Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrioGenesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

Giorgio Linguaglossa

LA QUESTIONE DELL’«AUTENTICITÀ» nella poesia di Alfredo de Palchi: Estetica dell’equilibrio (Inedito)

 Mi è stato chiesto da più parti che cosa intenda per «poesie sull’autenticità». Posta l’«autenticità», l’«inautentico» non è la negazione della «autenticità» ma entra in essa come sua determinazione indefettibile. Ne deriva che «autentico» e «inautentico» non sono l’uno la negazione dell’altro ma costituiscono il loro complemento perfetto. Penso che della «autenticità» non si possa dare una definizione, è un concetto che sfugge da tutte le parti, il meno rischiarato dal pensiero filosofico. Cionondimeno, il problema dell’autenticità esiste, è concreto, tangibile, lo avvertiamo in ogni momento della nostra giornata, esso esiste ed insiste, anche e soprattutto nella nostra vita quotidiana, e la poesia non può sottrarsi a questo confronto, ne va della sua essenza, della sua credibilità. Si può fare poesia sull’autenticità anche parlando di uno sgabello rotto o di un orologio fermo o delle proprie mani o del saluto di bambini in un furgone in corsa come ha fatto Kikuo Takano. Anzi, forse, è il solo modo per affrontare questo terribile argomento: parlare d’altro, prenderlo alla larga, girargli intorno. Oppure, come ha fatto Alfredo de Palchi, scrivere sulla fine del mondo, come in questo poemetto di cui presentiamo la sezione «Genesi della mia morte».

Alfredo de Palchi è nato a Verona nel lontano 1926 e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italoamericano, a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il poeta più  asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua grande solitudine stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento. Il suo primo libro Sessioni con l’analista esce in Italia nel 1967 con Mondadori grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni, poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è un destino tutto singolare ma non difficile da decifrare e comprendere. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio La buia danza di scorpione (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri della cella durante la detenzione politica del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica dalla poesia italiana del suo tempo; estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica; negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza italiana, per di più de Palchi era visto con estremo sospetto per via della sua scelta politica in favore del regime fascista.

La poesia di de Palchi era chiaramente delineata fin dall’inizio: una individualità esasperata, un tragitto destinale che diventa tragitto della parola poetica. Il maledettismo di de Palchi non era nulla di letterario, non era costruito sui libri ma era stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento per la sua opera. Da una parte dunque la poesia depalchiana era colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non era comprensibile in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini politici e di schieramento politico. Con l’avvento del neorealismo officinesco e della coeva neoavanguardia la poesia di de Palchi venne messa in sordina come minore e “laterale” e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della sua poesia era stato già deciso e segnato. Finito in fuorigioco, chiuso dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravviverà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava (e risulta) incomprensibile alle istituzioni poetiche nazionali, era una poesia sostanzialmente troppo dissimile da quella letterariamente edulcorata e spregiudicata della Tradizione tardo novecentesca, innanzitutto quella particolare «identità», quella convergenza parallela tra vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di apparentamento della sua poesia con la poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie europee che la rendevano “oggettivamente” indigesta e illeggibile da parte del gusto medio corrente della civiltà letteraria nazionale. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia migliore di quella del Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci, o delle filastrocche di Paolo Volponi che allora andavano di moda, voglio dire che la sua poesia era sostanzialmente estranea e refrattaria anche al decorativo gusto manieristico degli epigoni di Sandro Penna e dei neomanieristi orfici. Il risultato fu una oggettiva e naturale “chiusura” del gusto corrente alla poesia depalchiana.

Oggi i tempi sono maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo» (per citare una dizione di Brodskij), da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Settanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano ma, per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” di Pasolini perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo sperimentale. Questo almeno nelle intenzioni di Pasolini. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile», e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo, con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dagli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione estetica e storica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Secondo Adorno «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1 Il «frammento» e la «traccia», abitano di preferenza la paratassi, essi regnano sovrani nella poesia Alfredo de Palchi. I frammenti aforistici di questi inediti di Estetica dell’equilibrio indicano che si è [un tempo] verificato un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce, in questi graffi, in queste frecce. Il linguaggio è ridotto a lacerti pseudo aforistici, a strappi, a frammenti conflittuali che non chiedono alcuna pacificazione ma semmai di essere trasferiti sulla pagina così come affiorano alla coscienza del poeta. Al fondo del principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è quest’ultima opera inedita di de Palchi, possiamo intravvedere, tramite una lente psicanalitica come una lente di ingrandimento, una sorta di traduzione da un testo originario [la Cosa] che è stato rimosso, da una «Cosa» che è scomparsa.

La scrittura poetica di de Palchi ha questa caratteristica, di voler tentare a tutti i costi di impossessarsi dalla Cosa, entrarci dentro, fare i conti con la Cosa che giace al fondo oscuro del linguaggio dell’inconscio, di fare una poesia «fuori dal significato» e «fuori dal significante». E noi ci chiediamo: Das Ding (la Cosa). Che cos’è la «Cosa»?

Per Lacan la «Cosa» non è «qualcosa»,2 una cosa in sé ineffabile o un noumeno, ma è un risultato dell’azione del linguaggio sul reale. Il linguaggio, agendo sul reale, lo traduce, lo negativizza, ma così facendo produce per differenza anche un «resto» della propria azione: la «Cosa», resto reale che non si lascia più assorbire nel significante.

Tra il linguaggio e la «Cosa» si dà dunque quel legame strutturale di implicazione reciproca che Lacan indica nell’altra proposizione fondamentale: «c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nella realtà di un’apertura beante, di un buco»,3 perché sono le due facce di un medesimo evento, che accadono insieme l’una per differenza dall’altra. È anche in rapporto al linguaggio che si può parlare di un’estimità della «Cosa»: la «Cosa» è un’esteriorità radicale al linguaggio perché come tale è indicibile e irrapresentabile, è «fuori significato», ma insieme è intima al linguaggio perché è un risultato del linguaggio e, una volta accaduto, il vuoto della «Cosa» si installa nella catena significante impedendone la totalizzazione.

Per Lacan la «Cosa» è radicalmente «fuori significato» e quindi fondamentalmente «velata», estranea e irriducibile a ogni significato con cui possiamo tentare di esprimerla; l’installarsi di questo piano al di là del significato intacca il soggetto stesso nella sua esperienza; la «Cosa» è «già per sempre perduta»: una volta entrati nel linguaggio, l’oggetto del primo mitico godimento è «già sempre perduto»; l’esperienza inizia con la perdita e la cancellazione dell’origine e, se l’oggetto del godimento è per sua natura un oggetto ritrovato, «che sia stato perduto è la conseguenza – ma a posteriori – esso viene ritrovato, senza che vi sia per noi altro modo di sapere che è stato perduto se non attraverso questi ritrovamenti».4

In quanto fuori significato e già sempre perduta, la «Cosa» non è mai rappresentata in se stessa ma sempre in modo sostitutivo da «Altra cosa»6: proprio per questo essa «sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro».5

Come abbiamo visto, la «Cosa» nella poesia di de Palchi è la traccia del negativo, la traccia di un «vuoto», di una zona oscura di tutto ciò che è stato fissato libidicamente  ed emotivamente nel periodo della carcerazione preventiva sofferta, è una costellazione di significanti che sfuggono a qualsiasi tentativo di metterli in ordine logico-causale, a qualsiasi razionalizzazione o ricostruzione secondaria degli eventi. In una certa misura, la teorizzazione di Lacan ci può aiutare a capire l’origine della scrittura depalchiana e la sua peculiarissima caratterizzazione espressiva, la sua instabilità semantica e la sua rigidità iconologica.

Come sappiamo, Heidegger viene utilizzato da Lacan in una direzione profondamente diversa. In Heidegger questa analisi si inserisce nel quadro di una descrizione fenomenologico-ontologica che cerca di pensare l’accadere del mondo nel rapporto con la singola cosa e nell’incrocio tra mortali e divini, terra e cielo, quindi pur sempre nel quadro di un pensiero che cerca il senso dell’abitare «poetico» dell’uomo nel mondo come una certa costellazione di significati. Lacan utilizza invece il tema del vuoto per installare nel cuore dell’esperienza un rapporto irriducibile alla pulsione e al godimento, una relazione con qualcosa che è radicalmente «fuori significato» e, potremmo dire, «fuori significante».

Questo «vuoto» della «Cosa», già nel Seminario VII e poi in seguito con l’elaborazione del concetto di «oggetto a», diventa un vuoto causativo del desiderio: che la «Cosa» sia «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung».6 Significa che essa non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto causa del desiderio, il vuoto che alle spalle del soggetto ne causa il desiderio mettendolo in movimento. L’esperienza del soggetto gravita attorno a questo vuoto inafferrabile che lo muove. Tra il soggetto e il godimento della «Cosa» si installa «il cerchio incantato».7 del linguaggio: la tensione verso il godimento assumerà così la forma della trasgressione di una barriera e quello del Seminario VII, come osserva Miller, è il paradigma del godimento impossibile.9 Il vuoto mette in movimento il desiderio del soggetto verso la «Cosa» come oggetto del godimento pieno e assoluto, il cui raggiungimento tuttavia comporterebbe la distruzione dell’esperienza del soggetto, perché questa si sostiene precisamente sulla distanza tra i due poli: «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola»10.

È la concezione stessa del soggetto che si modifica significativamente rispetto alla tradizione psicoanalitica e all’esserci heideggeriano: l’accadere di questo «fuori significato» che è la «Cosa» intacca il soggetto e si incide nella sua carne, perché condiziona tutta la sua esperienza. Il soggetto paga il proprio ingresso nell’ordine simbolico con la perdita del godimento pieno e con la propria istituzione come soggetto radicalmente eccentrico in quanto desiderante. L’«al di là del significato» agisce dunque nell’istituirsi del soggetto come tale. Il soggetto si istituisce scindendosi tra l’ambito significante-linguistico e quel resto «fuori significato» che è la «Cosa» e tutta la sua esperienza consiste nell’oscillazione di questo rapporto, che è quel che ne scandisce il ritmo e ne scrive il dramma. In un certo senso, il soggetto stesso è la «Cosa», non è più il Ci dell’essere, ma ex-iste la «Cosa» e il suo «vuoto».

Questo legame costitutivo tra «soggetto» e «Cosa» porta con sé anche l’importanza dei temi del «supplemento» e del «resto» per ripensare lo statuto del soggetto. Se il soggetto accade in quel movimento differenziale tra linguaggio e reale, se la «Cosa» è già sempre perduta e rappresentata da altra cosa, l’esperienza si istituisce a partire dalla cancellazione dell’origine e consiste nella serie dei ritrovamenti di oggetti sostitutivi che suppliscono a un’origine che non ha mai avuto luogo come tale. L’esperienza del soggetto si svolge dunque in quella che Derrida descrive come «la strana struttura del supplemento: una possibilità produce a ritardo ciò cui è detta aggiungersi» 11.

C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. . . come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi.

1 T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 514
2 Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)
  1. 140.
    3 Ivi, p. 144.
    4 Ivi, p. 141. Cfr. anche pp. 67-68.
    5 Ivi, p. 141.
    6 Ivi, p. 154.
    7 Ivi, p. 67.
    8 Ivi, p. 160.
    9 Cfr. J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, in Id., I paradigmi del godimento,
10 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 81.
11 Id., La direzione della cura, cit., p. 625. Lacan richiama la «libbra di carne» anche al termine de Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 373.
 

Alfredo de Palchi                

da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO

Genesi della mia morte

1-16 novembre 2015

1

È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .

pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .

2

antropoide nemico dell’antropoide determino che sei il prototipo della femmina sensitiva e intuitiva più del figuro maschile Tod a nord. . . massiccio barbaro più temibile di te femmina alle centurie di Germanicus. . . la danza del Tod risplende massiccia nelle vampe che leccano via ingiustizia e ceneri dai forni. . . di tutti incolpevole arrivi all’istante deleterio dentro cui a ciascuna esistenza abbassi le palpebre. . .

3

il due novembre giorno delle ombre in piedi accanto al loro tumulo ostili al Giardino dell’Eden che hanno distrutto lasciando il mito senza ricordo. . . giorno che si tramuta in stranezza irreale quando moltitudini di defunti viventi spasseggiano vivaci nel cimitero. . . leggono lapidi d’ignoti e depositano crisantemi alla lapide d’un familiare. . . un precario sussurrare ssssss invade le tombe. . . da farabutto ogni scomparso diventa probo ma farabutto rimane per l’antropoide vivente che non smette di essere farabutto e assassino di animali docili del mitologico Giardino dell’Eden. . . il giorno dei fiori marciti non inganna il tuo giungere alla equa falcidia. . .

4

alla mia concezione concepisco la tua presenza e in quell’istante di turpiloquio genitoriale un’intesa superna inizia tra noi. . . per mesi in delirio da un male che mi infesta nelle giovani braccia della madre che non mi può allattare. . . a tre anni mi riporti alla vita sul triciclo in fondo alla scala dove mi spinge l’infantile invidia del compagno di giochi. . . mi riporti alla vita una seconda volta quando lo stesso piccolo antropoide mi spinge a stringere nella mano un filo elettrico. . . il corpo scuote fino all’arrivo del nonno che mi sente urlare. . . sei la protettrice e salvatrice dalla mia incoscienza alla coscienza. . . l’aspro tuo sentore d’incenso mi sottrae dagli odori dei defunti vivi che ti odiano senza capire quello che io capisco di te con riconoscenza. . . defunti vivi e perenni ti odiano perché mi felicito della tua beneficenza. . .

5

cosciente mi avvicino mentalmente a te Signora dell’altrove e ti fai riconoscere a soffi d’aria che mi rasentano delicatamente in segno di protezione. . . mi proteggi dalla SS nazista a Peschiera  in novembre 1943 quando misura la mia testa di sedicenne divertito senza sospettare un significato culturalmente criminale . . . la differenza di un millimetro può farmi distinguere ebreo. . . ebreo dalla sedicente scienza del frenologo austriaco Franz Joseph Gall.

6

autunno 1944 a Villabartolomea soldati tedeschi e brigatisti neri ritornano dal rastrellamento di sbandati nel fondo delle valli basso Veronese. . . la mia bionda compagna Ginetta mi avverte di non andare al traghetto sull’Adige. . . tramite la compagna tu mi fai evitare una raffica di pallottole proveniente dal traghetto e finita a bucare due brigatisti all’attracco. . . alla compagna ventenne mai chiedo di chiarire il mio sospetto. . . ci vogliamo bene e tu che mi proteggi sai se il bene talvolta è più forte del male. . .

7

27 aprile 1945. . . quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti. . . io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti. . . in fretta giungono dei soldati americani che impongono fine alla scena schiaffeggiando i quattro musi infazzolettati di rosso bifolco al collo. . . nelle carceri mandamentali mi schiazzano la schiena a cinghiate di cuoio. . . steso sul pavimento di legno mi scarponano mi bruciano le ascelle con fogli de L’Arena. . . e mi forzano a ingoiare una scodella di acqua sapone e peli di barba. . . tu salvatrice che senti i miei urli di aiuto mi liberi dal loro male uno alla volta entro due mesi. . . chi in motocicletta si schiaccia sotto un camion. . . due che annegano nell’Adige. . . e Nerone Cella nome e cognome      anagrafico condannato per rapina a mano armata e violenza carnale. . . e sei anni più tardi liberi me dal mio autunnale maleficio nella Senna. . .

8

l’antropoide che non intuisce grazia e bellezza della tua carità generosa per tua concessione entra nell’oltre senza o con dolori atroci. . . per mali non generati dalla tua irreale verità che lenisce o fornisce altri mali pure generati dal divino volere che l’antropoide crede impresario del tutto. . . io che intuisco le tue manifestazioni di grazia o punitive seguo scientemente l’interminabile scia di strascinanti nel tempio di sacerdoti che in coro eterno vociano a porta inferi. . . un continuo aspro fumo d’incenso svolazza attorno il catafalco universale sopra cui splende la spietata tua presenza del lutto. . .

9

con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .

10

alla mia indifferenza occorre che ogni male canceroso e virale termini dolorosamente la razza antropoide. . . non basta la guerra si getti le carogne dentro fosse e corroderle con la calcina e nei musei cimiteriali. . . non basta il terrorismo  si

consideri  giustizia o crimine. . . non basta il tuo imparziale giudizio o nuovo evento. . . non basta qualsiasi religione sia cancro incurabile. . . non basta il globo terracque sia stracarico di antropoide massa. . . che la tua equa indifferenza la sforzi all’asfissia. . .

11

Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . .  superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .

12

con totale volere disprezzo l’errore di natura la mia razza brutale inferiore schifosa sudiciume da cui provengo e a cui schianto l’anatema. . . che il torturatore in nome della scienza vivisezioni i propri figli. . . che l’operaio del massacro quotidiano nel mattatoio abbia stessa sorte. . . che il cacciatore cada nella trappola sia colpito dalla freccia e dal proiettile. . . che il cucciolo antropoide cresca odiando il padre che lo istruisce a diventare mostro seviziatore e assassino di animali puri abbia la medesima gioia di urlare in pena. . . che ciascun antropoide sia usato abusato seviziato torturato e sbudellato. . . che la mia infima razza si abolisca dalla grande fauna sul pianeta in caduta libera. . . che l’eliminazione della mia razza sia la realizzazione del mitico Giardino dell’Eden. . .

13

con il loro sudiciume miliardi di futili antropoidi sovrappesano sul pianeta che sbalza nel vuoto infinito. . . società e culture di insaziabili divorano tutto di tutto. . . dalla radice ai vegetali alle granaglie dal verme allo scarafaggio dalla talpa allo scoiattolo dal nido di topo al nido di rondine dall‘animale domestico a quello ormai estinto. . . periodi estremi di carestia segnalano generosità della terra che si alleggerisce della quantità enorme di sterco da degradarsi con la mucillaggine cadaverica. . .

14

non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace. . .

15

Madre natura, non è madre, è casualità potente dal microbo alla radice d‘ogno tipo di vegetazione e di animale. . . incluso

l‘animale che presume di essersi dissocato dalla fauna. . . si è autorizzato a ingrandirsi chiamandosi epocalmente una varietà di homo, ipocritizzando la sua vita  microbiologica apice della natura. . . natura è indifferente, micidiale, è di una bellezza inquietante, ed è il male assoluto. . . homo, apice del male, è natura distruttiva e commette pulizie terrestri quante ne combina natura. . . si allegirisce di Homo, diventa morte che non ha immagine. . 

16

periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . .  e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.

 

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55 risposte a “Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrioGenesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

  1. A PROPOSITO DI UN LINGUAGGIO POETICO DELLA AUTENTICITA’

    Prendo spunto da questi inediti di “Estetica dell’equilibrio” di Alfredo de Palchi per lanciare la proposta di una Rassegna sull’ombradelleparole.wordpress.com di poesia contemporanea sulla questione dell’autenticità. Sorge subito un problema: che cosa è l’autenticità? Nella vita privata, nella vita pubblica e in poesia? – L’interpretazione è, ovviamente, libera.

    Nella poesia che si fa oggi vale un unico motto: Loquor ergo sum, parlo dunque sono, l’«io» si auto produce per partenogenesi e si riproduce come una metastasi invincibile: la poiesis è diventata una metastasi che intacca e corrode la «poesia».

    Certo, la grammatica garantisce un ordine, una ratio, una civiltà. Essa può essere da tutti compresa. La sintassi è la legislazione della lingua, è il patto che tutti i cittadini devono rispettare. A volte, leggendo la poesia dei miei contemporanei, mi chiedo se la «poesia» voglia veramente essere compresa da tutti. Il vero problema è se mai si potrà continuare ad esprimere nello pseudolatino internazionale del minimalismo dei nostri tempi i drammi dei tempi nuovi, la vita delle nostre città, i conflitti interpersonali tra gli uomini, la moltiplicazione dei conflitti armati, la mutazione indotta dalla rivoluzione mediatica in atto, l’esodo di intere popolazioni. Le idee e i conflitti di questa età devono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine costituzionale di Augusto l’aveva trovato in Virgilio e il volgare di Dante aveva espresso i conflitti della civiltà delle città-stato.

    Ma c’è oggi un nuovo «ordine»?, c’è una lingua da adottare come proprio linguaggio poetico?, non è diventato già l’italiano poetico in auge una lingua artificiale?, mi chiedo se non siano diventati anche i linguaggi poetici in idioma altrettanti linguaggi artificiali. Impossibile – mi si risponde – perché essi affondano nella matrice matria, radicati, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Dobbiamo davvero credere a questa leggenda? Dobbiamo ancora credere alla deità di una lingua inconsapevole dell’infanzia?, dobbiamo ancora credere alle tesi prescientifica espressa da Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia secondo il quale insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami?. Non c’è nessuna forma locutionis che ci è data per legato testamentario o per eredità, ogni nuova generazione deve lottare, ogni giorno, contro i conformismi della propria cultura e contro i truismi della propria lingua per potersi esprimere con un linguaggio forte e autentico.

    Il problema della poesia di oggi è che abbiamo a disposizione, gratis e disponibile a tutti, un medio linguaggio poetico che è diventato un linguaggio artificiale, conformistico, clericale, non più adatto ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo; ci si accontenta di esprimere le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, le tematiche edulcorate del cuore, il paesaggismo più trito e triviale, il quotidiano più becero; e a tutto ciò si dà il nome di poesia.

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  2. Sono da sempre favorevole alla liberalizzazione delle droghe pesanti in poesia, a patto che chi ne abusa ci abbia la testa per farlo. Comunque, leggendo e dopo aver letto, si ha l’effetto di aver partecipato a un rituale satanico condotto personalmente da Aleister Corwley. Epperò la domanda di fondo, quella di dove andremo a finire di questo passo, considerando che sta mettendo KO i filosofi uno dopo l’altro, si merita una risposta decisa. Onore a De Palchi che ci riesce.

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  3. nessun rituale, nessuna droga pesante, De Palchi attinge dal suo passato, rendendolo in diversi, scabri epigrammi, rendendo anni indicibili, dicibili, perché ci sono le parole per poterlo fare, basta averne la forza e soprattutto l’autenticità. Noi nati e vissuti nel più lungo periodo di pace che abbia imperversato sul nostro continente a discapito altri luoghi e altri popoli, non sappiamo nemmeno cosa significhi, perché non ci siamo passati. Queste di De Palchi, sono opere d’arte, senza alcun dubbio

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    • Sul fatto che le poesie di De Palchi siano opere di altissimo livello non ho dubbi. Ho avuto qualche resistenza, all’inizio. Non è un autore che fa complimenti; è scomodo, non solo per gli storici ma anche, esistenzialmente, per il lettore. Ora leggo standomene in platea e prendo appunti.

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    • Sono due giorni che torno e ritorno su questa pagina della Rivista, leggendo, rileggendo, segnando a penna punti e spunti…innanzitutto grazie per tutto questo. Poi, mi permetto solo di riprendere un rigo del commento di Flavio (Almerighi) per dissentire: “Noi nati e vissuti nel più lungo periodo di pace che abbia imperversato sul nostro continente a discapito altri luoghi e altri popoli”….le guerre ci sono, ancora, oggi, soltanto che in troppi non hanno gli occhi per riconoscerle, poiché anche loro, le guerre, hanno mutato l’espressione, hanno trovato nuovi linguaggi, e si combattono con altre armi…non cadiamo nell’inganno di chi dice – e vorrebbe convincerci di tanto – che oggi siamo “in pace”, perché asseconderemmo un gioco ancora più sporco.

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      • certo che le guerre ci sono e più che mai! Ci mancherebbe, ma noi ci culliamo dentro un senso di pace, pensando si tratti di roba lontana, che ci riguarda solo a livello di solidarietà e pacifismi pelosi. Che poi la Merkel stia riuscendo a ribadire l’egemonia tedesca sul continente con una moneta anziché coi panzer, è un’altra questione. Ne approfitto per sottolineare la profonda concretezza, altro tassello dell’autenticità, negli scritti di De Palchi, morto giovane, eppure sempre tra noi forte sentinella indistruttibile. Capace di sovvertire ancora il linguaggio poetico.

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  4. Sto da diversi giorni leggendo e rileggendo Estetica dell’equilibrio, un capolavoro assoluto, dal quale vorrei, per l’immensa generosita’ di De Palchi, selezionare alcune proposte per il prossimo numero di VR. Sono davvero grata a Giorgio per questo articolo illuminante che mi completa la visione dell’opera. Ben oltre l’autenticità …

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  5. ubaldo de robertis

    Riguardo all’autenticità in poesia posso sbagliarmi ma credo che per prima cosa sia il poeta a dover cercare di essere autentico e di darne conto attraverso la scrittura. Autenticità di fronte al periodo, alle situazioni che sta vivendo. E come si può essere autentici in tempi di globalizzazione delle menti e delle coscienze? Un presente con poche speranze e denso di incertezze? Come si accede all’autenticità in questo angosciante scenario?
    Per quanto attiene ad Alfredo de Palchi ritengo che la sua opera poetica sia interessante e da approfondire (e questo sto personalmente facendo). Credo che una volta riportata all’attenzione del grande pubblico potrà influenzare molte giovani generazioni di scrittori.
    Il coinvolgimento diretto nella guerra civile, poi lo choc della prigionia, hanno completamente stravolto le coordinate della sua giovane vita. Da qui gli scenari e la disumanizzazione di cui parla.
    Riemerso dall’abisso in cui era stato gettato si è riappropriato della libertà, non certo quella astratta e disincantata dell’uomo d’oggi. Un altro senza le sue qualità avrebbe perso ogni possibilità di rinascita, de Palchi, invece, ha avuto il merito di esaminare la propria complessa condizione dopo averla saputa analizzare autenticamente. L’eccentrica natura di vero artista ha fatto il resto.
    Della capacità di superare gli eventi negativi della vita, Alfredo de Palchi è riuscito a fare il suo punto di forza.
    Ubaldo de Robertis

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  6. Ho il sospetto che il Tempo sia la chiave per scoprire ciò che è autentico da ciò che non lo è. Per esempio questa canzoncina cantata da Fred Buscaglione suona incredibilmente autentica alle mie orecchie…

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  7. “Genesi della mia morte”, da Estetica dell’equilibrio, di Alfredo de Palchi, letto da Angela Greco

    Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrio – Genesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

    Genesi della mia morte, tratta da Estetica dell’equilibrio, inediti di Alfredo de Palchi, è un susseguirsi in prosa poetica di avvenimenti che in sedici giorni (in apertura è riportata la data 1-16 novembre 2015, presumibilmente riferibile ai giorni in cui il poeta ha segnato su carta quanto oggi si legge) ripercorre, ma sarebbe meglio dire ripropone in una veste differente da quella conosciuta ed accettata, la genesi del genere umano e la stessa esperienza di vita di Alfredo de Palchi, classe 1926, veneto emigrato negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, dopo essere stato prosciolto dalle accuse che lo avevano portato in carcere ai tempi del secondo conflitto mondiale. Dell’intera vicenda poetica depalchiana, sempre in simbiosi con la biografia del poeta stesso, si sono occupati Roberto Bertoldo, che ha curato il volume delle opere complete del poeta italo-americano, e Giorgio Linguaglossa in diverse pagine della sua rivista telematica e in un breve saggio (a cui si rimanda la lettura per meglio conoscere ed approfondire la conoscenza con questo autore) preciso e non reverenziale, appena uscito on-line su L’ombra delle parole (11\9\’16), in cui, partendo proprio dagli inediti di Genesi della mia morte, il critico pone ai lettori la questione dell’autenticità in poesia e nello specifico in quella di Alfredo de Palchi, esaminando il percorso che dagli anni Sessanta ad oggi ha visto questa poesia sempre e comunque estranea alle correnti in auge in Italia, prima protagonista e successivamente grande esclusa della scena letteraria nazionale ed oggi nuovamente riconsiderata da coloro che hanno preso coscienza della nuova strada da intraprendere per dare una nuova direzione \ per uscire dall’epoca “della stagnazione” come lo stesso Linguaglossa definisce questo periodo in cui ci troviamo a vivere e a scrivere.

    La prosa poetica dei sedici “quadri” di Genesi della mia morte, si apre con una definizione priva di diplomazia e buonismo nei confronti dell’Uomo – chiamato dal poeta “antropoide” con un non celato rimando all’automatismo, alla meccanica, alla robotica, tutti elementi che mirano alla sottrazione di umanità – e snocciola paragrafo per paragrafo la vicenda umana dell’autore e del tempo che ha attraversato e lo ha attraversato, creando un meta-ambiente che non è più né l’uno (la vicenda umana) né l’altro (il tempo in cui accadono gli avvenimenti anche storici), ma è un nuovo mondo-luogo dove via via l’antropoide prende consapevolezza della sua natura, altamente dissimile e decisamente lontana dal destino religioso-utopistico-positivo in cui si finisce per credere, forse per retaggio o forse per apatia, e a cui è avviato l’uomo fin dalla nascita.

    Genesi della mia morte è la partita a scacchi de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, un bianco e nero dato non già dall’assenza di mezzi cinematografici che contemplino il colore, ma come scelta estrema di assenza totale di orpelli, di blandizie, in favore di un momento privilegiato – il dialogo con la Morte – in cui non conta più tutto il superfluo di cui si è stati capaci fino a quel momento ultimo.
    In queste sedici brevi prose la narrazione procede dal luogo più vicino verso il più lontano, includendo in questa genesi se stesso e il genere umano tutto, la natura e lo stesso pianeta che l’uomo abita, e in esse l’autore si mantiene sempre all’esterno, sopra le parti, pur partecipando con passione del destino suo e non solo suo, e al contempo dicendo esattamente quello che pensa e prova dinnanzi alla realtà e al suo deterioramento. In un capovolgimento degno di chi ha fatto i conti anche col momento più duro e difficile della propria vita, il poeta dice che in fin dei conti il suo permanere ancora tra i viventi è stato solo una scelta della Morte stessa e, giunto ad un punto di non ritorno, addirittura suggerisce a questa signora mai nominata, ma riconoscibilissima, alcuni accorgimenti “per migliorare” la situazione ormai disperata in cui verte ancora anche egli stesso (forse pensando al futuro, partendo dalle condizioni attuali), come si legge nel “quadro”n.11: “Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . .gestiscili (gli esseri umani) nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .” Inevitabilmente giunge il momento finale: il poeta ammette che la “razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore” non terminerà nonostante gli eventi traumatici naturali e non che di quando in quando decimano la specie, e, dopo una vita intensamente vissuta e dopo essere sopravvissuto a tutti i tranelli che la stessa gli ha teso, serenamente chiude questi inediti immaginando una “fine suggestiva”, come da lui stesso definita, consistente nell’ “assistere allo svuotarsi del pianeta” e nel fatto che la Morte stessa smetta di proteggerlo, liberandolo una volta per tutte da quello che lui definisce “male globale”. Ed una volta liberata la terra dall’uomo, ormai identificato nel male di grado più elevato, il pianeta potrà tornare, chiudendo quasi il mitico serpente che si morde la coda, ad essere quel Giardino dell’Eden da cui ebbe inizio la stessa vicenda umana.

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  8. antonio sagredo

    se è degno di nota il commento del Linguaglossa (i suoi commenti non sempre lo sono, ma quando centrano il bersaglio è inutile aggiungere qualcosa ancora quanto sono esaustivi !)… più degni di attenzione sono le riflessioni semi-amare e semi-sceniche del De Palchi, che assieme ai versi meriterebbero di essere recitati, poi che sono altamente recitativi per il pathos tragico che li sostiene… raffrontando in maniera sincronica e sia diacronica la produzione del Poeta posso affermare che difficilmente è possibile accostare un poeta italiano per tutti i periodi cronologici e storici che si son succeduti per quasi 70 anni… non abbiamo dei Villon italiani, ma De Palchi lo è ben più di Pasolini o di qualche altro “scellerato”… che figura ci fanno i Nobel italiani (mi riferisco a Quasimodo e Montale ovviamente!, che non sono affatto massimi né mediomassimi, quando precedentemente c’è stato un Campana Dino che li ha stesi al tappeto! – Carmelo Bene andò a trovare a Forte dei Marmi il secondo e mentre gli parlava di poesia, quello faceva barchette, (avrebbe fatto meglio a fare marchette!! -e da buon salentino lo mandò al diavolo!) –

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  9. Giuseppe Talia

    Essendo in corrispondenza privata con il Poeta De Palchi, posso testimoniare dell’autenticità del suo pensiero filosofico e poetico che sta dietro a Genesi della Mia Morte. Spesso mi esorta a nutrirmi di radici invece di cibarmi di cadaveri (e come dargli torto?), della cattiveria dell’antropoide autodedominatosi Homo (e non è sotto gli occhi di tutti?), dell’Eden che è su questa Terra, questo meraviglioso pianeta che abbiamo il dono di abitare, del nulla che aspetta tutti noi che prima o poi dovremo lasciare. Della Sua resistenza nonostante gli acciacchi, della Sua Storia che ha prodotto ferite mai rimarginate, delle invettive, della complessità del suo dettato poetico, del Suo grande amore per la poesia, quella italiana in particolar modo, che ha sempre divulgato e promulgato, e avrebbe potuto anche disinteressarsi della patria poesia dopo tutte le vicende dolorose che ha subito.
    Ben vengano le tesi di laurea sulla poesia di de Palchi, i dottorati di ricerca, spero, in futuro. Ben venga la sistemazione della sua opera a cura di Bertoldo, come ben venga questa nota di Linguaglossa davvero illuminata.
    Io, personalmente, credo che dopo Montale, nel secondo novecento, in Italia ci sia solo de Palchi. Mi riferisco ovviamente al primo Montale, agli Ossi di Seppia, paragonabile, per forza innovativa, alla Buia Danza di Scorpione.
    Il resto lo dovrà fare una seria storiografia, sempre se ce ne sarà una in grado di sistemare “l’irregolare” de Palchi nel posto che merita.

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  10. Costantina Donatella Giancaspero

    Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrio – Genesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

    Giorgio Linguaglossa pone la questione dell'”autenticità”. Si domanda – e, in modo indiretto, lo domanda a noi -, cosa sia l'”autenticità”, un concetto che, a suo avviso, “sfugge da tutte le parti, il meno rischiarato dal pensiero filosofico”. Ne sfugge la definizione precisa: eppure l’autenticità esiste, anche nel suo “complemento perfetto” di inautenticità, e si manifesta in modo concreto nella nostra vita. Siamo d’accordo, dunque, che non può esserne privata la poesia, che della vita si fa esploratrice, interprete, rappresentante. Ma come deve parlare la poesia per suonare davvero autentica? Attraverso quale linguaggio? Di sicuro non con quello odierno, ammonisce Linguaglossa, “artificiale, conformistico, clericale, non più adatto ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo”, incapace di scandagliare, di rappresentare, direi io, quella concretezza del vivere che fa autentico il nostro essere. E, allora, parafrasando Umberto Saba, cosa resta da fare ai poeti? Ma la poesia “autentica”, è ovvio!
    Certamente, possiamo riconoscere negli esiti originalissimi della poetica di Alfredo de Palchi il pregio dell’autenticità. Pertanto, è su questo geniale poeta, ormai da molti decenni “esiliato” negli Stati Uniti – perché, come si sa, “nemo propheta in patria” -, che dobbiamo riflettere; ed è dalla lettura della sua poesia che la Poesia, la nostra, deve tentare di ripartire, per tirarsi fuori dalla palude in cui ristagna. Alfredo de Palchi, invece, alla veneranda età di novant’anni, è tutt’altro che fermo: non smette di sorprenderci con una scrittura avanzatissima, come rivela l’ultima sua produzione, di cui le 16 prose poetiche racchiuse in “Genesi della mia morte” rappresentano un vivido esempio. È un parlare spietato il suo e, proprio per questo, autentico: affronta il tema della morte intesa anche come fine ultima e totale, distruzione dell’umanità intera ad opera dell’uomo, definito, nemmeno uomo, ma “antropoide”. E, una volta estirpato lui, vero male del mondo, la Terra sarà il Giardino dell’Eden che era. Ma, a questo punto, nient’altro ci dice il poeta: nessun indizio o previsione, nessun auspicio su un improbabile domani… Alla fine del poemetto, resta soltanto l’eco della sua voce, voce poetica vigorosa, graffiante, implacabile. Una voce necessariamente autentica e autenticamente necessaria, per denudare il Re… Per denunciare l’inautenticità dell’Uomo.

    Donatella Costantina

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  11. Abbiamo voluto inserire oggi un articolo scientifico sul «tempo» dopo la inaugurazione degli inediti di Alfredo de Palchi, un uomo e poeta «senza tempo», giunto alle soglie dei Novanta anni ma più giovane di tutti noi, un maestro indiscusso che ha sempre scritto una poesia ostica da leggere e da degustare, se intendiamo la degustazione di una poesia alla maniera di come si può gustare la lettura di una poesia degli Ossi di seppia (1925). Che cosa voglio dire? Dico soltanto che c’è in Italia una tradizione di poesia non allineata, non configurabile in termini di scuola e di scuole e di correnti artistiche, una poesia non eufonica… insomma, una poesia non facilmente digeribile per i palati raffinati. Lo dico qui e lo confermo: tra la poesia di un Sandro Penna e quella di un de Palchi la distanza è incolmabile, sono due orologi atomici incompatibili. Se si ha preferenza per la linea melodica eufonica di Penna, allora è meglio lasciar stare la lettura di de Palchi, non se ne verrebbe a capo di nulla. Si tratta di due modi molto diversi di intendere il ruolo e la funzione della poesia.

    Mi stupisce una cosa: che nel novantenne de Palchi ci sia una carica di innovazione stilistica rivoluzionaria, mentre quando leggo i giovani poeti di oggi resto affranto dalla loro mancanza di coraggio intellettuale, il loro linguaggio poetico risulta prevedibile. Ecco, siamo arrivati al punto: il linguaggio poetico del novantenne de Palchi è assolutamente non prevedibile, graffiato e graffiante, urticante e urticato, intrattabile, irritabile… non mi sorprende che la poesia di de Palchi non piaccia e non sia mai piaciuta ai letterati italiani, questo lo ritengo un attestato di valore per quella poesia, una certificazione di origine di qualità. Il poeta de Palchi fa una poesia che non deve piacere, che non è stata scritta per essere degustata, non è una poesia edonistica, non assume fraseologie ad effetto o intellettualismi da intellettuale di corridoio, è una poesia autentica, che sente il peso della responsabilità del fare poesia oggi nel nostro mondo frivolo e benpensante.

    Dopotutto, sono convinto che l’effetto tempo di cui ci parla oggi l’articolo di Claudio Borghi farà piazza pulita di tutti i libri di poesia che si sono stampati negli ultimi 40 anni , ne resteranno pochi. Se resteranno. E se esisterà ancora l’«antropoide», come lo chiama de Palchi.

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  12. Salvatore Martino

    Assolutamente illuminante e chiara questa nota di Linguaglossa. Faccio invece molta fatica a penetrare nella sua coltissima introduzione: la “cosa”, Lacan, Heiddeger Mamma mia che difficile lettura. Io non ho i mezzi per penetrare questi filosofici meandri, ci provo ma poi desisto per insipienza, anche se poi umilmente ci ritorno cosparso di cenere. Ma è troppo forte la mia domanda: sì ma dopo?. E affronto De Palchi c on la stessa umiltà. Mi attengo al suggerimento di Giorgio che la sua poesia non deve piacere e infatti non mi piace. intuisco di attraversare un labirinto poetico dove ci si prede senza filo o Arianne. Poi arrivo a questi versi:

    “non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace.” . .
    e trovo la poesia autentica memorabile. Dovrò tornare indietro e in religioso silenzio leggere e rileggere ancora questi versi, accostarmi al loro mistero, e comprenderne la portata rivoluzionaria-
    Giorgio carissimo nella mia folle speranza,e credo che Salgedo anch’egli di sé lo pensi, guardo le mie pagine scritte durare qualche decennio nella memoria di pochi.

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  13. Posto qui una interessante critica di Adam Vaccaro alla poesia di Alfredo de Palchi:

    Dettami e Risorse del Paradigma di Alfredo de Palchi
    di Adam Vaccaro

    Due nomi subito connessi alla scrittura di Alfredo de Palchi: François Villon e Arthur Rimbaud. Del primo troviamo anche sentenze poste in esergo – la prima, Ce monde n’est qu’abusion. E di Rimbaud, richiamato pure in qualche testo, ricordo che sottolineava l’importanza del punto di partenza, umano o creativo, infernale o no. L’età adulta di de Palchi inizia nell’immediato dopoguerra in modo orribile, con anni di carcere e sevizie, per accuse di crimini poi risultate infondate. Impossibile immaginare sofferenze e segni inferti al Soggetto Storicoreale (SSR) in quel cupo recinto di spazio-tempo. Abbiamo però i versi che vennero graffiati, prima su muri ignobili e poi trascritti su carta dal Soggetto Scrivente (SS). Versi de La buia danza di scorpione (1947-1951), parzialmente in Sessioni con l’analista (1967), interamente in The Scorpion’s Dark Dance (California 1993) e infine in Tutte le poesie 1947-2005 di Paradigma (Mimesi-Hebenon 2006), cit. PT, e in Selected Poems 1947-2009 di Paradigm (Chelsea Ed., 2013), cit. PA.
    Scelgo, non solo per il titolo, la poesia Paradigma del 1964, testo esemplificante una scrittura che, se molto ha cambiato lungo il suo percorso – inevitabilmente, se si concepisce la scrittura come traduzione di quanto sperimentato fuori dalla pagina – rimane costante nel nucleo profondo di stile, innervato nella ricerca di adiacenza e/o di coinvolgimento della totalità del SS. Questa composizione lo evidenzia con efficacia e forza straordinaria attraverso la tessitura di una catena di immagini e suoni del senso – in O/U, occhio-uovo-uomo-uragano –, che compongono una circolarità aperta, spiraliforme. Chi sa penetrare il reale distrugge le sovrastrutture false o superflue e apre, crea. La serpe è fatta simbolo e “mano stupenda”, “paradigma”, che congiunge alto e basso di sé (piede e mano) col suo occhio freddo, che però non cade in deliri (raziocinanti) di onnipotenza o sbocchi nichilisti, perché coinvolge il (pro)fondo fragile: scrigno ignoto di sacro e lingua che apre a re-azioni (da re di sé) vitali e biologiche, territorio mobile emozionale da cui può scaturire nuova energia e possibile rinascita. Una tensione antropologica e civile, ma lieve di ideologia.
    È una poesia trasparente e complessa che non basta a se stessa, germinata da storia, geografia, esperienze di gioie e dolori, pensiero, amori, giudizio e carne, insomma dalla totalità e unicità del SSR, tradotta dal SS in una forma nuova-antica, voce di senso umano, anche quando questo sembra perso senza rimedio.
    La modernità della scrittura depalchiana sta nel suo intreccio fenomenologico, che non ha soluzioni e ci chiede perciò la responsabilità di direfare, qui e ora, rovesciando la morte della vita imposta da orrori e poteri: “Fra le quattro ali di muro/ circolo straniero a pugno/ serrato…la parola è nella bocca dei forti”; “Concluso tra vilipendio/ e menzogne/…non so chi e cosa dovrebbe/ capitare a un figlio come me/ un quaderno di scritture per testimonianza” (PA, p.22); “mi mangio maturando e sulla pietra/ raspo per una vita dissimile” (PT, p.82); “Pane è pietra/ la sete pietra/ ho metri di pietra/ mordo la pietra”, ma “C’è in me dello spazio”, ”muro lustro d’aria”, “di me che sogno di uccidermi” (PA, p.24); “Il pezzo di pane mi nutre/ in una putredine di patria” (PT, p.71); “la collera della mia età è uno strappo/…entro me lacerato.” (PA, p.160);
    “ciò che non vorrei apprendere o ammettere/ fra un miscuglio incongruo di oggetti/ di gente senza direzione/ che precisi i punti di ‘partenza ‘arrivo’/…formando…una roccia/ di collera nel ventre e vulnera/ la pera del cuore” (PT, p.192).
    L’importanza dell’origine e dell’alveo costitutivo è, per de Palchi, L’Adige: “il principio/…con l’abbietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni”; “Mi dicono di origini/ sgomente in queste acque: qui sono erede/ figlio limpido – ed amo il fiume/ inevitabile” (Il principio, PA, p.4).
    Ma il Sé non può dire di sé, se non viene oggettivato dall’Altro della Lingua, per cui è inevitabile il rischio di parole-suono appagate solo di se stesse e del fascino di intrecci di falsovero, che a volte oscurano la gioia di conoscere. Aiutano il Resto e le lingue del corpo: “Ti si offende…malmenato sulla cassa rovesciata/ e ti si sgozza l’intelligenza, mentre il sangue ti sballotta” (PT, p.82).
    E se tra origine e corde in atto di falsità “Nessuna certezza/ dalla spiritualità arcaica del mare”, “conscia/ dell’inarrivabile bagliore” (PA, p.146), viene fatta fonte di vita la sua negazione, in una riversa clessidra di nuovo inizio: “Uovo che si lavora nella luce ovale/ nuovo adamo/ invigorisco nell’altrui simulazione”, seppure “anch’io sono, io/ mi credo” (PA, p.20).
    Il punto fermo è che “In mano ho il seme/ nero del girasole –/so che la luce cala dietro/ l’inconscio…e ho questo seme/ da trapiantare” (PA, p.6), “Nel chiasso/ di germogli ed uccelle/…trebbie e cortili che alzano un fumo/ buono di letame”; “Estate/ frutto propizio seno biondo/ …calata di sensazioni// nel belato d’alberi…tutto scompiglia: il verde-/ verde” (PA, p.8); “Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana/ bellezza mi viene sui ginocchi//…la bruttura che possiede” (Carnevale d’esilio, PA, p.20).
    Dunque, tra canto e orrori, “Ciminiere fabbriche/ del concime e dello zucchero/ barconi ghiaia e qualche gatto/ lanciato dal ponte/ snaturano questa lastra di fiume/ questo Adige” (PA, p.10); “tra convulsioni di case/ e agguati…mentre scoppiano argini e barconi/ nuoto” con i “miei pochi anni”, mentre “Ad ogni sputo d’arma scatto/ mi riparo dietro l’albero e rido/ isterico” (da Un’ossessione di mosche, PA, p.12); mentre “Una madre sradicata del ventre geme/ per il figlio/…al palo del telegrafo penzola con me/ afferrato alle gambe (PA, p.14), sognando di “Non più/ udire il tonfo dei crivellati nel grano/…negli incendi e bui guazzi/ nell’Adige// vedere un branco di vili osservare/ chi s’affloscia al muro” (PA, p.16); mentre “Al calpestio di crocifissi e crocifissi/ sputo secoli di vecchie pietre/…e sputo sui compagni che mi tradirono” (PA, p.18)
    La guerra e le sue ignominie sono l’inferno da cui il SSR cerca possibilità di risalite. Trovate nella donna, centralità solare e energia vitale che consente di proseguire, anche se immersa nelle stesse contraddizioni irresolubili dell’uomo, tra tensioni di infinito e deliri di potere dell’Io. Dunque donna non idealizzata o spiritualizzata, ma corpo materno e fraterno, simile e diverso, unica nostra possibile prateria di liberazione: “accoglimi nella bocca materna/ soffice, nutriente di liquidi/ sorgenti dal vasto terreno che poco si adegua/ alla pochezza di me imbrattato”; “la chimica della mia materia/ precipita nella tua che si rinnova” (PA, p. 220); “sei l’acqua dell’origine che sporge/ la tetta gonfia di maternità/…uguale al serpe ti assorbo intera/ e tu da madre terraquea/ chiami alla nascita il mio ritorno all’aurora/ del grembo, la dimora/…per lo spirito in frammenti (PA, p.320).
    La poesia di de Palchi scuote la nostra identità lacerata da modernità e post-modernità, per riproporre tra tanta inconsistente poesia di carta la disperazione e l’orgoglio di un paradigma di senso e di utilità antropologica della propria parola. Sapendo che ogni segno-parola (verde, uovo, uomo, serpe…) è su un crinale di sensi polisemico, e siamo solo noi a declinarlo in positivo o in negativo.
    Il canto della vita che esplode contro “il mostro del vivere in mezzo/ al verde brutale, acido/ / il silenzio nel silenzio del silenzio” (PA, p. 290); “Dichiara il sistema del silenzio,/ sporca la pagina con la goccia di letame, / che ogni crescita spunti” (PA, p.288); Giallo// rosso cinabro// arancione/ il verde malato dell’autunno che trasgredisce” (PA, p.292);; “ Che dire di noi/…con quattro gatti/ che appiattiti sul tavolo/ seguono lo scorrere della penna/ su questa carta;/ nei loro occhi noto la lucentezza/ di te, di tutte le donne/ – forse solo questo volevo dire” (PA, p.210); “Sei: anagramma, motore/ ricettacolo, luce”; “sono: anagramma, asso/ asmatico, virilità” (PA, p.184); “Concepire l’assoluto naufragio….niente in vista/ eccetto un puntiglio rozzo/ nella corrente non ortodossa –/ ma la forza dell’errore compulsivo/ mi afferma/ per la controcorrente che conferma statica/ la posizione finché la mia totalità/ si esaurisce contro quella immune forza” (PA, p.170), “e la serpe che si sguscia/ abbietta, umana” (PA, p.252).
    L’azione della scrittura di de Palchi è su una corda sensibile e vitale, necessaria quanto più è conscia che “il mondo è un abuso”. La poesia si fa arma estrema contro tale abuso, che tende a uccidere in noi orizzonti di speranza. Morire vivi, senso di “Contro la mia morte” (Padova, 2007 e PA, p.376).

    Paradigma

    L’occhio della serpe è un qualsiasi dio –
    uragano che scopre fondamenta
    travi chiodi
    e con la spirale centripeta spazza
    il quotidiano lasciando al raso
    il reale più fecondo

    Questa la serpe bella fredda
    testa piatta a triangolo a stemma
    di religione – l’amo perché strisciando
    sibila con sveltezza la lingua
    sulla centrifugazione degli oggetti
    e nell’occhio centra stolidamente
    le emozioni di chi non sa reagire

    Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
    qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
    il piede: la mano stupenda – il paradigma.

    1964

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  14. giorgio linguaglossa

    Sì, il Grande Progetto… Perché “Cosa resta da fare ai poeti?” Resta da fare la poesia “autentica” da lombradelleparole.wordpress.com

    caro Salvatore Martino,
    il problema non è tanto quello di «avvicinarsi al mondo della scienza», come tu scrivi, il problema è un altro, e lo vado ripetendo da alcuni anni: che la poesia italiana dal Satura (1971) di Montale e Trasumanar e organizzar (1968) di Pasolini in poi, si è ritirata dalla scena pubblica per adottare un «palcoscenico privato», si è messa a fare le «barchette di carta», «versicolori», si è espressa con un linguaggio «giornalistico» (Montale e Pasolini), ha creduto in una «balbuzie», in un «mezzo parlare», il tutto espresso con un linguaggio derivato dalla prosa, unilineare e unidirezionale, dove il tempo della sintassi è quello cronometrico che possiamo controllare con l’orologio da polso e lo spazio è quello della proposizione, è uno spazio proposizionalistico.

    Insomma, se noi fissiamo la data di Satura, il 1971 come inizio del declino della poesia italiana possiamo capire qualcosa di quello che è accaduto dopo. E pensare che in Svezia il primo libro di Tranströmer, 17 poesie, è del 1954 !!! – il libro più rivoluzionario della poesia europea risale al 1954.

    Qui da noi l’unico poeta che possiamo proporre è l’eretico de Palchi il quale nel 1967 pubblica un libro rivoluzionario: Sessioni con l’analista, per l’interessamento del benemerito Vittorio Sereni, che però è passato inosservato ed equivocato come un libro di psicologia applicata! – Io, in qualità di critico ho l’obbligo, caro Salvatore, di ristabilire la verità estetica dei fatti estetici, e quando affermo che de Palchi è oggi il più grande poeta italiano vivente, credo di non dire abnormità.

    de Palchi fa a suo modo quello che Tranströmer ha fatto in Svezia (in un differente contesto culturale e politico). de Palchi fa letteralmente a pezzi il «tempo» della poesia italiana, lo disintegra e lo fissa allo stadio storico-libidico della propria adolescenza che coincide con un momento cruciale della storia d’Italia: la guerra civile o guerra partigiana contro il regime fascista e i nazisti. Per de Palchi il tempo non esiste, si è dissolto allora, quando diciottenne aveva imbracciato il fucile dalla parte sbagliata per amore di patria. La poesia di de Palchi non ha tempo, il tempo si è fissato, raggelato per sempre in quel momento quando il giovane poeta spara per la prima volta contro i «ribelli».
    Ecco uno stralcio della poesia:

    (il camion traversa il paese
    infila una strada di campagna seminata
    di buche / ai lati fossi filari di olmi /
    addosso alla cabina metallicamente
    riparato pure dai compagni che al niente
    puntano fucili e mitra)
    – capisci che si tratta di strumenti –
    (ho il ’91 tra le gambe)

    di colpo spari e io
    – già nel fosso –
    alla mia prima azione guerriera non riuscii…
    me la feci nei pantaloni kaki
    l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
    “leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
    – fu l’ultimo sparo in ritardo –
    dal fosso del cielo di pece
    strizzando gli occhi
    la faccia altrove – risero:

    “sono scappati
    hai bucato il culo bucato dei ribelli”.

    – capisci? se la ridevano –
    mentre io non pensavo
    no, alla preservazione.
    La intuivo nel fosso -.

    Mentre Tranströmer inizia in Svezia una rivoluzione della forma-poesia adottando il «tempo» quale categoria centrale sulla quale edificare la propria poesia, qui da noi de Palchi invece disintegra il «tempo», lo annichila e lo raggela una volta per tutte. Solo che Tranströmer avvia in Svezia la rivoluzione del linguaggio poetico, qui da noi de Palchi viene stimato come un poeta psicologico, per aggiunta reazionario e quindi non presentabile.

    È inutile dire che, a mio modesto avviso, la migliore poesia europea da allora avrà il fattore «tempo» al centro del fare poesia…

    Perché il Grande Progetto si costruisce ogni giorno, ristabilendo la verità dei veri valori estetici. Riprendendo quello che ha scritto Costantina Giancaspero: «Sì, il Grande Progetto… Perché “Cosa resta da fare ai poeti?” Resta da fare la poesia “autentica”».

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  15. Con riconoscenza ringrazio Giorgio Linguaglossa, uno dei pochissimi antropoidi a cui rivolgo la mia voce a volte cinica o sarcastica. Di certo leggo e ascolto I suoi articoli sulla mia opera e immodestamente li accetto come verità. Anche la sua spiegazione diretta a Salvatore Martino. Ma colgo l’occasione per dirgli che quando menzionaa la mia opera con quella di P.P.Pasolini non mi ono ra. Da quale opera in versi di Pasolini possiamo estrarre versi avvicinabili di senso ai miei presentati alla fine del saggio di Adam Vaccaro!? Neppure con le filastrocche di Paolo Volponi il quale mi regalò una copia con dedica d’un suo volume degli anni 1960/ Molto rumore per P. e V. per gran poco. . . inoltre ringrazio i generosi e le generose per I preziosi commenti letti balbettandoli seguendo la mia difficile vista. Ancora ringrazia fornendo una frase che mi ripeto quando mi occorre e che l’ho scritta una sola volta prima di oggi. Credo sia la mia semplice risposta all’autenticità in discussione: “Poesia non serve a niente, la si fa e chi ce l’ha davvero è un malato artista”.

    Ho due osservazioni e una apologiaa;

    a Lucio Mayor Tosi:
    Le droga in generale non mi attrae, preferisco un ottimo vino rosso, ma sono d’accordo con la sua opinione. Non lo sono se l’irresponsabile mi fa responsabile della sua vita. Non mi interessa.
    Se nell’ottocento l‘inglese “poeta” che lei menziona era un addetto a satana doveva credere in dio. Io non ho religione e non ho dio. Quindi, quel poeta non riuscirebbe mai a condurre un rituale satanico. La sua immaginazione, come si presenta, non è la mia realtà. Guardi, non sono contro alle messe nere eccetto se nel gioco si commettono sacrifici di animali. Chiederei, d’accordo, siete vili, ma trovate il coraggio di sacrificarre i vostri antropoidi padri e figli.

    a Salvatore Martino:
    Da tempo so bene di aver esagerato con parole esagerate, e adesso che lo rivedo qui le chiedo di accettare le mie apologie. La saluto cordialmente.

    a Angela Grco–AnGre
    Tra i nomi di interessati alla mia opera si deve aggiungere Luigi Fontanella, il quale l’ha trattata a lungo. Mi sposai con una ebrea (non religiosa) americana a Parigi e attese circa sei anni per sentire che accetto di trasferirmi con lei in America. E soltanto se senza difficoltà si poteva portare con noi Gigi, la mia gatta parigina. Arrivai a New York con l’ansia di aver lasciato Parigi. Mi abituai alla città e alla sua vitalità, e ancora EUROPEO abito qui come italiano residente in America e non come italo-americano. Un abbraccio.

    P.S.– se trovate errori d’ogni sorta, mi scuso. Non rileggo proprio perché non vedo quasi niente.

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    • Grazie dell’abbraccio che ricambio con stima, anche solo virtualmente, ma grazie ancor di più per le precisazioni che non mancherò di segnare sull’originale del mio commento. E’ un grande insegnamento leggere “europeo” in maiuscolo e ancor più “italiano” residente in America. Felice anche per la sua Gigì, che tanto dice della sua persona. Un caro saluto.

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    • Salvatore Martino

      Gentilissimo de Palchi da vero gentiluomo lei mi dedica due righe incisive e pregnanti circa l’uso delle sue apologie. Sono commosso da codesto gesto di profonda signorilità..e chissà conoscendoci meglio in un futuro estremamente vicino non potremo intrecciare un discorso vagamente poetico.

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  16. a Alfredo De Palchi
    considero preziosa l’opportunità di poter interloquire con lei. In data 7 marzo 2015 questa rivista pubblicò alcune sue poesie tratte da “Sessione con l’analista”; in quella occasione, ma in ritardo rispetto ad altri poeti qui presenti, riuscii finalmente a capire qualcosa, non solo dei suoi versi ma anche della sua scrittura. E fu Satori, una specie di illuminazione. Su l’ombra delle parole ne ho avuti parecchi, generati per lo più dall’instancabile lavoro di Lingraglossa, ma anche Sagredo (ebbene sì) per inspiegabile sintonia, credo, coi suoi giudizi, particolarmente i suoi più lapidari. Ora mi rendo conto della solidità del percorso da lei compiuto, è mi spiego perché Giorgio la consideri caposcuola (sempre che il termine le vada a genio, ma forse no se ha scritto “Non lo sono se l’irresponsabile mi fa responsabile della sua vita”) del “grande progetto” di rinnovamento; progetto che sta a cuore anche a me per ragioni che oltrepassano l’ambito della critica, perché vanno a conficcarsi nella scrittura. Non mi fraintenda, non si tratta di epigonismo, ho i miei maestri e uno particolarmente che mi abita dentro; ma per osare (essere se stessi) serve il coraggio che lei ha saputo mettere in campo. Quindi grazie! di cuore, per ogni parola che ha scritto.

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  17. IL GRANDE PROGETTO – IN CAMMINO VERSO IL LINGUAGGIO

    Il Grande Progetto che tante antipatie attira è nient’altro che un Invito a riappropriarci della poesia non più considerata come un discorso giustificatorio, ovvero, proposizionalistico basato sull’autonomia del significante e sull’autonomia del significato. Non v’è nessuna autonomia o eteronomia nel linguaggio poetico come adialetticamente credeva Luciano Anceschi, c’è un senso che la poesia non può non seguire, pena la sua caducazione, e lo deve inseguire anche ai giorni nostri quando la direzione del senso è ogni giorno più oscura e indecifrabile.

    Quando ripenso a certe poesie di Alfredo de Palchi de “Sessioni con l’analista” (1967) noto con piacere che il poeta gira incessantemente intorno al suo oggetto misterioso, alla sua «cosa». Anche in questi ultimi due lavori “Nihil” (Stampa2009, 2016) e “Estetica dell’equilibrio” (inedito), si può notare che de Palchi è infinitamente libero nel suo discorso, libero di divagare e di contraddirsi, libero da condizionamenti di scuole, di precetti, da mode, voglio dire che è libero di non seguire nessun modello proposizionalistico, nessun modello eufonico, non cerca la dissonanza per la dissonanza, non cerca una presunta originalità, sta sempre piantato con i piedi per terra in agguato e lancia i suoi acuminati strali contro l’«antropoide» delittuoso. C’è una fortissima carica impolitica e anti etica in questa sua furia iconoclasta che si ripercuote anche sull’ordine del discorso e sul modello giustificatorio che lo sottende e lo sorregge. È un modo di fare poesia senza rete. È una nuova e diversa visione del Logos poetico, per questo motivo io lo prendo spesso ad antesignano di un diverso modo di intendere il discorso poetico. Sì, forse c’è dell’anarchismo, c’è della impolitica in questo suo modo di procedere e di intendere le finalità del discorso poetico, ma qui siamo in presenza del più vigoroso sforzo fatto dalla poesia italiana contemporanea di abbattere il modello proposizionale del discorso poetico che si fa qui in Italia e in Occidente. E questo a me è sufficiente per portare la poesia di de Palchi come un esempio di grande coraggio intellettuale.

    Ecco la ragione per la quale io adotto la poesia di de Palchi ad avamposto (non utilizziamo più la parola avanguardia ormai destituita di senso nel mondo di oggi) di una diversa organizzazione frastica del discorso poetico libero da schemi e da pregiudizi formalistici e di scuole.

    Come acutamente hanno affermato su queste pagine Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo, Katerina Zoufalova, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Letizia Leone, Mario Gabriele, Costantina Giancaspero ed altri tra i quali il critico Sabino Caronia, il Grande Progetto c’è già, siamo noi qui tutti insieme che lo portiamo avanti, ciascuno lo fa avanzare di un millimetro, ed è già tanto, ciascuno di noi lo può portare avanti con la propria dedizione e ricerca. Dove può condurre questo Progetto di riscrittura del discorso poetico lo si vedrà in futuro, l’importante è iniziare il cammino verso il linguaggio…

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    • oh! Finalmente qualcuno che non intende fondare una scuola!

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    • Salvatore Martino

      Come non ringraziarti gentilissimo Linguaglossa di avermi gentilmente escluso da codesta nicchia di partecipanti al Grande Progetto. Francamente non ne coprendo il motivo. Eppure il nostro rapporto anche attraverso la rivista è quasi quotidiano…forse io e De Robertis siamo troppo vecchi o non degni? O non siamo adatti a percorrere codesto cammino. Mi pare che io e Ubaldo siamo molto avanti in un tentativo di ricerca poetica, forse più dei poeti da te qua menzionati.

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    • Mario M. Gabriele

      Mi ha colpito il secondo capoverso del titolo di apertura: il grande progetto” ossia “In cammino verso il linguaggio”. Ciò mi ha portato con la memoria a rivisitare alcuni tratti del pensiero di Heidegger sulla sua opera “In cammino verso il linguaggio”. Ciò che l’Autore recepisce da questo transito è la considerazione che all’interno del “viaggio” del pensiero trasposto nella presenza di un non ben identificato personaggio, rappresentato da se stesso, fuoriesce una tensione teoretica rappresentata da queste parole:”Ho lasciato una posizione non per sostituirla con altra, ma perché anche quella era solo un momento del viaggio. Quel che rimane costante nel pensare è il viaggio. E le rotte del pensare nascondono in sé un aspetto del mistero: noi le possiamo percorrere in un senso o nell’altro. Anzi proprio solo percorrendole a ritroso consente di avanzare….Avanti verso quel massimamente Vicino di fronte a cui continuamente passiamo frettolosi e distratti e che, sempre di nuovo, ci spaura ogni qualvolta lo scorgiamo…. Quel Vicino,davanti a cui continuamente passiamo frettolosi e distratti vorrebbe, per contro, condurci a ritroso….A ciò che costituisce l’inizio” .Ecco direi, che dalla ratio, che si dispiega nel pensare, nasce Ii Grande Progetto, creatura di Linguaglossa, in compagnia di altri poeti vicini alle sue idee.

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  18. Caro Salvatore Martino,

    il Grande Progetto non è una mia esclusiva proprietà, ci mancherebbe, tra l’altro non ho menzionato oltre te e Ubaldo neanche Flavio Almerighi, né Roberto Bertoldo, né Edith Dzieduszycka, né altri… di ciò mi scuso, non intendevo enumerare tutti coloro che hanno pensato e pensano in grande la questione poesia, il mio era solo una indicazione di strada, di massima, come ha ben chiosato Mario Gabriele che mi onora con quell’avvicinamento ad Heidegger, io sono un modesto «calzolaio della poesia», come mi sono auto definito nel mio profilo Facebook, non sono un critico ma uno che si sforza di pensare in maniera critica. Ormai i critici sono cosa del passato remoto, oggi ci sono gli Uffici Stampa, come rilevava negli anni Sessanta quella mente acuta di Franco Fortini, sono gli Uffici stampa che fanno i poeti e gli mettono sul capo la corona di alloro, sono loro che decidono chi è poeta e per quanto tempo… E forse è meglio così, io non piango sul latte sversato e sulle immondizie di Roma. Siamo nell’epoca dei «poeti a tempo» e dei «poeti di fede».
    Tra l’altro, come ha ben compreso Flavio Almerighi, questa non è neanche una «scuola», né una «corrente» (basta con i raffreddori!), tanto meno una «tendenza», e neanche una società in accomandita, è semplicemente una manciata di poeti che ha deciso di pensare in proprio e di mettere sotto sopra ogni parola, ogni luogo comune, ogni verità supposta tale, ogni verbo. Mettere tutto sotto critica e sotto la lente di ingrandimento. Tanto è vero che sto per dare alle stampe per l’editore Progetto Cultura di Roma un mio libro di «critica» ( di 400 pagine) dove ho riunito alcuni spunti che ho pubblicato in questi ultimi anni sull’Ombra, intitolato «Per una metacritica della post-critica» nel quale ho trattato indegnamente la vostra poesia tra quella di altri autori…
    Il titolo mi sembra chiaro, no?

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  19. Quando gli amici della mia generazione anni 20, tutti editi da Mondadori, mi accolsero inedito nella loro stima, mai mi seniti inadatto, inadeguato, piccolo, modesto, mediocre, etc. ¬¬–– anzi, ero contento di essere con loro, conversare con varia ammirazione sulla loro poesia senza mai esagerare e mai menzionare la mia inedita che dentro di me la consideravo, se non migliore perché non stava e non sta a me riconescerla tale, più robusta e di stile più creativo.. Allo stesso tempo stavo lontano da tutto ciò che non mi andava. Quanto sopra per essere capito che sto fuori anche dal discorso sul “grande progetto”. Alla mia quarta stagione giovanile, con gioia rispondo a Lucio Mayor Tosi che io abituato a una disciplina personalmente anarchica, sto benissimo con la mia libertà, il mio grande amore per gli animali, per la poesia vittima della mia generosità in particolare verso quella della mia Italia, e per l’universo femminile che contiene tutto il creato poetico.
    A Giorgio, per il “grande progetto”, mi permetto di ricordargli che nella mia opera trova anche quell’universo rarissimi sanno trattare.

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  20. Giuseppe Talia

    Mi permetto di rompere le uova nel paniere, e senza nemmeno apparire spregiudicato essendolo, ma mi preme asserire e ripetere, sempre a mia personalissima opinione, che tra i nomi che vengono spesso ripetuti come un mantra, forse ci sarebbe da indagare di più.
    C’è chi saccheggia l’est avendo come base strutturale il nord. C’è chi amplifica il Montale delle Occasioni, non certo quello degli Ossi di Seppia, ché sarebbe lampante, e moltiplica, moltiplica con una onomastica intellettuale. C’è chi si fuma il Satori e spesso biascica, un colpo al cerchio e uno alla botte. C’è chi scava con il rastrello le foglie morte del passato. C’è chi si picca di non essere inserito nella lista, e con tenerezza di una vita spesa per la poesia si rammarica.
    Poi ci sono quelli che vanno per fatti propri a dispetto di tutto. Alcuni incapaci di fare di meglio, altri capaci di dichiararlo apertamente e senza paura e altri, invece, che si celano nel silenzio aspettando che il silenzio li premi con un inserimento.
    C’è, poi, chi ci mette Sangre e arena e vince la partita.

    “Poesia non serve a niente, la si fa e chi ce l’ha davvero è un malato artista”.
    Alfredo de Palchi docet.

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  21. E dove mi sarei messo io, secondo te, Angela? In realtà non ho messo nemmeno te. Qui piove.

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    • Secondo me, ogni volta che commentiamo ci siamo anche noi dentro in qualche modo. E ci vedo tra coloro che sanno usare il silenzio (io mi sono ritrovata nel silenzio, nell’attesa, mentre continuo “a studiare”, come mi ha consigliato qualcuno in cui credo molto…)
      Qui, intanto, è uscito il sole…

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  22. Giuseppe Talia

    30

    il cielo sconfina di bolle galattiche, buchi neri, materia oscura, nebulare, stelle solari, pianeti, e vuoti immensi; è più probabile incontrare un e.t. che dio, ma di te almeno ho l’immagine del nulla, che svolazzi viva di fervore perennemente nello stesso cielo oscuro; dal ciglio del fosso che ranocchia contro i mondi stellari, senza poter numerare gli invisibili e quelli spenti

    da Nihil, de Palchi

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  23. Salvatore Martino

    Credo Giuseppe penso che tu ti riferisca a me quando parli di uno che si picca per essere escluso dopo una vita regalata alla poesia. Io come ben sai sono abituato a dire sempre ciò che penso, a prescindere dal destinatario del mio messaggio,e quindi parlo, magari a “schiovere” come si dice a Napoli. Chiaramente vedo nel famoso Grande Progetto di Linguaglossa solo un accostamento di persone che intendono o hanno inteso svolgere le loro vite intorno alla poesia , in un tentativo, forse inane, di ricercare o raggiungere un risultato, che ci porti fuori dalla palude. E in questo senso, in questo cammino credo che tu possa benissimo essere uno dei compagni.Non deve costitursi una scuola , secondo me, ma il raggruppamento di individui che tentano una strada verso una meta comune e multiforme.

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    • Giuseppe Talia

      Caro Salvatore, sì, mi riferivo a te, per la tua tenerezza, per l’affetto che provo, per la stima che ho di te. Tu sei più di un progetto e nel tuo progetto (che sai che sto leggendo. E quanti, mi domando, dei cari amici poeti conoscono la tua poesia?) non trovo furberie, solo amore per i versi e la cultura che da sempre ti accompagna.

      E questo riconoscerti nell’elenco ti rende grande onore. Chissà quanti altri saranno capaci di tanto.

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  24. Salvatore Martino

    Le tue parole Giuseppe mi riempiono di gioia e orgogliosamente mi attorciglio alla mia poesia e alla feroce ossessione che in questi lunghissimi anni ha deciso di accompagnare la mia vita. La tenerezza della quale mi fai dono è un bellissimo regalo che serberò a lungo nella memoria. Quando ci si avvicina al traguardo solo pochissime parole riescono a scalfire l’inquietudine delle nostre giornate. Ti ringrazio per l’apprezzamento dedicato al mio werk che stai leggendo e che riscontro giorno dopo giorno getta una luce di paura anche tra gli”amici” poeti che da tempo hanno fatto la mia conoscenza.

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  25. A PROPOSITO DEL GRANDE PROGETTO. GLI ANNI OTTANTA. I MIEI DUBBI da lombradelleparole.wordpress.com

    Nel 1985, dopo aver girovagato per le carceri di Treviso, Pistoia, Firenze in qualità di direttore di carcere, tornai a Roma dopo un periodo di sei anni di assenza dalla capitale, e la trovai profondamente cambiata. Capii che eravamo entrati nel decennio della falsa opulenza. L’italia all’epoca era dominata dal centro sinistra Craxi Andreotti Forlani. A quel tempo adoperavo ancora le categorie adorniane della falsa coscienza e di alienazione. Cominciai allora a ristudiare filosofia e a rileggere opere di letteratura dopo sei anni di abbandono totale da quelle che ritenevo letture quisquilie, dei fiorellini che la borghesia si mette nel taschino della giacca per apparire presentabile. Compresi che la borghesia italiana aveva rinunciato a indossare qualsiasi fiorellino perché non gli serviva più, anzi, che aveva mandato al macero tutti i fiorellini. Compresi che la poesia di Sandro Penna era un perfetto esempio di fiorellino che piace alle anime gentili, compresi che i rigurgiti dello sperimentalismo erano espressione dell’eterno petrarchismo delle italiane lettere. Compresi che bisognava cambiare direzione di marcia, anzi, bisognava cambiare strada. Pensavo che bisognasse imboccare un’altra autostrada, Ma, come fare? Ripresi in mano i libri di Zanzotto e sorridevo al suo disperato sperimentalismo qualunquoide, sorridevo a quella ideologia della natura incontaminata, a quel suo sperimentalismo eufonico e modulato… che spettinava le anime gentili…

    Ripresi in mano il Montale di Satura (1971) e cominciai ad insospettirmi. Mi chiedevo: ma non è che qui Montale si è messo a giocare a fare finta poesia? Non è che qui Montale ha iniziato a gettare a terra tutto l’armamentario della vecchia poesia perché non più utilizzabile nelle nuove condizioni del capitalismo? Iniziai a dubitare della bontà di quella apertura al linguaggio di tutti i giorni. Il dubbio cartesiano mi ossessionò per alcuni anni. E intanto leggevo e leggevo la poesia di tutti quegli anni, dai milanesi ai sudisti. E mi rendevo conto che i conti non tornavano. Che in quell’equazione tracciata dalla Antologia di Cucchi e Giovanardi nel 1996 c’era una incognita, anzi, numerose incognite, Cominciai a pensare che tutta quella ricostruzione della poesia italiana del Novecento fosse tutta fatta ad usum delfini. Nel frattempo i miei dubbi si infittivano e si ingigantivano, fino al punto che chiusi i miei dubbi in una certezza: la vera questione della poesia italiana stava nell’abbandono, da parte di Montale e di Pasolini, i due più grandi poeti dell’epoca viventi in Italia e teorici, della trincea della poesia. La poesia fu considerata inutile, e gettata alle ortiche, e sostituita, con smaliziata strategia, dalla finta poesia di Satura e di Trasumanar e organizzar. Fine delle trasmissioni. Il dubbio era diventato certezza.

    Adesso (cioè nel 1988 circa) il problema era quello di ritornare indietro e ri-mettere le cose a posto. Ritornare indietro per ripartire dal punto dove Montale e Pasolini avevano gettato la spugna.
    Ancora oggi, nel 2016, sono convinto che la mia intuizione fosse quella esatta. Il problema della poesia italiana è ancora quello: uscire fuori da unna cultura dello scetticismo e del riduzionismo e rifondare la forma-poesia. Circumnavigare Montale e Pasolini per rifondare la tematizzazione della forma-poesia. Era un compito di spaventosa problematicità, era come voler azzerare tutto ciò che nel frattempo si era fatto e scritto in poesia in Italia in questi questi ultimi cinquanta anni.

    Un progetto ambizioso, non c’è che dire. Ho letto da qualche parte la domanda che qualcuno si è posto. Suonava più o meno così: «Perché la poesia italiana dopo Montale non ha più prodotto un altro Montale?»,
    La domanda è valida, credo. E la risposta la lascio ai lettori.

    A un certo punto di questo percorso, negli anni Novanta, su suggerimento di Roberto Bertoldo, lessi la poesia di de Palchi, e cominciai a capire qualcosa…

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    • Questo tuo commento, Giorgio, mi ha indotto a riflettere un pochino…Non so, a riguardo di Satura, se sia falsa poesia, come tu affermi, quella che leggo (perché devo ancora approfondire questo aggettivo riferito alla poesia) in testi anche famosi, come la romantica e che non incontra il mio gusto “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” però, di fatto, una certa e sostanziale differenza rispetto ad Ossi di seppia (che ho letto di più rispetto all’ultimo Montale) si avverte e la avverte anche chi, come me, non è un addetto ai lavori. Sicuramente tra il primo e l’ultimo libro di un autore ci passa una intera vita poetica e biografica, però li prendo ugualmente come riferimento per la mia riflessione. Il primo Montale, come tutti agli esordi, ha la voglia, la forza e il coraggio di separarsi dal contesto letterario in cui si trova (che, se non erro, era dominato da D’Annunzio, siamo a metà degli anni ’20 del secolo scorso), immettendo nella poesia elementi di dubbio e incertezza (“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti” ad es.), forse aderendo anche a quell’esistenzialismo di cui parlavamo ieri, l’interrogarsi sul destino ultimo anche dell’uomo, insomma. Quarant’anni dopo, al momento di Satura, leggo nei testi (una selezione, perché non ho il libro, in cui noto elementi comuni) innanzitutto dei passaggi di maniera, ovvero di chi sa, conosce, l’effetto che provocherà nel pubblico un’assonanza, un suono ben sistemato, che ci sta pure bene, a scapito, però, di un significato più profondo e, a parer mio, anche più utile al lettore (“Probabilmente \ non sei più chi sei stata \ ed è giusto che così sia.” da Gli uomini che si voltano, in Satura); leggo una serie di versi gnomici, che quasi sentenziano, ma non offrono di più al lettore, nonostante ci si ritrovi in anni “coinvolgenti” dal punto di vista sociale (penso a quanto ancora oggi si sente e si vede nei vari contributi a riguardo degli Anni di piombo).
      In un verso di Xenia (bel titolo a parer mio) Montale stesso scrive: “Dicono che la mia \ sia una poesia di inappartenenza”, come ad esternare che lo stesso autore era consapevole di essere in qualche modo cambiato e, forse, di non appartenere nemmeno al contesto storico in cui ha scritto gli ultimi versi. Ed in uno stralcio leggo le parole dello stesso Montale:
      «Nel 1963 ci fu la morte di mia moglie. Mi venne la spinta a scrivere qualche ricordo di lei. Sono i versi di Xenia. Così ho ripreso, come uno che abbia smesso di fumare e a un certo punto, dopo qualche anno, un amico gli offre una sigaretta, e lui ricomincia. Chiedo scusa della volgarità del paragone» (da La poesia e il resto, intervista di Raffaello Baldini, 1971, AMS, p. 1705).
      Dunque dal 1963 al 1971 passano anni, prosegue la storia sociale italiana e mondiale e, dunque Montale pubblica Satura, quando ormai ha un nome, una posizione nel panorama letterario e dopo la morte della persona amata, quindi, mi viene da pensare, scrive in un certo senso “adagiato sugli allori” ormai.
      Premettendo che un poeta del calibro di Montale deve comunque essere studiato e deve far parte del bagaglio culturale di chi a sua volta vuole scrivere versi e aggiungendo che il mio non è un discorso politico, né critico, perché non detengo i mezzi per farlo, mi sono solo presa la briga di valutare con la mia testa questo punto critico, come tu affermi, del percorso della Poesia italiana. E l’unica cosa che noto (oggi, magari più in là ne noterò altre), poiché abbastanza anzi decisamente palese, è che il poeta una volta raggiunta la notorietà, la “gloria” in un certo senso, ha scritto poesia, secondo me “per rimanere a galla”, se paragoniamo il quotidiano ad un mare, magari incalzato dagli editori e dai suoi lettori e dal successo del momento.
      Con questo voglio dire, caro Giorgio, che il poeta non sempre assolve alla sua responsabilità “sociale”, ovvero di colui che può dire le cose, che può contestarle, che può anche cambiarle, ma troppo spesso – e oggi ne siamo più che mai testimoni – cede ai personalismi, all’egoismo, alle lusinghe del mondo, preferendo adagiarsi su qualcosa di consolidato (e qui ci metto anche coloro che ancora oggi si ancorano al classicismo, esasperando la tradizione da cui non ci si riesce a separare, se non pagando in isolamento e indifferenza da parte dei “signori” della poesia che temono il nuovo come la peste), anziché continuare la sua battaglia, la sua rivoluzione.
      Perché, diciamolo, forse con un po’ troppo idealismo da parte mia, la poesia è capace di cambiare lo status quo, ma quanti poeti sono capaci di tanto coraggio, ovvero quello di cambiare tutto un sistema consolidato al quale è più semplice affiliarsi? Ecco, in questa ottica dobbiamo anche vedere Il grande o piccolo progetto che sia, come una capacità decisionale di chi vi aderisce a dire le cose come stanno, senza mezzi termini e senza cedere alle lusinghe di un mi piace in più o di una effimera visibilità. Oggi, una poesia che mi parli della camera dove ho fatto l’amore non serve, è fuori luogo, per riassumere all’osso il discorso.
      Quanti, oggi, sono disposti a frequentare l’ombra, la minor luce, per costruire la chiarezza, la lealtà, l’autenticità che travalichi la contingenza e diventi quella poesia capace di parlare oltre il tempo?

      AnGre

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      • da “Bellezza versi bruttezza” 1 – 16 agosto 2016 da rivedere

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        Vorresti essere ”scabro ed essenziale”. . . quanto il martire cristiano Eusebio glorificato da Anton Raphael Mengs nell’affresco della chiesa Sant’Eusebio a Roma. . .nobile nome che tu hai dimesso preferendo quello plebeo di Eugenio. . . I tuoi lustrascarpe leccapiedi ruffiani e amici ti chiamano Eusebio per sentirsi più importanti di coloro che usano Signor o Maestro Eugenio. . . chi non ama la tua bellezza poetica benché sia di radice anglosassone. . .

        2

        ignota sulla tua faccia da bulldog con penduli labbroni sussurranti immagini virili e di potenza. . . di figure femminili che ignorano la figura della tua presunta bellezza visiva. . . e della tua squallida cafonaggine sgridata alla Mosca cieca “ma stai zitta tu che sei così brutta”. . . a Milano 1961 all’uscio del ristorante con un banchiere e signora e l’autore di La coda di paglia e signora. . .

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        nessun sorriso a luna piena quella notte che hai perso il giovane amico conosciuto tramite Robert Lowell dopo due mesi di conoscenza quotidiana. . . appoggiato al mio braccio ti accompagnavo al giornale di via fatebenefratelli. . . hai tu fatto del bene o ti ha ferito il mio incontro con l’altro vanitoso dei suoi baffetti?. . . da quella data non ti smarrisco. . .
        4

        perché bellezza tirannica finge

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  26. Caro Alfredo de Palchi,

    ci volevano queste tue splendide bordate inedite contro Eusebio, o meglio, Eugenio, pescate nei tuoi ricordi degli anni Sessanta per mandare a picco la nave ammiraglia costruita da Montale e dai critici italiani melensi e soporiferi che ci hanno raccontato la favola della grandezza sterminata del Montale di Satura. La verità era un’altra, che quella falsa democratizzazione della forma-poesia era una famigerata presa in giro, una opzione fasulla per restare sulla cresta dell’onda della stupidità dei letterati italiani, un inseguire la moda che richiedeva una poesia facile e digeribile, una strategia della dissimulazione della poesia sostituita con la poesia finta e artefatta.
    Grazie Alfredo.

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  27. Accidenti! Avrei parecchie domande circa questi ultimi versi di De Palchi. Ad esempio perché ha scelto di scrivere senza gli accapo; se pensa di farlo poi, quando vorrà rivedere il tutto. Scritta a mano su quaderno telematico, con i punti di sospensione…
    Costruisce la bellezza per contrasti, quasi fosse una farfalla imprendibile.
    Ma
    “perché bellezza tirannica finge”
    è l’uppercut che chiude la partita.

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  28. nel titolo avevo scritto ‘versus’ non ‘versi’.
    chiarisco che non ho voluto copiare i 16 pezzi

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