Gÿorgy Ligeti “La mia vita con Kurtág (giugno – luglio 2001)” – (Estratto dal volume di Gÿorgy Ligeti Incontro con Kurtág  nella Budapest del dopoguerra,  traduzione di Paolo Martinaglia, a cura di Antonio Sagredo) con un Commento critico di Federico Favali

youtube Gyorgy Ligeti – Lux Aeterna

Incontrai per la prima volta Kurtág nel settembre del 1945, quando entrambi ci presentammo al Conservatorio “Franz Liszt” di Budapest per sostenere la prova di ammissione ai corsi di composizione di Sándor Veress. Lui aveva diciannove anni, io ventidue. A quei tempi, pochi mesi dopo la fine della guerra, cibo e appartamenti scarseggiavano: i tre quarti delle case della città erano in rovina. Per chi veniva da fuori era dunque quasi impossibile trovare un letto per dormire; avere una camera a disposizione per studiare, il che voleva dire un pianoforte, era un sogno irrealizzabile. E così il mio “appartamento in subaffitto” consisteva in un materasso sfasciato, posato direttamente sul pavimento di una squallida cucina che puzzava di gas di città e scarafaggi. Non ricordo come e dove fosse sistemato Kurtág allora. A Budapest i vetri non esistevano più, i telai delle finestre venivano chiusi da fogli di carta, oppure – nel migliore dei casi – da sottili assi inchiodate. In autunno, quando il freddo cominciava a farsi sentire, le finestre dovevano restare costantemente sbarrate, cosicché faceva buio anche di giorno. Non c’era combustibile, e negli appartamenti sovraffollati soffiava un vento glaciale.
Ma la durezza della vita quotidiana ci sfiorava appena: la guerra era finita, e in città regnava una vita culturale e artistica intensa, molteplice e varia. La fine della dittatura nazista aveva consentito a un fiotto d’energia intellettuale di sgorgare liberamente, le arti sbocciavano. Affamati, intorpiditi dal freddo, ma con insospettabile slancio, gli scrittori e gli artisti sopravvissuti si misero al lavoro. In quei giorni spalancati al futuro non ci rendevamo assolutamente conto che stavamo passando da una dittatura a un’altra: la dittatura stalinista, comunista, che si manifestò dapprima in forma mascherata, pose termine poco tempo dopo alla libertà e allo slancio artistico e culturale.
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I nazisti tedeschi avevano annientato più del cinquanta per cento della popolazione ebrea di Budapest, e questo rappresentava per la vita spirituale della città una perdita grave. Prima della guerra, Budapest ospitava circa un milione e mezzo di abitanti, e più di centocinquantamila erano ebrei. Per la maggior parte erano stati deportati nei lager tedeschi, o fucilati a Budapest dalle unità armate di nazisti ungheresi, le “croci frecciate”. Quasi tutti i sopravvissuti si trovavano concentrati nel ghetto che i nazisti avevano approntato nell’estate del 1944.
Nel 1945, le forze d’occupazione sovietiche autorizzarono libere elezioni, per ragioni più tattiche che ideologiche. Il governo di centrosinistra, democraticamente eletto ma provvisorio, incoraggiò la fioritura della vita intellettuale e tollerò i movimenti artistici d’avanguardia.
Il poeta ungherese più importante dell’epoca, Miklós Radnóti, era stato assassinato dai nazisti. I poeti sopravvissuti fondarono riviste letterarie: quella forse più significativa e vivace s’intitolava “Vàlasz” (Risposta); pubblicava testi di giovani poeti di ottimo livello, come Sándor Weòres e Janos Pilinszky, entrambi seguaci di tendenze letterarie radicalmente moderne. Il poeta e pittore Lajos Kassàk fu capofila dei costruttivisti; la “Scuola europea” e il circolo che ruotava intorno al poeta Lajos Vajda, morto da poco, furono il centro d’interesse nelle arti plastiche.
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Kurtág e io fummo attirati e influenzati da questa intensa vita artistica e letteraria. Malgrado la funesta esperienza dell’epoca nazista eravamo entrambi pieni di giovanile entusiasmo, di speranza per una cultura ungherese moderna. Entrambi seguaci di Bartók, consideravamo la sua musica come fondamento di sviluppo per un nuovo linguaggio musicale cromatico-modale, che avrebbe dovuto essere internazionale pur affondando le proprie radici nella tradizione ungherese. La nostra amicizia si fece più profonda quando ci accorgemmo che dividevamo, oltre alle stesse idee musicali, anche le medesime opinioni politiche (opinioni da intellettuali di sinistra, molto radicali ma non allineate all’ideologia comunista ufficiale), e che per di più traevamo origine da una situazione familiare analoga: quella delle famiglie intellettuali ebree ungheresi (mezze ebree, per Kurtág) assimilate alla cultura ungherese. Ci sentivamo legati anche da un’altra esperienza culturale: entrambi originari di una regione della vecchia Ungheria divenuta romena dopo la prima guerra mondiale, avevamo frequentato licei di lingua rumena e sia nel nostro modo di sentire che nelle nostre concezioni artistiche ci sentivamo fortemente attratti dalla Francia, in parte per via dell’orientamento francofilo della cultura rumena.
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Gyorgy-Ligeti

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Kurtág veniva da Lugoj, una piccola città nel Banat, non lontano dalla frontiera iugoslavo-rumena, e aveva studiato a Timisoara, la capitale di quella regione. Io ero nato a Dicsòszentmàrton, minuscola città nel centro della Transilvania, ed ero cresciuto a Cluj, la città più grande di questa provincia. Nello stesso momento, il settembre del 1945, affrontammo entrambi – a piedi, senza documenti, e l’uno all’insaputa dell’altro – il rischioso passaggio clandestino della frontiera rumeno-ungherese per recarci a studiare a Budapest. Il motivo che ci spinse ad affrontare questo rischio fu il medesimo: tutti e due sognavamo di studiare al Conservatorio di Budapest, la migliore scuola di musica del Sud-est d’Europa, ricca di una tradizione che risaliva a Franz Liszt.
Il vero scopo del nostro pellegrinaggio, tuttavia, non era solamente la scuola in sé, ma più ancora la persona di Béla, che nell’autunno del 1945 era atteso da New York: Bartók avrebbe dovuto occupare una cattedra al Conservatorio, oltre che una posizione eminente nella vita musicale ungherese. Sebbene nessuno di noi avesse fatto ancora la sua conoscenza, lo ammiravamo con devozione e attendevamo impazienti il giorno in cui ci sarebbe stato possibile vederlo e ascoltarlo di persona. È quindi facile immaginare il nostro scoramento quando, il giorno stesso del nostro esame di ammissione, vedemmo la bandiera a lutto svettare sul Conservatorio: quel giorno era giunta da New York la notizia della morte di Bartók, all’età di sessantaquattro anni. La gioia di essere stati ammessi ai corsi di composizione fu così del tutto offuscata dal dolore per l’irrimediabile perdita del nostro padre spirituale.
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In quella mezz’ora di attesa, nei corridoi art nouveau del Conservatorio, mentre col batticuore aspettavamo di essere introdotti nell’aula degli esami, nacque spontaneo un sentimento d’amicizia tra Kurtág e me. Sentii che in lui avevo trovato un compagno con cui dividere in tutto e per tutto le mie opinioni e concezioni di un nuovo stile musicale. Amavo la timidezza di Kurtág, il suo temperamento introverso e l’assenza totale di vanità e presunzione. Era intelligente, sincero, semplice ma in modo molto complesso. Più tardi mi confessò che m’aveva preso per uno studente di teologia protestante. Questo divertì molto entrambi: la mia timidezza provinciale era stata interpretata da lui come rigore religioso, il che non corrispondeva per nulla al mio vero carattere.
In quest’amicizia, nata nell’attesa dell’esame di ammissione, era incluso anche un altro giovane compositore: Franz Sulyok, al tempo ventenne; tanto Kurtág che io l’ammiravamo per l’eleganza, l’assoluta schiettezza e l’indipendenza di spirito. Diventammo così amici inseparabili; tutti e tre frequentavamo il corso di composizione di Sándor Veress. Sulyok proveniva da una famiglia simile alla mia e a quella di Kurtág, sebbene fosse originario non della provincia ma di Budapest; anche i suoi ideali musicali erano simili ai nostri.
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I casi della vita ci spinsero in tre diverse parti dell’Europa. Sulyok fu il primo a lasciare, già nel 1949, l’Ungheria staliniana. A rischio della vita, passò illegalmente la frontiera tra Ungheria e Cecoslovacchia prima, tra Cecoslovacchia e Austria poi. Giunto a Parigi, divenne allievo di Darius Milhaud e Nadia Boulanger; più tardi visse a Bujumbura, in Africa, e oggi si trova nuovamente a Parigi. Sándor Veress lasciò a sua volta l’Ungheria; Kurtág e io proseguimmo i nostri studi con Pal Jardanyi prima, con Ferenc Farkas poi. Nel frattempo, Kurtág studiava anche pianoforte con Pal Kadosa e frequentava i celebri corsi di musica da camera di Leo Weiner. Nel dicembre 1956 salutai Kurtág e sua moglie e mi rifugiai con mia moglie in Austria. Kurtág rimase a Budapest e divenne il più importante compositore ungherese.
Nonostante la separazione geografica, la nostra amicizia è rimasta intatta. Quando ci accade di ritrovarci, sentiamo che i nostri ideali musicali corrispondono, sebbene – dagli anni trascorsi in comune a Budapest – le nostre strade e la nostra evoluzione abbiano seguito una direzione diversa.
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Gyorgy Ligeti, Eckhard Roelcke, Lei sogna a colori?, Alet edizioni, 2004 – ISBN 88-7520-005-X

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da Associazione culturale Orfeo nella rete – Musica classica

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  1. La concezione dell’evento sonoro.

Questa composizione è stata scritta nell’estate del 1966. La poetica di Ligeti è, tuttavia, da collocarsi fuori da quell’insieme formato dagli stilemi compositivi del secondo novecento. Ligeti non utilizza materiale dodecafonico, tecnica compositiva che aveva influenzato gran parte dei compositori fino a quel momento. Inoltre egli non scrive per strumento e nastro magnetico: altro genere di composizione che proliferava in quegli anni. Ligeti si accosta alla musica elettronica dopo essere emigrato dall’Ungheria nel 1956. Essendosi, infatti, recato prima in Austria, e poi in Germania troverà un ambiente dedito allo sviluppo delle tecnologie sonore. Lavorerà allo studio di fonologia di Colonia e da questa collaborazione nasceranno composizioni come Glissandi (1957) ed Artikulation (1958). Quella della musica elettronica è, però, per Ligeti, una esperienza che si colloca all’inizio della sua carriera ma che lascerà tuttavia delle tracce nei suoi lavori futuri.

Gli anni sessanta del ventesimo secolo, in realtà, rappresentano l’apice di uno sperimentalismo, talvolta fine a se stesso e che va oltre l’evento delle tecnologie sonore, cominciato nel decennio precedente, ed alimentato anche dalle tendenze compositive della cosiddetta scuola di Darmstadt. Questa composizione rappresenta un esempio di come si possa scrivere un’opera di grande valore artistico, senza obbedire alle sterili teorie dello sperimentalismo estremo.

D’altra parte Ligeti non ha mai assecondato le tendenze del momento, ossia ha sempre seguito un “percorso personale”, sganciato però da ciò che erano le tendenze comuni. Egli, nelle sue composizioni si rifà per lo più agli insegnamenti dei grandi maestri fiamminghi, in termini di polifonia, ed anche di organizzazione formale (cfr. oltre).

Le “nuove tendenze” investivano tutti i parametri musicali, dunque anche la notazione, che per soddisfare le nuove esigenze del linguaggio, si modificò. Con l’avanguardia postweberniana si raggiunse un iperdeterminismo del segno, nel senso che tutti i parametri venivano sottoposti ad un processo di serializzazione. La reazione a questo tipo di scrittura fu l’introduzione, da parte dei compositori, di segni ad hoc che permettessero loro di indicare intervalli di un quarto di tono, ad esempio, o i glissando. Si giunse così da un iperdeterminismo ad un indeterminismo, o per meglio dire ad un grafismo estremo, come mostra l’es.1 che riporta una parte di Zyklus per un percussionista, di K.Stockhausen.

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Un altro tipo di notazione usata era quella aleatoria, che lasciava libertà all’esecutore di gestire alcuni parametri della composizione. Ne risultava che tutte le esecuzioni, dello stesso brano, erano differenti le une dalle altre. Un esempio è Quartetto IV di F.Donatoni (1963) la cui struttura è determinata dall’impaginazione di un quotidiano della località e del giorno dell’esecuzione. Si giunse, poi, ad una stretta connessione tra grafismo ed evento sonoro, nella quale il segno tende a suggerire ciò che poi sarà il suono (cfr. La Passion selon Sade di S.Bussotti-1966). La notazione che Ligeti usa è “classica”: in essa non si apprezza l’introduzione di particolari segni o grafismi.

Quello che però il compositore rivisita, in questa opera, è il rapporta fra parola e suono, rapporto che si è modificato attraversando i vari periodi storici, ed adesso viene trattato in maniera “nuova”, tenendo conto, però, del suo passato.

Nel cantus planus la parola è la rivelazione della divinità “attraverso” il suono che, a sua volta, è la glorificazione della parola. Successivamente nella grande stagione della polifonia fiamminga si assiste, invece, alla trascendenza del rappresentato, grazie alla quale l’opera d’arte stessa è considerata essere espressione del sacro. Dal sedicesimo secolo si svilupperà poi il madrigale, cioè l’intima relazione fra parola e suono. Il suono, o meglio il profilo della melodia rispecchia la semantica della parola. Dallo sviluppo del madrigale (cfr. L’ottavo libro di madrigali di Claudio Monteverdi) nascerà poi la grande avventura del melodramma.

Dall’altra parte, dopo le due scuole liederistiche di Berlino, approderà a Vienna il Lied che raggiungerà vette altissime grazie a compositori come, ad esempio, F. Schubert.

Nel ventesimo secolo il rapporto fra parola e suono diventa “inutile”, perché si è esaurito, nel senso che la parola è “assimilata” dal suono. In alcune opere il testo e trasfigurato dal suono. Un’opera illuminante in tal senso è il quartetto “Fragmente-stille, an diotima” (1979-1980) di L. Nono, nel quale, “solo” in partitura compaiono frammenti da “An diotima”, una poesia di F. Hölderlin. I frammenti devono evocare delle sensazioni negli esecutori, ed essi poi devono trasformarle in suono.

Ligeti in questa composizione recupera, quella dimensione nella quale la parola perde la sua funzione referenziale, ossia in essa non c’è alcuna funzione dialettica tra significante e significato.

La parola si sgancia dal “sistema” della lingua per assumere una “entità sonora” unica e libera. Ligeti rimarca questo aspetto precisando in partitura, ad esempio, che alcune consonanti non vanno articolate, perché ostacolerebbero il flusso sonoro. Altrove addirittura viene cantata solo una sillaba della parola, cosicché non è possibile riconoscere la parola col suo significato. La scelta del testo, poi, è significativa: i riferimenti all’eterno si sposano perfettamente con la costante ricerca del continuum sonoro. In questa ottica la “musicalità” insita nelle parole è al servizio del continuum. In questa sede, dunque, la parola è “il luogo del suono”.

  1. Sulla gestione dei parametri costitutivi.

“E’ una musica che suscita l’impressione di un fluire senza inizio e senza fine. Vi si ascolta una frazione di qualcosa che è iniziato da sempre e che continuerà a vibrare all’infinito. Tipico di componimenti siffatti è il non avere cesure che l’idea di flusso non consentirebbe”. Con queste parole Ligeti parla della sua musica. In effetti all’ascolto si percepisce un continuum che subisce varie metamorfosi, ma che non “inizia” e non “finisce” mai. Questo continuum ha la caratteristica di essere statico e dinamico contemporaneamente. E’ statico perché utilizza le stesse note alla stessa altezza per tutte le voci, ed è dinamico perché all’interno di questo tessuto si possono individuare linee “virtuali” (cfr. oltre), ogni micro-articolazione nasce e muore, ossia è indipendente dalle altre ma allo stesso tempo interagisce con le altre. In questo senso sono da intendersi le composizioni di Ligeti. Ad esempio, in Volumina per organo, egli propone degli accordi o meglio dei clusters nei quali però si muovono varie linee virtuali. Il suono dunque è il “protagonista” principale della composizione. Ciò spiega la minuzia con la quale il compositore indica tutti i modi di attaccare il suono e di lasciarlo. D’altra parte anche il fatto che prima di attaccare un suono ci sia una pausa sta a significare che si vuole evitare qualsiasi articolazione della voce. Le stesse parole sono “modificate”, nel senso che alcune lettere che le compongono non si devono sentire perché ostacolerebbero il flusso. Naturalmente questo non accade solo in questa sede, ma anche in partiture per orchestra (cfr. Lontano) e per altri strumenti. I colori sono tutti variazioni del p, questo a rimarcare la volontà di creare un corpus sonoro indefinito, e dunque, se vogliamo, che si colloca in un luogo “lontano” rispetto a chi ascolta.

  1. Testo e mappa topografica della composizione.

Il testo usato è liturgico, tratto dalla “missa pro defunctis”, ed è il seguente: “Lux aeterna luceat eis, Domine, cum sanctis tui in aeternum quia pius es. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis“.

Questo testo è distribuito nelle tre macro-sezioni che compongono la composizione. Addirittura in due di esse c’è un vero e proprio scivolamento di due parti di esso, una sopra l’altra. L’organico è costituito da un coro misto a cappella, formato da soprani, contralti, tenori e bassi; ciascuna voce si suddivide in quattro sottogruppi; lo schema di come si avvicendano le voci durante l’intera composizione è riportato nell’es.2.

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Dall’es.2 si evince che le voci si avvicendano secondo schemi non simmetrici, che trovano la loro ragion d’essere solo nel determinare diverse macro-articolazioni, appunto, nelle quali la composizione è suddivisa. La massa sonora, infatti, può essere gestita sostanzialmente secondo tre modi: aumentazione, mantenimento e diminuzione. All’interno di una sezione cioè si può assistere ad entrate in successione delle voci (aumentazione), oppure alla gestione di linee melodiche virtuali con un numero di voci costante (mantenimento) ed in fine ad uno spegnimento progressivo del suono, cioè alla fine in successione delle voci (diminuzione). Tenendo conto di quanto esposto la composizione può essere suddivisa in tre macro-sezioni: la prima dalla batt.1 alla batt..37, la seconda dalla batt.39 alla batt.89 ed infine la terza dalla batt.90 alla batt.119. Risulta evidente che sono presenti dei suoni di collegamento fra una macro-articolazione e l’altra, non essendo esse giustapposte.

  1. La prima macro-articolazione.

I soprani 1 ed i contralti 1 cominciano simultaneamente ad intonare un fa³. Scorrendo le linee delle due voci si evince che ad ogni nota corrisponde una sillaba: dunque alle parole lux aeterna corrispondono quattro note. Nella prima sezione le parole usate – dai soprani e contralti – sono lux aeterna luceat eis. La macro-articolazione risulta essere suddivisa in diverse micro-articolazioni, composte da quattro note ciascuna, che sono riportate nell’es.3.

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Tuttavia anche le altre voci, e cioè soprani 2, 3, 4 e contralti 2, 3, 4, seguono le stesse micro-articolazioni. Ogni voce ha, quindi, una propria figurazione ritmica caratteristica: i soprani 1, 4 ed i contralti 3 hanno le terzine; i soprani 2 ed i contralti 1,4 le quintine, ed infine i soprani 3 ed i contralti 2 non hanno nessun gruppo irregolare. Questo procedimento di assegnare ad ogni voce uno stesso “modo ritmico” era peculiare nella notazione quadrata. Sotto il profilo diastematico c’è un’apertura dal sol³ al la4 e al re, passando per tutti i gradi cromatici intermedi (es.2). Il movimento delle voci realizza dunque un cluster diatonico. Quello a cui questa scrittura tende è a far nascere un suono “dentro” l’altro, cosicché si possa giungere all’eliminazione di qualsiasi tipo di cesura.

Da quanto esposto fino ad ora si deduce che Ligeti realizza un canone di altezze, ma non di durate. La stessa melodia è percepita simultaneamente ma con velocità diverse, cosicché si ha uno sfalsamento dei suoni e di conseguenza uno sfuocamento della melodia iniziale. La perdita della percezione dell’individuum non significa il suo annullamento: questo sta a significare l’importanza del singolo non in quanto tale, ma in relazione col tutto. Questa esaltazione della “virtualità” del suono fa si che anche i suoni che non sono scritti in maniera lineare in partitura, vengano associati dall’ascoltatore, e che si crei così una lunga linea melodica virtuale (continuum). Questa tecnica era già stata usata nella polifonia antica., come si evince dall’es.4 che mostra l’inizio del kyrie della Missa Prolationum di Ockghem; chiaramente questo è possibile se le voci si muovono in una stessa regione sonora. La linea, ad esempio, può essere quella del contratenor fa do fa la, oppure fa³, do³, do4 (seconda batt.), do³ (seconda batt.), come evidenzia la linea tratteggiata.

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Queste linee virtuali si ritrovano anche in lux aeterna come si vede nell’es.5. Per esempio potremmo considerare la linea del soprano 1 fa sol fa# sol, oppure fa ³, fa³, fa³, fa# ³ (seconda batt.), come evidenzia la linea tratteggiata.

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L’ambito sonoro si ingrandisce progressivamente, come mostra l’es.6.

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A questa dilatazione corrisponde anche una dilatazione delle voci: i tenori, infatti, si inseriscono dalla batt.24, uno alla volta. Il testo che cantano è: luceat eis. La massa ne risulta quindi ulteriormente ingrandita. Questo modo di inserire le voci non simultaneamente era caratteristico nella scuola veneziana (cfr. le composizioni di A.Gabrieli, ad es. nunc dimittis e jubilate Deo).

La prima micro-articolazione termina con un intervallo di ottava fra due la naturali: i soprani ed i tenori hanno un la4 ed i contralti un la³. L’intervallo di ottava è una caratteristica stilistica di Ligeti e la ritroviamo infatti anche in altri lavori a delimitare delle macro-articolazioni (cfr. Lontano, fine della prima articolazione batt.41).

  1. La seconda macro-articolazione.

Il passo omoritmico dei bassi (un cluster che si trova in una regione al di fuori della loro estensione, da qui la necessità di cantare in falsetto) conduce al secondo canone dei tenori che comincia a batt.39. Il testo di questa sezione, per le voci maschili, è: Cum sanctis tuis in aeternum quia pius est.

Anche in questo caso, come nella prima macro-articolazione, ad ogni sillaba corrisponde una nota. Lo schema della micro-articolazioni è riportato nell’es.7.

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Per quanto riguarda la struttura della polifonia valgono le osservazioni fatte nel precedente paragrafo. I bassi entrano alla batt.46. A differenza della prima macro-articolazione dove i tenori andavano ad aumentare progressivamente la massa sonora, in questo caso i bassi entrano simultaneamente, però, essendo l’attacco del suono “dal nulla”, e per di più con tre tenori su quattro che cantano il re4, la massa risulta aumentata improvvisamente. Le micro-articolozioni sono le stesse dei tenori.

Dalla batt.61 entrano i soprani ed i contralti ed i bassi attaccano simultaneamente con loro. Il testo delle voci femminili è: Requiem aeternam dona eis. I soprani seguono lo schema riportato nell’es.8.

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I contralti usano solo tre note, che poi vengono ripetute, e che sono riportate nell’es.9.

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Esse entrano però non tutti sulla stessa nota, ma sfalsati: il contralto1 ha un do ,il contralto 2 un sib ed infine i contralti 3 e 4 un sol. Sono dunque tre livelli sovrapposti che potrebbero essere raggruppati nella maniera seguente: i soprani ed i contralti hanno lo stesso testo ma diversa struttura del canone. I tenori ed i bassi hanno stesso testo e stessa struttura del canone. Questo scivolamento non rappresenta, a ben vedere, una novità. D’altra parte anche nella sonata per pianoforte op.81a di Beethoven, che è stata scritta negli anni 1809-1810, c’è uno “scivolamento di funzioni armoniche”(es.9-batt.227-232), cioè la sovrapposizione di due livelli differenti. Nell’es.10 risulta evidente che, nella quarta battuta, mentre nel livello inferiore c’è una funzione di dominante, in quello superiore si trova una tonica; la situazione si rovescia nella battuta seguente, per poi tornare come è stata descritta in quella seguente ancora.

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La massa sonora utilizzata, che ha il punto di massimo dalla batt.61 fino alla batt.76, diminuisce progressivamente, cosicché le voci man a mano spariscono. In partitura notiamo che quando una voce lascia il suono c’è sempre la dicitura morendo.

  1. La terza macro-articolazione.

Come è accaduto alla fine della prima macro-articolazione anche qui i bassi cantano Domine secondo figurazioni omoritmiche (batt.87-91), prima della fine delle quali comincia l’ultimo macro-articolazione. Il testo è: et lux perpetua luceat eis. Anche questa risulta essere un canone – dei contralti – nel quale, come per i precedenti, ad ogni sillaba corrisponde una nota. Si avranno anche qui delle micro-articolazioni che sono riportate nell’es.11.

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Le osservazioni sulla polifonia fatte precedentemente valgono anche per questo canone. La scrittura all’inizio (batt.90) è densa, poi, mano a mano, si dirada fino alle semibrevi legate delle batt.114-119. Le altre voci fanno da contorno al canone dei contralti, quasi a creare una “cornice” che include il canone stesso. Le voci in questione sono i soprano ed i tenori dalla batt.94 alla batt.102 che cantano lucea ai quali, poi, si aggiungono i bassi dalla batt.101 alla 114. I soprani di nuovo dalla batt.110 alla batt.114 cantano solo la sillaba lu. I valori di queste tre voci sono lunghi e tenuti. La scrittura ritmica dei contralti tuttavia tende a uniformarsi con loro man a mano che il canone va avanti. C’è dunque nei contralti una rarefazione del suono che porta fino al morendo di batt.119. Dopodiché è il silenzio (pause delle batt.120-126) perché il suono è andato altrove; le pause indicano dunque quell’universo sonoro al quale appartengono tutti i suoni e dal quale noi per qualche minuto ne abbiamo sentiti solamente alcuni.

Federico Favali
Lucca, dicembre 2002

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6 risposte a “Gÿorgy Ligeti “La mia vita con Kurtág (giugno – luglio 2001)” – (Estratto dal volume di Gÿorgy Ligeti Incontro con Kurtág  nella Budapest del dopoguerra,  traduzione di Paolo Martinaglia, a cura di Antonio Sagredo) con un Commento critico di Federico Favali

  1. Non sono in grado di leggere la musica di Ligeti in termini strettamente tecnici, ma sono in grado, come tutti coloro che sono dotati di buon orecchio, di intendere le novità straordinarie che la musica di Ligeti ha introdotto nel nostro senso comune, e di capire che questa nuova concezione della musica ha aperto e apre ad una vera e propria rivoluzione: il continuum del singolo suono estrapolato dalla parola e reso indipendente. Ma che cos’è il continuum se non un aspetto della parola frammentata, del frammento di cui stiamo oggi parlando in poesia? Possibile che il concetto di frammento sia così difficile da recepire? Eppure tutta l’arte musicale del Novecento, da Giacinto Scelsi a Gyorgy Ligeti, ha fatto questo, ha isolato il singolo suono e lo ha allungato come un elastico fino all’infinito; e che cos’è il singolo suono se non una forma con cui si dà il frammento?
    Quando parlo della “parola raffreddata, ibernata della Lingua di relazione”, intendo un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti noi, basta vederlo, accorgersi che è lì. So benissimo che di questo problema non si occupa nessun letterato o rivista di poesia in Italia, ma non è esso un buon argomento per liquidare quanto andiamo dicendo come astrusità o mera fantasia. Tutta la grande arte di fine Novecento si muove da molti decenni in questa direzione, e se la poesia italiana, ancorata a vecchi schemi mentali, non se ne è accorta, non è certo colpa nostra. Anzi, noi ce ne siamo accorti in ritardo, con un ritardo di alcuni decenni. Sarebbe ora di recuperare il tempo perduto.
    E adesso lasciamo la parola al commentatore della musica di Ligeti:

    Ligeti in questa composizione recupera, quella dimensione nella quale la parola perde la sua funzione referenziale, ossia in essa non c’è alcuna funzione dialettica tra significante e significato.

    La parola si sgancia dal “sistema” della lingua per assumere una “entità sonora” unica e libera. Ligeti rimarca questo aspetto precisando in partitura, ad esempio, che alcune consonanti non vanno articolate, perché ostacolerebbero il flusso sonoro. Altrove addirittura viene cantata solo una sillaba della parola, cosicché non è possibile riconoscere la parola col suo significato. La scelta del testo, poi, è significativa: i riferimenti all’eterno si sposano perfettamente con la costante ricerca del continuum sonoro. In questa ottica la “musicalità” insita nelle parole è al servizio del continuum. In questa sede, dunque, la parola è “il luogo del suono”.

    Sulla gestione dei parametri costitutivi.
    “E’ una musica che suscita l’impressione di un fluire senza inizio e senza fine. Vi si ascolta una frazione di qualcosa che è iniziato da sempre e che continuerà a vibrare all’infinito. Tipico di componimenti siffatti è il non avere cesure che l’idea di flusso non consentirebbe”. Con queste parole Ligeti parla della sua musica.

  2. antonio sagredo

    Ho curato questo intervento, sperando che non solo la Poesia sia presente (in questo blog), ma anche altre Arti, poi che sappiamo tutti come tutte le manifestazioni “artistiche” siano fra di loro strettamente interconnesse; sappiamo anche, dal secolo trascorso più consapevolmente, che anche manifestazioni extra-artistiche hanno i medesimi titoli per far parte dei mondi “artistici”… e dal secolo trascorso, giusto per porre un limite temporale e anche spaziale… ma sono secoli che, spesso a nostra insaputa, l’operare – in questo mondo – ci sovrasta in infinite maniere. Talvolta era il come, talvolta più esenziale il contenuto… col tempo il come e il “cosa” si son mescolati, poi si son divisi e poi di nuovo fusi… l’uomo così si è trovato prigioniero di questo andirivieni incesante e senza scampo… vi sono stati tentativi di definizioni costanti in tutti i secoli, e in tutti i secoli ci si è provati a fragmentare sia la forma che il contenuto, e tutte le tecnologie che si son succedute nel tempo ci hanno aiutato e spesso ostacolato nelle operazioni artistiche/extra-artistiche. Insomma… il progredire verso dove e come non deve spaventarci… alla fine di questo secolo in altri spazi extra-terrestri l’uomo spero che avrà già iniziato a realizzare opere appunto extra-terrestri… e vi saranno musei extra-terrestri e tutto sarà extra-terrestre… eppure ciò che affermo or ora non è afftto nuovo, nuovo se mai è il realizzarsi concreto.
    —— Ligeti, mi sono domandato, quanti lo conoscono? E presentarlo, con l’aiuto di Linguaglossa, mi è parso come presentare una operazione extra-terrestre… in terra! —-
    ma vi sono tantissimi “continenti terrestri” da esplorare ancora, prima di trasferirci davvero in continenti extra-terrestri; uno di questi è Velemir Chlebnikov che nonostante Jakobson, Ripellino e tanti studiosi validi quanto loro, resta appunto un “continente ignoto”… egli già diceva di “grattacieli di cristallo” e altre fantasticherie… che oggi non lo sono più.
    scusatemi per quanto già si conosce – as

  3. Proviamo a pensare la poesia come una «composizione musicale», come una «polifonia», come un «polittico», o come un «sistema polifonico», con voci di contralto, di tenore, di basso etc., con «voci» interne ed esterne, dell’io e di altri; proviamo a pensare di rimodulare i «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso; proviamo a pensare questo sistema dinamico come «sistema in movimento»; proviamo a immaginare la composizione non come un sistema statico-lineare. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo afferma Einstein) sono correlati. Proviamo a pensare al poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Proviamo a pensare alla parola in termini di «massa sonora», e di inserire questa «massa» in un circuito orbitale che ruota attorno ad un astro anch’esso in movimento… Insomma, io credo che abbiamo molto da imparare dalla critica musicale e da musicisti come Ligeti e Scelsi.
    Un grazie ad Antonio Sagredo per averci dato con questo post la possibilità di intensificare il nostro pensiero poetico.

    Ancora la parola a Federico Favali:

    Ligeti in questa composizione recupera, quella dimensione nella quale la parola perde la sua funzione referenziale, ossia in essa non c’è alcuna funzione dialettica tra significante e significato.

    La parola si sgancia dal “sistema” della lingua per assumere una “entità sonora” unica e libera. Ligeti rimarca questo aspetto precisando in partitura, ad esempio, che alcune consonanti non vanno articolate, perché ostacolerebbero il flusso sonoro. Altrove addirittura viene cantata solo una sillaba della parola, cosicché non è possibile riconoscere la parola col suo significato. La scelta del testo, poi, è significativa: i riferimenti all’eterno si sposano perfettamente con la costante ricerca del continuum sonoro. In questa ottica la “musicalità” insita nelle parole è al servizio del continuum. In questa sede, dunque, la parola è “il luogo del suono”.

    Proviamo a pensare ad una composizione poetica come ad una macro metafora che all’interno contiene una miriade di frammenti, di parti del tutto, di metafore, di immagini, di luoghi, di personaggi, di citazioni, di ready made dove tutti quanti hanno un loro posto, o si scambiano di posto; in tal modo, all’interno della poesia i luoghi, i personaggi diventano interscambiabili, dove tutto è in movimento in tutte le direzioni. Proviamo a pensare una poesia come un polittico, una polifonia dove una immagine contiene all’interno tutte le altre immagini, un cosmo intero in traslazione in tutte le direzioni. Lo so, forse chiedo troppo. Ma proviamoci.

    Ecco cosa diceva Giacinto Scelsi. Così scrive il musicista:

    “La mia musica non è né questa né quella, non è dodecafonica, non è puntillista, non è minimalistica…Cos’è allora? Non si sa. Le note, le note non sono che dei rivestimenti, degli abiti. Ma ciò che c’è dentro è generalmente più interessante, no? Il suono è sferico, è rotondo. Invece lo si ascolta sempre come durata e altezza. Non va bene. Ogni cosa sferica ha un centro: lo si può dimostrare scientificamente. Bisogna arrivare al cuore del suono: solo allora si è musicisti, altrimenti si è solo artigiani. Un artigiano della musica è degno di rispetto, ma non è né un vero musicista né un vero artista. […] Non avete idea di cosa sia un suono! Vi sono di contrappunti (se si vuole), vi sono sfasamenti di timbri diversi, armonici che producono effetti del tutto diversi fra loro, che non solo provengono dal suono, ma che giungono al centro del suono; vi sono anche movimenti divergenti e concentrici. Esso allora diventa grandissimo, diventa una parte del cosmo. anche se minima c’è tutto dentro. […] Ribattendo a lungo una nota essa diventa grande, così grande che si sente sempre più armonia ed essa vi si ingrandisce all’interno, il suono vi avvolge. Vi assicuro che è tutto un’altra cosa: il suono contiene un intero universo, con armonici che non si sentono mai. Il suono riempe il luogo in cui vi trovate, vi accerchia, potete nuotarci dentro. […]Quando si entra in un suono ne si è avvolti, si diventa parte del suono, poco a poco si è inghiottiti e non si ha bisogno di altro suono. […]Tutto è là dentro, l’intero universo riempe lo spazio, tutti i suoni possibili sono contenuti in esso.

    Ecco cosa scrive Antonio De Lisa della musica di Scelsi:

    Aion si pone per molti versi come la trasfigurazione musicale in senso cosmico dello “sperimentalismo metafisico” di Scelsi. Siamo qui infatti al cuore del suo nucleo teoretico, la cui incomprensione o mistificazione ha prodotto non pochi (e inutili) rituali polemici sull’autenticità della sua musica. Sta di fatto che la sua musica, per come la conosciamo, non poteva che essere così, dato il legame indissolubile tra quelle “scelte formali” e l’universo metafisico dell’autore, che in Aion si fa scoperto.

    Il richiamo all’esperienza del brahman è rivelativo. “Tutto questo [universo] è in effetti il brahman“, recita un’affermazione della Chandogyopanisad, con una trasparente allusione al fondamento ultimo di tutto, ciò di cui ogni essere è fatto: l’Essere in quanto tale (Sat, lett. “l’Ente”). L’identificazione con l’atman, il puro soggetto, è decisiva: l’uomo è chiamato a riconoscere il fondamento della propria esperienza, la nuda coscienza testimone degli eventi mentali, come formante tutt’uno con il fondamento di tutto. L’Essere, in questa prospettiva, è inattingibile dal linguaggio e dal pensiero: esso si presenta come il “né così, né così” (Neti neti), raggiungibile solo attraverso la negazione di ogni modalità determinata e di ogni nome e forma. Da qui all’annullamento nominale e formale delle strutture musicali della tradizione, nell’opera di Scelsi, il passo è breve; come pure è comprensibile come egli tenti di sottrarsi a ogni altra incipiente tradizione, anche se avversa ma basata sulle stesse categorie (in particolare quelle che fanno capo a un concetto dialettico di tensione). In questo modo non fa scandalo trovare nella musica scelsiana, insieme, le ottave e i quarti di tono (la massima conferma e la minima soglia della diffrazione dello spazio prospettico temperato della musica occidentale); in questo modo si capiscono gli scivolamenti microtonali, i glissandi sospesi, la scoperta della profondità del suono nella bidirezionalità degli armonici, la pulviscolarità micromelodica e microritmica dei battimenti; si spiegano anche il “vuoto intervallare” e la circolarità formale.

    Ad Aion l’autore ha sotteso un “programma”, si tratterebbe di “quattro episodi in una giornata della vita di Brahma”. Brahma – il cui nome significa etimologicamente “essere immenso” e che deriva dal tema nominale sanscrito brahman, designante il principio spirituale assoluto e indifferenziato – è la prima divinità della triade indù (insieme a Visnu e Siva). Gli è stata attribuita l’origine del mondo, essendogli state conferite le caratteristiche del “creatore”, dato che rappresenta il momento di equilibrio fra la forza che conserva l’universo in esistenza (Visnu) e quella che tende al contrario al suo annientamento (Siva). Brahma, come ordinatore del cosmo, è rappresentato con quattro volti che guardano verso le quatto direzioni dello spazio, simboli dei quattro Veda, o dei quattro varna, o delle quattro età del mondo. Reca in mano un karmandalu (vaso d’acqua per le abluzioni) e cavalca un’ oca selvatica (hamsa). Scaturita dall’idea di un essere immenso concepito come “embrione d’oro” (Hiranya-garbha) o come “protettore-signore dell’umana progenie” (Prajapati), la figura di Brahma comincia a delinearsi all’epoca delle Upanisad. La sua vita – come quella di tutte le divinità indu – non è eterna, ma ha una durata, sia pure immensa nel tempo. Nasce all’inizio di ogni mahakalpa (“grande era cosmica”), poi comincia a recitare i Veda, enunciando così i principi di verità che costituiscono la norma di una nuova manifestazione del mondo.

    Scelsi usava dire che per capire la sua vita e la sua musica bastava vedere dove abitava, nei pressi del Foro romano. Da lì passava il confine tra Occidente e Oriente. Uno dei sensi possibili di questa affermazione risiedono nei due punti in cui siamo andati articolando questo discorso: l’affermazione del “né così, né così” fino all’”annullamento della presa” (l’inattingibilità dell’essere se non attraverso la sua pulsione ritmico-onirica) vissuta (intuita, forse) attraverso le esperienze euro-colte del Surrealismo e sfociate nell’adesione al respiro orientale del brahman.*

    Ed ecco adesso tre poesie inedite di Steven Grieco Rathgeb degli anni Novanta. Protagonista è il Tempo, l’Aion di Scelsi,(la lontananza nostalgica) il Tempo eterno, da cui Cronos, per Aristotele l’«immagine mobile dell’eternità», il tempo ciclico che appare nel presente. Da notare come gli strumenti musicali a percussione di Grieco Rathgeb traccino i movimenti ondulatori del testo, che sembra immobile, eppure questa immobilità è composta da una miriade di micro movimenti di traslazione, ondulatori quasi che l’autore li avesse scritti sotto l’influsso della musica di Scelsi. Le poesie sono inquadrate da un’unica inquadratura della macchina da presa che circonda l’oggetto profondo da tutte le posizioni, lentamente, con un movimento ondulatorio, avvolgente, con progressivi scivolamenti microtonali, con i glissandi sospesi:

    Steven Grieco Rathgeb
    III

    Il Mahabharata

    È questo il poema del tempo.
    Mirabile come narra
    i barconi sgangherati in riva al grande fiume,
    prue immerse nel fango, i fianchi scoppiati.
    Bruni, vividi, da sempre così
    nell’incoercibile farsi delle cose,
    nel nostro incoercibile diventare antichi
    senza mai invecchiare.
    I giorni si muovono veloci o pesanti,
    sempre si contraddicono, sono identici
    nel tornare sui loro passi,
    la loro irreplicabilità mozza il fiato.

    Mirabile, il poema che narra questo inesausto rinnovarsi.
    Quello che nelle sue pagine hai appreso ieri
    lo ascolti oggi, e avrà un altro senso.
    Una voce isolata dal giardino degli usignoli*
    ti insidia il ricordo. Ma la radice è sparita,
    solo ignari fiori dondolano nella brezza.
    I punti chiave, gli incroci significanti che segnasti
    non li rammenti più. Si sono modificati
    Vai di punto luminoso in punto luminoso,
    lettore notturno, immerso nell’oscurità.

    Lui, obliquo (dietro a tutto quel sognare):
    “Non lontano. Sono vicinissimo.”

    Mirabile è la vitalità delle cose, come trafigge
    i mille strati di un angoscioso immaginare:
    come si staglia il ramo contro il cielo
    e quanta dignità nel sasso sull’asfalto,
    l’immensa forza nelle fragili zampe del falangio.

    Via dei Canacci, Florence, 1997.

    I SOTTILI LINEAMENTI

    I sottili lineamenti tribali, le mille piste
    che si biforcano nella desolazione:
    la fine trama di logore stoffe, le sete,
    il rosso e l’oro dei vestiti:
    tutto abbiamo visto vanificarsi, svanire
    come un raggio di luce nei terreni incolti;
    il volto del mondo perdere i suoi connotati,
    gli stivali chiodati del Male assoluto
    i pesanti cingoli nel fango
    portare in offerta distanze sempre più vicine.

    E dalle fessure dei nostri muri disumani
    spiamo quelle catapecchie a perdita d’occhio,
    i mille fuochi sporchi per le vie:
    gli arruffati capelli intrisi di polvere e ira
    ravviati dalle mani materne,
    i capelli sottili come seta
    ravviati dalle ruvide mani materne.

    Kutch of Rann, Gujarat 1997

    QUANDO LA MATTINA RISPLENDE

    Della notte non è rimasto nulla
    tranne una porta socchiusa
    sul corridoio illuminato

    Tutti ancora dormono
    ma qualcuno, si vede, è già sveglio
    il corridoio dalle finestre luminose
    l’ha visto passare –
    già sveglio, a giudicare dai rumori,
    qualcuno all’altro capo della casa –

    da lì è salito un filo d’aria,
    si è levato, splendente,
    e pian piano, con pazienza

    torna
    per l’alto spazio del corridoio,
    più in alto ancora dei libri polverosi
    che quasi sfiorano il soffitto,
    torna sul filo di quell’elevato dialogo,
    quel ragionare fra menti illuminate,
    quasi diretto in nessun luogo
    a raggiungerlo, appena sveglio
    tra la porta socchiusa e la mattina,
    a sfiorare il suo sonno a occhi aperti
    il suo vegliare mentre sogna

    Via dei Canacci, 1997

    * da inpoesia.me

    Ed ora una mia poesia sull’Isola dei morti.

    Giorgio Linguaglossa
    Chiatta sullo Stige

    […]
    Chiatta sullo Stige.
    Luttuose gondole fluttuano cariche di morti.
    Piceo fondale.
    Il barcarolo canta a squarciagola.
    Il gondoliere traghetta le anime ancora pesanti dei morti.
    E canta.
    Essi si chiedono: «Siamo morti?
    Veramente morti?». «Siete morti per sempre
    – risponde il gondoliere –
    Per sempre e mai più».
    […]
    Evgenja Arbugaeva. La sua casa in Siberia.
    La porta dell’izba è aperta sulla neve.
    La Torre costruita con i prosperi e l’orologio da tasca.
    La torre del faro e l’osservatorio sul tetto dell’izba.
    Traffic of Sakurabana.
    Luci che si accavallano su altre luci.
    Steven Grieco Rathgeb è là.
    Madrigale per violino solo con otto nastri magnetici.1)
    […]
    Una grande ombra sulla chiatta. Bianca.
    Dritta sulla prua. Odore di nafta.
    A poppa il vogatore che voga verso l’isola dei morti.
    Rocciosa a strapiombo un’isola montuosa nel mare plumbeo.
    Attracchiamo sulla sabbia nerastra.
    «Questa è l’isola dei morti», disse un gendarme
    ma la voce si perse nel luteo fogliame
    della sponda.
    […]
    Ricordai le parole di Borges: «Esiste un fiume
    le cui acque danno l’immortalità; in qualche regione
    vi sarà un altro fiume, le cui acque la tolgono.
    Il numero dei fiumi non è infinito; un viaggiatore
    immortale che percorra il mondo, finirà, un giorno,
    con l’aver bevuto l’acqua da tutti».
    […]
    Un altro gendarme gridò:
    «Elpenore, anche tu qui?».2
    «C’era una reggia sontuosa. E tanto vino».
    «E poi?».
    «Devo esser caduto nel sonno».*
    […]
    Quando si avvicina la fine… restano solo parole.
    Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse;
    tra breve, sarò tutti: sarò morto.
    […]

    1 Pezzo musicale di Bruno Maderna
    2 Elpenore (gr. ᾿Ελπήνωρ) Nell’Odissea, uno dei compagni di Ulisse. Alla partenza di Ulisse dalla casa di Circe, si alza di fretta dal tetto dove, ebbro di vino, si era addormentato e precipita, perdendo la vita. Rimasto insepolto, la sua ombra risale dall’Ade e prega Ulisse di dargli sepoltura.

  4. Ubaldo de Robertis

    Un post molto interessante sul quale occorre meditare a lungo. Spero resti in onda per qualche giorno. Ringrazio chi lo ha proposto.
    Ubaldo de Robertis

  5. Mi fa piacere che si parli di musica: qui mi trovo più a mio agio. Credo che L’Isola dei morti interpreti il quadro alla perfezione. Concordo con un parere (mi pare dal Calvocoressi) che suona circa così: “La musica di Rachmaninov è come uno splendente palazzo in cui non ci sono più gli invitati”. Musicista certo attardato, ma interessanti sia le Danze sinfoniche che le Variazioni su un tema di Corelli. Lux aeterna ce l’ho in cd assieme a opere di Gorecki, Stravinski, Poulenc e Janacek: mi pare che un’idea ‘gregoriana’ venga resa uniforme ancor più. Il Fragment-stille an Diotima lo avvicinerei, coi dovuti distinguo, ai quartetti di Maderna e Donatoni: Zrcadlo secondo me è un capolavoro. E infine Scelsi: nel 1976 restai ammirato da Natura renovatur per archi.

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