Alfredo de Palchi da Bellezza versus bruttezza 1-16 agosto, da rivedere, inediti – DIALOGO tra Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Talia a proposito del Grande Progetto. Gli anni Settanta, Ottanta, La democratizzazione della poesia, Crisi della forma-poesia. Ripartire dal punto dove Montale e Pasolini hanno gettato la spugna

Alfredo de Palchi

da “Bellezza versus bruttezza” 1 – 16 agosto 2016, (da rivedere)

1

Vorresti essere ”scabro ed essenziale”. . . quanto il martire cristiano Eusebio glorificato da Anton Raphael Mengs nell’affresco della chiesa Sant’Eusebio a Roma. . .nobile nome che tu hai dimesso preferendo quello plebeo di Eugenio. . . I tuoi lustrascarpe leccapiedi ruffiani e amici ti chiamano Eusebio per sentirsi più importanti di coloro che usano Signor o Maestro Eugenio. . . chi non ama la tua bellezza poetica benché sia di radice anglosassone. . .

2

ignota sulla tua faccia da bulldog con penduli labbroni sussurranti immagini virili e di potenza. . . di figure femminili che ignorano la figura della tua presunta bellezza visiva. . . e della tua squallida cafonaggine sgridata alla Mosca cieca “ma stai zitta tu che sei così brutta”. . . a Milano 1961 all’uscio del ristorante con un banchiere e signora e l’autore di La coda di paglia e signora. . .

3

nessun sorriso a luna piena quella notte che hai perso il giovane amico conosciuto tramite Robert Lowell dopo due mesi di conoscenza quotidiana. . . appoggiato al mio braccio ti accompagnavo al giornale di via fatebenefratelli. . . hai tu fatto del bene o ti ha ferito il mio incontro con l’altro vanitoso dei suoi baffetti?. . . da quella data non ti smarrisco. . .
4

perché bellezza tirannica finge

da

Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrio – Genesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare | 

  1. giorgio linguaglossa

    A PROPOSITO DEL GRANDE PROGETTO. GLI ANNI OTTANTA. I MIEI DUBBI LE MIE CERTEZZE 

    Nel 1985, dopo aver girovagato per le carceri di Treviso, Pistoia, Firenze in qualità di direttore di carcere, tornai a Roma dopo un periodo di sei anni di assenza dalla capitale, e la trovai profondamente cambiata. Capii che eravamo entrati nel decennio della falsa opulenza. L’italia all’epoca era dominata dal centro sinistra Craxi Andreotti Forlani. A quel tempo adoperavo ancora le categorie adorniane della falsa coscienza e di alienazione. Cominciai allora a ristudiare filosofia e a rileggere opere di letteratura dopo sei anni di abbandono totale da quelle che ritenevo letture quisquilie, dei fiorellini che la borghesia si mette nel taschino della giacca per apparire presentabile. Compresi che la borghesia italiana aveva rinunciato a indossare qualsiasi fiorellino perché non gli serviva più, anzi, che aveva mandato al macero tutti i fiorellini. Compresi che la poesia di Sandro Penna era un perfetto esempio di fiorellino che piace alle anime gentili, compresi che i rigurgiti dello sperimentalismo erano espressione dell’eterno petrarchismo delle italiane lettere. Compresi che bisognava cambiare direzione di marcia, anzi, bisognava cambiare strada. Pensavo che bisognasse imboccare un’altra autostrada, Ma, come fare? Ripresi in mano i libri di Zanzotto e sorridevo al suo disperato sperimentalismo qualunquoide, sorridevo a quella ideologia della natura incontaminata, a quel suo sperimentalismo eufonico e modulato… che spettinava le anime gentili…

    Ripresi in mano il Montale di Satura (1971) e cominciai ad insospettirmi. Mi chiedevo: ma non è che qui Montale si è messo a giocare a fare finta poesia? Non è che qui Montale ha iniziato a gettare a terra tutto l’armamentario della vecchia poesia perché non più utilizzabile nelle nuove condizioni del capitalismo? Iniziai a dubitare della bontà di quella apertura al linguaggio di tutti i giorni. Il dubbio cartesiano mi ossessionò per alcuni anni. E intanto leggevo e leggevo la poesia di tutti quegli anni, dai milanesi ai sudisti. E mi rendevo conto che i conti non tornavano. Che in quell’equazione tracciata dalla Antologia di Cucchi e Giovanardi nel 1996 c’era una incognita, anzi, numerose incognite, Cominciai a pensare che tutta quella ricostruzione della poesia italiana del Novecento fosse tutta fatta ad usum delfini. Nel frattempo i miei dubbi si infittivano e si ingigantivano, fino al punto che chiusi i miei dubbi in una certezza: la vera questione della poesia italiana stava nell’abbandono, da parte di Montale e di Pasolini, i due più grandi poeti dell’epoca viventi in Italia e teorici, della trincea della poesia. La poesia fu considerata inutile, e gettata alle ortiche, e sostituita, con smaliziata strategia, dalla finta poesia di Satura (1971) e di Trasumanar e organizzar (1968). Fine delle trasmissioni. Il dubbio era diventato certezza.

    Adesso (cioè nel 1988 circa) il problema era quello di ritornare indietro e ri-mettere le cose a posto. Ritornare indietro per ripartire dal punto dove Montale e Pasolini avevano gettato la spugna.
    Ancora oggi, nel 2016, sono convinto che la mia intuizione fosse quella esatta. Il problema della poesia italiana è ancora quello: uscire fuori da unna cultura dello scetticismo e del riduzionismo e rifondare la forma-poesia. Circumnavigare Montale e Pasolini per rifondare la tematizzazione della forma-poesia. Era un compito di spaventosa problematicità, era come voler azzerare tutto ciò che nel frattempo si era fatto e scritto in poesia in Italia in questi questi ultimi cinquanta anni.

    Un progetto ambizioso, non c’è che dire. Ho letto da qualche parte la domanda che qualcuno si è posto. Suonava più o meno così: «Perché la poesia italiana dopo Montale non ha più prodotto un altro Montale?»,
    La domanda è valida, credo. E la risposta la lascio ai lettori.

    A un certo punto di questo percorso, negli anni Novanta, su suggerimento di Roberto Bertoldo, lessi la poesia di de Palchi, e cominciai a capire qualcosa…

    Giuseppe Talia

    A PROPOSITO DEL “GRANDE PROGETTO”

    Caro Giorgio,
    stanotte ho avuto un’illuminazione nel dormiveglia e credo di aver capito cosa intendi per Grande Progetto. Prima di entrare nel merito delle considerazione che ho fatto sulla tua idea di progetto, ti vorrei raccontare questo.

    Quest’estate, sollecitato da alcune tue osservazioni sul Montale di Satura (1971) e dell’ultimo Pasolini, mi sono armato del libro di tutte le poesie di Montale, collana i Meridiani, e ho iniziato a studiare. Di Montale nel tempo avevo letto quasi tutta la produzione, ma a spizzichi e bocconi e alle volte superficialmente. Man mano che andavo avanti la novità e la grandezza degli Ossi di seppia (1925) mi apparivano nella loro assolutezza di forma e di poesia. Ogni componimento contiene un paesaggio, il lessico arricchito da termini di una natura vivida, le strutture metriche dilatate e in alcuni casi ristrette nella tradizione, come le onde del mare che si ritraggono e si allungano a lambire la spiaggia. Mi sono ricordato di quanto scrisse G. Nascimbeni nella biografia del poeta: “Basta dire araucarie, pitosfori, eucalipti, tamarischi, agavi, carrubi, sambuchi, e subito ci si sente dentro la poesia di Montale.”
    Anche in Le Occasioni (1939) ancora il paesaggio “austero e roccioso” predomina nel corso delle liriche, con una nuova e inedita forma-poesia chiaramente dichiarata nella poesia “Nuove Stanze”. Quest’ultima poesia significativa anche perché prefigura, come quasi tutta la quarta parte della raccolta, la catastrofe imminente: “Là in fondo,/ altro stormo si muove: una tregenda/ d’uomini che non sa questo tuo incenso,/ nella scacchiera di cui puoi tu sola/ comporre il senso”.

    E anche la Bufera (1956), strutturalmente in endecasillabi, comincia a perdere la “bellezza scarna, scabra, allucinante” delle precedenti raccolte. I carrubi diventano scheletriti, “troppo straziato è il bosco umano”, “tra le guerre dei nati-morti”. In quest’ultima raccolta si attua una certa deformazione, un cupo dolore l’attraversa, e soprattutto nella silloge Flashes e dediche si preannuncia Satura.

    E sia arriva all’anno 1962. Una data da ricordare. Esce Satura. Pasolini in quella data entra in “crisi metrica” dopo l’uscita di La religione del mio tempo (1960), crisi che si compie con Poesie in forma di rosa, (1964) per cui sente che qualcosa si è esaurito, esautorato, “Saturato”, allo stesso modo come Montale nella sua raccolta vira verso il “privatismo” che pure difenderà fino all’età matura.
    Satura? Che significa? Perché il 1962 è un anno di spartiacque nella poesia italiana maggioritaria? Si sente l’arrivo del ?68? Cosa fa scrivere a Montale una poesia come questa: «I critici ripetono,/da me depistati,/ che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che in me i tanti sono uno anche se appaiono/ moltiplicati dagli specchi. Il male/È che l’uccello preso nel paretaio/ non sa se lui sia lui o uno dei troppi/ suoi duplicati

    pittura-andy-warhol-pop-artPerché depista i critici? Perché inserisce il Tu massivamente? Perché tratta temi alti con un linguaggio ordinario? Forse l’ultimo verso del testo di cui sopra è significativo? Il duplicarsi, il moltiplicarsi, la fotocopia della fotocopia, gli epigoni che hanno ricevuto la sua benedizione, ha fornito a tutti la chiave per entrare nelle stanze della modernità attraverso la geminazione, la smezzatura, il doppio?
    Mentre formulavo queste domande ho guardato il disegno di Perigli della copertina esterna dei Meridiani, Montale e la sua sigaretta, e ho capito che ci ha preso in giro. Sì, Montale dal disegno se la ride di gusto perché ha raggiunto l’obiettivo : quello di gettare alle ortiche tradizione, canto, lirica, altezze, natura, pianeta, sacrificando tutti ad uno sdoppiamento, all’inautentico.
    Non so se queste mie intuizioni ti trovano d’accordo, Giorgio, se il 1962 cabalisticamente porta in sé una geminazione. Se teniamo in conto che Sessioni con l’analista di de Palchi esce nel 1967 e che la Buia danza di scorpione è stata composta tra il 1947 e il 1951, e che articoli sulla sua poesia sono presenti già dal 1960, tutto torna. Un Poeta si esaurisce (Montale e Pasolini) e uno nuovo si affaccia sulla scena con un carico innovativo. Il nuovo poeta genuino, discendente da Villon, con il carico di immagini taglienti, con franchezza disarmante, lo stile conciso,: “Il principio/ innesta l’aorta nebulosa/ e precipita la coscienza/ con l’abietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni.”

    Sono ancora troppo emotivamente legato a de Palchi per riuscire a scrivere sulla sua poesia, un timore reverenziale mi impedisce di entrare nel tessuto profondo. E non vorrei certo ripetere continuamente la sua storia biografica fatta di carcere e riscatto, di migrazione e di divulgazione della poesia italiana, ma piuttosto entrare dentro il suo lessico, perché al pari del carrubo, del pitosforo, dell’agave di Montale, anche lo sputo, l’Adige, il ranocchiare, le “uccelle”, croci, cristi e crocifissi, la menzogna, il tradimento, l’invettiva, immediatamente ricordano la poesia di Alfredo.

    Quest’estate ho pensato di prepararmi a far domanda di dottorato di ricerca con una ricerca appunto sui canali di divulgazione della poesia italiana negli USA, da Gradiva a Chelsea, solo per esemplificare, in modo da poter trattare di de Palchi, il quale ancora non accettato dai prof universitari non mi permetterebbero mai una ricerca solo sulla sua opera. Credo. Spero di riuscirci. Io già presto servizio come tutor coordinatore di tirocinio a Firenze, Dipartimento di scienze della formazione e psicologia, ma la domanda di dottorato la farei per Letteratura italiana.

    E veniamo al Grande Progetto. Ho capito cosa intendi. Non è una scuola, è un sommovimento d’anime, un gruppo di ricerca capace di restaurare la poesia italiana dopo la crisi, riportarla a trattare temi alti, della complessità, dell’ambiente, della conservazione, dei mutamenti, delle migrazioni, contro ogni barriera, muro, confine, contro ogni mafia, per una nuova ecologia della forma-poesia. E questo lavoro va fatto individualmente, come è giusto che sia, avendo in comunione principi alti che, partendo da De Palchi, ultimo grande in ordine di apparizione, riformuli la nuova poesia. Un gruppo di studiosi, poeti, letterati capaci di uscire dai confini dell’orticello per un più ampio respiro a servizio dell’umanità. Stanotte pensavo a quanto Alfredo spesso mi ripete cioè di nutrirmi di radici invece che cibarmi di cadaveri.

11 commenti

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11 risposte a “Alfredo de Palchi da Bellezza versus bruttezza 1-16 agosto, da rivedere, inediti – DIALOGO tra Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Talia a proposito del Grande Progetto. Gli anni Settanta, Ottanta, La democratizzazione della poesia, Crisi della forma-poesia. Ripartire dal punto dove Montale e Pasolini hanno gettato la spugna

  1. Mario M. Gabriele

    Dopo aver letto con estrema attenzione le considerazioni di Giuseppe Tallia sul tema: “A proposito del Grande Progetto”, diversamente dal “pensiero negativo” da Lui espresso su codesto tema, nei precedenti post, quasi come un allinearsi alle posizioni estetiche di Salvatore Martino, noto ora una revisione totalmente “pacifista” e “conciliatrice” con il “Progetto” come a disconnettersi dalle precedenti opinioni.E’ naturale che vi siano posizioni opposte o favorevoli di fronte a tutto ciò che viene a rimodulare un sistema in letteratura, come in altre discipline umane. Ciò lo si deduce quando leggo le seguenti frasi di Tallia:”Ho capito cosa intendi (rivolgendosi a Linguaglossa e al suo “Progetto”) trattasi di “un sommovimento di anime, un gruppo di ricerca capace di restaurare la poesia italiana dopo la crisi”. E’ questa la geometria dell’area in cui operano diversi poeti, non certamente “visionari”, ma operatori di un dire poetico che ha attrezzi sufficienti per non far cadere nell’improvvisazione il loro lavoro costante e meticoloso. E ciò mi conforta la frase di Tallia, quando circoscrive il tutto,in una “nuova ecologia della forma-poesia” .Bene, dunque, per chi si muove su codeste coordinate, per un viaggio insieme a Godot.

    • Giuseppe Talia

      Gentile Mario M. Gabriele, non mi pare di aver espresso nessun pensiero negativo sul Grande Progetto per il semplice fatto che non avevo capito cosa intendesse Linguaglossa. Forse non ho letto con attenzione i precedenti post in cui si trattava del GP, forse non sempre la mia “ghiandola pineale” funziona alla perfezione, alle volte secerne troppa melatonina altre volte meno (Almerì, beato te che sei così sveglio…). Ad ogni modo, preso atto che non è una scuola, che non vi sono posizioni di preminenza, ma trattasi di un gruppo di ricerca, ben venga il Grande Progetto.
      Le posizioni estetiche di Salvatore Martino, credo, siano consonanti per molti aspetti a quelli di de Palchi e di Sagredo, mi si corregga se sbaglio. Si potrebbe pensare che le posizioni estetiche dei suddetti appartengano all’area novecentesca, ma così non è perché parlano le loro opere, quelle di de Palchi con gli inediti presenti in questo post, quelle di Sagredo maturate negli anni e solo recentemente portate al grande pubblico, quelle di Martino che ha scritto pagine di poesia di rilievo. Nessuno di loro si affida all’improvvisazione, e nemmeno io.
      Gentile Gabriele, noi non ci conosciamo, immagino che lei non abbia letto quasi nulla di me e io pochissimo di lei, a questo c’è rimedio, il Grande Progetto è anche comunanza, conoscenza, per cui io non ho nessun problema ad inviarle ciò che ho scritto in questi anni di studio e di lavoro. Cosa non dovrebbe essere il grande progetto? Non ci si dovrebbe trincerare nella sterile pubblicazione con chissà chi sperando che qualcuno compri il libercolo e che soprattutto lo legga. Divulgazione scevra da ogni barriera personalistica.

      Il dialogo tra Giorgio L. e me è avvenuto ieri. Quasi in medias res, in diretta, ed era, da parte mia un dialogo privato. Infatti, se ci fosse stato tempo avrei potuto fare di meglio e soprattutto avrei tagliato notizie confidenziali a Giorgio di miei futuri progetti che possono apparire pretestuose. Però a me va bene anche così perché quello che ho scritto a Giorgio è “autentico”, nel senso di diretto, senza mediazioni né lavori di tornitura, come “autentico” è il proposito di Giorgio. Nello spazio di 12 ore si sono messe in moto le “rotative” e il loro rumore, forse, ha disturbato la veglia di Almerighi.

      Ben vengano i viaggi con le giuste coordinate e i giusti compagni.

      • Giuseppe Talia

        Talia e non Tallia come erroneamente Lei riporta nel suo intervento.

      • Salvatore Martino

        Carissimo Giuseppe ti ringrazio per la difesa “d’ufficio”della mia poesia…a volte la gente parla senza conoscere profondamente l’opera di un poeta, né il suo percorso lungo gli anni o i decenni. Quello che tu dici intorno al Grande Progetto è assolutamente condivisibile, e mi sembrava di avere intuito che anche il discorso di Linguaglossa volgesse in quella direzione, In un mio precedente intervento avevo formulato in qualche modo la mia adesione. Gabriele spesso va dietro un suo pensiero senza una documentazione precisa, e noto una lieve avversità nei miei confronti , ma mi auguro di sbagliare. Comunque non mi sembra possa essere una colpa, o un delitto allinearsi alle mie posizioni estetiche. Trovo sconveniente agitare parole sugli scritti di de Palchi che affiorano qui dato che il suo stesso autore afferma: ” mi dispiace di trovare un altro spot su un progetto non definitivo.”. Ho letto e apprezzato la tua dissertazione montaliana, e la puntuale distinzione tra Ossi e Occasioni, Bufera e Satura.

  2. Queste cose le sa anche chi si fuma Satori 😉

    • … già è tutto uno sferragliare di rotative e ghiandole pineali

    • Giuseppe Talia

      Come mi dice il caro Sagredo quando penso di esagerare con le battute che queste non sono altro che giostre, tornei, giochi, divertimenti dove nessuno si deve far del male sul serio. E leggo che non ho nulla da insegnarti. Meglio così, perché se t’incontrassi, caro Lucio, e ti vedessi fumare un Satori, ti direi passalo!

  3. Gentile Giorgio, mi dispiace di trovare un altro spot su un mio progetto non definitivo. Ho voluto soltanto dare una idea su che cosa si tratta dopo aver ;letto su un tuo commento su quell’altro spot de palchi il nome Montale e finzione (qualcosa del genere, non vado a controllare). Ma perché su questo spot non hai corretto il titolo Bellezza “versi” bruttezza con “versus””
    indicato già su l’altro spot. Non “versi” ma “versus”. Ben altra cosa.
    Correggi per favore o cancella tutto. Grazie e saluti cari. alfredo

  4. Caro Alfredo, ho provveduto a correggere l’errore nel titolo. Stiamo facendo un lavoro in progress per il quale è importante ricordare il tuo lavoro di poeta. Grazie. Un caro saluto. Giorgio

  5. Cari interlocutori,
    sia chiara una cosa: io non faccio «spot» per nessuno, non ho mai praticato questo sport che lascio volentieri ad altri, noto che in giro ci sono molti praticanti di questo sport dello spot; le mie sono riflessioni critiche che tentano di estendere lo sguardo a tutto il Novecento. Chi ha avuto la bontà di seguirmi troverà che ho cercato di valorizzare poeti ingiustamente sotto valutati, come Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi nel primo Novecento e, nel secondo Novecento, Helle Busacca, un altro autore chiave della poesia italiana degli ultimi decenni, uno dei pochissimi che bucheranno il Novecento e che sarà letto nel prossimo secolo. Di questo ne sono convinto. Forse mi sbaglierò, ma io resto convinto delle mie idee.

    Per venire al Grande Progetto, sia chiaro che non ho mai aperto le iscrizioni, non c’è nessun elenco con i nomi e i cognomi, il progetto ciascuno se lo costruisce da solo con la propria cultura critica e il proprio talento. Ma è anche vero che lo si può costruire più facilmente se tante intelligenze cercano nella stessa direzione. Alla fine degli anni Novanta avevo usato una diversa locuzione: «Uscire dal Novecento» (poi qualcun altro si è appropriato della dizione e l’ha usata come uno spot). Oggi le cose sono cambiate, anche perché il Novecento è abbondantemente alle nostre spalle, occorreva usare una nuova parola. E questa parola è «Progetto», grande o piccolo che sia, lo saprà chi verrà dopo.

    Ecco cosa scrivevo due anni fa a proposito della poesia di Helle Busacca su questa rivista:

    « Mi è stato chiesto di spiegare in modo più semplice perché Helle Busacca sia una poetessa così importante per la storia della poesia del tardo Novecento italiano. Qual è la peculiarità della sua poesia, quel disco di polivinile della sua poesia rispetto alla poesia degli anni Settanta. Tenterò di rispondere. Ciò che salta agli occhi a distanza di più di quaranta anni dalla pubblicazione de “I quanti del suicidio” (1972) è la completa estraneità del suo linguaggio poetico rispetto ai linguaggi che erano moneta corrente in quegli anni. Partirò dalla constatazione più semplice e immediata: il «parlato» della poesia di Helle Busacca. La Busacca inventa un parlato, diciamo così, telefonico, sembra che stia davanti al telefono o al registratore , parla in modo semplice e immediato, vuole farsi capire da tutti, parla un linguaggio che ho definito «pre-tecnologico», cioè posteriore e anteriore ai linguaggi «tecnologici» che venivano usati dalla poesia dei suoi anni. La poesia della Busacca si dichiara subito estranea al linguaggio della riforma montaliana inaugurata da “Satura” (1971), non è poesia delle occasioni desultorie del quotidiano ma di una unica occasione: la morte del fratello «aldo» uno scienziato disoccupato morto suicida. È da questo punto che lei prende l’avvio. Tutta la poesia de “I quanti del suicidio” sono un interminabile e fittissimo atto d’accusa contro la codardia del suo paese che ha permesso questo suicidio, contro il «sistema Italia». Prende le distanze dai linguaggi poetici delle istituzioni letterarie, li mette semplicemente da parte, li scarta, sono roba da non poter più essere utilizzati in un linguaggio poetico che voglia andare al nodo e al centro delle questioni. Il suo è un soliloquio telefonico con un interlocutore che non è posto più nel suo tempo ma in un altro tempo, in un’altra Italia dei tempi futuri. Da per scontato che non c’è più alcun ponte linguistico che unisca la sua poesia a quella che si faceva nel suo tempo: non ha nulla da spartire con la cultura dello sperimentalismo, non ha nulla da spartire con la poesia degli oggetti (ne “I quanti” c’è un solo oggetto: la morte per suicidio del fratello «aldo»), non ha nulla da spartire con la poesia dello scetticismo , del disimpegno e del disagio di fronte agli oggetti che si faceva a Roma (due nomi per tutti: Patrizia Cavalli e Valentino Zeichen che proprio di li a pochi anni esordiscono con i loro libri). La poesia di Helle Busacca è sola e disarmata, e vuole gridare allo scandalo, punta l’indice accusatorio contro tutti e tutto, contro il «sistema Italia». Sta qui la sua grandezza, inventa il «parlato». E non mi sembra poco. Del resto la comunità letteraria ha fatto di tutto per metterla nel dimenticatoio. La comunità letteraria ha risposto con un riflesso condizionato: rimuovendo la sua presenza ingombrante e imbarazzante. »

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