Costantina Donatella Giancaspero DIECI POESIE da Ma da un presagio d’ali (2015) con un Commento impolitico di Sabino Caronia – La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità

Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Commento impolitico di Sabino Caronia

Nella poesia di Costantina Donatella Giancaspero musica e poesia convergono in una medesima esigenza espressiva. La «voce» sarebbe la traduzione di una tonalità dominante in linguaggio espressivo. Il fraseggio della musica, di cui la poetessa romana è una dotta cultrice, trova un equivalente nella dislocazione sintattica, nei refrain, nelle «riprese». È questa una sensibilità tipica della più aggiornata poesia odierna, basta pensare alla poesia della svedese Frostenson, della bulgara Ekaterina Josifova, della rumena Daniela Crasnaru, o della italofona Katerina Zoufalova. Una analoga attenzione alle possibilità offerte dal metro spezzato o breve è presente anche in altri poeti europei come ad esempio il «basso continuo» che dà il titolo all’ultima raccolta della poetessa catalana Josefa Contijoch.

Si tratta di una comune esigenza espressiva della poesia europea più aggiornata, e la Giancaspero si muove senza dubbio in questa direzione. Ma da un presagio d’ali (Milano, La Vita Felice, 2015), è un libro d’esordio che spicca per essenzialità di dizione lessicale, strutturale e stilistica. La poetessa romana conosce bene gli effetti del ritmo spezzato, le pause, il singhiozzo sincopato e improvviso, l’uso sapiente della “durata”; è di qui che scaturisce quel rigore formale che impronta di sé il lessico portato allo stadio minimale: quell’ “arredo minimo,/ appena sufficiente/ per abitare” (pag. 43). Il proposito dichiarato, è quello di “ rimuovere tutto il superfluo”, di “possedere il nucleo primigenio del cuore”, di andare dritto all’essenza delle «cose» (pag. 55). Leggiamo a pag. 70:

Come per un ripensamento,
come se
– a metà strada,
a una svolta,
a un tratto -,
ti fermasse un ricordo,
ti volti,
riprendi i tuoi passi
dal viale al portone…

E ti solleva
un vortice di scale
fin su,
fino a me, alla gioia
di avermi
– varcata la soglia –
negli occhi,
in fondo al respiro…

L’Amore
ci vuole uniti,
sempre:
al più breve
distacco, trasale,
s’infuria,
ordisce tranelli.
E siamo colti
alla sprovvista,
presi alle spalle,
di petto,
gettati

viso nel viso...

I singoli fraseggi sono impiegati come intermezzi atonali musicali. È una voce emotiva che parla e sussulta tra un verso e l’altro. La voce, è una sostanza atonale, utilizzata, alla maniera d’un Bonnefoy, come un leit-motiv in funzione della durata.

C’è l’asciuttezza d’un Bonnefoy e Morton Feldman. C’è Mallarmé, il suo “sempiterno azzurro”, posto di fronte al poeta che “più non sa agghindare il pensiero stentato”. E c’è Debussy, ma anche la «voce» di Helle Busacca, i suoi spigoli acustici e semantici.

È presente un residuo di linguaggio pascoliano: il «predatore implume» che in Le Memnonidi corre avvolto nella sua «anima azzurra», e ritorna in quel «sussurro d’ali» (p. 36), in quel «presagio d’ali» (p. 92), di cui ci parla la nostra poetessa romana, ma è un Pascoli passato al setaccio della disillusione della poesia post Satura di Montale, transitato tra le perifrasi semantiche della poesia odierna più aggiornata: tra secchezza di dizione e espressione aforistica.

C’è, in filigrana, come in lontananza nostalgica, Mallarmé: oltre che con L’Azur, soprattutto con Les Fénètres , per il motivo del «cielo anteriore», delle «ali senza piume». Come Mallarmé, infatti, la Giancaspero non può fare a meno di deplorare quegli scrittori che hanno abdicato alla loro estasi infantile e hanno perso, come lei dice, «la memoria dell’infanzia» (p. 52).

La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità. Le “poeticissime” parole di Giacomo Leopardi sono diventate quelle più usuali, consumate, tradite dall’eloquio del quotidiano.

Quella della Giancaspero è una poesia della «soglia» e della «intemporalità», dove i pensieri e le azioni si susseguono senza nesso causale in un susseguirsi di sensazioni e di emozioni. Il metro breve e sincopato dà, paradossalmente, una grande stabilità a questa poesia così esile che sembra destinata a scivolare e crollare da un momento all’altro in balia di un alito di vento. La poesia della «soglia» si trova costretta a muoversi in quella sottilissima fettuccia di spazio che non appartiene né al di qua né al di là, una terra di nessuno dove regna una sorta di sospensione del tempo.

Una poesia che fa del dialogo interrotto l’epicentro del proprio essere in permanenza inquieto e impermanente.

L’azzurro, dunque, il colore della distanza nello spazio e nel tempo, della nostalgia del mondo dell’infanzia «polverosa» (altro aggettivo inquietante della Giancaspero) ma anche del disincanto, apparentemente vicino e infinitamente lontano (si pensi al cielo «ironico e spietatamente azzurro» di cui dice Baudelaire in Le Cygne) dal “purissimo azzurro” di leopardiana memoria. “Per me l’azzurro – ha dichiarato in una intervista la poetessa – è simbolo di purezza, di profondità, di limpidezza interiore”. L’azzurro è il colore che contraddistingue questa poesia, in una tavolozza che varia dall’«azzurro ideale» (p. 27) all’«azzurro estremo, impietoso» (p. 33), fino al «corrotto azzurro» (p. 36); dalla «falla d’azzurro» che fora il cielo (p. 45) alla «infinita specchiera del mare» che «t’inazzurra lo sguardo» (p. 86) e all’«azzurro mare» (p. 91) che «s’impenna / in cupo azzurro / d’onde» (p. 93).

da Ma da un presagio d’ali, (2015)

*

Abbiamo voluto
dal principio
un arredo minimo,
appena sufficiente
per abitare, e le pareti
vuote – nulla
a violarne con altra identità
il solitario
rigore –

Scabra nudità
esposta
alla luce sontuosa
del mattino,
spalancata
all’occhio,
che la ripensa
materia purificata,
ne scava
ardui contenuti:

un senso duro
della vita.

*

Ma nulla
di ciò che siamo
si mostra in superficie.
Nulla
ci riporta la mente,
pure se la pieghi
in se stessa, se la tendi
fino all’inverosimile,
a scandagliare
il nucleo più segreto
della propria sostanza,
a indagare,
per i vaporosi fondali
del sogno,
l’intrinseca realtà:
uno schermo
la trattiene
e ci lascia
celati a noi stessi.

Solo di tanto in tanto
– contraddicendo
la dura condizione –
un cretto
s’apre qua e là,
a intervalli:
ne sbucano
neri spessori,
cubitali caratteri
di un primordiale alfabeto,
oscuro cifrario
della nostra essenza.

*

È qui
tra blocchi
di attediati palazzi,
per vie trafelate
d’ansia, più impetuoso
che altrove il vento,
se giunge da Nord
e s’abbatte
a colpi di frusta
tutt’intorno,
in uno strazio
d’imposte sbattute
e vasi franti,
a sfogare così
la collera propria
e quella del dio
che ce lo scaglia contro.

Sebbene previsto,
annunciato
da ogni bollettino
del tempo,
è un soprassalto
il suo accadimento
che ferma il respiro.

Ma tu,
aspro avversario
del dio che lo governa,
catturane più che puoi;
volgi altrove,
a una cima arida
di roccia,
quel delirio dell’aria,
trattienilo
in una morbida vela,
materia palpitante,

sonoro vessillo del cielo.

*

È domani

Eppure è già domani
a quest’ora fonda
della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.

È domani,
e non vale la veglia
ostinata, non servono
i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca
del sonno, dove, ignoti,
già tanti destini si compiono,
questo è l’oggi.

Tra poco la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro,
azzurro estremo,
impietoso, nel suo occhio
fermo, astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;

perché altrove li volge
questo Tempo acuminato:
dov’è vita ferita che dispera
la vita, nei quotidiani martiri,
nelle morti suicide per dignità
negata, nelle stragi,
ai tribolati confini,
dove affonda il cuore

e la notte
di un altro domani.
*

Ti alzi,
ti sollevi dall’oggetto
che ti accoglie
– disadorna sedia,
impreziosita
dall’impronta che lasci -.
Così,
allo scadere
del tempo insieme
sei
per andare
– la mente
tesa al distacco
svolge
un dipanarsi
obbligato di vie -.

Ancora abbiamo sostato
in un ritaglio di vita,
appena per vedere
la sera
infittirsi alla finestra
– esaltare
il lume sul tavolo,
la luce imprecisa
del tuo occhio
che si stempera nel sonno –
e disfarsi poi,
a un tremito d’alba,
per un raggio che s’insinua
e sfora
e scrolla il mondo.

Volgimi le spalle, ora,
qui, nello spazio
compreso tra la porta
di casa
e il tuo congedo.
Evita
lo sguardo, la stretta,
schiva il bacio.
Scendi giù

c’è scampo
in fondo alle scale.

*

Nel riquadro
di una vitrea prospettiva
il giorno t’assale
con bagliori
di nascente sole:
lo vedi
insediarsi
nel tuo riluttante
risveglio,
innalzarsi
supremo
sul tuo sguardo prono.

E spandersi intorno,
colmare
le trafelate arterie
del mondo,
fino a un corrusco declino,
allorché tu,
con brandelli
di luce
ancora nella gola
e membra dolenti,
affondi il passo

nel tuo serale cammino.

*

Non ti sostiene,
nell’imminente azzerarsi
dell’ora,
l’illusione
di chi spera
che ogni nuovo anno
sarà
migliore del vecchio.

Ma esplode già,
in fondo alla notte,
il fragore degli spari:
una guerra
di petardi e bengala
s’abbatte e rimbomba,
ebbrezza di fuochi
che impazza;

che oltraggia
lontano
abbagliati orizzonti
senz’eco
di crollate macerie,
né di sangue
profuso,
conteso,
in mortali partite.
*

Nell’ora
più solare del giorno,
guardando oltre
lo scenario
della realtà che appare,
verso una prospettiva
certa
e interiore,
una notte sopraggiunge
senza stelle,
come un’ala
scherma la luce,
placa il clamore
diurno
e ci cattura.

Per un tempo
che cerca scampo
dalla propria definizione,
noi trascorriamo
nella buia consistenza,
ne respiriamo
la segreta fragranza,
finché ci lascia,
ci ricongiunge al giorno
che la disperde
e ci separa.
*

Può darsi
che il vero sia
nello spazio vuoto
tra segno e segno,
nel tempo muto
che attrae
e smorza in sé
tutte le vibrazioni
tra suono e suono.

Può darsi
che sia
nel punto in cui
scompare
ogni riferimento
tangibile di noi,
dove s’interrompe
il filo sommesso
del nostro parlare.

È possibile
che sia
là dove sconfina
dalle cose la materia,
che sia nell’abisso
in cui dilaga,
fuggendo
verso una stasi
eterna di luce.

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) .

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20 risposte a “Costantina Donatella Giancaspero DIECI POESIE da Ma da un presagio d’ali (2015) con un Commento impolitico di Sabino Caronia – La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità

  1. Poesia ‘concreta’ e spoglia: in fondo dice molto più di ciò che mostra. Senz’altro testi validi: se esiste la quotidianità delle cose ci pensano le parole a tradurla nella metafisica.

  2. Non concordo sul fatto che si possa definire poesia al passo con le ultime tendenze europee.E’ una bella poesia, valida, fresca, che lascia trasparire anche quello che esplicitamente non dice. Molto buona, i miei complimenti alla sig.ra Giancaspero.

  3. Difficile contenere in poche parole il discorso poetico di Donatella Giancaspero, che sa trasformare in sussurro le inesorabili grida della realtà; lo fa con mano leggera,preferendo l’ombra alla spietata bellezza dell’azzurro,la parola scarna alla tentazione del linguaggio eloquente di chi vuole farsi sentire a tutti i costi.

  4. A me sembra prevalga, su ogni altra (mia) possibile considerazione, l’esercizio stilistico del verso breve nel bianco della pagina. Un pittore giapponese di sumi-e potrebbe fare altrettanto, con forza o levità. Il pittore mostra, non dice, mentre l’autrice in queste poche poesie, non dice ma indica. E qui trovo conferma: “Può darsi / che il vero sia / nello spazio vuoto/ tra segno e segno / nel tempo muto / che attrae / e smorza in sé / tutte le vibrazioni / tra suono e suono”. Dove, appunto, nulla viene detto oltre al “può darsi”. Insomma, poche sorprese nell’azzurro. Siamo come nuvole, uccelli che passano senza lasciare traccia.

  5. LA POESIA DI COSTANTINA DONATELLA GIANCASPERO “TRA SEGNO E SEGNO” E “TRA SUONO E SUONO” da lombradelleparole.wordpress.com

    Paul Valéry ha scritto:

    «L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, eccetera… L’Arte si pone così a lato dell’Industria… »

    Non c’è dubbio che oggi chi voglia fare della “poesia” debba essere anche un abilissimo imprenditore di se stesso, perché la poesia è diventata come ogni altra “Arte” un fenomeno analogo a quello dell’«industria», un fenomeno da baraccone dove ciò che conta è urlare e il saper acclamare ai venti la propria ingombrante presenza…

    La poesia di Costantina Giancaspero ha scelto il fondale del teatro, la sua Musa ama l’inappariscenza, la riservatezza e il silenzio, ma non quello reclamato a gran voce dai pubblicitari della poesia ma quello vero, che sta dentro le cose, che abita Mnemosyne. La sua poesia è affine al metodo della pittura Zen, inizia da un punto e, come per caso o disattenzione, prosegue all’improvviso con una linea continua mediante pochi tratti che delineano un teatro, un retro scena, ciò che si nasconde e sta dietro gli eventi inappariscenti. Ecco perché la sua poesia è così ricca di «ripensamenti» e di retro azioni, di movimenti inconsulti come il «voltarsi indietro», di sussulti, di andirivieni etc. così fragile e leggera questa poesia può crollare, come un castello di carte, ad ogni alto di vento, come acutamente chiosa il critico Sabino Caronia…

    Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di «traccia» assume in Costantina Giancaspero una funzione antisimbolistica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso una catena di sostituzioni. Scrive Derrida: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».
    La poesia della Giancaspero è una vera e propria indagine attorno al corpo del reato: la «traccia», all’interno dello «spazio vuoto»:

    Può darsi
    che il vero sia
    nello spazio vuoto
    tra segno e segno,
    nel tempo muto
    che attrae
    e smorza in sé
    tutte le vibrazioni
    tra suono e suono

    Ed è infatti proprio questo l’esito principale consentito dalla nozione di «traccia»: quello di far intendere l’ordine del senso (della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica) come un ordine «supplementare», radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l’irrappresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia «originaria», la sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in La scrittura e la differenza, è la traccia «visibile» dell’inconscio.

    Questa «logica del supplemento» («tra segno e segno» e «tra suono e suono»), è una indagine, diciamo così, supplementare che la poesia istituisce attorno al «supplemento», il sostituto del nulla, del vuoto. Ciò è ovviamente impensabile all’interno della logica, scriverà Derrida in “Della grammatologia“: il «supplemento» supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa “appare”». «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».

    • Credo di capire. In effetti esistono luoghi dove la poesia sembra non poter trovare le parole, o se le trova ne viene comunque una poesia da buttare perché poco significante, vacua. Accade anche, ma per altre ragioni, quando nell’autore vi è troppa emozione. O in presenza di estasi. In questi casi l’unica soluzione, secondo me, è trovare almeno due parole che, accostate, facciano poesia: epifania cercata, voluta.
      In queste poesie si risolve con l’uso sapiente degli aggettivi: solitario/rigore, luce sontuosa, materia purificata, vaporosi fondali, neri spessori, cubitali caratteri / di un primordiale alfabeto, / oscuro cifrario, attediati palazzi… e così via. Non mi sembra molto, ma è quel che si può trovare in questi frangenti. A meno di essere Hölderlin.

  6. Steven Grieco-Rathgeb

    Dalla personalità poetica di questa poetessa, che evidentemente ha una ricchissima vita interiore, emerge una scrittura che esprime grande riserbo, delicatezza d’animo, assoluta franchezza.
    Tutto qui sembra smentire l’adagio, che anch’io spesso ripeto, i.e., non è più possibile scrivere poesia intimista perché tutto il meglio di quell’atteggiamento è stato espresso, oggi è una ruota che gira solo su se stessa. Forse abbiamo sbagliato a usare il termine “intimismo” per ogni tipo di scrittura privata o personalistica? Non saprei dire.
    E’ vero anche che una poesia buona può interrompere il non-evento, ormai vecchio di decenni, di un modo di poetare psicologicamente e stilisticamente ripetitivo e insulso.
    In ogni caso, queste poesie esprimono una non invasiva, non violenta riflessione del mondo, una sottile quasi impercettibile trama di pensiero sulle cose, e in particolare sui sentimenti umani filtrati attraverso quelle cose. Il modo in cui, ad es., la luce cade sullo stipite della porta narra qualcosa della mente che osserva.
    E dunque qui non è tanto una questione dell’animo del poeta che si denuda, ma di come lui è profondamente immerso nell’ambiente circostante. L’ambiente lo contiene. La nostra interezza umana, insomma, si realizza nell’ambiente che ci contiene – that encompasses us. Una realtà più grande del nostro egoico “animo”: Un dialogo ininterrotto con ciò in cui siamo da sempre immersi.
    Una scrittura non sociale, ma ecologica – e nel senso eccellente di questo termine.
    Bisognerà forse, leggendo Costantina Giancaspero, rivedere quale etichetta affibbiamo alle Emily Dickinson, alle poetesse tedesche romantiche, alla giovane Akhmatova, alle principesse giapponesi di mille e più anni fa. E capire quanto facile ci è talvolta sminuirle fraintendendo per “intimismo” quello che è il loro intimo dialogo con le cose.
    Benvenuto questo ottimo post per iniziare la stagione autunnale dell’Ombra delle Parole.

  7. Salvatore Martino

    Illuminante quanto scrive Grieco di questo quieto scivolare poetico della
    Giancaspero…stile chiaro, sobrio, lucido, con questo verso terribilmente franto, che produce una musica a singhiozzo. Non so. Io non vengo particolarmente colpito, qualcosa mi manca, e fa sì che il mio interesse venga meno. Poesia intima e delicata e i nomi ai quali accenna sempre Grieco mi sembrano plausibili. Mi torna spesso alla mente leggendo i versi che si scrivono oggi quello che lessi tanti anni fa, erano i primi anni sessanta e io frequentavo il Centro Universitario Teatrale di Roma. Antonio Calenda ci sottopose per studio il Caligola di Camus, a me toccò la parte del protagonista. In una scena stupenda l’Imperatore convoca il giovane Scipione e gli chiede di leggere i propri versi. Alla fine mentre il ragazzo è in trepida attesa Caligola gli dice: “la tua poesia deve essere bella , ma vuoi un consiglio manca di sangue”. Ebbene la mancanza può essere di molte cose e diverse per ognuno di noi, mi astengo dall’elencare quelle che in questi versi mancano, perché sarebbe una mia personalissima congettura e probabilmente tutta sbagliata.

  8. A proposito della poesia della Giancaspero non sono d’accordo circa il “quieto scivolare poetico” di cui parla Simone Martino, e neppure sul “manca di sangue”.Giuseppe De Robertis esortava: “portate il dolore con mano leggera”.

  9. caro Salvatore Martino,

    tieni presente che… si tratta di una poesia in sotto tono, che elegge la «durata» di una parola, il tono simbolismo significante di una parola come sospesa su un abisso del «vuoto»: la fine del verso sta qui a indicare il «vuoto» all’esterno della composizione, mentre il «vuoto» all’interno della parola viene mostrato come «durata» del suono. Un po’ come avviene nella musica di Giacinto Scelsi (del quale ricordiamo l’impareggiabile «Quattro Pezzi su una Nota Sola – 1959»). L’allungamento stereometrico della durata di una parola fa sì che il significante si assottigli e si allunghi nel tempo proprio come un elastico sottoposto a una forza divergente. Inoltre, è una poesia «in diminuendo»; al pari della musica contemporanea, di cui la poetessa romana è una profonda conoscitrice, la sua poesia inizia da un «piano», per poi planare, in diminuendo, verso una zona d’ombra, per poi, subito dopo, risollevarsi su un altro piano parallelo e/o traslocato in un altro «luogo». Così, la composizione tipo della Giancaspero vive di questi spostamenti modulati e, verticali e laterali, veri e propri traslochi della modulazione. Tipica procedura della più aggiornata poesia europea femminile (Ekaterina Josifova, Katerina Frostenson, Daniela Crasnaru, Katerina Zoufalova…).
    In questo tipo di poesia è importantissimo il concetto di «luogo», preferibilmente si tratta di «interni», ma con aperture improvvise su degli «esterni», v’è però da dire che esso «luogo» non viene mai nominato in modo diretto ma soltanto «direzionato», alluso dalle parole che si frastagliano in timbri e durate… Le parole che si susseguono cambiano di continuo il senso delle proposizioni, direzionandolo, però, sempre all’interno delle singole brevi o brevissime proposizioni, utilizzando di preferenza il moto verticale.

    Come per un ripensamento,
    come se
    – a metà strada,
    a una svolta,
    a un tratto -,
    ti fermasse un ricordo,
    ti volti,
    riprendi i tuoi passi
    dal viale al portone…

    E ti solleva
    un vortice di scale
    fin su,
    fino a me, alla gioia
    di avermi
    – varcata la soglia –
    negli occhi,
    in fondo al respiro…

  10. Salvatore Martino

    Grazie Giorgio della tua esplicita lezione, che apprezzo moltissimo senza peraltro condividerne il profondo assunto. Che vuoi io forse sono legato ad altri stilemi, ad altre scritture forse per te desuete, Sono per una certa “violenza” del verso, una passionalità contenuta dall’esrcizio razionale, una una rappresentazione della propria weltangschaubg (spero si scriva così ), del dialogo con se stessi e col mondo, nell’armonia circolare della frase, nella sua musica, in una interrogazione sulle cose ultime, dentro un feroce labor limae, uno scivolare di immagini che mi sorprendono e mi commuovono, nella sintassi della poesia così lontana da quella della prosa,quel rivelare agli altri il proprio mondo infero e magmatico, e magari sorprendere il lettore con qualche imprevedibilità, con qualche volo di memoria pindarica…e potrei continuare ma siamo in un blog e tutto va digerito rapidamente senza indugi o ripensamenti. L’era telematica ci impone ormai la fuga ma non in termini bachiani. A proposito di musica caro Giorgio al tuo rispettabile Scelsi io continuo a preferire Mozart o Scriabin, Monteverdi o Gesualdo da Venosa..

  11. ubaldo de robertis

    Da cultrice dell’arte musicale, da esperta di stilistica, da attenta osservatrice delle cose del mondo,( “non violenta riflessione del mondo”, la definisce Steven Grieco-Rathgeb) mai separatamente, tante peculiarità tutte insieme senza voler guastare il sangue (quello di cui parla Martino), Costantina Donatella Giancaspero sa esprimere sottovoce, con naturalezza, le sue verità.
    Ubaldo de Robertis

    • Salvatore Martino

      Ad una più attenta lettura, e sempre bisognerebbe leggere più volte un testo, la poesia della Giancaspero mi appare più musicale, più profonda nella sua apparente linea del quotidiano, certamente frutto di una accuratissima stesura. Carissimo Ubaldo hai un tantino frainteso il io manca di sangue, che voleva soltanto essere una metafora onnicomprensiva di molti desiderata da rintracciare per me nella scrittura poetica.

  12. È una poesia molto ben congegnata questa della Giancaspero, apparentemente semplice, vi sono nascoste cose interessanti.
    Capisco i riferimenti di Caronia riguardo a Bonnefoy, meno quelli a Mallarmê.
    Brava.

  13. Caro Salvatore Martino,
    sono contento che ad una rilettura tu abbia rilevato il positivo della poesia della Giancaspero. In effetti è un tipo di versificazione che può passare, ad una lettura superficiale e veloce, inosservata, come è capitato al prefatore il quale ha parlato di tutto tranne che della sua poesia, ma tant’è, sappiamo che ci sono in giro prefatori tuttofare e tuttologi che si occupano e parlano di tutto con lo stesso metro, banalizzando tutto ciò che toccano. E invece scrivere una prefazione è una responsabilità grave di cui un vero poeta o un critico colto dovrebbero esserne consapevoli.

    Sì, è una poesia in sotto tono, bisbigliata, fatta di accenni, di trasalimenti… ed è facile che in un universo segnico come quello attuale possa essere miscompresa…

    Io certo non sono un tuttologo, spesso mi sono dichiarato incompetente dinanzi a certa poesia, e questo è un atteggiamento, credo, di onestà, non si può scrivere di tutto e di tutti… in certe operazioni scrittorie io neanche mi ci provo, semplicemente perché, come dico spesso, non ho le chiavi ermeneutiche per entrare dentro certi testi.

  14. Costantina Donatella Giancaspero

    Gentili amici,
    mi onora l’essere presente in questa pregevole rivista. Ringrazio, quindi, Giorgio Linguaglossa, per avermi inserita dopo un’attenta, onesta lettura dei miei testi, e l’autore della recensione, Sabino Caronia.
    Ma, non meno grata sono a voi, amici poeti, che, con le vostre parole, siete entrati nelle mie, cogliendone il senso, in particolare quello non detto, come hanno rilevato Luciano Nanni e Flavio Almerighi (che ringrazio per i complimenti): un senso espresso “con mano leggera, preferendo l’ombra […] la parola scarna”, scrive Anna Ventura. Ed osserva bene Lucio Mayoor Tosi: “l’autrice non dice, ma indica”; e indica, lui, i miei aggettivi, il loro “uso sapiente” (grazie!).

    Ha scavato Giorgio Linguaglossa, approfondito alla perfezione la mia poetica, fatta di “inappariscenza” e di “silenzio”, “quello vero, che sta dentro le cose”, quel citato “supplemento” di cui parla Derrida.
    Mi rispecchio senz’altro nel commento sensibile e acutissimo di Steven Grieco Rathgeb, soprattutto dove dice: “queste poesie esprimono una non invasiva, non violenta riflessione del mondo, una sottile quasi impercettibile trama di pensiero sulle cose, e in particolare sui sentimenti umani filtrati attraverso quelle cose”. Le cose, ovvero tutto ciò che costituisce l’ambiente in cui siamo: Una realtà più grande del nostro egoico “animo”, definisce meglio Steven Grieco. E trovo molto originale l’aggettivo “ecologica” attribuito alla mia scrittura.

    Ma ho apprezzato molto Salvatore Martino, nei suoi dubbi, nelle sue iniziali perplessità: a volte, questo si rivela più costruttivo del consenso, se aiuta noi stessi a interrogarci, per condurci a comprendere la validità o meno del nostro operato. Grazie, dunque, all’onestà di Salvatore Martino, il quale, pur appartenendo a una differente, peculiare corrente poetica, ha infine riconosciuto la musicalità e l'”accuratissima stesura” della mia poesia, che giunge a quell'”esprimere sottovoce, con naturalezza, le sue verità”, come fa notare Ubaldo de Robertis.
    “Brava” mi scrive Giuseppe Talia. E io ricambio con “bravo”, per la sua acuta osservazione che mi accosta più a Bonnefoy che a Mallarmè.

    In conclusione, desidero esprimere a Giorgio Linguaglossa la mia stima e ribadire la più sentita gratitudine per la grande opportunità che mi ha offerto, sia di far conoscere la mia poesia, sia, soprattutto, di avermi posta in dialogo con tanti qualificati amici poeti. Spero, così, di poter proseguire il lungo cammino della poesia e di perfezionarlo strada facendo. Perché “è sempre alta/ la meta, lontano/ il significato a cui tendi,/ più lontano/ ed esteso di questo/ che conosciamo.// È su, nel punto/ remoto in cui/ s’aprono/ al tuo coraggio// angoli/ di cielo vuoto”.

    Grazie a tutti! A presto…
    Costantina

  15. Salvatore Martino

    Carissima Costantina, posso appellarla col nome soltanto,lei dimostra intelligenza e saggezza anche nelle risposte ai vari commenti: Sì io sono sempre pieno di dubbi sulla poesia, anche su quella che mi appartiene, perché la stessa è misteriosa e pretende un accostamento con smisurata cautela. Non bisogna essere frettolosi nei giudizi soprattutto quando si intravedono qualità e possibili sviluppi. Del resto io conosco così poco della sua produzione, per cui qualsiasi commento è assolutamente non esaustivo. Se vuole in privato le potrò meglio spiegare che cosa intendo per mancanza di sangue

  16. C’è qualcosa in questa splendida recitazione di Mina di questa canzone che mi riporta alle atmosfere di queste poesie…

  17. E anche in questa canzone degli anni Sessanta c’è qualcosa che nella poesia della Giancaspero si riflette come un remo immerso nell’acqua…

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