L’Epoca della stagnazione stilistica si profila
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.
«dissolvenza» di tutti i concetti «forti»
Oggi va di moda
Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna (Stige, 1992) che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca (I quanti del suicidio, 1972) come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo
Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio
linguaggio poetico.
Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
La de-fondamentalizzazione del discorso poetico
Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
positivizzazione del discorso poetico
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
“La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta.”
(Montale fine anni ’70 ha permesso la) “modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina.”
*
Di tutto il discorso affrontato sulla poesia “moderna”, intesa come ultima scritta in ordine di tempo, mi sono particolarmente soffermata sulle due frasi sopra riportate e credo non sia un caso per la mia “generazione”, che, di fatto, si è ritrovata immersa in quegli epigoni a cui si fa cenno e in quella poesia fatta sostanzialmente di quanto si ha intorno, di quanto blandamente si osserva e ci si ferma a fermare, scusando il gioco di parole, sulla carta o ancora peggio, oggi, sui supporti tecnologici che tolgono anche il gusto del gesto concreto e dello sforzo di “fare” poesia… Si è acquisita, in buona sostanza, l’illusione (e senza nemmeno la eco foscoliana) che tutto possa essere oggetto e materia poetica, assolvendo in questo modo il bisogno esasperato ed esasperante dell’uomo di farsi sentire, di dire “quello che sente” senza nemmeno porsi la domanda se al lettore potrà servire la sua scrittura, di mettersi in mostra, di apparire a tutti i costi, cantando alla perfezione la musica odierna, che, a mio avviso, non ricorderemo nemmeno come ritornello estivo.
L’articolo di oggi, che accolgo con molto favore, chiude un tempo e ne apre un altro, che spero abbia orecchi per essere inteso; un tempo di ritorno alla poesia, come qualcosa di non così semplice e servizievole, realizzato per un “mi piace” in più, ma come qualcosa che realmente attraversi l’Uomo, lo scandagli e che sia capace di giungere e far giungere ad una dimensione differente dalla linearità a cui ci hanno fatti abituare.
AnGre
Estremamente interessante questo artico; propone, infatti, il problema fondamentale di quale futuro , oggi, possa avere la poesia, su quali cardini si possa poggiare!
Più che al dissolvimento, siamo al rimescolamento estremo, continuo e magmatico del linguaggio, così come non esiste più un medio ceto. I governi susseguitisi nell’ultimo ventennio hanno fatto il possibile e l’impossibile per distruggerlo. Esiste un ceto mediatico (dove si intruppano molti analfabeti di ritorno, ma guai a dirlo), che non legge, scrive soltanto. Più che un ceto mediatico quindi un medio evo mediatico. Ai suoi inizi la rete sembrava potesse rappresentare il reperimento di un pubblico nuovo per tutti quei poveri poeti rimasti senza lettori a causa della diseducazione scolastica in tal senso. Ha prodotto frizioni più che confronti. ha massificato vizi e storture che prima appartenevano a un’élite.
Riporto sotto la parte che ho trovato piu’ interessante dell’articolo riguardo al secondo montale e all’agnosticismo-scetticismo.
“La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude.”
Su Montale sono d’accordo nel dire che con “Satura” si chiude la migliore stagione della sua produzione poetica, l’autore apre ad una poesia dal tono piu’ basso e colloquiale, ironico a volte, e questo funziona con alcuni componimenti ma con altri no. La successiva raccolta, “Diario del ’71 e del ’72”, si caratterizza per uno stile veramente “diaristico” e “cronachistico” che non riesce a mantenere lo stesso livello qualitativo di “Satura”.
Con questo non intendo dire che che poesia prosaica, diaristica o cronachistica sia di per se’ un male, mo voglio dire che a Montale mancava la capacita’ di usare l’ironia e quella (eccetto in certi casi) saper “sporcare” il registro linguistico alto con temi e materiali differenti (la chiacchiera, la battuta, i programmi televisivi, gli scioperi, ecc.) senza far cadere la qualita’ stessa della sua scrittura.
Ma perche’ una poesia prosaica, cronachistica o diaristica e’ necessariamente di basso valore?
L’apertura verso la prosa da parte delle poesia e’ un ampliamento di orizzonti, un rischio da correre e non bensi’ qualcosa da evitare, una evoluzione da affrontare e non lo sfacelo della forma-poesia.
Trovo pure discutibile parlare dell’agnosticismo-scetticismo del secondo Montale come se fosse un morbo che, a causa della suo allargamento a macchia d’olio o come una forma virale, abbia rovinato la poesia italiana fino ai nostri giorni diffondendo le sue velenose influenze. Al contrario credo invece che quello fosse un attegiamento critico e conoscitivo molto apprezzabile, non certo fuori dalla storia o impermeabile alla contemporaneita’. E comunque se la poesia e’ espressione di un dato contesto culturale e sociale, allora nulla meglio dell’agnosticismo-scetticismo puo rappresentare la condizioni che moltissimi sentono oggi, senza per questo biasimare altri atteggiamenti. Ma in ogni caso di quali alternative stiamo parlando?
Gentile Daniele Falcinelli,
io ho inteso tracciare sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana e non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola. Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. Oggi occorre capire perché la Crisi esplode in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini, per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca: Montale e Pasolini, hanno scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, hanno dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, anti poesia (chiamatela come vi pare) con “Satura” (1971), ancor più con il “Diario del 71 e del 72” e con “Trasumanar e organizzar” (1968).
Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire capisca. A quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de “La Beltà” di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e visione delle procedure artistiche.
Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. Anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario soggettiva…» (Teoria estetica, 1970, p. 37)
Quello che OGGI non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti linguistiche. Davanti a questa Rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.
Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi…
Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione». Ed io ho risposto: «Un Grande Progetto».
A Flavio Almerighi il quale mi chiede di che si tratta, dirò che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento». Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventato io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione. Farò tre soli nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.
Rilke alla fine dell’Ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.
Rainer Maria Rilke poeta dell’invisibile
Il momento più alto delle Neue Gedichte (1907) lo si trova nella poesia «Orfeo. Euridice. Ermete»; quando Rilke fa tentare a Ermete l’impossibile contatto tra il visibile (il vivente) e l’invisibile (il morto). Il tentativo fallirà. Euridice e Orfeo ormai appartengono a due sfere dell’Essere invincibilmente separate e incomunicanti. Euridice non riconosce più Orfeo, non sa chi egli sia, nemmeno il nome le dice nulla. Quando Ermete le annuncia che Orfeo si è voltato, lei chiede: «chi?». Nei Sonetti a Orfeo (1922) Rilke ritroverà Euridice nei panni della fanciulla Wera, la morta precoce, non nel regno dei morti ma dentro di sé, nella Parola che, come uno scrigno, viene custodita dal poeta.
Una delle strade della poesia metafisica europea è quella che passa per Rainer Maria Rilke. Heidegger lo porta a modello della sua riflessione sul carattere «eventuale» dell’opera d’arte e sul linguaggio poetico come pensiero dell’essere, dove i termini Dichten (poetare) e Denken (pensare) vengono anche messi in stretto rapporto etimologico. La poesia di Rilke parla, indirettamente, dell’impossibile ritorno al passato, che si traduce nel programma di una integrale progetto di trasformazione nell’invisibile del mondo delle cose visibili. In una lettera del 1932, Rilke parla del mutamento che si verifica nelle «cose»:
«Il mondo si restringe perché, da parte loro, anche le cose fanno lo stesso, in quanto spostano sempre più la loro esistenza nella vibrazione del danaro, sviluppandovi un genere di spiritualità che oltrepassa fin d’ora la loro realtà tangibile. Nell’epoca di cui mi occupo (il secolo XIV), il denaro era ancora oro, metallo, una cosa bella e la più maneggevole, la più intelligibile di tutte (…) La terra… non ha altro scampo che diventare invisibile: in noi che con una parte del nostro essere partecipiamo dell’invisibile, abbiamo (almeno) cedole di partecipazione ad esso e possiamo aumentare il nostro possesso di invisibilità durante la nostra dimora qui – in noi soltanto si può compiere questa intima e durevole metamorfosi del visibile nell’invisibile… L’angelo delle Elegie è quella creatura in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo». Da questo punto di vista, l’angelo rilkiano è il simbolo del superamento nell’invisibile dell’oggetto mercificato, cioè la cifra di un rapporto con le cose che va al di là tanto del valore d’uso che di quello di scambio. Come tale, egli è la figura metafisica che succede al mercante, come dice una delle poesie tardive: «Quando dalle mani del mercante / la bilancia passa / all’Angelo che in cielo / la placa e pareggia con lo spazio…».
“Un Grande Progetto”, quale?
L’ha ribloggato su ANDREA GRUCCIA.
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gentile Sig.ra Bettiol,
i cardini sono stati già dati dai versi di Antonio Sagredo…
e credetemi non sono una fan del poeta, ma devo riconoscere la sua maestria.
Noto con disagio e con preoccupazione che la gran parte dei poeti cosiddetti “giovani” non riesce ad accompagnare i propri testi con riflessioni che Anceschi definirebbe nell’ambito della “poetica” (nei casi migliori, l’autocritica si disloca nell’attività, di generico apprendistato, delle traduzioni): sappiamo che lo status delle poetiche è fluido e che sovente i risultati formali non corrispondono alle intenzioni, però le idee espresse dai poeti sulla poesia sono di interesse fondante per ricostruire non solo il milieu del tempo o dei tempi ma per conoscere il tasso di funzionalità, e di suggestione dei patterns della Lingua Intertestuale, data ormai l’accettazione della riduzione dell’artifex a medium fra la Tradizione e lo stratificarsi dell’idioletto. Questa assenza metalinguistica determina una caduta dello spessore informativo e semantico della testura, svuota le valenze che la caratterizzano come ipersegno e alimentano una supina accettazione dei codici del passato; in sostanza, la perdita di memoria e di facoltà giudicante regala la parola a uno stagnante e immobile presente e non permettono alcuna vita e promessa di futuro.
(Remo Pagnanelli, Punti per una improbabile etica-poetica)
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