via fatebenefratelli. . . hai tu fatto del bene o ti ha ferito il mio incontro con l’altro vanitoso dei suoi baffetti?. . . da quella data non ti smarrisco. . .
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perché bellezza tirannica finge
da
Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrio – Genesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare |
giorgio linguaglossa
A PROPOSITO DEL GRANDE PROGETTO. GLI ANNI OTTANTA. I MIEI DUBBI LE MIE CERTEZZE
Nel 1985, dopo aver girovagato per le carceri di Treviso, Pistoia, Firenze in qualità di direttore di carcere, tornai a Roma dopo un periodo di sei anni di assenza dalla capitale, e la trovai profondamente cambiata. Capii che eravamo entrati nel decennio della falsa opulenza. L’italia all’epoca era dominata dal centro sinistra Craxi Andreotti Forlani. A quel tempo adoperavo ancora le categorie adorniane della falsa coscienza e di alienazione. Cominciai allora a ristudiare filosofia e a rileggere opere di letteratura dopo sei anni di abbandono totale da quelle che ritenevo letture quisquilie, dei fiorellini che la borghesia si mette nel taschino della giacca per apparire presentabile. Compresi che la borghesia italiana aveva rinunciato a indossare qualsiasi fiorellino perché non gli serviva più, anzi, che aveva mandato al macero tutti i fiorellini. Compresi che la poesia di Sandro Penna era un perfetto esempio di fiorellino che piace alle anime gentili, compresi che i rigurgiti dello sperimentalismo erano espressione dell’eterno petrarchismo delle italiane lettere. Compresi che bisognava cambiare direzione di marcia, anzi, bisognava cambiare strada. Pensavo che bisognasse imboccare un’altra autostrada, Ma, come fare? Ripresi in mano i libri di Zanzotto e sorridevo al suo disperato sperimentalismo qualunquoide, sorridevo a quella ideologia della natura incontaminata, a quel suo sperimentalismo eufonico e modulato… che spettinava le anime gentili…
Ripresi in mano il Montale di Satura (1971) e cominciai ad insospettirmi. Mi chiedevo: ma non è che qui Montale si è messo a giocare a fare finta poesia? Non è che qui Montale ha iniziato a gettare a terra tutto l’armamentario della vecchia poesia perché non più utilizzabile nelle nuove condizioni del capitalismo? Iniziai a dubitare della bontà di quella apertura al linguaggio di tutti i giorni. Il dubbio cartesiano mi ossessionò per alcuni anni. E intanto leggevo e leggevo la poesia di tutti quegli anni, dai milanesi ai sudisti. E mi rendevo conto che i conti non tornavano. Che in quell’equazione tracciata dalla Antologia di Cucchi e Giovanardi nel 1996 c’era una incognita, anzi, numerose incognite, Cominciai a pensare che tutta quella ricostruzione della poesia italiana del Novecento fosse tutta fatta ad usum delfini. Nel frattempo i miei dubbi si infittivano e si ingigantivano, fino al punto che chiusi i miei dubbi in una certezza: la vera questione della poesia italiana stava nell’abbandono, da parte di Montale e di Pasolini, i due più grandi poeti dell’epoca viventi in Italia e teorici, della trincea della poesia. La poesia fu considerata inutile, e gettata alle ortiche, e sostituita, con smaliziata strategia, dalla finta poesia di Satura (1971) e di Trasumanar e organizzar (1968). Fine delle trasmissioni. Il dubbio era diventato certezza.
Adesso (cioè nel 1988 circa) il problema era quello di ritornare indietro e ri-mettere le cose a posto. Ritornare indietro per ripartire dal punto dove Montale e Pasolini avevano gettato la spugna.
Ancora oggi, nel 2016, sono convinto che la mia intuizione fosse quella esatta. Il problema della poesia italiana è ancora quello: uscire fuori da unna cultura dello scetticismo e del riduzionismo e rifondare la forma-poesia. Circumnavigare Montale e Pasolini per rifondare la tematizzazione della forma-poesia. Era un compito di spaventosa problematicità, era come voler azzerare tutto ciò che nel frattempo si era fatto e scritto in poesia in Italia in questi questi ultimi cinquanta anni.
Un progetto ambizioso, non c’è che dire. Ho letto da qualche parte la domanda che qualcuno si è posto. Suonava più o meno così: «Perché la poesia italiana dopo Montale non ha più prodotto un altro Montale?»,
La domanda è valida, credo. E la risposta la lascio ai lettori.
A un certo punto di questo percorso, negli anni Novanta, su suggerimento di Roberto Bertoldo, lessi la poesia di de Palchi, e cominciai a capire qualcosa…
Giuseppe Talia
A PROPOSITO DEL “GRANDE PROGETTO”
Caro Giorgio,
stanotte ho avuto un’illuminazione nel dormiveglia e credo di aver capito cosa intendi per Grande Progetto. Prima di entrare nel merito delle considerazione che ho fatto sulla tua idea di progetto, ti vorrei raccontare questo.
Quest’estate, sollecitato da alcune tue osservazioni sul Montale di Satura (1971) e dell’ultimo Pasolini, mi sono armato del libro di tutte le poesie di Montale, collana i Meridiani, e ho iniziato a studiare. Di Montale nel tempo avevo letto quasi tutta la produzione, ma a spizzichi e bocconi e alle volte superficialmente. Man mano che andavo avanti la novità e la grandezza degli Ossi di seppia (1925) mi apparivano nella loro assolutezza di forma e di poesia. Ogni componimento contiene un paesaggio, il lessico arricchito da termini di una natura vivida, le strutture metriche dilatate e in alcuni casi ristrette nella tradizione, come le onde del mare che si ritraggono e si allungano a lambire la spiaggia. Mi sono ricordato di quanto scrisse G. Nascimbeni nella biografia del poeta: “Basta dire araucarie, pitosfori, eucalipti, tamarischi, agavi, carrubi, sambuchi, e subito ci si sente dentro la poesia di Montale.”
Anche in Le Occasioni (1939) ancora il paesaggio “austero e roccioso” predomina nel corso delle liriche, con una nuova e inedita forma-poesia chiaramente dichiarata nella poesia “Nuove Stanze”. Quest’ultima poesia significativa anche perché prefigura, come quasi tutta la quarta parte della raccolta, la catastrofe imminente: “Là in fondo,/ altro stormo si muove: una tregenda/ d’uomini che non sa questo tuo incenso,/ nella scacchiera di cui puoi tu sola/ comporre il senso”.
E anche la Bufera (1956), strutturalmente in endecasillabi, comincia a perdere la “bellezza scarna, scabra, allucinante” delle precedenti raccolte. I carrubi diventano scheletriti, “troppo straziato è il bosco umano”, “tra le guerre dei nati-morti”. In quest’ultima raccolta si attua una certa deformazione, un cupo dolore l’attraversa, e soprattutto nella silloge Flashes e dediche si preannuncia Satura.
E sia arriva all’anno 1962. Una data da ricordare. Esce Satura. Pasolini in quella data entra in “crisi metrica” dopo l’uscita di La religione del mio tempo (1960), crisi che si compie con Poesie in forma di rosa, (1964) per cui sente che qualcosa si è esaurito, esautorato, “Saturato”, allo stesso modo come Montale nella sua raccolta vira verso il “privatismo” che pure difenderà fino all’età matura.
Satura? Che significa? Perché il 1962 è un anno di spartiacque nella poesia italiana maggioritaria? Si sente l’arrivo del ?68? Cosa fa scrivere a Montale una poesia come questa: «I critici ripetono,/da me depistati,/ che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che in me i tanti sono uno anche se appaiono/ moltiplicati dagli specchi. Il male/È che l’uccello preso nel paretaio/ non sa se lui sia lui o uno dei troppi/ suoi duplicati.»
Mentre formulavo queste domande ho guardato il disegno di Perigli della copertina esterna dei Meridiani, Montale e la sua sigaretta, e ho capito che ci ha preso in giro. Sì, Montale dal disegno se la ride di gusto perché ha raggiunto l’obiettivo : quello di gettare alle ortiche tradizione, canto, lirica, altezze, natura, pianeta, sacrificando tutti ad uno sdoppiamento, all’inautentico.
Non so se queste mie intuizioni ti trovano d’accordo, Giorgio, se il 1962 cabalisticamente porta in sé una geminazione. Se teniamo in conto che Sessioni con l’analista di de Palchi esce nel 1967 e che la Buia danza di scorpione è stata composta tra il 1947 e il 1951, e che articoli sulla sua poesia sono presenti già dal 1960, tutto torna. Un Poeta si esaurisce (Montale e Pasolini) e uno nuovo si affaccia sulla scena con un carico innovativo. Il nuovo poeta genuino, discendente da Villon, con il carico di immagini taglienti, con franchezza disarmante, lo stile conciso,: “Il principio/ innesta l’aorta nebulosa/ e precipita la coscienza/ con l’abietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni.”
Sono ancora troppo emotivamente legato a de Palchi per riuscire a scrivere sulla sua poesia, un timore reverenziale mi impedisce di entrare nel tessuto profondo. E non vorrei certo ripetere continuamente la sua storia biografica fatta di carcere e riscatto, di migrazione e di divulgazione della poesia italiana, ma piuttosto entrare dentro il suo lessico, perché al pari del carrubo, del pitosforo, dell’agave di Montale, anche lo sputo, l’Adige, il ranocchiare, le “uccelle”, croci, cristi e crocifissi, la menzogna, il tradimento, l’invettiva, immediatamente ricordano la poesia di Alfredo.
Quest’estate ho pensato di prepararmi a far domanda di dottorato di ricerca con una ricerca appunto sui canali di divulgazione della poesia italiana negli USA, da Gradiva a Chelsea, solo per esemplificare, in modo da poter trattare di de Palchi, il quale ancora non accettato dai prof universitari non mi permetterebbero mai una ricerca solo sulla sua opera. Credo. Spero di riuscirci. Io già presto servizio come tutor coordinatore di tirocinio a Firenze, Dipartimento di scienze della formazione e psicologia, ma la domanda di dottorato la farei per Letteratura italiana.
E veniamo al Grande Progetto. Ho capito cosa intendi. Non è una scuola, è un sommovimento d’anime, un gruppo di ricerca capace di restaurare la poesia italiana dopo la crisi, riportarla a trattare temi alti, della complessità, dell’ambiente, della conservazione, dei mutamenti, delle migrazioni, contro ogni barriera, muro, confine, contro ogni mafia, per una nuova ecologia della forma-poesia. E questo lavoro va fatto individualmente, come è giusto che sia, avendo in comunione principi alti che, partendo da De Palchi, ultimo grande in ordine di apparizione, riformuli la nuova poesia. Un gruppo di studiosi, poeti, letterati capaci di uscire dai confini dell’orticello per un più ampio respiro a servizio dell’umanità. Stanotte pensavo a quanto Alfredo spesso mi ripete cioè di nutrirmi di radici invece che cibarmi di cadaveri.