Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012),Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013), L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015. Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera. luigi.fontanella@stonybrook.edu
PER ANDARE ALLA RICERCA DELL’AUTENTICITÀ
Premessa dell’Autore
Ho scritto questo poemetto nell’agosto del 2014 a Long Island, dove abito la maggior parte dell’anno. Ha avuto una stesura vertiginosa, con un’articolazione che, a rileggerla oggi, sento vagamente circolare. Le singole stanze che compongono questa “circolarità” sono state scritte per lo più di notte, in stati di dormiveglia, semionirici, o ipnagogici. In questo senso, si riallacciano all’humus delle poesie raccolte nella seconda parte del mio libro più recente (L’adolescenza e la notte, Passigli, 2015).
Il titolo di questo poemetto ricalca chiaramente quello, omonimo, di una poesia di André Breton del 1932, che da più di quattro decenni, cioè fin dalla prima volta che la lessi duranti i miei anni universitari, non ha mai smesso di contagiarmi, di infestarmi (uso il verbo hanter proprio nel senso che gli attribuisce Breton nelle prime righe di Nadja).
(L.F.)
Il mare, l’amore, la morte… Il libro, la vita, la piccola farfalla che va… Esserci per una volta, e dunque per sempre, iscritti per sempre nel tutto… Luigi Fontanella ci offre, tra questi e altri innumerevoli segni di presenza e confine, un canzoniere compatto e delicato, insieme trasparente e ambiguo, come è in fondo, quotidianamente, la nostra umana esperienza. Sceglie di descrivere, di narrarci qualcosa, una breve vicenda, un liquido racconto dove sensibilità e presagio si sovrappongono, dove il tessuto è una composizione fondata su contrasti e ossimori netti eppure attutiti dalla pronuncia, tra fisicità e sfumature oniriche, tra eros e sparizione, tra abbandono e volo. Questa morte rosa, nuovo e sorprendente capitolo della poesia di Luigi Fontanella, è un felice esempio di meditazione lirica, di pensiero vissuto nel molteplice corpo delle immagini.
(Maurizio Cucchi, dalla Prefazione a La morte rosa, Varese, Stampa 2009, 2015)
*
Dopo molti anni passati a esplorare i territori e le geografie dove la polarità della poesia si esprime fra gentilezze astuzie e beneficiari, con una lingua fra correnti e controcorrenti, Fontanella trova un mondo risorto di amori e romanticismi molto ben governati. C’erano fenditure e riflessioni voraci sul lungo corso del tempo, che sempre è mischiato ai viaggi in treno e in aereo. E dialoghi cercati pur nelle asimmetrie dei colleghi poeti (collegati attraverso riviste e libri transoceanici), in una grande macchina un po’ surrealista un po’ sistematica, molto riconoscibile per come sono stati i recenti decenni. La memoria comanda e gravita su tutto, e in quest’ultimo lavoro, messo in stampa nell’elegante plaquette curata da Maurizio Cucchi, la forma elegiaca arreda l’incontro/distacco con la donna bretoniana incontrata sulla spiaggia e poi perduta fra le stelle: discese come fossero l’unico bagaglio possibile durante il viaggio. Il pulviscolo terrestre e siderale delle 16 stanze de La morte rosa immerge in una nuvola spessa ma praticabile l’amata figura. Colei che cerca “l’oriente incontaminato” infine viene presa nell’appassionata esposizione del poeta. Vi trova ragioni corporee, da tempo latitanti, in un contagio ultra-terrestre a cui non manca proprio nulla dei tremori e fervori notturni di quel Luigi Fontanella, amante amato e disamorato, incontrato per quasi mezzo secolo nell’epica calda e stramba della poesia italiana. Dopo l’educazione sentimentale filtrata dalla Nadja di Breton, in questi versi il desiderio espande una potente conquista, con tattica metrica e sonora, lasciando al passato le tentazioni fonetiche di americana memoria. Ecco perché, in regime di bene necessario, la poesia arriva subito. Incontrastata. Come nella coraggiosa e sostanziale stanza di pag. 12: “… Parole ignote escono dal libro / dei tuoi passi, ogni pagina / un incanto a volute di serpente…” Si tratta di una vicenda notturna, al limite del sogno, o la traiettoria simile a quella di Gagarin che vede improvvisamente come i colori fondamentali della terra siano l’azzurro e il blu? Entrambe le ipotesi, per inciso, intuendo come il colore fondamentale del corpo amato sia il rosa, in vita e in morte. La grazia erotica ha questi fenomeni, rimpolpa con la scrittura l’assenza che colma le nostre dimore, a ogni ora e soprattutto nelle ore precedenti l’alba. Il dormiveglia di Fontanella, se crediamo a quanto confessa nelle note, è una generativa virtù costituente, anche gravida di languore o attesa di un corpo da fecondare. Nell’orbita che proviene dal fanciullo antico, l’intuizione riesce a dare un nome all’improvvisa presenza femminile. Il poeta sa prenderla, e sa di tenerla fino a quando il pugnale si muove come una frusta, fino al contro tempo inevitabile della parola “fine”. Basta pronunciarla, scriverla, tracciarne il cerchio, e tutto può ricominciare.
(Elio Grasso, in “Poesia”, n. 311, gennaio 2016)
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Per andare alla ricerca dell’autenticità
Ogni volta che mi accingo a leggere una poesia mi viene in mente il monito di Montale quando scrive che «resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia», dato che «molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa». Dopo la lettura di questa plaquette di Luigi Fontanella io oserei dire che qui ci troviamo davanti ad un testo di poesia, il perché non saprei spiegarlo, non si tratta di una deduzione di tipo scientifico, ma di una «adesione», un lampo. Del resto, chi fa critica si trova ad essere una specie di rabdomante, tutti si aspettano che egli sappia dare dimostrazione esaustiva de il «perché» di un’opera di poesia, e «perché» proprio quella è un’opera di poesia. Ebbene, io dico semplicemente che non c’è un «perché» e se c’è io non sono in grado di spiegarlo con metodi di attendibilità scientifica, posso però fare un meta discorso sulla poesia. Del resto, non credo che interesserebbe a nessuno entrare in queste questioni fuori moda come il carattere estetico di un’opera di poesia, questioni che sono uscite fuori dall’orizzonte di attesa dei contemporanei. E passiamo ad altro.
I testi di questa plaquette si susseguono come una meditazione in chiave elegiaca sulla vita e la morte, sull’istante in cui c’è un «Libro aperto di chi ha tolto / il segnacolo a caso. Improvvisamente». L’autore dice che li ha scritti in stato di «dormiveglia»; in effetti, sono testi scritti in quello stato nel quale il controllo della coscienza vigile si assottiglia e le parole possono tranquillamente uscire dal sonno che le avvolge. Qualcosa è tolto. Allora, ciò che resta (il «resto» lacaniano derridiano) è quello che non volevamo riconoscere. Per andare alla ricerca dell’autenticità, bisogna togliere qualcosa, togliere e togliere. Il momento in cui qualcosa è tolto, è ciò che resta, e illustra molto bene, senza parole, ciò che se ne è andato. Soltanto ciò che è perduto può essere ritrovato, ma quando lo abbiamo tra le mani, ecco che ci accorgiamo che esso è un «resto», un residuo di ciò che non c’è più. Soltanto così possiamo riconoscere la «Cosa».
Questo di Fontanella è un discorso su ciò che «resta» senza parole nel momento in cui qualcuno o qualcosa ci viene tolto. Il «tolto» ha il segno (-) (meno), indica una sottrazione (e una sostituzione). Il paradosso della poesia è quel voler dire in parole ciò che dovrebbe essere detto con il silenzio. Ma le parole sono pur sempre un segno «meno» o «più» rispetto al silenzio. Appunto, «La morte rosa» è una metafora per alludere a quello stato di abbandono, di «sogno» «sott’acqua» che ci rivela molto di ciò che avviene in superficie, come è scritto nel finale dell’ultima poesia dove
Ogni cosa
è immobile e trasparente, in questo
istante ultimo, in questo
Tutto che pronuncia la parola FINE.
LA MORTE ROSA
Tu arriveras seule sur cette plage perdue
Où une étoile descendra sue tes bagages de sable.
André Breton
(agli occhi di Emma)
*
Tu cerchi un oriente incontaminato
viaggiando su ali di ciglia,
ritmo azzurro
che lascia una scia spumosa!
Passeggeri si raccontano
le loro case, perdite e guadagni,
come fossero già disegni,
sinopie offerte in dono.
*
Le mani sono state abbandonate
e ogni allarme è un’eco
sigillata in bocche di stoppia.
Ho contagiato, forse, chi non volevo.
Mia l’illusione di una piccola
avventura con bambole,
bambole che aprono e chiudono gli occhi
automaticamente.
*
Ti ammiro come la sciarpa
muta che hai al collo.
Tu felice nella tua morte rosa
avanzi, riprendi la corsa. Tu viva
in questa danza, come nella maestria
d’un direttore d’orchestra che diriga
sulla cima d’una montagna
spaccata a metà. Tu adagiata,
come lieve carezza su un quadrifoglio,
sopra una mia lacrima,
sopra questo foglio arcobaleno,
qui
in questa sera vera e non vera.
*
Amata,
i tuoi seni sono come bandiere.
Parole ignote escono dal libro
dei tuoi passi, ogni pagina
un incanto a volute di serpente.
Sei infine qui, mia amata,
qui, dico, accanto a me. E ridi
a cavallo di un cono azzurro.
Un incanto le tue mani
che stanno per mutarsi in rondini.
Ogni istante sarà frantumato
nell’immobilià degli occhi.
Il nostro bacio è cascata
d’acqua che riscatta
il miracolo dei sopravvissuti.
*
Là in fondo a quel vortice
dove i presagi hanno il loro
compimento, dove il sigillo
dei compagni si arena sulle labbra di ognuno.
Ogni speranza è morta
su una farfalla priva di un’ala.
Ora il cuscino è solo un’onda
senza risacca, dove ogni suono
ha perso la sua ripetizione.
È allora che l’Eternità sposa il Silenzio
e la mano di una bambina
accenna un saluto di là dal vetro.
*
Avventura in una menzogna,
stirpe che si ripete. L’ago
segna la rotta
sulla tua fronte intatta.
Puro latte discende dal miracolo
ch’è nascita e caso, ignoto a tutti
tranne a te stesso che l’hai perpetuato.
Tu, umano, che lo perpetui ogni giorno.
*
Il corpo riceve la grazia
nel suo desiderio giornaliero.
Mima l’eroe, il battito
d’ali infinito. Sfida
la morte rosa, martire o uccello volato
via dalla sua gabbia. Tutto
in un limite reale
o in un’illusione.
*
Portami in riva al mare, poesia.
Assaggia il mio corpo
e dagli un’alba,
un’ebbrezza di confine.
Rinasce in bocca a un infante
la sua prima sillaba
la sua piccola mano abbandonata nella tua
rimpolpa l’oblio
come la spuma imperiale del mare
offre un docile abbandono,
sonno
sparizione
volo.
*
La bellezza e l’incoscienza serena
di un volto… come ad esempio
sotto un improvviso acquazzone estivo
e subito dopo il cielo che diventa nitido
sopra i tuoi denti. È distante
il mare insidioso. Riprendo
la tua mano nella mia, qui
sulla spiaggia svuotata.
Quest’immagine vista da lontano
è forse una promessa
o forse una preghiera.
*
Una volta ho incontrato il mio gemello.
Fra due traiettorie, adesso
si consuma il tuo andare:
foglia smarrita nella sua caduta
già morta. Abbiamo fratelli
da ripudiare o riedificare
qualcosa nascosto in un libro
o in angolo della vecchia casa
dove, bambino, andavo a nascondermi.
*
Ora che l’inchiostro subito sbiadisce
ogni cataclisma resta bloccato
allo schioccare d’una frusta.
Il pugnale s’arresta nell’aria.
Sempre, ognuno di noi,
è un potenziale assassino.
*
Sott’acqua sogno un’altra vita.
Il giudizio è un collante
che aspetta l’ultimo venuto.
Viaggiare trasformato in fiume
o farfalla sapiente e immemore.
Si ritrovano in una mèta mai
calpestata. Il libro è
quest’alternarsi dei giorni.
Libro aperto di chi ha tolto
il segnacolo a caso. Improvvisamente.
*
Amo quei viaggiatori
che dormono sull’acqua
o accasciati in treno, come Aghios,
occhi socchiusi in un sogno infinito.
Pesci volanti, bambole, murene, silos:
a voi consegno questi
viaggiatori assopiti nel futuro
esistente soltanto
nel palmo di una mano.
Io vi adoro, amatissimi viaggiatori
dell’ieri senza domani.
*
Che tutto avvenga per miracolo
e quel piede che schiaccia
diventi alato. Luci
che si accendono all’improvviso
come in una grande fiera
vicino a una spiaggia innominata.
Che tutto avvenga come dovrebbe.
Il tempo non continua.
*
Ora consola gli incompiuti
perché le labbra pronuncino lentamente
i nomi del confine, quell’orizzonte
in cui si accasciano gli occhi
per creare ancora i passi maldestri
e i destini avidi avventura.
Il tempo non continua.
Non voglio mani pronte a farmi da guida.
Non chiedo altro che una deità che sappia
sgrovigliare il filo che mi appartiene.
Mi bastano i tuoi passi
nel corridoio della memoria
e quella palpebra
che si acquieta respirando con me.
Che ogni storia
si adegui al ritmo alternato
del giorno e della note.
Così, solo per noi,
nudi al risparmio.
Che tutto avvenga come dovrebbe.
*
(Noi morivamo tutti i giorni)
Guizzando come una vipera
da dentro un cespuglio. Occhio nudo
fra le pietre, ignorando la morte rosa.
Secoli di vita
di fronte a rondini in occhi infantili.
Il cortile è rimasto intatto,
ma ora è vuoto, i balconi chiusi,
mute le voci. Ogni cosa
è immobile e trasparente, in questo
istante ultimo, in questo
Tutto che pronuncia la parola FINE.