Kjell Espmark (1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.
Nota critica di Giorgio Linguaglossa
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.
Possiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.
Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi.
Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…
Leggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc.
Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.
Ella è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne vaganti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Ella guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Ella vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.
*
E adesso, un inedito in italiano che fa parte di una raccolta che sta per andare in stampa per Aracne con il titolo di La creazione con una mia prefazione e la traduzione di Enrico Tiozzo:
Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –
La mia mano che mano più non era
prese la sua che ancora era ombra.
E cominciammo a salire su nel buio.
Ad ogni gradino noi creammo
un pezzo dell’altro – un contorno noto,
gli occhi che un giorno scelsero l’altro.
Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.
Vicino alla luce alla fine della scala,
alitato il respiro l’un nell’altra
rimanemmo fermi sopra un gradino
che doveva dirci qualche cosa:
spingi indietro la tua immagine dell’altro
e lascia che l’altro sia l’altro.
Stupiti ci fermammo,
prima che la creazione si compisse,
per imbrigliare il bisogno di riconoscere.
Ed era la sera del sesto giorno.
da Lo spazio interiore, traduzione di Enrico Tiozzo (Aracne, 2014)
La tradita: solo un contorno senza forza
Lei è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne pendolanti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Lei vomita tutta questa vita falsa
questi giornate dal tanfo di gusci di gambero.
Infine siede sul pavimento del bagno
del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni.
Solo il sapore di metallo in bocca.
Dovete restituirmi i miei anni!
I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati
dalla retorica, da questi resti di disperazione
che nemmeno ha parole proprie.
E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno!
Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso.
Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo.
.
A fianco del suo banco c’è il banco
Lei ascolta con tutto il corpo.
Le labbra dell’insegnante si muovono. E lei sente
ma manca tuttavia le sue parole di qualche millimetro
come quando si cerca di prendere una pietra nell’acqua.
C’è un altro mondo, a un palmo di distanza dal suo.
Proprio vicino alla carta della Svezia
pende una carta sulla Svezia –
stesse città e stessi lembi di laghi
stessi campi gialli e verdi
eppure un regno irraggiungibile che risplende.
Adesso discutono, si muovono le bocche.
Certo lei sente. Ma ciò che si dice veramente
passa scoppiettando oltre le sue orecchie
verso chi abita nel paese giusto.
Eppure li può catturare nella pausa
quando raffreddata racconta come presero il padre
che lottava, tirato in ogni direzione.
E la madre che cercava di nascondersi tra le mani.
Tutto viene venduto per venti risate cianciate.
Racconta a gambe aperte, con le calze calate.
Ma nulla viene tolto al suo successo.
Quando poi prende posto nella loro conversazione
incontra quel diaframma sottile
che separa il mondo dal mondo
e quel sorriso che fa così male
perché è fatto per non essere notato.
Se potesse infiltrarsi nella loro Svezia
e cautamente sedersi in mezzo a loro
allora la sedia non diventerebbe una sedia
e lei stessa non diventerebbe reale?
Un passo a lato, non servirebbe di più.
Ma non trova neanche una parola per quel passo.
E la classe sa: lei non la troverà mai.
La lingua tra queste quattro mura
sente la sua vita che verrà.
Lei può lottare fino a smembrarsi tirata in ogni direzione.
In questa grammatica gentilmente inflessibile
ciascuno ha il suo posto finale.
da Quando la strada gira trad. Enrico Tiozzo, Ed Bi.Bo.1993
Impromptu
È un giorno esploso in pezzi.
Abbiamo litigato da annerire l’intonaco
ma abbiamo ritrovato la strada
verso di te, verso di me.
Mi sollevo un po’ in modo che la pelle sudata
frusciando si stacchi dalla pelle
e metto il mio cuore al posto giusto nel tuo:
un piatto di terracotta sopra all’altro.
La finestra è aperta: maggio è blu.
Nella trave sopra noi avanza
la morte un millesimo di pollice, con uno schiocco.
Ma il ciuffolotto rosso sul ramo nudo
canta, canta.
Il piumaggio del petto si muove nel vento.
Quanto più grande è il canto
del corpo tremante!
L’apocalisse silenziosa
Da oblio e indifferenza
vengono i quattro cavalieri
così lisi da secolari riproduzioni
che gli stanchi lineamenti
si possono prendere per pieghe della carta.
I loro zoccoli così silenziosi che la rugiada è intonsa,
il rumore discreto come il russare di un rondinino.
Il primo agita una frusta di paglia
e il verde della giungla si fa bianco.
Il secondo immerge il suo bastone nel fiume
e i pesci affiorano con la pancia all’aria.
Il terzo tira una freccia contro lo spazio
e una luce ignota filtra per la ferita
meravigliato si guarda il braccio che si macchia.
Il quarto apre il suo sacco sulle case
e i molti si accoppiano, ciecamente come mosche,
per riempire la terra ancora e ancora.
Adesso i quattro corrono per la strada del villaggio,
silenziosi come una nuvolea di polvere.
La nostra lingua
può a malapena vederli e fiutarli.
Solo il sonno ha parole
per ciò che a lungo abbiamo attesa
ma che non osiamo riconoscere.
Il dormiente fa un gesto
come per festeggiare o per difendersi
e senza accorgersene cessa di respirare.
.
Illuminazioni
1.
Stavo davanti alla cattedrale contadina di Lau,
ho aperto di un dito la porta,
preparato al bianco fresco della stanza
e sono impietrito. Forse era l’acustica
e le voci dei visitatori insieme con la fessura –
io non ho alcun bisogno di spiegazioni.
Ma tutta la chiesa era una potente bocca
mormorante di voci di angeli.
non c’era alcuna misericordia in quella musica.
2.
I bambini siedono uno di fronte all’altro,
stranamente bianchi
in una stanza bianca davanti a un pianoforte bianco.
È la nostra sala da pranzo e tuttavia non lo è.
I loro capelli sono così chiari che lo sguardo non li regge
essi ridono bassi e acuti
inaspettatamente si accordano.
Anche la musica sembra bianca.
I bambini possono avere quindici e dodici anni.
Difficile decidere
perché non pesano niente
e l’immagine nega un contesto.
Ma c’è qualcosa di strano nella luce.
È troppo chiaro
anche per queste finestre alte.
Allora si vede come le carte bianche alle pareti
scuriscono nei bordi estremi, s’accartocciano
e fanno passare una fiamma, sempre più.
3.
Con il manico del mio ombrello colante
batto sul sarcofago
e ti invito ad uscire
dalla terza fila
nel sotto Escorial.
Silenzio. La pioggia lassù.
Capisco che mi aspetti
nel tuo regale studio.
La scala serpeggia attraverso gli anni.
Il tuono si raccoglie prima della visita.
4.
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro
– il rumore è come quando si strappa un lenzuolo –
e l’odore di anni inibiti esce con la muffa.
Là dietro c’è una donna mummificata
in una stanza più piccola di un armadio.
I suoi occhi cono al di là di ogni conversazione,
la figura sfocata delle tele di ragno.
Le labbra rugose sussurrano,
bianche di rabbia:
– Non potevi lasciarmi morire!
5.
Siedo sulla scala e «mi» rado.
L’acero che nasconde la strada e il mondo
è un litigioso romanzo russo
in cui c’è la storia di tutto il podere.
Nel capitolo di oggi c’è qualcosa in giuoco.
Tolgo uno strato di schiuma e barba:
non c’è alcun volto dietro.
Devo accettarlo
come la mancanza di un contatto linguistico
con la rondine che proprio ora va sotto il cornicione:
un arco jet che atterra su una stazione di lavaggio auto
ma non vuole accettare una metafora.
È presto, è prima del testo.
Le betulle sono attraversate dalla luce.
È così chiaro che il verde dell’erba si arrende.
«Solo se tu rinunci al tuo nome
puoi uscire fuori nel paesaggio.»
Il cerfoglio vaga, una possibile salvezza.
«Hai solo alcuni minuti di tempo».
Il coniglio nell’erba sta fermo,
la sua gola pulsa:
dice di no ad ogni intervista.
6.
Questo è prima dei ludi gladiatori
e siamo ancora nel Foro.
La colonna dei prigionieri ebrea
nell’arco di Trionfo di Tito
trema e sussurra come uno sciame d’api
aggrappato durante un atterraggio di scalo.
Ma ciò che mi ha catturato
è il pezzo di capitello sul terreno:
la sua cesellata foglia d’acanto
esce fuori dalla pietra e inverdisce.
Io sto nell’ombra un po’ aromatica
e leggo un testo che non è mai stato scritto.
7.
Nessuno racconta impunemente
delle armate segrete imperiali a Xi’an.
Un guerriero stracciato mi viene a cercare
insieme con il mio sodale Bei Dao.
La sua voce è rotta, il pensiero è rotto
e cade l’argilla rotta intorno a lui
ma mi viene incontro tuttavia con dignità
e fa segno con la sua mano grigia
che sono chiamato al regno dell’imperatore.
Come se non avesse avuto quel regno con sé!
Ci sono spacchi sul cielo e nelle strade.
Gli amici intorno a me
parlano il nostro venato quotidiano
con polvere di creta che scende dalla bocca.
Uno spacco corre attraverso lo specchio.
Non si riesce a vedere se è nel vetro
o nel mio occhio grigio di creta.
da L’altra vita Edizioni del Leone, 2003 trad. Enrico Tiozzo
È il minuto dopo le rondini.
In una lenta panoramica sono costretto
a staccare me stesso da me.
La sera si libera delle foglie di betulla,
ognuna incisa da un maestro,
e si fa fonda.
Nega l’odore del concime e il canto delle zanzare
e si fa fonda.
Si libera degli sfarfallii del pipistrello
e si fa fonda.
Si libera anche della prima sdrucciolevole
battuta dell’usignolo
e si fa fonda.
Dice così di no all’ultimo grigio rosseggiante
e si fa fonda.
Adesso non esiste più niente
che questa profonda assenza. Infine
il profondo si libera del profondo.
Ed esiste
Rinascita
Abbiamo lasciato la barca senza ormeggio
e vacillando siamo andati verso l’isola scabra
con le teste ronzanti. Un preistorico mare
è scomparso tra gli alberi. Siamo caduti sull’erba
in mezzo al sole. La radura si è spenta, rossa.
L´ultima cosa che ho visto era la tua gola vibrante.
Prima si forma il ronzio delle mosche, poi la luce.
Con occhi socchiusi vediamo il mondo rinnovarsi.
Il vento riempie gli alberi di foglie.
Tu ridi perché c’è l’erba.
La libellula si alza, scende, si alza.
E mille anni sono passati.

enrico tiozzo
Enrico Tiozzo è nato a Roma, dove si è laureato nel 1970 con una tesi sulla ricerca di Dio in Pär Lagerkvist, pubblicata lo stesso anno da Bulzoni. Da oltre trent’anni è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Göteborg, in Svezia. È autore di numerosi studi sulla letteratura italiana del Novecento (Bonaviri, Bertolucci, Sciascia) e sulla lirica svedese contemporanea (Espmark, Forssell, Tranströmer). A partire dagli anni Settanta ha collaborato alle pagine per la cultura prima dei quotidiani “Il Tempo” e “Il Messaggero” di Roma, e successivamente a quelle del “Dagens Nyheter” di Stoccolma. Attivo anche come traduttore, è stato premiato nel 2003 dall’Accademia di Svezia per la qualità del suo lavoro. Tra le sue opere piú recenti figura Il premio Nobel e la letteratura italiana (Catania, La Cantinella, 2002).
La freddezza di questo poeta ne neutralizza le fervide idee fantasiose. Sa di accademico, cosa che in effetti è questo signore. Trovo che la prosa sia una dignitosissima forma d’arte. Non capisco perché molti poeti contemporanei senza musica né ritmo alcuno nel sangue si ostinino ad andare a capo un po’ a caso pur di poter dire sono un poeta, anziché dedicarsi a tempo pieno alla prosa d’arte. Ho provato a leggere i testi senza stacchi nel flusso narrativo e qualcosa ne guadagnano.
Un saluto.
Per compensare in parte l’algido caos lasciatomi dai versi non versi del blocchetto di ghiaccio svedese, e in parte le nuove tendenze linguaglossiane verso la discreta-buona musica contemporanea, l’ascolto di oggi prevede la bizzarra commedia madrigalesca “La pazzia senile”, geniale capolavoro tardo rinascimentale del bolognese Adriano Banchieri. Apprezzabile il Compianto su un grillo morto, notevoli la Proposta di Fulvio alla sua amata Doralice e la Risposta di Doralice all’amante Fulvio, impareggiabile il Balletto di villanelle verso la fine…e così ci prepariamo al ferragosto. Padiglioni auricolari tornate a godere!
Posso anche capire che emozione e poesia abbiano divorziato o siano in sala d’attesa dentro un qualche palazzo di giustizia. Questa comunque non è poesia, ma buona prosa con qualche a capo messo là a vanvera, ottimo consiglio per giornate particolarmente afose. L’effetto criogenico della lettura risolverà.
cari interlocutori,
vi rendo noto che qui siamo davanti al più grande poeta svedese vivente dopo Tranströmer. Mi rendo conto che forse sarebbe il caso di approfondire che cosa vuol dire «emozione» in poesia. Sì, ci sono i poeti che si affidano alla facile emozione e poi ci sono i poeti che evitano con tutte le proprie forze di avvalersi dell’aiuto delle facili emozioni. Tra questi ultimi, in prima fila, c’è Kjell Espmark, uno dei maggiori poeti europei viventi senza alcun dubbio. Per quanto riguarda la «freddezza» della sua poesia (così come appare dalla magistrale traduzione di Enrico Tiozzo), ci sarebbe da fare un lunghissimo discorso che parte dalla freddezza della metafora tridimensionale di Mandel’stam alla freddezza del correlativo oggettivo di Eliot e giungere alla freddezza delle «immagini» di Tranströmer. La più grande poesia europea del Novecento passa di lì, attraverso la stretta cruna dell’ago della «freddezza».
Sarà questione di gusti personali, più che di riverenza verso questo che è sicuramente un grande poeta. Transtomer è stato sicuramente più grande di lui, ma senza voler scomodare il Premio Nobel, basti citare una Katarina Frostenson. Questa lettura non mi coinvolge affatto, e non è nemmeno questione di traduttore, visto che il bravo Tiozzo ha tradotto anche la Frostenson, che mi destò ben altri entusiasmi.
Il cielo «ruvidamente grigio» del Nord, «basso da piegare le ginocchia», le foreste di aceri e di frassini, le betulle, nebbie e pontili, le radure ghiacciate, i boschi brulli e il freddo «a nord del Nord»: le terre del settentrione e degli iperborei, aperte senza soluzione di continuità all’oltre, al doppio, all’antimateria. «Proprio vicino alla carte della Svezia / pende una carta sulla Svezia / stesse città e stessi lembi di laghi / stessi campi gialli e verdi / eppure un regno irraggiungibile che risplende» È il modo in cui si consuma l’Altra vita e dal quale siamo oscuramente attratti, perché «ci manca la vita che viviamo». L’incubo, l’allucinazione, il sogno sono i protagonisti della vicenda interiore che sola vince e abolisce il tempo e gli spazi reali, per sostituirli con quelli non meno reali e vivificanti della poesia. Non esiste più niente che la profonda assenza e «il profondo si libera dal profondo ed esiste». La poesia dà voce alle ombre di uomini rimasti impigliati con i loro nomi sulle pietre tombali, su una superficie di muro dove si aprono porte ma non ci sono stanze. Ed ecco riemergere in mezzo al terriccio, tra il verde dell’erba e del fogliame, nel fresco dell’acqua, tutte le figure finite nel buio e tenute in vita dalle parole dei vivi, tacendo le quali sbiadisce e rischia di svanire la loro presenza. Guai a cancellare le parole che hanno dato ai morti una vita oltre la vita e ai vivi una parte rivitalizzata dentro la memoria più grande. Le parole prendono per mano ogni anima vagante, non solo le anime delle persone illustri ma anche degli uomini comuni, negli squallidi locali delle case più modeste come nelle sale preziose della Biblioteca Reale, perché ovunque si leva una voce a chiedere: «Prestami un po’ di vita». La potente larvale poesia di Kjell Espmark ci testimonia con i suoi lunari riti che bisogna insegnare a parlare al silenzio stesso. È il nostro compito, il nostro scopo, la nostra scommessa per una vita nuova.
(Paolo Ruffilli dal retro di copertina di “L’altra vita”, 2003)
da lombradelleparole.wordpress.com
A commento delle poesie di Kjell Espmark, un mio breve articolo. Grazie a tutti coloro che vorranno leggerlo.
Kjell Espmark: il concavo e il convesso del quotidiano
Questa mattina, aprendo l’Ombra delle Parole, ho trovato, anzi, per meglio dire, ho incontrato, Kjell Espmark: con i suoi smaglianti ottantasei anni, uno “tra i maggiori poeti svedesi della sua generazione”, come leggiamo nella breve ma esaustiva nota biografica. Dopo il commento illuminante di Giorgio Linguaglossa, le poesie di Espmark, le sue parole. La traduzione del prof. Enrico Tiozzo non le ha di sicuro tradite se, alla lettura, ne ho colto tutta la profondità e lo spessore: profondità vertiginosa, a volte, di vuoto che pare risucchiarci, e spessore precario, di superficie irregolare, nel pericolo immanente dell’inciampo, tra rialzi e improvvisi avvallamenti dell’animo; profondità e spessore, in quel concavo e convesso, inganno ostinato di lenti e di specchi, che riflettono, all’occhio del poeta e al nostro, la realtà in cui viviamo, quotidiana, ordinaria, focalizzando il dettaglio più insignificante. Una realtà deformata, dunque, interrotta, spezzata nel frammento delle immagini, che emergono da dentro, da fuori, da lontano; frammento di pensieri, che è frammento stesso della parola e del ritmo. E non distingue il poeta, o chi per lui, non riesce a vedere se quello “spacco” che “corre attraverso lo specchio” sia “nel vetro/ o nel mio occhio grigio di creta”. Un'”esistenza falsificata”, che restituisce alla donna di “Tradita: solo un contorno senza forza” un volto “del tutto estraneo”, mentre vomita nel lavandino i suoi “ricordi menzogneri”.
Affondano laceranti le parole di Espmark nella realtà quotidiana e penetrano profonde in noi lettori. Così, non possiamo sottrarci: siamo all’istante tutt’uno con quelle. E, all’istante, è nostra la sofferenza della donna in “Tradita”, che “siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso”; nostro il disagio per “quel diaframma sottile/ che separa il mondo dal mondo/ e quel sorriso che fa così male/ perché è fatto per non essere notato”; nostra la costernazione per non avere più volto, identità… E, “devo accettarlo”, scrive Espmark, “come la manacanza di un contatto linguistico/ con la rondine che proprio ora va sotto il cornicione”.
Costantina Donatella Giancaspero
Ho aggiunto al post un inedito in italiano che fa parte di una raccolta che sta per andare in stampa per Aracne con il titolo di La creazione con una mia prefazione e la traduzione di Enrico Tiozzo:
Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –
La mia mano che mano più non era
prese la sua che ancora era ombra.
E cominciammo a salire su nel buio.
Ad ogni gradino noi creammo
un pezzo dell’altro – un contorno noto,
gli occhi che un giorno scelsero l’altro.
Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.
Vicino alla luce alla fine della scala,
alitato il respiro l’un nell’altra
rimanemmo fermi sopra un gradino
che doveva dirci qualche cosa:
spingi indietro la tua immagine dell’altro
e lascia che l’altro sia l’altro.
Stupiti ci fermammo,
prima che la creazione si compisse,
per imbrigliare il bisogno di riconoscere.
Ed era la sera del sesto giorno.
…
un arco jet che atterra su una stazione di lavaggio auto
ma non vuole accettare una metafora.
È presto, è prima del testo.
Le betulle sono attraversate dalla luce.
È così chiaro che il verde dell’erba si arrende.
«Solo se tu rinunci al tuo nome
puoi uscire fuori nel paesaggio.»
Il cerfoglio vaga, una possibile salvezza.
«Hai solo alcuni minuti di tempo».
Il coniglio nell’erba sta fermo,
la sua gola pulsa:
dice di no ad ogni intervista.
Gelido? Via, non scherziamo.
Andando più a fondo, non alla sua presunta assenza di emozioni ma alla reazione – questa volta sì, emotiva – di Fratini e Almerighi: credo possa dipendere dal fatto che Kjell Espmark ci immette nell’onirico in modo forse troppo diretto ( cosa che Transtroemer faceva raramente), come dentro un sogno inquietante, con quel tanto di ansia che di solito poi ne deriva.
Tuttavia, a differenza dello stesso Transtroemer, che pure fu maestro del frammento, Espmark lo rende più asciutto, essenziale; sembra aver colto la lezione del premio Nobel e sia andato stilisticamente perfino un passo avanti. Io ci trovo anche delle somiglianze con la poesia di Giorgio LInguaglossa, non fosse che Giorgio scarnifica anche di più – oltre al fatto che GL, a differenza dei due svedesi, non focalizza sulla psicanalisi.
Mayoor grazie, ma limitati a esprimere il tuo punto di vista, senza tentare di metterti nelle scarpe di altri. Almerighi è un cane sciolto che cerca poesia, se non ne trova passa oltre. Esprime il proprio sentore e punto di vista, giusto o sbagliato che sia, e ribadisce la propria diversità. Sia una reazione emotiva o quant’altro non sono affari tuoi. Limitati quindi a parlare per te.
d’accordo ma
spiegami almeno questo: “Questa comunque non è poesia, ma buona prosa con qualche a capo messo là a vanvera” ti sembra un giudizio approfondito?
e Fratini: “Non capisco perché molti poeti contemporanei senza musica né ritmo alcuno nel sangue si ostinino ad andare a capo un po’ a caso pur di poter dire sono un poeta, anziché dedicarsi a tempo pieno alla prosa d’arte” ; a parte il fatto che F. sta ancora alla musicalità del verso… lo chiama “blocchetto di ghiaccio svedese” che, anche se mi fa ridere, esprime un parere del tutto epidermico…
io non parlo per Fratini, queste domande rivolgile a lui, per me, ribadisco è buona prosa con a capo anticipati. Pensierini se pure di altissimo profilo, se per te è Poesia, liberissimo di pensarlo.
Nessuno racconta impunemente delle armate segrete imperiali a Xi’an.
Un guerriero stracciato mi viene a cercare insieme con il mio sodale Bei Dao. La sua voce è rotta, il pensiero è rotto e cade l’argilla rotta intorno a lui, ma mi viene incontro tuttavia con dignità e fa segno con la sua mano grigia che sono chiamato al regno dell’imperatore.
Come se non avesse avuto quel regno con sé!
Ci sono spacchi sul cielo e nelle strade. Gli amici intorno a me parlano il nostro venato quotidianocon polvere di creta che scende dalla bocca.
Uno spacco corre attraverso lo specchio. Non si riesce a vedere se è nel vetro o nel mio occhio grigio di creta.
Spiegami tu a cosa servivano in questo pezzo gli “a capo”
La scrittura per frammenti è garantita dall’uso frequente del punto; se vuoi è un espediente derivante dalla prosa ma ha di buono che, oltre ad assicurare al testo un ritmo incalzante, costringe alla sintesi convincente – che è peculiare della poesia. Si ha un avvicinamento dei generi, questo lo sai bene anche tu. Inoltre, è proprio grazie al punto che possiamo distribuire i versi a piacimento. Cosa diventa allora l’accapo? Nel verso libero svolge un’azione creativa, ma qui? Per me è un optional: va benissimo anche nella tua versione.
Ma no, Tosi è un bravo raghezzo, su di me può dire quello che vuole, come De Palchi Martino Diano e tutti gli altri, finché si resta sulla polemica letteraria va più che bene. In questo caso la penso come Almerighi, perciò non farei che ripetere quanto ha scritto sopra.
Lei ha ragione Tosi, sono rimasto ancora alla musicalità del verso, che non coincide con le rime e le forme chiuse ma pur sempre c’è. Non ci vedo nulla di male.
A proposito di musicalità, l’ascolto di oggi prevede i lavori per liuto del barocco Nicolas Vallet eseguiti dal grande liutaio Paul O’Dette; seguiti da un concerto rock dei Metallica in Canada nel 1986, prima che morisse il bassista, con Hetfield e Ulrich in grandissimo spolvero in condizione pre-panza; infine torniamo al soft, Norman ridiventa la madre (o viceversa) per terminare l’ascolto dei 7 concerti a quattro del 1740 del veneziano Baldassarre Galuppi. Tanto per tenere allenato l’orecchio alla musicalità.
Grazie, Fratini, per la non belligeranza. Io non contesto la musicalità, solo la credenza diffusa di credere che non possa esserci poesia senza musicalità. Dopo le divine cantate della Rosselli direi che possiamo anche voltare pagina, no?
A me non piace la Rosselli, non riesco a farmela piacere. Vedo che riscuote parecchio successo presso gli appassionati, è un brutto che piace. Ma non vedo l’esigenza di fare poesia senza musicalità quando si ha a disposizione la prosa d’arte e la prosa filosofica per esprimere gli stessi concetti. Per esempio alcuni commenti sul blog sono degli straordinari pezzi di prosa critica e filosofica che a volte superano i testi poetici presentati e nobilitano il blog stesso. In essi non occorre andare a capo lasciare spazi vuoto, perché esprimono concetti e non il vuoto degli spazi. Forse come dice Linguaglossa l’orecchio degli italiani non sarà allenato a questo tipo di poesia, come non è allenato al canto indiano e a tante altre cose… ebbè però non è detto neanche che si debba allenarlo. Si può anche vivere (bene) di altro.
Buona giornata
Mi scuso per qualche refuso o ripetizione ma causa lavoro a volte scrivo un po’ di fretta…
Caro Flavio,
a me sembra che proprio l’esempio della poesia di Kjell Espmark da te ridotta in prosa dimostri che messa in prosa la poesia si rivela addirittura incomprensibile, tante a tali sono le deviazioni semantiche rinforzate e determinate dall’a-capo che senza di esso il testo diventa incomprensibile.
Cmq qui siamo nel campo dei gusti personali, e ciascuno ha il proprio gusto. Non lo discuto.
Per quanto riguarda il problema della «freddezza» e della «compressione» del verso in una sequenza atonale e a-periodica, andate a rileggervi su questa rivista le poesie di Helle Busacca. e ditemi: quella è prosa o poesia?
“Un passo a lato non servirebbe più.
Ma non trova neanche una parola per quel passo.
E la classe sa: lei non la troverà mai…”
E poi, di seguito, il perno dei versi di Kjell Espmark alla nostra lettura giunti
attraverso il lavoro fecondo di traduzione di Enrico Tiozzo:
“Lei può lottare fino a smembrarsi tirata in ogni direzione.” (da “A fianco
del suo banco c’è il banco”).
Versi nei quali spazio poetico e tempo poetico, come già segnalato nella
poesia di Tomas Transtroemer de la “Lugubre gondola”, possiedono
la qualità di compressione e di dilatazione in ogni direzione.
Immagini metaforiche in cui esteriore e interiore si incontrano in un
“punto focale di concentrazione” rispetto al quale l’io poetante si scosta,
si mette da parte, senza mai pretendere l’occupazione narcisistica del centro dell’esercizio poetico.
L’uso sapiente del punto fermo, poi, conferisce a ogni verso una propria
compiutezza nell’azione di sganciamento dei versi dal “tempo” poetico
così come in tanta poesia è ancora concepito e praticato: il verso
precedente prepara il seguente e così via…E se si va a toccarne uno
la struttura vien giù…
Lucio Mayoor Tosi e Costantina Donatella Giancaspero propongono una fertile chiave di interpretazione di questa poesia modernissima perché
muovono i loro commenti in quel postulato estetico di Giorgio Linguaglossa che con icasticità ineludibile ha ri- lanciato sul nostro blog di recente:
“Dimmi che uso fai del tempo e dello spazio e ti dirò che poesia potrai fare”.
Ma i commenti, ben articolati, di Fratini e di Almerighi meritano rispetto.
Anche se “rispetto” non significa “condivisione”
Gino Rago
cari amici,
ho scelto questa poesia di Kjell Espmark la poesia di apertura della raccolta L’altra vita, pubblicata dalle Edizioni del Leone nel 2003 nella traduzione di Enrico Tiozzo perché, credo, che dovremmo mandarla a memoria. La poesia non narra niente, c’è un noi, due persone che si sdraiano al sole su un’isola in mezzo al mare. Eppure, si sente il frastuono dell’eternità e il mistero del tempo che passa a millenni. Questa, secondo me, è poesia.
Rinascita
Abbiamo lasciato la barca senza ormeggio
e vacillando siamo andati verso l’isola scabra
con le teste ronzanti. Un preistorico mare
è scomparso tra gli alberi. Siamo caduti sull’erba
in mezzo al sole. La radura si è spenta, rossa.
L´ultima cosa che ho visto era la tua gola vibrante.
Prima si forma il ronzio delle mosche, poi la luce.
Con occhi socchiusi vediamo il mondo rinnovarsi.
Il vento riempie gli alberi di foglie.
Tu ridi perché c’è l’erba.
La libellula si alza, scende, si alza.
E mille anni sono passati.
Molto bella. Più semplice ma secondo me superiore a quelle lette sopra.
Buona serata.
Nove punti in dodici versi. Non difficile da memorizzare. E’ aria nuova e fresca, oltre che una gran bella poesia.