L’intervistadi Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″.
Volkov: Di solito si parla di lei come di un poeta appartenente alla cerchia di Anna Achmatova, che l’ha amata e sostenuta nei momenti difficili e a cui lei deve molto. Ma dalle nostre conversazioni so che, sulla sua formazione poetica, Marina Cvetaeva ha influito molto più dell’Achmatova, e che lei ha conosciuto le poesie di Cvetaeva prima di quelle di Achmatova. Si può dire dunque che è stata lei il “poeta della sua giovinezza”, la “stella cometa” di quel periodo. Lei parla ancora oggi della creatività di Cvetaeva con incredibile entusiasmo e con una passione che, per un ammiratore dell’Achmatova come me, sono molto insolite. Molti dei suoi commenti su Cvetaeva, almeno per me, suonano paradossali. Ad esempio, quando parla della sua poesia, spesso la definisce calvinista. Perché?
Brodskij: Prima di tutto per l’assoluta novità della sua sintassi, che le permette o meglio la costringe ad andare fino al limite estremo del verso. Il calvinismo in fondo è una cosa molto semplice, è una dura lotta dell’uomo con se stesso, con la sua coscienza e la sua consapevolezza. In questo senso, tra l’altro, anche Dostoevskij è un calvinista. Calvinista, in sostanza, è l’uomo che esercita su se stesso una sorta di Giudizio Universale, senz’attendere l’arrivo dell’Onnipotente. In questo senso, non esiste in Russia un altro poeta come lei.
Volkov: E il Puškin della Rimembranza?
E con disgusto io rileggendo la mia vita
Mi sento tremare e maledico.
Tolstoj ha sempre sottolineato l’aspetto di cruda auto condanna di questi versi di Puškin.
Brodskij: Di solito si pensa che in Puškin ci sia tutto, si è sempre pensato così per più di settant’anni dopo il duello. Dopo di che è arrivato il XX secolo… Ma ci sono molte cose che mancano in Puškin e non solo per il cambiamento delle epoche, della storia. In Puškin mancano molte cose, sia per una questione di temperamento, sia per un fatto di sesso; le donne sono sempre le più spietate nelle loro pretese morali. Dal loro punto di vista, da quello di Cvetaeva in particolare, Tolstoj semplicemente non esiste. Come fonte di giudizio su Puškin, comunque. In questo senso io sono addirittura più donna di Cvetaeva. Cosa poteva saperne il nostro conte “millelibri” di auto condanna?
Volkov: Ricorda Festino in tempo di peste? “Si dà un’ebbrezza nella guerra, sul ciglio del pauroso abisso”: in questi versi di Puškin non si sente la furia delle forze elementari, l’impeto della ribellione, come in quelli di Cvetaeva?
Brodskij: In Cvetaeva non c’è nessuna ribellione, Cvetaeva è una radicale impostazione del problema:
La voce della verità celeste
contro la verità terrestre.
In entrambi i casi – si badi bene – dice “verità”. In Puškin questo non c’è, soprattutto la seconda verità. La prima è evidente, ed è stata completamente usurpata dall’ortodossia. La seconda, nel migliore dei casi, è soltanto una realtà, ma non la verità.
Volkov: Mi sorprende sentirglielo dire. Ho sempre pensato che Puškin parlasse anche di questo.
Brodskij: No, questo è un argomento enorme e sarebbe meglio non toccarlo. Cvetaeva qui parla davvero del Giudizio Universale, del “giorno dell’ira”, che è veramente tale, non fosse altro per il fatto che tutti gli argomenti a favore della verità della terra sono già stati elencati, e in questo elenco Cvetaeva arriva fino al limite estremo, anche se sembra si lasci trasportare. Proprio come gli eroi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Non dimentichiamo che Puškin è un aristocratico. E, se vogliamo, un inglese nel suo rapporto con la realtà, un membro di un club inglese: ed è sempre discreto, in lui non c’è angoscia, non ce l’ha. Non c’è neanche in Cvetaeva, ma il suo modo di fare domande à la Job, alla maniera di Giobbe, “o questo, o niente”, genera quell’intensità che in Puškin non si trova. E i suoi puntini sopra la “ë” vanno oltre ogni connotazione musicale, ogni epoca, ogni contesto storico, ogni esperienza personale e temperamento. Sono lì perché lo spazio sopra le “e” deve essere riempito.
Volkov: Se si parla di angoscia, allora artisti considerati universali, come ad esempio Puškin o Mozart, non ne hanno davvero. Mozart aveva un sapere precoce, come un lillipuziano: era già vecchio prima ancora di crescere.
Brodskij: In Mozart non c’è niente di straziante, perché è oltre l’angoscia. Mentre Beethoven o Chopin vi erano immersi.
Volkov: Certo, in Mozart possiamo trovare dei riflessi del sovraindividuale, riflessi che Beethoven e soprattutto Chopin non avevano. Ma Beethoven e Chopin furono figure talmente vaste…
Brodskij: Può darsi, ma più in senso orizzontale che in altezza.
Volkov: Capisco cosa vuol dire. Ma da questo punto di vista, il crescendo del tono emotivo di Cvetaeva dovrebbe, piuttosto, scoraggiarla.
Brodskij: Proprio il contrario, nessuno lo capisce.
Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…
Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.
Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?
Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.

Mandel’stam a Firenze, 1913
Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.
Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.
Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?
Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.
Volkov: Nella poesia di Cvetaeva una cosa mi ha sempre spaventato, e cioè la sua didatticità. Non mi piaceva il suo indice puntato, la sua voglia di masticare tutto fino alla fine e di concludere poi con un truismo rimato, per cui, forse, non valeva neanche la pena di coltivare quegli orti poetici.

Marina Cvetaeva, 1914
Brodskij: Sciocchezze! In Cvetaeva non c’è nulla di simile! C’è un pensiero che di solito è estremamente scomodo e che viene portato fino alle estreme conseguenze. Da questo, forse, si può avere l’idea che quel pensiero, come si dice, punti l’indice contro di noi. Una certa didascalicità si può trovare in Pasternak: “Vivere una vita non è attraversare un campo”, ecc… ma in ogni caso non in Cvetaeva. Se si potesse ridurre la poesia di Cvetaeva ad una formula, allora questa sarebbe:
Al tuo mondo dissennato
una sola risposta – il rifiuto.
Da questo rifiuto Cvetaeva trae anche un certo godimento; quel “no” lei lo pronuncia con un piacere sensuale: “No-o-o!”
Volkov: In Cvetaeva c’è una qualità che è anche una forma di dignità: è aforistica. Tutta Cvetaeva si può scomporre in citazioni, quasi come in L’ingegno, che guaio! di Griboedov.
Brodskij: Oh, certo!
Volkov: Ma proprio questo senso aforistico di Cvetaeva, in qualche modo, mi ha sempre spaventato.
Brodskij: Io non ho la stessa sensazione. Perché la cosa principale in Cvetaeva è il suono. Ricorda il famoso almanacco del periodo di Chruščëv Pagine di Tarusa? È uscito, mi sembra, nel 1961. C’era una raccolta di poesie di Cvetaeva (e a chi le ha scelte, per inciso, faccio un profondo inchino). E quando ho letto una sua poesia dalla serie Alberi ero completamente scioccato. Cvetaeva ci dice:
“Amici!
Legione di confratelli!
Voi, onde, spazzate via
le tracce dell’offesa terrena.
Bosco! Il mio Eliseo!”
Cos’è questo? Sta forse parlando di alberi?
Volkov: “La mia anima, le ombre dei Campi Elisi…”.
Brodskij: Certo, chiamare bosco i Campi Elisi è una grande formula. Ma non è soltanto una formula.
Volkov: Negli Stati Uniti, e sulla loro scia in tutto il mondo, si studia il ruolo delle donne nella cultura con grande interesse; si esplorano le caratteristiche del contributo delle donne nelle arti, nel teatro, nella letteratura. Pensa che la poesia delle donne sia qualcosa di specifico?
Brodskij: Alla poesia non si possono applicare aggettivi, così come al realismo, tra l’altro. Molti anni fa, credo nel 1956, ho letto da qualche parte che in un incontro tra scrittori polacchi, in cui si stava discutendo della questione del “realismo socialista”, qualcuno si è alzato e ha detto: “Sono dalla parte del realismo, ma senza l’aggettivo”. Affari polacchi…
Volkov: Tuttavia, in poesia, la voce di una donna è diversa da quella di un uomo?
Brodskij: Solo nelle desinenze verbali. Quando sento:
Ci sono tre epoche della memoria.
La prima è come fosse ieri…
non so dire se chi li ha pronunciati è maschio o femmina.

ritratto di Anna Achmatova
Volkov: Non riuscirò mai a separare questi versi dalla voce di Achmatova. Questi versi sono pronunciati proprio da una donna con un portamento regale…
Brodskij: L’intonazione regale di queste poesie non è tanto nella postura dell’Achmatova, quanto in quello che lei dice. La stessa cosa è con Cvetaeva:
Amici!
Legione di confratelli!
Chi dice questo? Un uomo o una donna?
Volkov: E allora questo:
Oh, lamento delle donne di tutti i tempi:
Mio caro che cosa ti ho fatto?
Questo è proprio il grido di una donna…
Brodskij: Sa Solomon, sì e no. Naturalmente, il contenuto è di una donna. Ma in realtà… in realtà è solo la voce della tragedia – a proposito, la musa della tragedia è femminile, come tutte le muse del resto. La voce di un’enorme sciagura. Giobbe è un maschio o una femmina? Cvetaeva è un Giobbe con la gonna.
Volkov: Perché la poesia di Cvetaeva è cosi appassionata e tempestosa, e allo stesso tempo così poco erotica?
Brodskij: Mio caro, rilegga le poesie di Cvetaeva a Sofija Parnok! Per quanto riguarda l’erotismo ci mette tutti nel sacco, compreso Kuzmin e tutti gli altri. “Senza penetrare, e senza penetrare, e senza penetrare…” Oppure: “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”. Allora che altro serve! È che qui ancora una volta non è l’erotismo ciò che vale, ma il suono. Il suono per Cvetaeva è sempre la cosa più importante, indipendentemente da quello di cui tratta. E ha ragione, e alla fine questo suono si riduce ad una cosa sola: “Tic-tac, tic-tac”. Scherzo…
Volkov: Alla poesia russa è successo qualcosa di strano. Per circa cento anni, da Karolina Pavlova a Mirra Lochvickaja, la donne hanno svolto un ruolo marginale nella poesia russa. E improvvisamente, sono apparsi di colpo due talenti come Cvetaeva e Achmatova, a livello dei giganti della poesia mondiale!
Brodskij: Forse non c’è nessun collegamento con il tempo. O forse c’è. Il fatto è che le donne sono più sensibili alle violazioni etiche, all’immoralità psicologica e intellettuale. E questa immoralità generalizzata è esattamente quello che il XX secolo ci ha offerto in abbondanza. E le direi anche questo: nel suo ruolo biologico l’uomo è un conformista, giusto? Un semplice esempio mondano: il marito rientra a casa dal lavoro accompagnato dal suo capo. Dopo aver pranzato il capo se ne va. La moglie allora dice al marito: “Come hai osato portare quel bastardo a casa mia?” Ma quella casa, se proprio vogliamo, va avanti grazie ai soldi che quel bastardo dà a suo marito. “A casa mia!” La donna si erge su una posizione morale perché può permetterselo. L’uomo ha un obiettivo diverso, e per questo chiude gli occhi su molte cose. Quando poi, di fatto, dovrebbero essere la posizione etica e i valori etici a stabilire il bilancio dell’esistenza. Le donne affrontano questa situazione in un modo più efficace.
Volkov: Ma allora, come spiega il comportamento così ambiguo di Cvetaeva in quella losca storia di spionaggio in cui fu implicato suo marito, Sergej Efron: l’omicidio del transfuga Ignatij Rejss e la precipitosa fuga di Efron a Mosca? Efron è stato un agente dello spionaggio sovietico nel periodo più sordido dell’epoca staliniana. E non parliamo poi di quanto sia facile, dal punto di vista etico, condannare un tale personaggio! Ma Cvetaeva, ovviamente, ha pienamente e completamente accettato e sostenuto Efron.

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair
Brodskij: Per questo c’è un proverbio: “l’amore è cieco”. Cvetaeva si è innamorata di Efron molto presto, da ragazza, e per sempre. Era una persona di grande onestà interiore. Ha seguito Efron “come un cane”, mettendo in pratica le sue stesse parole. E qui si vede il suo principio morale: essere fedele a se stessa. Essere fedele alla promessa fatta quando era ancora una giovane ragazza. E niente di più.
Volkov: Posso essere d’accordo con questa spiegazione. Ogni tanto si cerca di giustificare Cvetaeva con il fatto che era probabilmente all’oscuro dell’attività di spionaggio di Efron. Ma è ovvio che sapeva! Se gli eventi drammatici legati all’assassinio di Rejss fossero stati per lei una sorpresa, non avrebbe mai seguito Efron a Mosca. È probabile che Efron non le avesse mai rivelato i dettagli del suo lavoro di spionaggio. Ma Cvetaeva lo sapeva, o almeno intuiva l’essenziale. Lo vediamo nella sua corrispondenza.
Brodskij: Assieme a tutte le altre disgrazie, ha dovuto vivere anche questa catastrofe. In effetti non so nemmeno se sia una catastrofe. Il ruolo del poeta è di spiritualizzare la comunità umana: tanto gli uomini quanto il loro ambiente. Cvetaeva possedeva questa capacità, o meglio, vocazione, al massimo grado: mi riferisco alla sua tendenza a mitizzare l’individuo. Più una persona è piccola, meschina, più è gratificante il materiale adatto a questa mitizzazione. Non so cosa sapesse Cvetaeva della collaborazione di Efron col GPU, ma penso che se anche avesse saputo tutto, non lo avrebbe mai abbandonato. La capacità di vedere un senso contro ogni apparenza è una caratteristica del vero poeta. E Cvetaeva poteva spiritualizzare Efron, se non altro perché si trovava già di fronte al disastro totale della sua persona. E oltre a questo, per Cvetaeva è stata una colossale lezione sul male e un poeta non può non trarre profitto da una simile esperienza. Marina si è comportata in questa situazione con molta più dignità, e in un modo molto più naturale di come siamo abituati ad agire noi! Noi infatti che facciamo? Qual è la prima e principale reazione quando ti fanno il “contropelo”? Se una sedia non ti piace, non fai che portarla fuori dalla stanza! Se una persona non ti piace, la mandi al diavolo! Ti sposi, divorzi, ti sposi un’altra volta, due volte, tre volte, cinque volte! Hollywood, insomma. Marina, invece, ha capito che un disastro è un disastro, e che da questo si possono imparare molte cose. E inoltre – cosa che forse era più importante per lei in quel momento – con Efron nonostante tutto aveva avuto tre figli, che non erano così simili al padre, erano diversi. Questa, almeno, era l’impressione che aveva. E tra l’altro, provava un tale senso di colpa nei confronti della figlia, che non era riuscita a strappare alla morte, e si giudicava così duramente, da non potere nemmeno condannare Efron. Mi ricordo che una volta, Susan Sontag, in una conversazione, ha detto che la prima reazione di un essere umano di fronte a una catastrofe è pressappoco la seguente: dov’è l’errore? Cosa si deve fare per riprendere il controllo della situazione perché non si ripeta? Ma diceva anche che esiste un altro modo di comportarsi: lasciare che la tragedia faccia il suo corso, lasciarsi trapassare, schiacciare. Come dicono i polacchi: “stendersi sotto”. E se si riesce a rimettersi in piedi si è diventati un’altra persona. Questo, se vuole, è il principio della Fenice. Ricordo spesso queste parole della Sontag.
Volkov: Mi sembra che Cvetaeva non si sia mai ripresa dopo il disastro con Efron.
Brodskij: Non so. Non ne sono così sicuro.
Volkov: Il suo suicidio è stato una risposta alle sofferenze che ha accumulato nel corso di molti anni. Non è così?
Brodskij: Certamente. Ma sa, solo la persona che si è suicidata potrebbe analizzare e parlare con autorevolezza degli eventi che l’hanno condotta a farlo.
Volkov: Tempo fa mi sono interessato alla questione degli omicidi politici in Europa negli anni trenta, anche perché è stata coinvolta una grande cantante russa, Nadežda Plevickaja. Ho letto molto su queste persone. Ora c’è la tendenza a presentare gli assassini come idealisti che si sono lasciati trascinare in quegli affari loschi dalle loro convinzioni ideologiche. In realtà, c’era un gran numero di sordidi personaggi che lavoravano sia per l’Unione Sovietica di Stalin che per la Germania di Hitler. Con il loro aiuto sono state eliminate molte personalità indipendenti che ostacolavano sia Stalin che Hitler. Alcuni diventavano spie per denaro, per avere privilegi, altri per sete di potere. Qui l’idealismo davvero non c’entra.
Brodskij: Credo che il caso Efron sia un classico esempio della catastrofe di una personalità mancata. Da giovane sei pieno di ambizioni, speranze, di mille cose. E alla fine ti ritrovi a Praga a recitare in un teatro di dilettanti. E allora cosa fai? O ti suicidi o ti metti al servizio di qualcosa. Perché proprio col GPU? Perché la sua famiglia, tradizionalmente, era antimonarchica e perché quando lasciò la Russia con l’Armata Bianca non era che un ragazzo. Una volta cresciuto, poi, ne aveva visti abbastanza di tutti questi “difensori della patria” in esilio, e così non gli rimaneva altra scelta che andare nella direzione opposta. E in più c’erano lo Smenovechovstvo, l’Eurasismo, Berdjaev, Ustrjalov. Ingegni raffinati, l’idea della statalizzazione comunista. “La Sovranità”. Per non parlare poi del fatto che era più comodo lavorare come spia piuttosto che abbrutirsi in una catena di montaggio di una qualsiasi Renault. E inoltre non è così invidiabile essere il marito di una famosa poetessa. Non so se Efron fosse una carogna o un miserabile, forse più quest’ultimo, anche se si è comportato davvero come una carogna. Ma perché Marina lo amasse, non spetta a me giudicarlo, e anche se le avesse dato qualcosa, da lei ha ricevuto molto di più. E per quel poco che le aveva dato, verrà salvato. Quel “poco” sarà la chiave, la “cipollina” che gli spalancherà le porte del paradiso. E poi dove ha mai visto, in questo ambiente, un matrimonio felice? Un poeta felice nella sua vita coniugale? No, le disgrazie non arrivano mai da sole, ma in “branco”, col marito o la moglie in testa.
Volkov: Come spiega l’indistruttibile entusiasmo di Cvetaeva per Vladimir Majakovskij? Gli ha dedicato una poesia quando era ancora in vita, poi ha risposto al suo suicidio dedicandogli un intero ciclo. Mentre l’opinione di Achmatova su Majakovskij cambiava in continuazione. Lei, ad esempio, si è offesa moltissimo quando ha scoperto che la sua Il re dagli occhi grigi era stata cantata da Majakovskij sull’aria di Alla fiera se ne andava lo spavaldo villano.
Brodskij: Non avrebbe dovuto prendersela per questo. Perché anche i versi di Majak si possono trasporre e ripresentare nel modo che si preferisce. Tutte le sue poesie in scala si possono ristampare in colonna, in quartine, e tutto semplicemente troverà il suo posto. E forse un esperimento del genere è molto più rischioso per Majakovskij che per Achmatova. D’altronde questo succede spesso: al poeta piace proprio quello che non farebbe mai nella vita. Prenda, ad esempio, l’atteggiamento di Mandel’štam verso Chlebnikov. Per non parlare poi del fatto che Majakovskij si comportava in modo davvero archetipico. Un quadro completo: dal poeta d’avanguardia, fino ad arrivare al cortigiano e alla vittima. E sei sempre roso dal tarlo del dubbio: forse bisogna fare proprio così? Forse siamo noi a essere troppo chiusi e Majak, invece, era veramente autentico, estroverso e faceva tutto in modo grandioso? E se una poesia non funziona, si può sempre trovare una scusa: le cattive poesie sono i cattivi giorni del poeta. Poi andrà meglio, poi ci si riprenderà. Ma i giorni cattivi di Majak sono stati davvero tanti… Eppure è proprio quando è andato tutto storto che le poesie sono diventate meravigliose. Certo che poi è uscito di carreggiata definitivamente. E proprio lui è stato la prima grande vittima, grande perché aveva un grande dono. Poi quello che ne ha fatto è un’altra questione. Certamente anche a Marina sarebbe piaciuto questo ruolo di poeta tribuno, aveva dentro la stessa “bestia”. Da qui sono nati i versi con questo meraviglioso pastiche à la Majak, che sono perfino meglio dell’originale:
Arcangelo dal passo pesante
salve, nei secoli, Vladimir!
Ecco qua tutta la scaletta majakovskiana confezionata in due versi.
Volkov: A questo proposito, uno degli esperimenti che Majakovskij ha fatto sulle poesie di un altro poeta mi sembra molto ingegnoso. Nella Sconosciuta di Blok, Majakovskij, ha sostituito “sempre senza compagni, sempre sola” con “tra i libertini, sempre sola”. Majakovskij ci diceva che “sola, senza compagni” è una tautologia.
Brodskij: Mi sembra un giochetto abbastanza mediocre. Per quello che riguarda Majkovskij e Cvetaeva avrei un’ulteriore considerazione. Penso sia stata attratta da lui per ragioni polemiche e poetiche. È Mosca, lo spirito di Mosca, il pathos espressivo della poesia. Le assicuro che in termini puramente tecnici Majakovskij è una figura estremamente seducente. Le rime, le pause. E soprattutto, credo, la complessità e la libertà dei suoi versi. Questa tendenza si ritrova anche in Cvetaeva. Marina, però, non va mai a briglie sciolte come Majakovskij. Majakovskij non conosceva altra lingua poetica, mentre Cvetaeva poteva lavorare su più registri. E comunque, qualunque sia la libertà sonora e d’intonazione dei versi di Cvetaeva, lei tendeva sempre all’armonia. Le sue rime sono più precise di quelle di Majakovskij, anche nei casi in cui i loro stili convergono.
Volkov: Tra l’altro, c’è un punto dove i suoi gusti si avvicinano sor-prendentemente a quelli di Majakovkskij: entrambi non amate Tjutčev. Majakovskij trovava solo due o tre poesie decenti in Tjutčev.
Brodskij: Non posso dire di avere un’avversione per Tjutčev, ma naturalmente preferisco di gran lunga Batjuškov. Tjutčev è indub-biamente una figura più significativa. Ma tutte queste discussioni sulle sue posizioni metafisiche, e cose del genere, non devono farci trascurare il fatto che mai prima d’allora la letteratura russa aveva prodotto figure così servili. I nostri lacchè dell’epoca di Stalin non sono che dei mocciosi rispetto a Tjutčev, non solo nei confronti del suo talento, ma soprattutto rispetto all’autenticità dei suoi sentimenti. Tjutčev non si accontentava di baciare gli stivali dell’imperatore, glieli leccava proprio. Non so perché Majakovskij ce l’avesse tanto con lui, forse perché le loro situazioni erano simili. Io non riesco a leggere il secondo volume di Tjutčev, non dico senza disgusto, ma senza esserne stupefatto. Da una parte sembra che il carro dell’universo si lanci verso il santuario del Cielo, dall’altra si cade sulle cosiddette “odi servili”, per utilizzare l’espressione di Vjazemskij. Tra poco, ci può scommettere, in Russia quei “bastardi al potere” lo metteranno su un piedistallo. Insomma, coi grandi poeti lirici che osannano tanto i circoli illegali bisogna tenere gli occhi aperti. Prima o poi vorranno la loro ricompensa. Così i dissapori con la “polizia morale” verranno equilibrati dagli Osanna al Capo Supremo. È sgradevole tutto questo. Ma ci pensa il nostro secolo, con le sue bassezze ripugnanti, a liberarci da tutti questi miseri tornaconti. Batjuškov, ad esempio, era un patriota tanto quanto Tjutčev, e per di più è stato in guerra. Tuttavia non si sarebbe mai prestato ad una simile indecenza. Batjuškov è stato largamente sottovalutato nella sua epoca, e lo è ancora oggi.
Volkov: Mi piace molto Batjuškov, tra l’altro mi sono interessato a lui dopo aver letto Cvetaeva, che nella sua poesia “In memoria di Byron” inizia proprio con un meraviglioso e incantevole verso di Batjuškov: “Ho lasciato la brumosa riva di Albione…”. Le poesie di Cvetaeva e di Batjuškov sono state pubblicate quasi contemporaneamente, se lei ricorda, nella collana “Biblioteca del Poeta”. Ciò nonostante non possiamo paragonare Batjuškov a Tjutčev.
Brodskij: Sa, Solomon, probabilmente ho i miei pregiudizi, dei chiodi fissi professionali, e magari questa è una scusa. Ma le consi-glio di rileggere Batjuškov, tra l’altro, rileggerlo a New York…
Volkov: Secondo me non c’è niente di meglio che rileggere Batjuškov guardando l’Hudson. I tramonti sull’Hudson “si sdraiano” perfettamente “sotto” Batjuškov, anche “sotto” i poeti minori. E infatti, qui a New York, rileggo anche Goleniščev-Kutuzov due o tre volte l’anno.

Velemir Chlebnikov
Brodskij: Che non è male. In generale, tra i poeti russi, non vorrei dire di secondo piano, ma di seconda fila, c’erano delle personalità assolutamente meravigliose. Ad esempio Dmitriev con le sue favole. Che poesia! La fiaba russa è una cosa assolutamente stupefacente. Krylov è un poeta geniale con una capacità sonora comparabile alla poesia di Deržavin. E Katenin! Nessuno ha scritto niente di così penetrante sul triangolo amoroso. Guardi adesso se i tramonti sull’Hudson non s’intonano con Katenin. O ancora Vjazemskij, a mio parere è il fenomeno più considerevole della pleiade puškiniana. È sempre così, la società designa un poeta come il più grande, come capofila. Questo accade soprattutto in una società autoritaria, a causa di quel parallelismo idiota tra il poeta e lo zar. Ma la poesia è molto di più di quello che un “dominatore delle menti” suggerisce. Scegliendone uno solo, la società si condanna all’una o all’altra versione di assolutismo monarchico. Cioè, rifiuta il principio democratico. Ed è per questo che poi non ha alcun diritto di incolpare il sovrano o il suo primo ministro: la società stessa è colpevole della scelta dei suoi lettori. Se avessero conosciuto meglio Vjazemskij e Baratynskij, non avrebbero avuto una fissazione così grande per lo zar Nikolaša. Le libertà dei cittadini sono il prezzo che la società civile paga per l’indifferenza alla cultura. Il restringimento dell’orizzonte culturale è l’origine delle ristrette prospettive politiche; niente quanto l’autocastrazione culturale prepara così bene il terreno per l’instaurazione della tirannia. E alla fine è logico che si arrivi a tagliare le teste.
Volkov: Lei ha elencato alcuni poeti di, diciamo, “seconda fila”: Dmitriev, Katenin, Vjazemskij. Cosa mi piace di loro? Che sono personalità forti e attraenti e non solamente degli scrittori notevoli. La vita di ciascuno di loro è un romanzo appassionante. Per non parlare di Krylov o di Baratynskij…
Brodskij: Quello che m’interessa, in questi casi, è il lato umano. Un uomo che scrive può avere successo o fallire. Ma per lui non è questo l’essenziale, l’essenziale è la sua scommessa sul futuro. Non si tratta tanto di contare sulla posterità, ma sulla longevità del linguaggio che usa. Il poeta possiede, percepisce con il suo senso musicale qualcosa che gli assicura se non l’immortalità, almeno un futuro immaginabile.
Volkov: Per quello che riguarda Ivan Krylov, possiamo dire con certezza che, fino a quando vivrà la lingua russa, le sue fiabe saranno lette. Anche se la scuola in Russia sta facendo di tutto per toglierci il piacere che Krylov ci procura.
Brodskij: No, se c’è una cosa che la scuola non è riuscita ad avvelenarmi, è proprio Ivan Andreevič… Anche se facevano tutto quello che gli passava per la testa…
Volkov: Dicevamo che questa dichiarazione di Cvetaeva –
Al tuo mondo dissennato
una sola risposta – il rifiuto
– costituisce, in sostanza, il programma della sua opera. E inoltre questi versi sono una sorta di, come si suol dire, “poesia d’occasione”, scritti in coincidenza con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’esercito di Hitler nel marzo del 1939. Cvetaeva ha consacrato a questo evento undici poesie, una più bella dell’altra. Aveva già scritto quattro poesie nel settembre del 1938, quando Hitler aveva annesso i Sudeti della Cecoslovacchia, e queste non sono le sole risposte poetiche di Cvetaeva su temi d’attualità. Ha scritto poesie politiche durante tutta la sua vita; basta ricordare il ciclo L’accampamento dei cigni, dove celebra il Movimento Bianco. Ma deve ammettere che, a questo proposito, Cvetaeva non è una figura tipica della poesia russa moderna. C’è la convinzione diffusa che la poesia russa di oggi sia molto politicizzata. Ma è un errore. In realtà sono pochi i grandi poeti russi del XX secolo che hanno scritto poesie su soggetti politici; e non parlo, naturalmente, delle poesie “su commissione”: di quelle ce n’erano a bizzeffe. Questo è singolare. Guardi il XIX secolo: abbiamo Ai calunniatori della Russia di Puškin, le poesie di Vjazemskij, Russia di Chomjakov, le poesie di Tjutčev – che lei ama così poco –, tutte opere di prim’ordine, degne di un’antologia letteraria. Dove sono oggi versi della stessa caratura, dedicati a fatti d’attualità della seconda metà del XX secolo? Deržavin ha accompagnato la morte di Paolo I con i versi ‘‘tace il rauco ruggito del Nord”. Dove sono i versi sulla caduta di Chruščëv? Perché i poeti russi non hanno reagito all’invasione della Cecoslovacchia del 1968 con la stessa forza con cui Cvetaeva aveva risposto all’occupazione nel 1939? Dopo tutto, anche lei, in realtà, scriveva “per il cassetto”, e non si aspettava una pubblicazione immediata.
Brodskij: Ciò non è del tutto giusto. Credo ci siano cose che non conosciamo ancora. Ma è vero che, ancora oggi, io non ho letto niente che descriva direttamente la presa di Budapest o di Praga da parte degli invasori sovietici. Anche se conosco un gruppo di poeti russi per cui il riferimento, diciamo, alla rivolta ungherese del 1956 o ai disordini in Polonia negli anni cinquanta, è stato essenziale.
Volkov: Non si può ricostruire la storia moderna a partire da questi versi.
Brodskij: Sì, certo, né la storia morale né la storia politica. E c’è un’altra cosa interessante: nella poesia russa non si è quasi mai riflessa l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. C’è, naturalmente, una generazione di cosiddetti poeti di guerra, a cominciare da quella assoluta nullità di Sergej Orlov, pace all’anima sua. O Mežirov, con le sue schifezze che non stanno né in cielo né in terra. E poi ancora Gudzenko, Samojlov. Alcune poesie sulla guerra, veramente belle devo dire, le ha scritte Boris Sluckij, e cinque o sei anche Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij. In realtà a tutti questi Konstantin Simonov e Surkov (pace all’anima loro, ma ho dei forti dubbi che la possano trovare) non interessava né la tragedia nazionale né la catastrofe mondiale, ma piuttosto provavano compassione per se stessi. Chiedevano che li si compiangesse. Per non parlare dei fiumi di fango del dopoguerra, dei pugni alzati nel vuoto dopo la battaglia… Nel migliore dei casi, si trattava di un dramma preso in prestito dalla guerra, in assenza del loro dramma personale; nel peggiore dei casi era un vero e proprio sfruttamento dei morti, un portare acqua al mulino del Ministero della Difesa. Semplicemente per accalappiare nuove reclute. Non c’era un minimo di comprensione per quello che era successo all’intera nazione. E questa è una barbarie: in fondo abbiamo sepolto venti milioni morti… Ma questa mattina, in un certo senso ho avuto fortuna, stavo preparando un’edizione per una raccolta di versi scelti di Semën Lipkin. C’è un enorme numero di poesie su questo argomento: sulla guerra, o comunque legate alla guerra. L’impressione è che lui solo sia intervenuto in difesa di tutti, in difesa della nostre belle lettere: ha salvato, per così dire, la reputazione nazionale. Tra l’altro è stato uno dei pochi che si è preso cura di Cvetaeva al suo ritorno in Russia dopo l’esilio. Insomma, per me è un poeta meraviglioso. Non era secondo a nessuno. Nessun prosaicismo scontato, è dell’orrore dell’epoca che ci parla; in questo senso, Lipkin è proprio allievo di Cvetaeva. E se parliamo dei versi che Cvetaeva ha dedicato alla Cecoslovacchia, o del suo L’accampamento dei cigni, dobbiamo dire che i primi sono una variazione sul tema del suo Accalappiatopi e che nel secondo l’elemento più importante è quello vocale. Credo che il “movimento Bianco” abbia sedotto Cvetaeva più come formula poetica che per la sua realtà politica. La migliore delle sue poesie sull’Armata Bianca è quella con gli otto versi che finiscono con: “Dopo la parola dovere si scriverà la parola Don”.
Volkov: Ciononostante mi stupisce che nell’ambito della poesia d’occasione, d’attualità, agli autori russi del XX secolo, così ricco di spunti, siano mancati il temperamento e lo slancio. In questo senso, la sua poesia In morte di Žukov, a mio parere, va per conto suo, rinnova una tradizione russa antica che risale a Deržavin e alla sua poesia Il fringuello, che è l’epitaffio a un altro grande comandante russo, Suvorov. È quello che chiamiamo una poesia “statale”, o se preferisce “imperiale”.
Brodskij: In questo specifico caso il termine “statale” non mi dispiace. Penso anche che questa poesia a suo tempo avrebbe dovuto essere pubblicata sulla “Pravda”. E per quella poesia, tra l’altro, ne ho dovuta mandar giù di merda.
Volkov: Cosa intende?
Brodskij: Per gli emigrati del dopoguerra, per tutti quei DP sfollati in Occidente, beh, Žukov è legato a cose davvero sgradevoli. Con l’avanzata delle sue truppe sono stati costretti a fuggire, per questo non hanno nessuna simpatia per Žukov. E poi anche i Paesi Baltici hanno molto sofferto a causa sua.
Volkov: Nella sua poesia non si sente nessuna particolare simpatia per il maresciallo Žukov, sul piano emotivo si è davvero trattenuto.
Brodskij: È proprio vero. Ma se un uomo non è abbastanza colto, o addirittura non lo è per niente, di solito non nota questi “particolari”. Reagisce come il toro davanti al mantello rosso. Vede Žukov e basta. Ho sentito tante di quelle chiacchiere anche dalla Russia, anche cose completamente ridicole, come se con questa poesia mi fossi prostrato ai piedi dei superiori. Molti tra noi sono rimasti in vita grazie a Žukov e farebbero bene a ricordare che è stato Žukov, e non un altro, a salvare Chruščëv da Berija. È stata la sua divisione Kantemirovskaja a entrare a Mosca con i carri armati nel luglio del 1953 e a circondare il Teatro Bol’šoj.
Volkov: I carri armati si sono fermati davanti al Bol’šoj o davanti al Ministero dell’Interno?
Brodskij: Che importa, in fondo è la stessa cosa… Žukov è stato “l’ultimo dei Mohicani” russi, l’ultimo “capotribù dei pellerossa”, come si dice.
Volkov: Capisco cosa intende quando parla di vite salvate da Žukov. Quasi tutti i miei parenti sono morti nell’Olocausto, nel ghetto ebraico di Riga. E mi ricordo che una volta, era probabilmente alla fine degli anni sessanta, ad un concerto di musica sinfonica nelle vicinanze di Riga, a Dzintari, ho notato un uomo seduto di fronte a me; sulla sua giacca aveva quattro stelle d’oro, come dire che era stato quattro volte Eroe dell’Unione Sovietica! La luce si spense ra-pidamente senza che io riuscissi a riconoscerlo. E osservando questa specie di riccio bianco e la sua corposa nuca rossa, mi sono chiesto fino all’intervallo chi poteva mai essere quell’uomo, con un numero così grande di onorificenze sul petto. Quando nell’intervallo il maresciallo Žukov, perché naturalmente era proprio lui, si alzò, tutta la sala lo fissò con ammirazione. E ricordo che questo mi sorprese: perché mai Žukov, che nella sua vita aveva già avuto tutta la gloria e il rispetto possibili, aveva bisogno di venire al concerto indossando una giacca civile con le sue decorazioni?
Brodskij: Lo trovo assolutamente naturale, è un’altra mentalità, quella militare. Qui non si tratta di sete di gloria, non dimentichiamo che in quel momento era già stato escluso da tutto.
Volkov: Sì, ai tempi era stato congedato in via definitiva da almeno un decennio.
Brodskij: Sì, appunto. E non dimentichiamo che gli eroi dell’Unione Sovietica, non devono “fare la fila per prendersi una birra”.
Volkov: E cosa l’ha spinta a scrivere Versi sulla campagna d’inverno del 1980? Questa poesia sull’invasione sovietica dell’Afghanistan è stata, credo, per i suoi lettori, tanto inaspettata quanto la sua poesia In morte di Žukov…
Brodskij: È stata una reazione a quello che avevo visto alla televisione, Budapest, Praga… noi ascoltavamo la BBC, o leggevamo i giornali, ma non vedevamo niente. Ma con l’invasione dell’Afghanistan… non so quale altro avvenimento mondiale mi abbia così impressionato. Eppure alla televisione non hanno mostrato nessun orrore. Ho semplicemente visto dei carri armati, che avanzavano su un altopiano pietroso. E mi ha colpito l’idea che questo altopiano non aveva conosciuto prima nessun carro armato, nessun trattore, nessuna ruota ferrata, mai. È stato uno scontro sul piano degli elementi, del ferro contro la pietra. Si fossero limitati a mostrare gli afghani uccisi o feriti…. Sa, a tutto questo, soprattutto in quei luoghi, l’occhio umano è già abituato: senza cadaveri non ci sono notizie. Ma la cosa è successa in Afghanistan, e oltre a tutto il resto, era una violazione dell’ordine naturale. Ecco cosa ti fa impazzire, insieme al sangue. Mi ricordo che sono rimasto annichilito per tre giorni. E poi, nel mezzo della discussione sull’invasione, ho di colpo realizzato che i soldati russi che si trovavano in Afghanistan avevano diciannove o vent’anni. Se negli anni sessanta, io e i miei amici, con le nostre “signore”, non avessimo avuto una condotta più o meno “protetta”, è del tutto possibile che i nostri figli si sarebbero trovati lì, tra gli invasori. E questo pensiero mi ha procurato una nausea intollerabile. È da qui che ho cominciato a scrivere questi versi. Quando hanno fatto la stessa cosa in Europa, quando sono entrati in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, era chiaro che dopo tutto era solo un’altra ripetizione, l’ennesimo “giro” della storia europea in una nuova tappa. Rispetto alle tribù afghane, però, non era solamente un crimine politico, ma anche un crimine antropologico, e un colossale errore di evoluzione. È come un’irruzione dell’età del ferro nell’età della pietra, o come un’improvvisa glaciazione. Quanto alle sue osservazioni sulle sorprese inattese dei Versi sulla campagna invernale… non vedo alcuna differenza stilistica tra questi e le mie poesie sulla natura e sul tempo. E naturalmente, quando ho cominciato a scrivere Versi sulla campagna invernale ho cercato di risolvere altri problemi, non precisamente formali, piuttosto di intonazione. Ma è successo più tardi…
Volkov: I lettori occidentali conoscono bene Cvetaeva, Mandel’štam, Pasternak, Achmatova, particolarmente gli ultimi due. Puškin è conosciuto soprattutto grazie alle opere di Čajkovskij. Ma i nomi di Baratynskij e Tjutčev non dicono nulla nemmeno al lettore occidentale più istruito. Voglio dire che la poesia russa in Occidente è soprattutto quella del XX secolo, mentre la prosa russa è conosciuta grazie agli autori del XIX secolo. Come è successo?
Brodskij: Per questo ho una risposta semplice. Prenda ad esempio Dostoevskij. La problematica di Dostoevskij, sempre se usiamo un concetto sociologico, è legata a un tipo di società che in Russia ha cessato di esistere dopo la rivoluzione del 1917, mentre qui in Occidente, la società è rimasta la stessa, vale a dire, capitalista. È per questo che Dostoevskij è così fondamentale per l’Occidente. Prendiamo l’uomo russo di oggi: certo, Dostoevskij può essere interessante per lui; può svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo dell’individuo, nel risvegliare la sua coscienza. Ma quando il lettore russo esce di casa, si trova di fronte ad una realtà che non è quella descritta da Dostoevskij.
Volkov: Ricordo che anche Achmatova ha parlato di questo argomento.
Brodskij: Esatto. Si ricorda? Quando un uomo, dopo aver fucilato un ennesimo gruppo di condannati, rientra a casa dopo il suo “lavoro”, e si prepara per andare a teatro con sua moglie e litiga pure con lei per la sua acconciatura… E non ha nessun rimorso di coscienza, niente di dostoevskijano! Mentre per un occidentale le situazioni, i dilemmi di Dostoevskij sono sempre anche i suoi. Per lui sono riconoscibili. Da qui viene la popolarità di Dostoevskij in Occidente, da qui nasce l’intraducibilità di gran parte della prosa russa del XX secolo.
Volkov: La sua inaccessibilità.
Brodskij: Sì, una certa incompatibilità. Per leggere della prosa bisogna almeno immaginare la realtà che c’è dietro. Ma la realtà sovietica, descritta dalla migliore prosa russa di quel periodo, è stata così tanto rovesciata e trasformata, non trova? Per apprezzare la prosa che la descrive è indispensabile avere una certa conoscenza della storia dell’Unione Sovietica, o comunque fare uno sforzo d’immaginazione – cosa a cui non ogni lettore si presta, occidentale compreso. Mentre per leggere Dostoevskij o Tolstoj, il lettore occidentale non deve fare alcun sforzo di immaginazione; l’unica fatica che gli è richiesta è quella di sfondare il muro di quei nomi e patronimici russi. Tutto qui.
Volkov: Perché allora la poesia russa del XIX secolo rappresenta una difficoltà così insuperabile?
Brodskij: Per quello che riguarda la reazione del pubblico inglese, ho una teoria. Di fatto la poesia russa del XIX secolo si fonda in modo naturale sulla metrica, e la traduzione in inglese richiede il mantenimento di questa metrica. Ma non appena il moderno lettore inglese si trova di fronte a questa misura di regolarità, pensa subito alla sua poesia nazionale che già da un bel po’ di tempo l’ha tediato. O, peggio ancora, non la riconosce come familiare. E tra l’altro, le conversazioni impegnate degli snob di qui sulla poesia russa del XX secolo, non mi sembrano così convincenti. E questo perché la loro conoscenza di Pasternak o Achmatova si basa sulle traduzioni, che discordano enormemente dagli originali. In queste traduzioni spesso si enfatizza il contenuto, ma si trascurano gli aspetti strutturali. Questo è giustificato anche dal fatto che nella poesia inglese del XX secolo l’idioma principale è il verso libero. E direi ancora: l’utilizzo del verso libero nelle traduzioni, naturalmente, permette di rendere il testo originale in modo più o meno completo, ma solo a livello del contenuto, non oltre. È per questo che, in Occidente, quando si discute di Mandel’štam si crede di trovarlo da qualche parte tra Yeats ed Eliot, perché la musica dell’originale scompare. Ma, dal punto di vista degli esperti di qui, nel XX secolo ciò è ammissibile e giustificato. E su questo punto i piedi.
Volkov: Se volesse spiegare l’essenza della poesia di Cvetaeva agli studenti americani che non conoscono il russo, a quale poeta anglofono la paragonerebbe?
Brodskij: Quando parlo loro di Cvetaeva cito l’inglese Gerard Manley Hopkins e l’americano Hart Crane, anche se di solito questi confronti sono sprecati perché i giovani non conoscono né la prima né il secondo, e ancora meno il terzo. Ma se si prendessero la briga di gettare uno sguardo su Hopkins e Crane, almeno scoprirebbero la complessità della dizione di Cvetaeva, cosa che in inglese non si incontra tanto facilmente: la complessità della sintassi, l’enjambement, questi salti attraverso l’evidente, tutto quello che ha reso celebre Cvetaeva, almeno sul piano della tecnica. E se continuassimo il parallelismo con Crane (anche se in generale non esiste una vera somiglianza), vedremmo che la loro fine è stata la stessa: Il suicidio. Anche se Crane, credo, avesse meno motivi per suicidarsi. Ma, ancora una volta, non sta a noi giudicare.
Volkov: A proposito di parallelismi, accidentalmente o no, per le nostre conversazioni abbiamo selezionato quattro poeti: Auden, Frost, Cvetaeva e Achmatova, cioè due donne russe e due uomini di cultura anglosassone. Frost e Achmatova hanno verosimilmente pensato di emigrare, ma poi sono rimasti nei loro paesi. Mentre Cvetaeva e Auden sono entrambi emigrati, per poi “rientrare” prima della loro morte. Naturalmente, questa è una coincidenza puramente esteriore. Ma suggerisce il pensiero che, alla fine, al poeta viene data una scelta limitata di ruoli da giocarsi nella vita. A questo proposito vorrei chiederle: da quando lei è emigrato qui, Cvetaeva le è diventata più vicina? Ora la capisce meglio “da dentro”?
Brodskij: La comprensione non dipende dagli spostamenti geografici, dipende dall’età. E penso che se oggi ho capito qualcosa di diverso della poesia di Cvetaeva, è per un’affinità di sentimenti. In realtà Cvetaeva era estremamente riservata su ciò che le accadeva attorno, non ha quasi mai sfruttato la sua biografia per i suoi versi. Prenda il Poema della montagna o il Poema della fine: qui si tratta di una lacerazione globale e non della rottura con una persona reale.
Volkov: Penso che per Cvetaeva quell’effetto di distacco sia dovuto all’impossibilità di paragonare la valanga delle sue poesie con i personaggi concreti che le hanno provocate. Cvetaeva, molto probabilmente, aveva l’impressione di descrivere una situazione reale. Lei stesso ha detto che era la più sincera dei poeti russi.
Brodskij: Proprio così.
Volkov: E non si riferiva forse anche alla sincerità “biografica” dei suoi versi? E la sua prosa? Dopo tutto è completamente autobiografica!
Brodskij: Cvetaeva è veramente il poeta russo più sincero, ma è una sincerità, questa, che si pone prima di tutto sul piano della musicalità, come quando si grida di dolore. Il dolore è biografico, ma il grido è impersonale. Quel suo “rifiuto”, quello di cui abbiamo parlato prima, ricopre tutto, include ogni cosa. Compreso il dolore personale, la patria, l’esilio, i bastardi incrociati qua e là nella vita. La cosa più importante è che questa intonazione, questo tono di rifiuto, in Cvetaeva è anteriore alla sua esperienza. “Al tuo mondo dissennato una sola risposta – il rifiuto”. Non si tratta tanto del “mondo dissennato” (per provare questo sentimento in fondo basterebbe un solo incontro con la sfortuna), ma del triplice suono della lettera “o”, che funge qui da denominatore comune. E possiamo certamente dire che gli eventi della sua vita hanno confermato la giustezza della sua intuizione originale. Ma l’esperienza della vita non conferma nulla. Nella poesia, come nella musica, l’esperienza è qualcosa di secondario. Nella materia con cui operano i vari settori dell’arte c’è sempre una specifica, irrevocabile dinamica lineare. Un proiettile, metaforicamente parlando, percorre la distanza che il materiale di cui è fatto gli impone. Non dipende dall’esperienza. Tutti facciamo più o meno le stesse esperienze. Possiamo anche supporre che ci fossero delle persone che hanno vissuto esperienze più dolorose di Cvetaeva, ma non c’erano persone con la sua capacità di piegare la materia e di subordinarla. L’esperienza, la vita, il corpo, la biografia, tutt’al più assorbono il contraccolpo. Il proiettile invece viene lanciato lontano seguendo le dinamiche del suo materiale. In ogni caso non sto cercando nelle poesie di Cvetaeva dei parallelismi con la mia personale esperienza. E davanti alla sua forza poetica non posso che rimanere completamente stupefatto.
Volkov: Cosa direbbe del rapporto di Cvetaeva con la stampa degli emigrati?
Brodskij: Dei miserabili. Gentaglia. Tra l’altro, non va dimenticato quanto questo pubblico fosse politicizzato, soprattutto nell’ambiente dell’emigrazione. E in più, no, piuttosto in meno, la mancanza di risorse.
Volkov: Per undici anni Cvetaeva in esilio non ha potuto pubblicare un solo libro. Gli editori non volevano rischiare di pubblicarla. Lei invece lo desiderava molto. E mi ha veramente stupito quante umiliazioni, quante imposizioni della censura era pronta ad accettare.
Brodskij: È davvero incredibile. Ma d’altronde, quando hai detto l’essenziale, poi si può anche tagliare qualche passaggio, qualche “pezzo-non pezzo”. Ancora una volta anche questo diventa secondario.
Volkov: Nella sua vita non è mai stato costretto da pressioni esterne a dover modificare le sue poesie o la sua prosa?
Brodskij: Mai.
Volkov: Mai?
Brodskij: Mai.
Volkov: Cvetaeva suscita facilmente avversione proprio a causa del suo “calvinismo”. Ho ascoltato le sue lezioni, ho letto i suoi articoli su Cvetaeva. Da tutto questo, tenendo conto anche delle nostre conversazioni precedenti, ho imparato a leggere la sua poesia e la sua prosa con molta più attenzione di prima. Devo ammettere che preferisco decisamente Achmatova a Cvetaeva, e tra loro due, diciamolo pure, le relazioni erano piuttosto complicate. E la stessa Achmatova ha sempre ripetuto che il poeta più importante del XX secolo era Mandel’štam. Lei è d’accordo?
Brodskij: Beh, se davvero dobbiamo lasciarci andare a questo tipo di discorsi, allora no, non sono d’accordo. Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo. Certamente, Cvetaeva.
Qualche giorno fa, parlando con una signora russa bella e colta, le ho detto che un giorno la Russia entrerà a far parte dell’Europa, perché questo è il suo destino, perché la letteratura e la cultura russe sono dipendenti dalla cultura europea, anzi, sono parte (e che parte!) della produzione artistica e culturale dell’Europa. E le citavo i grandi nomi della poesia e della prosa russe del XX secolo. Le citai Mandel’stam, Pasternak, Cvetaeva, Achmatova, Bulgakov etc. – Bene, la signora in questione mi rispose di no, che lei non credeva che mai la Russia entrerà a fare parte dell’Europa, che il suo destino è un altro, e, precisamente, quello di essere ponte tra la Cina, l’Asia e l’Europa e di essere il punto nevralgico della civiltà tra Oriente e Occidente. A quel punto, cessai la conversazione e passai ad altri argomenti più frivoli.
Sarei stato molto curioso sapere cosa ne pensavano in proposito la Cvetaeva, Pasternak, Mandel’stam, Majakovskij, Bulgakov e, naturalmente, Brodskij. Ma ormai non possiamo più porre loro questa domanda. E allora la pongo ai lettori a e Sagredo, il nostro slavista slavofilo.
Riporto il brano dell’intervista nella quale Brodskij parlando di Cvetaeva, Achmatova, Frost e Auden così si esprime:
Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.
La Russia non sarà mai parte dell’occidente europeo, dell’Europa in parte lo è. D’altra parte questo paese (cosmopolita), vero e proprio impero con più nazioni, ha una produzione culturale notevolissima, tale da influenzare anche la cultura occidentale. Perché quindi andarsi a confinare dentro uno spazio molto più angusto dei suoi confini? Questa è una cultura cosmopolita, figlia di un’altra cultura cosmopolita ed europea solo in parte, come è stata quella dell’Oriente Romano. Sono certo che il De Sagredibus sarà concorde con questa mia breve succinta analisi.
Si parte sempre da una costellazione di poeti. Si parte sempre da qualcosa che è esistita e ci ha preceduto. Dimmi da quale costellazione provieni e ti dirò chi sei. Non c’è solo uno stile dominante oggi nella nostra epoca. Ci sono tanti stili quanti sono i grandi poeti o i grandi narratori, il resto, i mezzi stili e le mezze narrazioni le possono fare tutti, sono magari spesso opere encomiabili, ammirevoli, ma che non aggiungono nulla di veramente nuovo alla “costellazione di stili” che una cultura partorisce. Io ritengo che sarebbe bene cominciare a pensare la poesia (come scriveva Brodskij) come un tutto unico, come a un patrimonio mondiale (fatto di debiti e di crediti) che abbatte le appartenenze etniche, linguistiche e religiose e le divisioni di qualsiasi specie. E la Cvetaeva di sicuro sta in questa costellazione. Ma è grazie alla fatica infaticabile dei traduttori se noi possiamo apprezzare la poesia di una Cvetaeva, senza di loro noi non sapremmo di appartenere ad una famiglia ben più vasta, ad una costellazione…
Conoscevo non solo questa intervista, ma altre con gli stessdi attori. Nonostante diverse sollecitazioni ad intervenire: non interverrò. Non sopporto le generalizzazioni, anche se prodotte da Brodskij poi che non c’è stato soltanto un “Brodskij” capace di dire sui grandi poeti russi che lo hanno preceduto. Basterebbe “saper” leggere il testo di Marco Sabbatini su quei poeti allora della medesima generazione del Brodskij: persone valentissime che decisero di restare in quella Russia, persone che non hanno vinto un Nobel, e ho già detto – in questo blog – che se qualcuno di quei poeti che avesse avuto la ventura (o sventura) di vincere il Nobel, avrebbe detto più o meno le stesse cose che riferì Josif in varie interviste… poi che era un luogo comune tra tutti quei poeti considerare i grandi poeti che li avevano preceduti, giudicarli secondo canali di giudizio risaputissimi.
Quindi che cosa potrei aggiungere io, se non attizzare varie polemiche, che gà avevo acceso negli anni universitari e anche dopo?
Prendere con le pinze tutto ciò che di critica ha detto Brodskij, vale per tutti poeti dello suo stesso periodo… e non dovete diemnticare il chiacchiericcio, le dicerie IL PETTEGOLEZZO per cui molti di loro sono stati uccisi fisicamente o moralmente, affossati ecc.
Brodskij amava le gerarchie: questo è più grande di quest’altro e così via: che cazzo di critica è questa?
Darei più retta saggiamente a Roman Jakobson e altri valenti quanto lui che li conobbero di persona e li fraquentarono tantissimo da amici, da estimatori, da critici… persone che molto di più di Brodskij e compagnia erano dotati tecnicamente-culturalmente… Brodskij dice di quei poeti grandi con tono distaccato, stabilendo distanze e avvicinamenti moltissimo arbitrari, senza la passione e la rabbia di quelli che assistettero alla dissipazione di una generazione di poeti irripetibili.
Brodskij? Tiene conto di diversi cortili: religione, razza, politica, ideologia ecc. cose che con la POESIA certo hanno una relativissima importanza!
Così sopravvalutato… (migliore il saggista che il poeta!) – prima o dopo gli troveranno un posto studiosi più seri… un posto che certo sarà di seconda linea se non di terza.
Con tutto il rispetto per un gigante della critica come Jakobson, vorrei tornare ad alcune questioni concrete poste da Brodskij: Il problema del tempo e il problema della neutralità in poesia. Chi ha orecchi, intenda. Ecco un brano chiave dell’intervista:
« Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…
Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.
Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?
Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.»
Ora, il problema del «tempo» che entra in poesia è uno dei più trascurati dalla poesia italiana; in secondo luogo, il problema della «neutralità» della poesia di un Auden e di una Cvetaeva. Cosa significa?
Per semplificare al massimo, (e qui mi rivolgo a Gabriele Fratini), qui si tocca un aspetto centrale della poesia del XX e del XXI secolo, un aspetto attuale, attualissimo.
Nella poesia della Cvetaeva il «tempo» modifica la struttura sintattica proprio come la gravità modifica la struttura spazio-temporale. Il problema è la traduzione della poesia cvetaeviana, la più difficile da tradurre in altre lingue. E qui faccio un profondo inchino alla capacità della De Bartolomeo di aderire, direi mimeticamente, al russo e di trasportare, per quanto possibile, gli strati di tempo dal russo all’italiano. E in questo difficilissimo compito mi sembra che la resa in italiano sia stata più che ottimale. La sintassi così deformata modifica a sua volta l’apparato fonetico, il quale a sua volta reagisce modificando di ritorno il sistema sintattico. Chi capisce di poesia capisce anche quello che sto dicendo, non posso pretendere che mi segua chi resta fedele alla poesia unidirezionale di un Sandro Penna; lì non c’è nessun ingresso del «tempo» nella sintassi.
Sulla «neutralità» della voce del poeta, il discorso sarebbe lunghissimo, ma per chi intuisce qualcosa, direi che questo è un altro punto fondamentale per fare poesia di alto livello. Mi sono più volte soffermato su questa rivista su aspetti singoli di singoli poeti con commenti testuali. Ci tornerò sopra con commenti testuali, verso per verso, emisticio per emistichio, investigando sulle modificazioni che il «tempo» apporta alla struttura sintattica.
Brodskij qui vuole attirare l’attenzione su di un concetto:che avrà grandissima importanza per la poesia a venire. E chi non percepisce questa problematica, caro Fratini, continuerà a scrivere una poesia monodimensionale. Nella famosa poesia “Odisseo a Telemaco” Brodskij dà una magistrale e insuperata esemplificazione di come si possa scrivere una poesia sul «tempo».
Iosif Brodskij
Odisseo a Telemaco
Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.
(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)
ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ
Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.
Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.
Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.
E questo è ilo mio personale omaggio (inedito) alla poesia di Brodskij:
Giorgio Linguaglossa
Odisseo a Telemaco
a mio figlio Giacomo
caro Telemaco,
come è finita la guerra di Troia non ricordo.
Non so se questa guerra finirà mai,
ormai sono tanti anni che stiamo qui a bivaccare
sotto le mura della città di Poseidone
a fare niente, ad oziare.
La guerra, caro Telemaco, è un pretesto,
una sordida menzogna inventata dagli achei
e dagli dèi
per qualcos’altro di innominabile che forse soltanto
Cassandra e gli dèi sanno.
Ma forse anche loro lo hanno dimenticato.
In fin dei conti, tutte le guerre si somigliano,
forse sono figlie di Mnemosyne,
la dea che tutto cancella.
Alla fine, caro Telemaco, dimentichi anche tu
il perché della guerra,
come è iniziata, come si è svolta.
La memoria non trattiene il tempo.
Qui il tempo è libero dallo spazio.
Gli uomini inseguono il tempo e lo ingannano
ma non possono nulla contro lo spazio.
Così, ho dimenticato anch’io perché
siamo qui, su questa spiaggia
della Troade e perché ti scrivo questa lettera
se mai ti giungerà, da un padre da cui tu sei libero,
e che non dovrai rinnegare.
Sei libero, Telemaco, di non ricordarmi,
di dimenticare questo padre che
non sa fare altro
che oziare qui con la sua Briseide,
su questa spiaggia
inventata
dagli dèi.
E qui vorrei chiedere, Alla De Bartolomeo, un’ultima fatica: perché non ci dai la tua versione della poesia “Odisseo a telemaco” di Brodskij?
Patrizia Stefanelli ha chiesto alcune cose intorno al metro usato da Brodskij nella poesia. Lo chiedo ai nostri slavisti. potete risponderle? – grazie
Molto interessante Giorgio. Anche la tua versione è molto bella.Vedo che Buttafava traduce in endecasillabi. Sarebbe bello sapere come è stata scritta la versione originale di Brodskij. Quale ritmo ha usato?
NON è DIFFICILE CON INTERNET :
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PRESENZE – Università degli Studi di Siena
www3.unisi.it/semicerchio/upload/pavan_brodskij.htm
In tal senso, limen per Iosif Brodskij significa un confine necessariamente da …
Anche se qualcuno lo ha già usato prima, questo metro risuona nella testa del …
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Mettere in luce il rapporto tra Iosif Brodskij e la … – Europa Orientalis
http://www.europaorientalis.it/uploads/files/…/2001%20n.%202.8.pdf
squisitamente formale come il metro, viene attribuita la capacità di ….
14 Non avendo potuto risalire con esattezza all’edizione usata da Brodskij, ho uti- lizzato i …
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Leggi il libro online – Università degli Studi di Firenze
http://www.collana-lilsi.unifi.it/upload/sub/…/pavan_libro_collana.pdf
estrema al metro e quindi alla scansione del verso. Un’ultima …. mo sono da Brodskij definite «le pietre angolari
della nostra civiltà» e la poesia è in grado …. e non può essere un caso che Brodskij abbia usato la parola trezvost’. (sobrietà) per …
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comunque digitare :STEFANIA PAVAN E BRODSKIJ,
OPPURE ENTRARE IN CONTATTO CON LA STESSA PAVAN.
A proposito di quanto sostiene Brodskij in relazione al ritmo nella poesia, e cioè che “è il tempo la fonte del ritmo” per cui “tanto più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo”, mi permetto di dire che mi pare che il ritmo non nasca dal tempo, semmai da una percezione di esso o meglio dall’insieme delle esperienze nelle quali siamo coinvolti, e pertanto non mi pare sia esso la fonte del ritmo della poesia. Ma soprattutto non mi è chiaro come il ritmo possa essere messo in relazione a una dimensione tecnica del fare poesia. Penso, piuttosto, che quanto proviene dalla percezione plurisensoriale che abbiamo del mondo si mescoli e si traduca sinesteticamente anche in musica. In altri termini, la nostra peculiare visione del mondo ha “una sua musica” che le corrisponde, e che è appunto quella che ogni musicista traduce nelle sue composizioni musicali, e che nella creazione poetica si esplica anche nel ritmo e nella sonorità dei versi. Direi che, automaticamente -senza il ricorso ad alcuna specifica tecnica- una musica si modella in noi in relazione alla peculiare visione che ognuno di noi ha del mondo, della realtà esperita.
Un parallelismo sottile mi pare, inoltre, che leghi insieme e governi lo “stile”di un autore -che ci dà anche l’impronta tangibile di quella particolare visione- con il “ritmo” che mi pare provenire da una dimensione ancora più profonda e interiore.
Ad occhio e croce, non conosco il russo ma basta dare un’occhiata alla struttura dei versi russi per riconoscere il metro, mi sembra trattarsi del tetrametro giambico utilizzato insieme al metro libero dei primi due versi.
La resa in italiano dovrà quindi ruotare, penso, attorno all’endecasillabo, ma in modo libero, in modo da farlo oscillare in modo fluente perché in italiano ormai l’endecasillabo è stato esonerato, per fattori storici, dalla sua gabbia metrica fissa.
Quanto a Rossella Cerniglia, le cui considerazioni condivido, credo che Brodskij si riferisca al “tempo interno” del verso, non a quello “esterno”. Occorre pensare ad una poesia secondo il suo «tempo» interno. Che è cosa diversa dal pensare una poesia costruita seguendo il tempo lineare della poesia, mettiamo ad esempio di un Bertolucci. Uno dei limiti più gravi della poesia italiana (Bertolucci, Betocchi, Caproni, Pasolini etc. in tutta la poesia quindi di derivazione pascoliana), è quello di non essersi mai posto il problema di pensare una poesia che abbia un «tempo interno».
Si tratta di una rivoluzione copernicana.
(Ovvio, io non prendo in considerazione la poesia fatta di fette di prosa come quella di Vivian Lamarque e di Valerio Magrelli, ad esempio, che è un’altra cosa, è una poesia di derivazione mediatica).
E mi fermo qui.
Grazie Giorgio, la considerazione di un “tempo interno” è più frequente, perché ormai definitivamente accettata, qui da noi, nella prosa e nel romanzo. Molto meno in poesia.Condivido perciò il tuo pensiero.
Io sarei più per il tempo esterno e non per quello interno. L’esterno è il mondo, l’interno è l’Io, spesso celato, ma visibile nelle poesie che apparentemente sembrano pubblicistiche e che invece nutrono corposamente l’ego.
Brodskij , a mio parere, dice una grande verità nell’affermare che “è il tempo la fonte del ritmo” per cui “tanto più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Tutta la letteratura d’ogni tempo va in questa direzione.
Noi siamo, 24 h su 24, abituati a pensare il «tempo interno» distinto da quello «esterno», la «memoria interna» distinta dalla «memoria esterna», viviamo in una ecosfera di concetti e di relazioni che non mettiamo mai in dubbio; siamo abituati a pensare che il passato sta dietro e il futuro sta avanti, siamo abituati a pensare che lì c’è un muro e non si può passarvi attraverso… pensiamo tante cose che diamo per scontate. In realtà non pensiamo ma ci limitiamo ad accettare delle credenze come se fossero concetti assoluti e indubitabili.
Io invece credo che dobbiamo rimettere in moto tutte le nostre percezioni, intendo quelle profonde, rimetterle in viaggio, lasciare al nostro «interno» delle porte aperte, delle finestre aperte. il resto verrà da solo. Lo «stile» altro non è che il risultato di questo «viaggio interno» alla ricerca dell’«oggetto profondo», dell’«oggetto perduto». Si badi, non sto dicendo nulla di mistico, i mistici mi annoiano e, quando li incontro, cambio subito discorso. Qui sto affermando cose che la scienza moderna, i fisici teorici hanno già dimostrato come veri e indubitabili.
Il problema del «tempo» in poesia è un concetto niente affatto sconvolgente, e, se lo accettiamo, ci condurrà verso una diversa impostazione del problema poesia, cambierà la poesia che facevamo.
Cvetaeva, Mandel’štam…
e a proposito del giudizio di Josif Brodskij sulla poetessa (che coincide col mio più o meno parzialmente) riferisco dalla mia nota 38, p. 15 al Corso su Mandel’štam di A.M.Ripellino del 1974-75, quanto segue:
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“””” La Cvetaeva non ama le mezze misure, specie quando deve giudicare gli scritti di alcuni poeti russi suoi contemporanei di altissimo valore; in questo caso è Mandel’štam, che pure ammira molto e da cui è ammirata, a farne le spese 10 anni dopo il loro innamoramento e le poesie che si dedicarono reciprocamente; difatti, durante il soggiorno londinese (febbraio-marzo 1926), scrive in una lettera a D. A. Šachovskoj (1902-1989) del 18 marzo, [dove tra l’altro riferisce a questi di un suo saggio che sta scrivendo: “La mia risposta a Osip Mandel’štam”] che: “Me ne sto in casa e faccio a pezzi l’infame Rumore del tempo di Mandel’štam”.
Ed è così violento il saggio che suo marito, S. Efron, la convince a non pubblicarlo.
Cvetaeva è irritata con Mandel’štam per il modo irrisorio e ironico con cui ha trattato i combattenti Bianchi. Ne scrive all’amica praghese A. A.Tesková con una lettera del 24 marzo e, se ricordo bene, anche a Pasternàk.
Il “Rumore del tempo” sarà dunque anche la causa del suo allontanamento dal grande critico dell’emigrazione D. P. S-Mirskij, e infatti così in una lettera del febbraio 1931 a Raisa Lomonosova, dichiara che lei, Marina “lo odia”
(Mandel’štam), mentre Mirskij “lo adora”. (* >).
In Marina Cvetaeva-Deserti luoghi, Adelphi 1989, p. 11 e nota 2 p. 378; e in Marina Cvetaeva, a cura di Simon Karlinsky, Guida 1989, p. 186. –
– Lo Šachovskoj, poi, sarebbe divenuto arcivescovo all’interno della Chiesa ortodossa, in America.
– Per l’attacco di Majakovskij contro la Cvetaeva (e la Achmatova) vedi nota 115 p. 40. – Nel giugno del 1916 la Cvetaeva scrisse la prima poesia di un ciclo dedicato alla Achmatova.–
(* >) Il risentimento aspro e irriversibile della poetessa verso Mirskij (si erano frequentati durante i tempi dell’emigrazione) forse è nato quando indirettamente fu informata da quanto scrisse su di lei lo stesso Mirskij nella sua Storia della letteratura russa (A History of Russian Literture) edito a Londra nel 1926; (o lesse la poetessa direttamente?); non so chi la informò (se fu così); e non so quando la poetessa lesse la stronacatura della sua prosa; certo è che il giudizio del Mirskij verso la prosa della Cvetaeva fu spietato e crudele, incomprensibilmente insensibile; scrive il critico:” Siccome la Tsvetàeva è giovane (e”scalciante”, verrebbe voglia di aggiungere che la regola aut bene aut nihil non vale per lei, ed è giusto aggiungere che la prosa che ha scritto finora è la prosa più pretenziosa, sciatta, isterica, e insomma la prosa peggiore che sia stata mai scritta in russo” in: D. P. S- Mirskij, Storia della letteratura russa,. ed. Garzanti, 1965, p. 439.
Ma la Cvetaeva da decenni è ai vertici della poesia mondiale, non solo femminile! –
Mirskij fu strapieno giustamente di elogi verso Pasternàk (vedi pp.446-448) e Mandel’štam (vedi pp.436-437) e Achmatova (vedi pp. 434-437), ma la Cvetaeva non era invidiosa affatto verso questi tre poeti che amava sopra tutti gli altri.
> Josif Brodskij (e non solo questi), al contrario di Mirskij, ha ridato infine alla prosa (e poesia), uniche!, della Cvetaeva il valore primario che le spettava a pieno titolo! –
Nell’efficace articolo sul “drammatico ritorno” di Mirskij nella Russia Sovietica in Enthymema –XII 2015, pp.497-506, a cura di di E. Illarionova, è chiarito (p. 500) in parte del perché questo eccellente critico “eccentrico ed eclettico” ha una “sua maniera di dare giudizi perentori senza giustificarli, ma risultando sempre convincente”.
Convincente parzialmente quando p.e. raffronta Puškin e Leopardi; non lo è affatto nel caso della Cvetaeva.
Quel giudizio “sintetico” del Mirskij sulla poetessa è soltanto colpa della sua “ricerca dell’espressione sintetica e originale (che lo) porta il critico a cadere in facili aprossimazioni, prontamente criticate da altri letterati dell’ambiente”? – O c’è dell’altro?
– D.P.S-Mirskij, questo critico pioneristico militante alla Vissarion Belinskij (“ingenuo” lo definisce M. Bachtin; ma fece conoscere (già prima del1926) per primo all’Occidente (Inghilterra) i grandi poeti russi; e per primo al lettore russo i grandi autori europei occidentali), finirà “disperato” i suoi giorni in un gulag presso Magadan il 6 giugno 1939.
Chissà quante volte avrà riflettuto sul suo fatale errore di ritornare nella Russia sovietica: scontò con la morte la sua “ingenuità intelligent”, di colui cioè che non conobbe la vera “vita reale e che sceglie un’ideologia per capriccio”: ingraziarsi il potere sovietico coi suoi articoli non gli servì a nulla! (p. 503).
– Per cuuriosità: a p. 501 è riferita la stima che Mirskij aveva per il giovane slavista Ettore Lo Gatto.