
città nel traffico urbano
Caro Giorgio,
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mi complimento per gli ultimi post che aprono a voci anche molto diverse del panorama contemporaneo, sia italiano che europeo e oltre. È l’azione auspicabile di una Rivista come quella che con grande impegno curi, insieme a vari collaboratori. Ma sono stato sollecitato a scriverti alcune notazioni, soprattutto dopo le due ultime interviste, a Roberto Bertoldo e a Elio Pecora. Perché entrambi, da posizioni e poetiche diverse, esprimono misure e punti di riferimento, che a mio modo ho cercato di articolare nel mio percorso di scrittura con saggi e versi.
Dalla florida foresta di ricerca teorico-critica di Roberto Bertoldo estraggo alcuni punti, anche per me fondanti. L’intervista evidenzia prima di tutto un tronco metodologico, da cui derivano rami e frutti. C’è una implicita critica al cespuglio di libertà apparenti, anarcoide, affollato e ininfluente, di scritture fluttuanti e inconsistenti quanto arroganti, nella realtà liquida del postmoderno. Oggi, in tale allegra e disperata perdita di rilievo e presenza, sembrano ridicoli i richiami alla memoria di esperienze precedenti, a canoni e a una radicalità forte di una ricerca metodologica. Di quelle idee, cioè, che qualcuno ha chiamato le idee più importanti.
E, sia chiaro, l’impostazione metodologica non fa una critica, come una dichiarazione di poetica non fa una poesia. Ma, senza di esse, si rimane in balia del vento e degli eventi, incapaci di misurarli o di darne conto in una forma che sappia trasmettere una visione critica del mondo e della realtà. Capace in tal modo di fare e aggiungere realtà. Oggi innumerevoli testi, cosiddetti poetici, sono magari sapienti articolazioni di parole, ma restano muti e incapaci di dire quale visione delle cose ci offrono per intelligere il caos apparente in cui siamo. Rimaniamo così a danzare liberi di pensare ciò che vogliamo, ma siamo liberi in sostanza di rimanere alienati entro un campo separato, ‘a parte’ e non parte del Resto, appagato dei suoi esercizi e disinteressato a mettere a fuoco, cioè a essere adiacente, e a conoscere a ciò che si dibatte fuori, tra gioie e tragedie.
Credo invece che l’arte e la poesia che resistono siano quelle umanamente necessarie a soddisfare i nostri bisogni di amore, che senza un intreccio con virtude e conoscenza declinano il miele in melassa e il fanciullino nella rimbambilandia attuale. Dopo decenni di ideologia del testo, di arte /poesia inutile, rimane il bisogno di forme capaci di essere utili, (beninteso) antropologicamente utili. Viva allora ricerche fuori dal coro che riaffermano “L’arte è ineliminabile”, insieme alla domanda altrettanto ineliminabile e necessaria, “quale arte?”, “Decorativa” o “significativa”? Evviva per questo chi come Bertoldo sente la necessità de “l’intellettuale creativo, perché oggi, dopo l’abbraccio tra filosofia e poesia avvenuto in modo finalmente accurato nell’età romantica, il poeta non può non farsi carico della complessità del mondo e dei suoi mali.”
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Domanda: Caro Adam hai messo il dito nella piaga. Dici bene quando affermi che oggi si crede di fare poesia mettendo in atto una sorta di vasi comunicanti tra la «vita» e l’«arte», come se ci fosse un canale diretto, un tram che ci conduce dall’una all’altra. Si pensa che si può fare poesia registrando e interpolando (magari anche in maniera brillante) la cronaca con degli intellettualismi, con dei commenti, delle didascalie, delle glosse, degli appunti, e via di seguito. Ma io penso, forse sbagliando, che queste operazioni non facciano parte del demanio della costruzione poetica. Qui siamo nel bisticcio, nella confusione delle categorie e, di conseguenza, delle cose. È bene ribadirlo: tra arte e vita non c’è nessun vaso comunicante. Si può avere una vita poverissima di eventi, come la Dickinson e Mallarmé, e si può fare grande poesia. Chi pone quell’equazione fa della pseudo poesia, della poesia posticcia e artefatta. Ritengo che dobbiamo soffermarci di più sul concetto di Esperienza. Che cos’è l’Esperienza? (Erfharung). Che cos’è l’esperienza estetica? Qual è il legame che unisce le due Esperienze? – Ecco, qui non saprei rispondere, solo un filosofo potrebbe tentare una risposta.
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Risposta:
La parola esperienza era in greco , empeirìa, composta da ἐμπειρία (in e prova), implicava cioè la capacità del soggetto di saggiare dentro la realtà. Ma già da Empedocle, Protagora e altri veniva sottolineato il dubbio tra evidenza e apparenza, o tra verità e falsità. E Platone distingueva tra esperienze fatte solo col logos e quelle frutto di una techné. Ciò conduce immediatamente nella complessità della conoscenza, quale processo di acquisizione di un soggetto attraverso il contatto con una forma di realtà. Ora, questi termini sono già una esperienza di quanto essi siano problematici, polisemici e complessi. Dipende dunque da chi ne fa uso.
Cosa vuol dire contatto? Cosa significa processo? Come si concepisce il soggetto, distinguendo necessariamente tra Soggetto Scrivente (SS) e Soggetto Storicoreale (SSR)? E infine cos’è ciò che chiamiamo realtà? Siamo in un vortice di ricerca di senso e significazione del nostro fare e stare al mondo, che non può essere semplificato. Contatto è una esperienza che può essere fatta (come è già in Platone) sia con i linguaggi dei sensi, che con una lingua algoritmica. Processo può essere concentrato in un lampo o abbracciare un tempo lunghissimo. E il soggetto, se è una molteplicità dinamica e non una monade statica, come concepiamo la sua molteplicità e dinamica?
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Se ci soffermiamo sulle particelle subatomiche, ne traiamo modelli e metafore utili anche sul piano antropologico. Tali particelle hanno libertà delimitata dalla danza o oscillazione corale coerente con altre particelle, in cui il singolo è motore che contribuisce a produrre uno stato diverso, rispetto al precedente, per numero di quark e per somma di energia del campo. Ma l’energia del singolo quark, senza interazione con le altre particelle si deprime e collassa. All’interno della mia ricerca di Adiacenza la forma-soggetto (singolo o collettivo) può essere analogicamente rapportata al contenitore di una forma di quark. Le capacità di movimento spontaneo, o di clinamen già intuiti da Epicuro, esistono entro i limiti costitutivi, di imposizioni esterne e autodelimitazioni, senza i quali cessa di ricercare superamenti o ulteriori campi di forza in cui interagire. Sono sbocchi che tende a produrre l’ideologia liberista e il panorama di una comunità fatta da una giungla di io-io. Quanto alla realtà, ricordo il convegno con qualche decine tra filosofi, artisti, psicologi, poeti ecc, che organizzai nel 2000 per dare avvio a Milanocosa. Tale convegno (vedi gli Atti pubblicati a mia cura da Milanocosa Ed. nel 2003) aveva come titolo “Scritture / Realtà”. Titolo che scelsi, dopo ampie discussioni con il gruppo costitutivo (di cui facevano parte anche Gio Ferri, Giuliano Gramigna e Francesco Leonetti), e che sottolineava con quella barra, lo iato inevitabile tra i due campi. E che impedisce di dare al primo lo statuto di verità, salvo considerarlo voce di Dio.
Quel convegno accolse e mostrò la molteplicità delle lingue e scritture che ci costituiscono e sono parte della Realtà, strumenti fondanti (ma non tutta) la Realtà. Come l’occhio, che nel suo spettro accoglie solo una parte del visibile. La realtà, non solo per l’essere umano, esiste solo se viene elaborata da una lingua. Ma anche lingua è termine da pluralizzare, perché quella algoritmica, totalizzata da linguisti e da tanti scriventi (versi o altro), è solo una tra tutte quelle agite dalla nostra operatività mentale.
Intanto, se l’arte è come la vita, indefinibile e indelimitabile, e se ognuno è libero di concepirla e viverla come vuole, anche solo come “strumento ludico e di evasione”, credo che oggi, nello smarrimento e nella perdita di senso che il sistema di dominio in atto produce, il “suo statuto ontologico e fenomenognomico” o ”gnoseologico” (vedi intervista a Bertoldo), rimane poco incarnato dalle espressioni e dalle scritture (poetiche e non) prevalenti. Per questo concordo che oggi “occorre recuperare, diversamente da quanto sostiene il pensiero debole, un proprio pensiero forte, che non significa inappellabile. Perché è impossibile un dialogo costruttivo se i dialoganti non hanno una personale e profonda visione del mondo e se, soprattutto, non chiariscono, e primariamente a se stessi, la propria fondazione pregiudiziale.”
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Un tronco forte non necessariamente significa ritornare in una hybris di neopositivismo o di ogni altra visione chiusa e totalizzante, religiosa o laica che sia. La mia identità si articola dal pensiero presocratico al giardino aperto di Epicuro, dal bosco simbolico politeista agli squarci liberanti dell’illuminismo, dalle 12 categorie mentali kantiane alle innumerevoli categorie mentali individuate poi dalle nuove scienze, dal materialismo dialettico marxiano alle analisi dell’autopoiesi dei vari livelli di una identità (biologica, psicosessuale e sociolinguistica), dalle strutture (Io, Es e Superio) individuate da Freud, alla fisica quantistica alla fenomenologia ecc…
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Domanda: “Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici. Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.1
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Risposta:
Se il soggetto è una sorta di contenitore-adrone, l’identità è una forma di quark, e la sua carica energetica è il cuore interattivo. L’identità ha caratteri virtuali, che rischiano di condurre su un piano metafisico, nel senso che è (sempre) temporanea e provvisoria (auto)composizione delle componenti intrasoggettive, in perenne ricerca di una impossibile stabilità (intesa come identico a) e unicità. Per questo a mio avviso la metafora che forse meglio la rappresenta corrisponde a un impossibile incrocio tra casa e cosa: la prima come evidenza che resiste, la seconda come imprendibilità e ricerca inesauribile.
Per questo il testo (poetico in particolare) è ciò che può materializzare meglio questa duplicità e complessità. Per le stesse ragioni parlo di identità come dimora o casa del tempo: essa è infatti categoria che tende a collegare accumuli di esperienze coinvolgenti memoria, azioni e progetti: passato, presente e futuro. Quindi, casa come immagine di spazio e paradigma necessari all’incessante interrogazione della cosa – interrogata e interrogante – costituita dall’inafferrabile esperienza psichica del tempo.
Come nella domanda precedente, condivido dunque le varie premesse che fai, compresa quella relativa a spazio e tempo, quali nomi diversi di una stessa cosa, da cui ho sviluppato il mio percorso di ricerca, che cerco qui di sintetizzare per una minima sua intellegibilità.
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La nostra mente è il software di tutto il corpo e non solo del cervello. Essa non va concepita solo come funzione dei nostri piani alti, ma come funzione di quello che la Montalcini chiama “cervello bagnato”, che implica anche tutti i fasci nervosi, conduttori dei sensi e dei loro linguaggi che la sua funzione complessa elabora in modi diversi, producendo mondi diversi nel nostro universo mentale.
È un caleidoscopio di realtà che fa la vita umana, in cui tutto è separato da una barra, ma anche congiunto attraverso scambi incessanti di lingue ed esperienze specifiche che tendono a costruire le tessere del mosaico di spaziotempo della esperienza complessiva della nostra soggettività e vita.
Nel mio tentativo di albero metodologico chiamato Adiacenza, (vedi, tra le altre, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano, 2001, o Corpi d’Amore, in La poesia e la Carne, La Vita Felice, Milano, 2009) ho ipotizzato tre modalità, diverse e interagenti, della nostra operatività mentale, rispetto alle lingue del corpo e alle corrispondenti esperienze. Ho utilizzato (senza finalità psicologiche) le categorie freudiane, ipotizzando che ogni sistema di segni venga operato da tre fondamentali modalità chiamate Mod-Io, Mod-Es e Mod-Superìo, corrispondenti rispettivamente a tre aree mentali:
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area analitica, con utilizzo metaforico, astratto, strumentale e descrittivo;
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area affettivo-corporale, con utilizzo totalizzante, metonimico, materialistico;
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area etica, con utilizzo volto a un fine, qualunque esso sia, dato dalla visione di idee e dal sistema di valori/disvalori scelto.
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Tali aree tendono rispettivamente a produrre un alone ideologico, della Verità, del Testo, o del Valore. Dando a ideologia l’accezione di falsa coscienza o totalizzazione di una parte rispetto al resto (cfr, K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca Opere complete, V, Roma 1972).
Un esempio delle operatività diverse del nostro universo mentale è dato proprio dalla categoria tempo. L’Io opera nel presente e la percepisce come astratta e lineare, il Superìo la proietta nel futuro, e per l’Es è un tempofermo o circolare, sempre presente e sempre passato. Anche tra queste aree ci sono barre che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la loro (e la nostra) distruzione. È il senso del limite e del mito di Orfeo. Ma sono altrettanto necessari all’ecologia della mente, attimi di interruzione delle separatezze consuete. Ho chiamato tali attimi di tempo mentale, in cui tempo lineare e tempo fermo-circolare si combinano e si superano facendo pensare a una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA.
La ragione profonda della poesia sta nella necessità vitale di offrire attimi di tempo mentale. Per la stessa ragione, la critica di ogni totalizzazione ideologica è necessaria, non solo e non tanto per una speculazione concettuale, quanto per recuperare vita e salute.
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Il corpo vivente si esprime nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità in una condizione normale che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana… L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)” di chi prova ad abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, “la dimensione frantumata dell’essere”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione” (U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005)?
Se tutto ciò è vero e, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità ha qui un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Adiacenza, quindi, quale nome di tali momenti necessari alla continuità della vita – entro un processo fenomenologico, in cui ad esempio Antonio Porta distingueva con Luciano Anceschi tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza…che però non è definitivo come la verità”, quale spesso intesa dall’Io.
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Abbiamo perso l’ingenuità, ma di questo dobbiamo farne momento di vita e di forza, non di resa alla perdita di senso. Le barre e le barriere tra le diversità e le separatezze sono dati delle realtà intra e intersoggettive, ma l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno) attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”.
È l’utopia concreta donata, qui e ora, da ogni processo creativo o d’amore. Innervato in un percorso accidentato, quale è ogni percorso di comunicazione. Cioè capace di mettere in comune, e che, come diceva ancora A. Porta, “non è un piroscafo di linea”.
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Domanda: Oggi siamo tutti gettati nella “Perdita”. Il mondo globale ha questa ricchezza, questa possibilità: che noi stiamo in mezzo ad un mondo irriconoscibile, vario, dispari, incredibilmente ricco e complesso. Un mondo senza Dio, è stato detto. E per fortuna, aggiungo io, perché ci si è dispiegato un mondo che non immaginavamo. Nuove sfide sono davanti all’umanità, nuove possibilità si aprono. Heidegger ha chiamato questa condizione «l’Oblio dell’essere», che significa questo allontanamento di noi da noi stessi. E questo allontanamento è il nostro stesso Progetto, un Progetto, la «Tecnica», che contiene al suo centro una Perdita. Allora, Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.
Voglio dire che oggi abbiamo bisogno di un’arte che ci dia la rappresentazione di questa frammentazione («fragmentation», secondo la dizione di Salman Rushdie); abbiamo bisogno di un’arte che ci consegni e ci riconcilii con questa diversità-disparità. Che incontri l’Estraneo. Chi è l’Estraneo? L’Estraneo è la maschera con cui ci si presenta il Diverso, il dispari, ciò che non comprendiamo e che non ci aspettavamo. «Aspettare», significa porsi nella dimensione dell’accettare, dell’accogliere ciò che ci si presenta come Estraneo. E questo compito è un compito precipuo dell’arte. L’arte, la poesia devono porsi nella posizione dell’accoglimento della diversità e dell’Estraneo. La «maschera» è il modo con il quale si presenta a noi l’Estraneo. 1 Giacomo Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005, p. 14
Risposta:
Nella mia personale ricerca, ho cercato di riconnettere la meravigliosa ricchezza di territori creativi e di ricerca speculativa o scientifica che ridicolizzano ogni pretesa di Verità di questo o quel fondamentalismo, Non per scimmiottare titanismi sistematici, ma per igiene mentale e amore di una poesia che con la sua misura antropologica (quale sa ad esempio trasmettere la scrittura di Pecora) ridicolizza i vari fondamentalismi risorgenti contro la migliore umanità. Mi riferisco non solo alle radici giudaico-cristiane (che pretendono di rappresentare l’identità culturale dell’Occidente) o ad altre totalizzazioni religiose (sciami di islamismo e altro), ma anche al fondamentalismo ideologico del dominante pensiero neoliberista.
La poesia, come tensione alla totalità, è linguaggio onnivoro e bulimico di ogni campo e lingua, che consentiva a Vico di parlare di Fisica poetica, Chimica poetica ecc. L’atteggiamento poetico è per me ricerca di ricchezza umana e di misura tra le polarità molteplici della complessità dell’esistente, tra le profondità del singolo e dell’immenso.
Con tali tensioni e approcci, non è ovviamente più pensabile alcuna costruzione teorica sistematica chiusa, ma più che le “costruzioni instabili” di Lyotard, preferisco il sintagma costruzione aperta o interminabile, quale quella evocata da un Gramigna o un Sanesi.
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Per questo ho usato le metafore di cosa e casa, quali componenti dell’autopoiesi identitaria, operante nella scrittura e quali immagini coniuganti stabilità insieme ad apertura incessante all’oltre. Una costruzione interminabile che informa i vari livelli del testo, tra i quali si possono trovare oggetti linguistici rispondenti alle ipotesi quantistiche del “gatto di Schroedingher”, in quanto stanno contemporaneamente in luoghi diversi del nostro universo mentale.
Mi basta un esempio: “ e caddi come corpo morto cade”, una sequenza di suoni e sensi che non è collocabile in un’unica area mentale, con la sua espressione di dolore e condivisione, e insieme di giudizio etico, oltre che di una visione critica complessiva della realtà. Una rottura della separatezza tra poesia e vita. Un gatto di Schroedingher che irrompe col suo lampo di umanità in condizioni di Perdita. E per questo (ri)produce gioia e speranza.
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Domanda: L’espressione è il volto codificato del dolore. Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di «frammento» , che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il «dolore» della poesia, (che non ha niente a che fare con il dolore del senso comune).
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Risposta:
Anche su questo punto – ricordando quanto detto nella risposta al secondo quesito – , abbiamo alcuni punti di arrivo diversi. Ma ben venga il confronto. Credo che uno dei caratteri più negativi del contesto socioletterario (non solo di oggi, ma credo oggi esasperato/omologato dall’individualismo postmoderno) siano i personalismi, le conventicole familistiche di piccoli poteri, le contrapposizioni sterili e le incapacità di un confronto tale da arricchire l’un l’altro e dare corpo a una società/civiltà letteraria, degna di tale nome. Non intesa cioè come una custode notarile di canoni, ma fonte di scambi, sollecitazioni e aperture prive di supponenze. Dipende poi certo dai singoli immaginare e dare vita a forme capaci di dare conto del dolore, del male come del bene, del mondo. La vita, la scienza, l’arte e la poesia (come del resto dimostra l’immenso patrimonio culturale accumulato nei secoli) non tollerano delimitazioni predeterminate. Come mostra il moto creativo (non solo in campo letterario) e dando beninteso per scontato che la realtà (de)scritta da un SS sia Altro da quella vissuta da un SSR. Abbiamo perduto l’ingenuità.
Ma credo che il problema e la domanda debbano essere: quanto un campo e l’altro sono capaci di scambiarsi energie, quanto sono capaci di creare condivisione e comunità, quanto sono adiacenti e non alienati l’uno rispetto all’altro. Quanto cioè nella realtà molteplice e drammatica del mondo contemporaneo, quei segni che fuoriescono dal soggetto (per il bisogno dell’Altro della Lingua, per dirla con Lacan, quale medium che dà forma e visione del mondo interno ed esterno), non rimangano poi chiusi e appagati di sé.
La liquida realtà contemporanea si lascia prendere con difficoltà, ma mostra tutti i suoi caratteri violenti e disumani entro l’involucro luccicante delle frenesie tecnologiche, finanziarie e massmediali del capitalismo globalizzato. La sua conoscenza è difficile e spesso illusoria, tanto che qualcuno parla di realismo terminale. Ma credo che questa situazione, con notevoli cambiamenti epocali, esalti e non riduca la responsabilità dell’arte e della poesia di non cadere nella hybris di essere un dio che crea sulla cima solitaria di un rinnovato Parnasse contemporain, dimentico della necessità umana di inventare e diventare linguaggio condiviso, medium di messa in comune.
Credo che questa realtà ci sfidi a non diventare frammenti entro un loculo del nulla, ma a far diventare tale nulla il piede e il grido di una risalita (im)possibile della Fenice. L’intreccio tra conoscenza e linguaggio vive tra aperture inneschi di cambiamenti, per cui può sostare in cieli privati e nuvole di sapienti giochi verbali, se poi fanno transitare e brillare – anche nel senso di es-plosioni creative – da un tu all’altro.
Credo in una lingua e una poesia che sanno di non bastare a loro stesse, e che hanno bisogno di incorporare tutta la fragilità di un progetto ignoto che si misura con la complessità della vita e del mondo, nella coscienza che questa è co-autrice nel processo creativo. Ricerca di una lingua che sappia essere forma di conoscenza e mutamenti entro l’immensa molteplicità di forme offerta al nostro sguardo. Un processo creativo, dunque, svolto non in un immaginario ante rem, ma in una tensione a essere in re, a essere fattore e energia nell’incessante processo di metamorfosi della vita.
Di tale risultato non può essere giudice essa stessa, e non basta nemmeno il giudizio di una critica più o meno adeguata. Sarà Altro e altri dalle carte a dire se queste sono o no presenti nel corpo comune, come “voce di un numero immenso” (W. Withman) o se sono diventate lettere morte. Se sono finite su quella riva che ho definito dell’iperdeterminazione del significante, o su quella dell’iperdeterminazione del significato.
La prima disinteressata a scendere dal suo cielo e a trasmettere una visione critica, l’altra appiattita sulla cronaca e su pensieri scontati, priva di ogni lampo di lingua. Rispetto ad esse credo e cerco, invece, forme che sappiano accendere e spiccare il volo verso una utopica terza riva, capaci di coniugare complessità e transitività. Forme capaci di rigettare il lirismo edulcorante, senza buttare con esso quella che Leopardi chiamava “parola materiale e lirica”, parola come materia della totalità del corpo, che con tale parola cerca di esserci (quale inteso in particolare dal poeta Seamus Heaney, figlio di contadini e non a caso legato alla terra e al luogo) rincorre e cerca di far sentire lo zeitgeist e la musica del tempo. È un esempio di tensione alla totalità, che ci viene trasmesso e produce il coinvolgimento sia di riflessione critica, sia del piano affettivo.
Caro Giorgio, mi sembra corretto offrire ai lettori qualche esempio di miei testi poetici che cercano di rispondere all’appello di tali tensioni e ipotesi.

Sharon-Stone
Adam Vaccaro Cinque poesie inedite e una edita
L’arte è parte della vita che sogna l’immenso. / Ma tutta la vita è arte dell’infimo che si fa infinito
A.V.
L’ala sottile
Quell’ala sottile che ci raggiunge
e si apre come una vela sull’infinito
non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani
ché l‘universo è pregno di mille altri universi
che tu ancora non sai
Inedita, 18 dicembre.2012
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Reti
come formiche oscillanti, affamate e disperse
nel nulla di cunicoli abbandonati, ci ritrovi
amo in questo nonluogo di una rete senza
mare né pesci, pescatori intrappolati da bi
sogni illusioni d’amore che fanno diventare
mare acceso d’estate la mancanza di un colle
e una piazza che allevavano pezzi di cuore di
versi e insieme riuniti nel disegno più grande
di un cuore ricamato tra zolle di terra, prati
e marciapiedi accarezzati strusciati come
la nostra pelle bambina che sa ancora far
diventare persino il nulla e il vuoto di un
nonluogo, un luogo pieno di colline e prati
piazze e sogni d’anima – disegni di comunità
Inedita, 3 febbraio 2015
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Il tempo stringe
il tempo oggi stringe
ma non tocca il limite
che ci soffoca ridendo
e saremo ancora qua
ad aspettare per vedere
cosa abbiamo trasmesso
se altre ilari supine idiozie
nel tumulto che continua
o gioia che cambia e cosa
Inedita, ottobre 2015
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NOP
Quel Nodo alla gola – che non sapeva
dire se più di rabbia o di sensi di colpe –
le si rapprese come una goccia di colla
secca sulla punta del naso, e rimase lì
per anni, ogni volta tentando di staccarla
rigirando muta nel nulla la punta della lingua.
Poi d’improvviso bastò il raggio di sole di
quel mattino. Come laser o dito di Dio
*
Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento
*
Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
e senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto
Inedita
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Ventagli d’amore e d’inganno
Dicono che il vento si fa vento
per farsi canto senza parole
sapiente che sa già tutte le loro
accese illusioni che sanno cucciarsi
e farsi anima, prima sotto pelle e poi,
piano, fino al cuore, fino a farsi liquore
che scende scende e inventa altri suoni
con odori e lampi abbracciati a ferite
dolci e feroci – incancellabili tue libertà.
Che riconoscerai anche se ti rapiranno l’anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
ti racconteranno di una totale libertà ornata di altre
parole d’incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come foglia – completa
mente preda di un vento alieno che fa di te il suo canto
Inedita, aprile 2014
Quel Quid
Quel Quid immerso nel caos-cosa dell’universo
non è nascosto tra le mani del mondo né è sogno
che l’umile amore di una Rita o un Francesco può
scovare e tantomeno un frutto di risaltante risultato
da stringenti somme divisioni e altre operazioni
della folgore geniale di un folle scienziato. Quel
Quid che non torna rimarrà un esule introvabile
a consolazione dell’infimo e dell’immenso
Aprile 2014
In Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014.

adam vaccaro
Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.
Di Adam Vaccaro ho un ricordo datato forse 2006 al Premio Astrolabio premiati rispettivamente per il libro l’edito e per la silloge inedita. Mi donò il suo: “La piuma e l’artiglio”, in copertina il grazioso pastello: “Rosa predando”. Anche le poesie qui testate incontrano il mio gradimento.
In riferimento all’intervista preferisco rifletterci sopra piuttosto che elaborare un commento ben articolato. L’arte, un po’ come la scienza a cui Vaccaro e Linguaglossa fanno spesso riferimento, implica un mutamento degli atteggiamenti psicologici in contrapposizione al senso comune. Si può definire frattura rispetto a una visione del mondo consolidata e si è autorizzati a parlare di frammenti di questa visione. Così si manifesta lo spirito del poeta, e pur con sostanziali differenze, anche quello dello scienziato. Inizialmente sono operazioni astratte a caratterizzare la loro ricerca. Insisto nel delineare una visione congiunta perché sono contrario alle barriere poste tra i saperi che non sono assolutamente estranei tra loro.
Che cos’è l’Esperienza?- chiede il Linguaglossa. In tale concetto credo si debba fare implicitamente riferimento a regole e operazioni concettuali, e l’estensione dell’esperienza è molto più vasta di quella prettamente sperimentale. L’esperienza del poeta richiama conoscenze razionali e irrazionali, vissuti psichici, aspetti inconsci, mentre l’irrazionale, l’affettivo ecc. non riguarda se non in maniera ridottissima lo scienziato.
Quando Vaccaro dice: “l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno), attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”, mi fa pensare all’Anello o Nastro di Moebius. A confermare questa mia idea associativa mi viene più in soccorso Carole Berger in “Una coppia chiamata Moebius:”Quando un uomo e una donna si uniscono nell’amore, esiste una potenzialità infinita di rapporti, che come la striscia di Möbius non hanno fine e non hanno principio”, (l’infinito leopardiano richiamato da Vaccaro,) che non il Lacan che fa riferimento al nastro di Möbius solo per rendere conto dello stato di scissione di un soggetto.
In quanto al tempo, come immagine mobile dell’eternità, per me e Vaccaro, coetanei, tale immagine si è spostata un po’ troppo in avanti.
Ubaldo de Robertis
LA PERDITA DELL’ORIZZONTE e UNA POESIA di Tadeusz Różewicz «La caduta» del 1963 da lombradelleparole.wordpress.com
Quanto al tempo Cronos definito da Platone nel Timeo «immagine mobile dell’eternità», noi oggi, nel Dopo il Moderno, ci troviamo nella situazione di un tempo dichiarato non esistente. Il tempo sarebbe una pura illusione dei nostri sensi, una percezione della nostra vita quotidiana necessaria per la vita quotidiana, diventata sintesi a priori dell’homo sapiens. Connesso alla perdita del tempo la nostra epoca conosce anche la perdita dell’Orizzonte. L’orizzonte che si allontana man mano che ci avviciniamo ad esso simbolizza da sempre l’illusorietà di ogni tensione all’Oltre, al «Progresso», al Futuro. L’uomo che sta sulla terra si riconosce rinchiuso dentro una prigione ontologica. L’orizzonte si sposta continuamente, non ostacola il cammino ma, con il suo stesso retrocedere, rende assurdo ogni movimento in Avanti. Di qui la non possibilità di una riproposizione, nei nostri tempi, di una Nuova Avanguardia la quale vuole la sconfitta del tempo e il raggiungimento dell’Orizzonte. L’Orizzonte che è scomparso è per l’uomo contemporaneo un segnare il passo sull’hic et nunc.
Non a caso in uno dei testi chiave dell’era moderna, il racconto di Nietzsche sulla morte di Dio, questa morte è associata alla scomparsa dell’Orizzonte, che suscita contemporaneamente l’esperienza dell’estasi e dell’orrore della libertà:
«Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
Ecco uno dei testi chiave della poesia europea del secondo Novecento che indica la posizione dell’uomo contemporaneo di fronte al problema della “Caduta” e della mancanza di orizzonte: Tadeusz Rozewicz del 1963:
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.
Tadeusz Różewicz
La caduta ovvero degli elementi verticali e orizzontali nella vita dell’uomo contemporaneo
Un tempo
molto molto tempo fa
c’era un fondo compatto
che l’uomo poteva
toccare
l’uomo andato a fondo
grazie alla propria sventatezza
o grazie all’aiuto del prossimo
era guardato con orrore
interesse
odio
gioia
era segnato a dito
ma a volte si risollevava
si alzava
macchiato grondante
Era un fondo compatto
un fondo borghese
per così dire
un fondo era destinato
alle signore un altro ai signori
a quei tempi c’erano
ad esempio donne traviate
compromesse
c’erano bancarottieri
una specie oggigiorno quasi
ignota
avevano un proprio fondo il politico
il sacerdote il mercante l’ufficiale
il cassiere e lo scienziato
in passato c’era anche un altro fondo
oggi ne esiste ancora un vago
ricordo
ma ormai il fondo non c’è più
e nessuno può
andare a fondo
né toccare il fondo
il fondo che ricordano
i nostri genitori
era un qualcosa di stabile
nel fondo
si era
pur sempre
definiti
un uomo smarrito
un uomo sperduto
un uomo che
si risolleva
dal fondo
dal fondo si potevano anche
tendere le braccia gridare “dal profondo”
oggi gesti del genere non hanno molta
importanza
nel mondo contemporaneo
il fondo è stato rimosso
la caduta continua
non favorisce posture
pittoresche posizioni
ferme
La Chute La Caduta
è ancora possibile
solo in letteratura
nel sogno nella febbre
ricordate il racconto
dell’uomo per bene
non si gettò al soccorso
l’uomo che praticava la “scostumatezza”
mentiva veniva schiaffeggiato
per questa confessione
il grande defunto forse ‘ultimo
moralista contemporaneo francese
vinse nel 1957
il premio
com’erano innocenti le cadute
ricordate
in tempi antichi molto
antichi
le Confessioni
Confessiones
del vescovo di Hippo Regius
C’era un albero di pere vicino alla nostra vigna, carico di frutti per nulla attraenti né per bellezza, né per sapore. Nel cuore della notte (avevamo prolungato il giuoco, secondo l’usanza rovinosa, nelle piazze fino a quell’ora) io ed altri tristissimi ragazzi ci avviammo a scuotere quell’albero per asportarne le pere; e ne portammo via un carico enorme, non per fare una scorpacciata, ma per gettarle magari ai porci, anche se ne assaggiammo qualcuna; purché compissimo un’azione che incontrava i nostro genio appunto perché proibita. EccoTi il cuor mio, o mio Dio, eccoTi il cuor mio, di cui sentisti pietà quando si trovava nel fondo dell’abisso…*
“nel fondo dell’abisso”
peccatori e penitenti
santi martiri della letteratura
agnellini miei
siete come bimbi che poppano al seno
i quali entreranno nel regno
(peccato che non ci sia)
– Credete in Dio? – buttò lì a un tratto Stavrogin.
– Credo! –
– Perché è detto, se credi e comandi alla montagna di smuoversi, la montagna si smuoverà… del resto, scusatemi per le sciocchezze. Tuttavia vi voglio domandare per curiosità: la smuovete la montagna o no?**
queste domande poste dal “mostro” Stavrogin
e ricordate il suo sogno
il dipinto del Lorenese
nella Galleria di Dresda
“qui abitarono uomini ideali”
Camus La Chute La Caduta
Ah, mio caro, per l’uomo che è solo, senza dio e senza signore, il peso dei giorni è tremendo***
quel combattente dal cuore di fanciullo
immaginava
che i canali concentrici di Amsterdam
fossero un girone dell’inferno
un inferno borghese
naturalmente
“qui siamo nell’ultimo girone”
diceva al compagno occasionale
nella bettola
l’ultimo moralista
della letteratura francese
si era portato dietro dall’infanzia
la fede nel Fondo
Doveva credere profondamente nell’Uomo
doveva amare profondamente Dostoevskij
doveva soffrire per l’assenza
dell’inferno e del paradiso
dell’Agnello
della menzogna
gli sembrava di aver scoperto il fondo
di giacere sul fondo
di esservi caduto
E invece
il fondo non c’era più
senza volerlo lo comprese
una madamigella di Parigi
e scrisse un componimento
sul coito buongiorno tristezza
e i lettori grati
da ambo le parti
della cosiddetta una volta
cortina di ferro
compravano la sua…
a peso d’oro
la madamigella la madama quella
madamigella quella madama quella
comprese che non c’è il Fondo
non ci sono gironi dell’inferno
non c’è sublimità
e non c’è Caduta
tutto si svolge
nella nota
non troppo estesa zona
fra
Regio genus anterior
regio pubica
e regio oralis
e ciò che un tempo era vestibolo d’inferno
è stato trasformato
da una letterata alla moda
in vestibulum
vaginae
Chiedetelo ai genitori
forse ricordano ancora
che aspetto aveva il vecchio
Fondo concreto
il fondo della miseria
il fondo della vita
il fondo della morale
“la dolce vita”
ma Kristine Keller
viveva sul fondo?
il rapporto di lord denning
afferma proprio
l’opposto
Mons pubis
da questa vetta
si estendono vasti
crescenti
orizzonti
dove sono le vette
dove gli abissi
dov’è il fondo
a volte ho l’impressione
che il fondo il fondo dei contemporanei
giaccia piatto proprio sotto la superficie
della vita
ma forse è un’altra illusione
forse ai “nostri tempi” esiste
il bisogno di costruire
un nuovo Fondo
adatto ai nostri
bisogni
Mondo Cane
come mai questo film mi ha fatto
una grande impressione che cresce ancora
continua a crescere
Mondo Cane ein Faustschlag Gesicht
Mondo Cane un film senza stelle
Mondo Cane
lì gli uomini mangiano ballano uccidono animali
fanno l’amore ballano pregano agonizzano
reportage a colori
sull’agonia
sull’agonia dei vecchi
sulla cucina cinese
sull’agonia di uno squalo
sui condimenti
sull’uccisione di vecchie
auto
ricordo stritolamento di forme
stritolamento di metallo
cigolio e stridore
annientamento di carrozzerie
le interiora metalliche di un’auto
il cimitero delle auto
di un altro nuovo modo di dipingere
quadri al ritmo di musica celeste
a Parigi un corpo impresso su tele bianche
il panno di santa Veronica
il volto dell’arte
le bocche dei milionari le bocche delle loro donne
formiche larve insetti fritti
mucchietti neri in scodelle d’argento
labbra di commensali
labbra rosse grandi labbra
si muovono in Mondo Cane
Successivamente ha avuto inizio la discussione
inerente il capitolo III dello schema sulla Chiesa
sul popolo di Dio e sul laicato
Il Cardinale Ruffini
ha detto
che il concetto di Popolo di Dio
è molto impreciso
perché il III capitolo
non ha ottenuto la maggioranza qualificata
dei voti è stato rinviato
alla Commissione Liturgica
per ulteriori elaborazioni
Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di
pere carica di frutti d’aspetto e sapore per nulla allettanti… confessò Agostino
avete notato che
gli interni delle moderne case di Dio
ricordano
le sale d’aspetto delle stazioni
ferroviarie aeroportuali?
Cadendo non possiamo
assumere una forma
una postura ieratica
le insegne del potere cadono
di mano
cadendo coltiviamo i nostri orti
cadendo educhiamo i nostri figli
cadendo leggiamo i classici
cadendo cancelliamo gli aggettivi
il termine “caduta”
non è il più adatto
non spiega il movimento
di corpo e anima
in cui si estingue
l’uomo contemporaneo
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.
(Versione di Paolo Statuti, 1963)
Meditare, a lungo, sulle domande e sulle risposte/affermazioni-negazioni dell’intervistatore G.Linguaglossa e dell’intervistato A.Vaccaro. Per l’altezza e la delicatezza dei temi affrontati nel corso della conversazione aperta, un semplice commento non è bastante.
Anche perché se i versi di Adam Vaccaro, emozionandomi, m’ inducono a profonde meditazioni sull’arte, sulla poesia, sulla condizione della forma-poesia, sulla vita, i versi scelti da Giorgio L. di T. Rozewicz m’ nceneriscono
(“l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione/ contemporaneamente…”).
Stupenda,poi,la copertina della Antologia Poesia Italiana Contemporanea, con quell’atmosfera magrittiana del fumo dalle ciminiere a farsi “maschera”
dell’uomo ridotto a una bombetta…Intrigante il titolo “Com’è finita la guerra di Troia non ricordo” che poi mi pare un verso riuscitissimo di Brodskij (?)…
Gino Rago
E’ più di un secolo che la nozione comune del tempo non corrisponde ai risultati della fisica. Il mio amico Carlo Rovelli, colui che insieme a Smolin è il fondatore della teoria della gravità quantistica a loop, ama ricordare che:
– per Aristotele, il tempo è solo un modo di misurare come si muovono le cose. Se non c’è nulla che si muove, non c’è tempo.
– Newton ha immaginato la possibilità di un immenso spazio vuoto dove il tempo passa anche se non c’è niente e non accade niente. Passa di per sé, indipendente da tutto il resto. Come una commedia in cui ci sia il primo atto, il secondo atto, il terzo atto, ma sul palco non succede niente.”.
– Einstein si è accorto che nell’universo non si può dire “in questo momento”, perché ha intuito, ad esempio, che in una conversazione fra Terra e Marte, anche se uno risponde subito non appena ascolta ciò che gli dico finirà per darmi la risposta dopo un quarto d’ora. Quei quindici minuti non sono né nel mio passato né nel mio futuro. Sono nella “zona intermedia”, e quindi? Quindi non c’è nessun grande orologio che batte il tempo dell’universo ovunque nella stessa maniera, ma dipende dal luogo e dalla velocità.
Quanto dura questo “né passato né futuro” dipende dalla distanza. Nella vita di tutti i giorni non lo notiamo e non ci è chiesto di comprendere a fondo l’universo. La nozione del tempo può restare quella che ci è più familiare e corrisponde al nostro modo di vedere le cose, ma il tempo non fa più parte della struttura fondamentale dell’universo dove le teorie descrivono come si muovono le cose una rispetto all’altra, e non c’è davvero bisogno di parlare di tempo oggettivo, assoluto, ecc. Il tempo della nostra vita quotidiana c’è sempre.
Non si deve rimpiangere il tempo quando invece dei concetti scientificamente confermati c’erano solo vaghe ombre e venivano considerate come le sole forme esistenti…
Ubaldo de Robertis
Non c’è tempo, hai ragione carissimo Ubaldo, ci sono distanze, velocità, nascite, crescite, morti. Il tuo gatto si consuma molto più velocemente, mentre tu vivi appena un ottavo della tua vita. Gli esempi di tutto questo sono sparsi ovunque, e ovunque vi sia vita e da essa un minimo di consapevolezza si immagina tempo che tempo non è. Grazie per lo spunto di riflessione.
Mi piacerebbe essere ciò che sono: una formica oscillante. Poesia di notevole bellezza anche là dove non sembra poesia. La tmesi (bi | sogni) ha un senso (o due).
E’ tutto molto dotto e molto bello. Ma penso che in ultima istanza la crisi della poesia è tale che nessun “ponteggio” filosofico sia in grado di rimetterla a posto. Solo un atto creativo importante che di colpo mostrerà senza ombra di dubbio cosa sia la creatività: un atto imprevedibile. E non è detto che sarà su una pagina di un quaderno o di un libro.
Due campioni, pesi massimi a confronto: uno, se ho ben compreso, dell’unità rifondante, l’altro della frammentarietà del tutto. Si potrebbe dire che uno è “picchiatore” e l’altro va di scherma. Il dialogo è serrato, così come le poesie di Vaccaro; lo spettatore, pardon, il lettore non trova spazio né tempo per porsi delle domande ( si degusta solo alla fine).
“Che riconoscerai anche se ti rapiranno l’anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
(nota mia: il mentre incalza, non dà spazio)
ti racconteranno di una totale libertà ornata di altre
parole d’incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
(nota: ancora, non dà spazio)
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come foglia – completa
mente preda di un vento alieno che fa di te il suo canto.
(nota: bellissimo verso in chiusura, ma notare le parole che rifuggono anche l’a capo)
Incalzante è dire poco. Nel suo dire, Vaccaro si prende tutte le responsabilità. Anche stilisticamente, un vero macigno.
“Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento”
Idee senza fondamento. Dirlo così (bene) alle risultanti di milioni d’anni d’evoluzione (noi tutti qui presenti), non è poco.
Ci sono molte “barre” nel discorso di Vaccaro, e un po’ mi ci sono perso. Ma personalmente credo più all’influenza pre-cognitiva, all’odore che preannuncia la presenza di una mela, alla musica terrestre che accoglie chi ritorna dallo spazio. Le cose sono separate, ma solo per la scienza che vuole conoscerle.
Non abbiamo perso, tutti, l’ingenuità.
Forse dobbiamo tornare ad essere ingenui, come i selvaggi di Rousseau. E chiederci: «Che cos’è questo?», «Che cos’è quello?», «Chi ha cancellato l’Orizzonte?», «E perché?», «Chi ci ha fatto cadere?», «E perché la caduta continua, come scrive Rozewicz?», «Chi ha decretato la caduta di tutto?», «Perché cadiamo da tutte le parti?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Nulla?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Vuoto?», «Perché abbiamo Sua Maestà l’Ombra?»…
Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
Mi sembrano domande alle quali un poeta degno di questo nome non dovrebbe sottrarsi. E invece, si continua a fare poesia del quotidiano e degli oggetti. Ma quale quotidiano? Quali oggetti? Quale Io?, ma non ci rendiamo conto del ridicolo in cui siamo “Caduti”? – Io ritengo che sì, occorre fare una poesia totalmente differente da quella che si fa oggi in giro. Una poesia che parli stabilmente con Sua Maestà il Nulla, Sua Maestà il Vuoto, e Sua Maestà l’Ombra.
La penso come Steven Grieco. La poesia italiana attende il suo Messia. Ma, sappiamo bene che fine hanno fatto fare ai Messia da quelle parti. Penso che non ci sarà nessun Messia, nessuno che annunci il Verbo. Il Verbo si presenterà da solo, con una camicia e un pantalone lisi. E non dirà: «eccomi qua», non dirà nulla, perché si dimenticherà ciò che stava dicendo…
Non è che la poesia italiana stia prendendo le stesse sviste del Popolo Eletto?
No, Giorgio, parlando di un Messia della poesia tu fai un discorso “religioso”, “salvifico”, che mi è estraneo. Io parlo semplicemente di “una” singola poesia che riesce ad aprire la mente – e come quella singola poesia, altre, non pochissime, che ci illuminano, per il loro pensiero, la tecnica, la capacità e soprattutto la velocità di dire il punto sfuggente fra dentro e fuori. Ma finché parliamo di un Georg Heym, un Kavafis, un Chlebnikov, parliamo del passato. Abbiamo invece grandissima sete del presente, che però risulta introvabile. Il presente ce lo stanno raccontando soltanto le gigantografie pubblicitarie di Armani. Io dico che è difficile trovare un poeta oggi che arriva veloce, compatto, pregno di significato. E non un poeta solo, ma più poeti di questo tipo. Provenienti da vari paesi, varie lingue. Un paesaggio di poeti, una cityscape di poeti. E una società che ha bisogno di poeti, molto bisogno. E di poeti che sappiano rispondere a questa muta richiesta, che sappiano trovare dove passa la corrente elettrica sotto i palazzi, Questo manca.
Ci sono oggi artisti-poeti in Inghilterra che durante la notte sovrascrivono le pubblicità con proprie poesie. Fra di loro ci sono poeti significativi, per es. Robert Montgomery. Questo tipo di scrittura poetica e artistica pubblica si chiama brandalism o subvertisement.
http://blogspotpublishing.blogspot.it/2012/07/artist-who-sneaks-around-london.html
e per le immagini:
https://www.google.it/search?q=Robert+Montgomery+advertisement&tbm=isch&tbo=u&source=univ&sa=X&ved=0ahUKEwjL6OfXvLPLAhWCaA8KHQcxAXIQsAQILg&biw=1067&bih=731
Non sono in grado attualmente di ragionare sopra la complessa e dottissima intervista di Linguaglossa a Vaccaro. Non possiedo la costanza e le capacità cognitive per seguire un dialogo così alto. Anche per quanto riguarda le poesie di Vaccaro mi trovo spiazzato non riuscendo a trovare una sintonia che mi permetta di afferrarle. Ma certo si tratta di una mia mancanza. Per quanto riguarda l’affermazione di Linguaglossa che la poesia di Tadeusz Ròsewitz sia fondamentale nel panorama della produzione europea sono pienamente d’accordo, meno quando lo stesso Linguaglossa afferma che la strada da imboccare sia quella della frammentazione. Strano! La sua poesia è tutt’altro che navigante per fragmenta.Vorrei aggiungere che questa maniera quasi ormai imperante ha partorito quella nonpoesia che chiamano minimalismo. Io a costo di apparire passatista continuo a credere, o meglio a sperare, che il poeta sia una specie di demiurgo di una sospetta religione, che abbia dentro di sé i segni utopici e la presunzione di costruire una impossibile verità, di organizzare armonicamente il proprio caos e quello del mondo che lo circonda, in una sorta di delirio pitagorico, di scendere nella profondità degli abissi e di permettere all’abisso di guardare dentro di lui, come suggerisce Nietzche nei suoi Aforismi, Un uomo il poeta che si accosti al mistero dell’universo e scandagliando con gli scienziati micro e macrocosmo proceda in una ricerca ossessiva e maniacale delle ragioni ultime, nel tentativo infruttuoso di esorcizzare la morte o la fine o il nulla. Paradossalmente rispetto alla disperante chiara e lucida elencazione di Ròsewitz mi sgomentano di più i versi racchiusi nell’armonia di queste due composizioni di J.L. Borges scritte la prima negli stessi anni del poeta polacco, la seconda un decennio dopo. Le riporto nella lingua originale perché in traduzione perderebbero molto e poi perché, anche non conoscendo lo spagnolo, chiunque può avvicinarli, salvo qualche parola che in calce traduco.
EL ALQUIMISTA
Lento en el alba un que joven han gastado
la larga reflexiòn y las avaras
Vigilias considera ensimismado
Los insomnes braseros y alquitaras
Sabe, che el oro, ese Proteo, acecha
Bajo qualquier azar, como el destino
Sabe que està en el polvo del camino
En el arco, en el brazo y en la flecha.
En su oscura visiòn de un ser secreto
Que se oculta en el astroy en el lodo,
late aquel otro sueno de que todo
Es agua, que vio Tales de ileto
Otra visiuon habrà; la de un eterno
Dios cuya ubicua faz es cada cosa,
Que explicarà el geométrico Sinoza
En un libro mas arduo que el Averno…
En los vastos confines orientales
Del azul palideen los planetas
El alquimista pinsa en las secretas
Leyes que unen planetas y metales
Y mientras cree tocar enardecido
El oro aquel que matarà la Muerte
Dios, que sabe de alquimia, lo convierte
En polvo, en nadie,en nada y en el olvido
gastado= segnato- ensimismado = assorto
alquitaras alambicchi – acecha=nasconde
flecha=freccia – lodo= fango
LA SUMA
Ante la cal de una pared que nada
nos veda imaginar como infinita
un hombre se ha sentado y premedita
trazar con rigurosa pincelada
en la blanca pared el mundo entero.
puertas,balanzas, tàrtaros,,jacintos,
àngeles, bibliotecas, laberintos,
anclas, Uxmal, el infinito, el cero.
Pueblas de formas la pared.La suerte,
que de curioses dones no es avara,
le permite dar fin a su porfia.
En el preciso istante de la muerte
descubre que esa vasta algarabìa
de lineas es la imagen de su cara
pincelada=tratto pittorico algarabia=guazzabuglio
Mi pare che l’abisso attraversato e le profondità scandagliate dal poeta argentino in una armonica composizione arrivi a colpire il lettore molto più che non le elencazioni di immagini e di parole che vogliono significare soltanto quello che appaiono e sono. Il mistero inesplicabile della poesia, come quello del pensiero matematico o filosofico e della scienza, che scoprono sempre nuovi orizzonti che rimandano a qualcosa di ancora inesplicabile.. Mi scuso se gli accenti spagnoli sono spesso errati ma non so trovare in queste pagine del blog i simboli delle lingue straniere Salvatore Martino
Gran bel ragionamento il tuo, Martino!
“Un uomo il poeta che si accosti al mistero dell’universo e scandagliando con gli scienziati micro e macrocosmo proceda in una ricerca ossessiva e maniacale delle ragioni ultime, nel tentativo infruttuoso di esorcizzare la morte o la fine o il nulla.”
E hai scelto due poesie di Jorge Louis Borges uno che provava stupore di fronte al mondo reale e che teneva in grande considerazione la scienza, la matematica su tutte, anche se astutamente amava parlare di una scienza e una tecnologia segrete.
Ma con ragione Giorgio Linguaglossa ci dice che è una poesia bella, ma di un tipo di bellezza che non può suggerirci nulla su come debba essere una poesia contemporanea, di oggidì. Quella poesia là è già stata scritta. Qui si cerca qualcosa d’altro.”
Detto a noi veterani del ’40 l’esortazione acquista un significato, detto ai giovani abbarbicati sempre più agli smartphone il senso è ben diverso perché credo sia preoccupante la loro vulnerabilità ai messaggi, alle immagini create artificialmente da chi li spinge verso l’omologazione. A costoro poco importa dei nuovi temi da sviluppare (anche per una nuova poesia) posti dal Linguaglossa, e poco si sorprendono e stupiscono del nuovo straordinario mondo che ci fa conoscere la Meccanica Quantistica, MQ. Diventeranno come candele spente, diceva Einstein.
A proposito di MQ avanzo una proposta di correzione a ciò che hai scritto. Dalla triade “morte” “fine” “nulla” io toglierei il “nulla”(vale anche per il vuoto,) perché come ci spiega la MQ, non deve essere più visto, il vuoto o il nulla, come elemento negativo.
S. Hawking con la sua Cosmologia Quantistica ci dice che è coerente e ragionevole pensare che dal nulla possa scaturire la materia. Comprendere lo spazio vuoto diventa un bellissimo compito. Se potessimo analizzarlo questo spazio che appare vuoto vedremmo lo stuolo di particelle quantistiche entrare e uscire dal nulla! Finalmente la visione tutta occidentale del vuoto orrendo, sparisce. Steven Grieco ci potrebbe confermare che ci stiamo allineando alla filosofia orientale.
Sempre Hawking sostiene che il calore dei buchi neri non è il calore di qualche oggetto: è il calore stesso dello spazio vuoto, amplificato dalla gravità. È il calore elementare del nulla.
I buchi neri sono caldi non a causa della materia che si infuoca nei pressi del buco, anche quello dove non sta cadendo nulla è “naturalmente”caldo; calore debole, ma c’è!
Caro Salvatore, la MQ prevede proprio che possano accadere fenomeni assai improbabili. E avanti con altre meraviglie.
Ubaldo de Robertis
Carissimo Ubaldo le tue delucidazioni scientifiche, così chiare e puntuali, mi confortano al profondo. Per quanto riguarda la via da seguire in poesia penso che non debba coinvolgere una via ricercata aprioristicamente in razionalità, né che debba ignorare tutto quanto sia stato prodotto nei tempi anteriori. Credo altresì che un vero poeta scelga suo malgrado il proprio tracciato da seguire. Le novità possono nascere anche al di fuori delle programmazioni degli ismi. Sono certo ad esempio che Vincent Van Gogh non fosse affatto consapevole di essere l’iniziatore della pittura moderna. Comunque non mi sembra possa essere scandaloso fare ancora riferimento alla tradizione. Tempo fa leggendo lo Zibaldone annotavo questa frase del grande recanatese: Noi dobbiamo scrivere alla maniera degli antichi con parole moderne. Quando si affronta una tematica intorno all’arte e in questo caso specifico intorno alla poesia, bisogna sempre tener in conto che stiamo affrontando un evento denso di mistero e di contraddizioni, difficile da catalogare, ma facilissimo da cogliere se il dettato è veramente poesia. Comunque a distanza di secoli mi commuove e più mi avvicina al mistero del micro e macrocosmo un sonetto di Cavalcanti che non tutta l’attuale poesia che si produce nel nostro paese. Io, nella mia maniacale dedizione alla poesia, mi sono permesso di pubblicare 122 sonetti (La prigione azzurra del sonetto) e scusandomi per la narcisistica convinzione, penso di aver fatto poesia assolutamente aderente al nostro tempo.Salvatore Martino
Il primo verso de El Alquimista è naturalmente::
Lento en el alba un joven que han gastado
caro Steven Grieco,
riporto la mia frase: «Penso che non ci sarà nessun Messia, nessuno che annunci il Verbo. Il Verbo si presenterà da solo, con una camicia e un pantalone lisi. E non dirà: «eccomi qua», non dirà nulla, perché si dimenticherà ciò che stava dicendo…».
Quindi Nessun Messia, da parte mia non ho nessuna visione salvifica della poesia e del mondo. Sono un materialista convinto, amo la materia, questa stoffa dell’universo.
Per quanto riguarda la poesia postata da Salvatore Martino di Borges, è indubbiamente bella, ma di un tipo di bellezza che non può suggerirci nulla su come debba essere una poesia veramente contemporanea di oggidì. Quella poesia là è già stata scritta. Qui si cerca qualcosa d’altro. E poi il minimalismo è da tenere ben distinto dalla poesia, diciamo, “frammentista”. Anzi, il minimalismo dei Buffoni e dei Magrelli oltre a mettere tristezza ci narra un universo che conosciamo bene dalla testualità dei media e delle cronache rosa, nera e verde dei loro giornali e telegiornali. Oggi abbiamo bisogno di una poesia che finalmente abbia nei suoi ingredienti quelle cose che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”; ed io aggiungo. la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto una miriade di frammenti incomunicabili. E utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti io ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. Ma i poeti quando lo capiranno?
Utilizare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonematica alla natura dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero o endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico…
Leggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo la frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc.
Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario equilibrio. Ecco, questo è un esempio del nuovo modo di scrivere una poesia moderna.
Ella è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne vaganti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Ella guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Ella vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.
Uno spezzone di film, ma non per questo manca di verità. E non mancano versi: “questo volto semichiaro su di lei / sciolto in desiderio e assicurazioni”, oltre al bel “tanfo di gusci di gambero”.
E allora fatemelo dire: oggi questo blog fa un servizio prezioso in Italia (e se in altri paesi i poeti e i lettori di poesia potessero leggerlo, avrebbero anche loro non poco da imparare). Per la semplice ragione che Giorgio Linguaglossa, che ha in mano il timone, porta avanti imperterrito una ricerca forte, travagliata, talvolta opinabile nei particolari, ma inattaccabile dal punto di vista del coraggio, dell’onestà, delle sue conoscenze in materia, della chiarezza di intenti. Lunga, lunghissima vita!
E allora ben vengano anche le voci contrastanti, polemiche, critiche, che arricchiscono il discorso.
Io condivido la ricerca di Giorgio in toto, sia ben chiaro. Qualche volta però dissento appunto nei dettagli. Parlare di poeti Messia mi sembra poco interessante. Si tratta di una visione salvifica rovesciata che non porta in nessun luogo. Che sempre rievoca la medaglia bifronte religiosità-ateismo, sistema binario costrittivo, limitante, menzognero, che nasconde una realtà umana e naturale inifinitamente più ricca.
Purtroppo in queste cose ci mette spesso lo zampino Nietsche (e forse qualche altro). Dio non è né vivo né morto. E’ il nichilismo di cui in realtà si parla. E il nichilismo sicuramente perseguita l’Occidente dai tempi di Parmenide in poi, ma non solo in questo è la storia dell’Occidente. Infatti, filosoficamente parlando, mi sembra, l’astrofisica e la fisica hanno saputo nettamente superare l’ombra del nichilismo. Perché? Una ragione pure ci sarà. E non soltanto per apporti esterni.
Vi siete forse dimenticati che tutta la filosofia di quei due secoli hanno portato alle due guerre più grandi dell’umanità? E che le teorie naziste sulla “razza” erano fondate sulla sedicente biologia e sugli studi sull’essere umano – dimensioni del cranio, lunghezza del mento, posizione degli occhi? Grandi nefandezze.
Vogliamo ora volgere lo sguardo… avanti. Lasciare dietro la parte ammuffita del pensiero dell’Otto e del Novecento. (Sia anche chiaro non sto buttando via Nietsche: ma l’acqua del bagnetto, tutta!)
Il problema è umano, e dovremmo semmai chiedere se sia vivo o morto l’essere umano – senza la miauscola! senza glorificare! semplicemente: l’essere umano. I due secoli passati ancora ci pesano addosso come un macigno.
Tanto più oggi. Quello che Salvatore Martino dice è giustissimo, e quello che dice Ubaldo de Robertis ancora più giusto. I grandi poeti di un recente passato, per quanto grandi e di grandissima ispirazione, non possono soddisfarci oggi nella nostra ricerca di una poesia per l’immediato, bruciante presente. Ben vengano dunque post come quello di ieri con Adam Vaccaro. Illuminante ed infuriante. E quindi, caro Giorgio, lascialo almeno due tre giorni, così che lo possiamo… digerire… e parlarne nei commenti!
Torno a dire che dobbiamo guardare dentro di noi, scavare, vedere dove la nostra interiorità rispecchia – anzi E’ – d’un tratto – meravigliosamente – l’esterno, il mondo, il cosmo, con tutte quelle città e i paesaggi disegnati nel cielo.
Devo però dissentire da quello che dice Ubaldo de Robertis sui giovani. E’ tutto vero, e tutto sbagliato. In realtà nascono nuovi fermenti nei giovani, con nuove tecniche e possibilità comunicative, che noi DOBBIAMO IMPARARE, non disdegnare.
Quando Eco dice che tutti gli imbecilli possono ora apparire in pubblico grazie all’Internet, mi fa sorridere. Il grande cibernetico e semiotico è stato tradito dalla sua stessa arroganza. Purtroppo è più vero dire, che i giovani mostrano una strada nuova, irta, accidentata, indecifrabile, anche se vogliamo nichilistica, ma immensamente creativa. Quando potrò vi dirò quello che ho imparato di recente sulle possibilità creative ed espressive dei social blog.
Anch’io sento talvolta fastidio per queste cose, ma è così. Meglio tenere aperti gli occhi, e soprattutto non disprezzare.
La quantità e diventato un aspetto qualitativo dei più importanti. In 10,000 fotografie postate in un giorno su un dato argomento su diciamo Facebook quasi tutte sono sicuramente imbecilli e insignificanti. Ma qualcuna appare alla superficie come perla rara. E questo cambia le regole del gioco: la fotografia di qualità non è più soltanto la pregorativa del fotografo professionista.
O del poeta professionista…
Sentite questa:
AICU
Li mannoli se spojeno,
Ce so’ millanta petali ner vento.
Io sgrullo li pensieri.
E’ questo che molti stentano ancora a capire. Pazienza.
Guarda Steven io sono per i giovani, e il mio rammarico é proprio perché temo che sia una moltitudine quella attratta dai modelli imposti sempre piú dalla società consumistica. 1000 euro per un cellulare tanta tv e giornali spazzatura e via dicendo. Di perle ne conosco anch’io, ho fatto il tutor per diletto di numerosi laureandi, mi hanno insegnato un mucchio di cose. Attendo di sapere ció che hai imparato sulle possibilità creative dei social blog. Un caro saluto.Ubaldo.
P.S. Quando sono andato in pensione sono stati i giovani, non c’era alcun precedente, a piantare un alberello nell’area a verde del centro di ricerca dove lavoravo…
Quello che io oggi vado constatando è in parole povere questo assunto, che potrà giustamente non essere condiviso. L’avvento del verso libero, cosa peraltro risalente a non tanti secoli fa, ha prodotto sì un arricchimento nella poesia che stava sclerotizzandosi, ma di converso ha dischiuso le porte agli improvvisatori, ai poeti della domenica, a quelli che il mio amico di Stasi chiama i pennivendoli, a tutta quella miriade che ha invaso il mare poesia mutandolo in una palude. Non è che il verso libero non abbia le sue regole, le sue obbedienze d’immagine e di pensiero e di musica. A proposito di quest’ultimo legame, la musica appunto, tutti noi sappiamo dell’origine orale della poesia e della sua inscindibile comunione con la musica,andata avanti per millenni, dai Greci ai nostri giorni. Ricordo in fuga che dei nostri quattro maggiori poeti Dante, Petrarca, Ariosto, Leopardi due hanno diviso la loro opera in Canti, gli altri due in incipit hanno così avvertito i lettori. “voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / Le donne e’cavalieri l’arme gli amori/ le cortesie le audaci imprese io canto…ecco in quasi tutte le versificazioni che io leggo partorite da viventi questo elementare dettato musicale manca del tutto, per cui si potrebbe tranquillamente sconvolgere gli a capo senza snaturare alcunché.Va benissimo innovare, tentare strade diverse, ma se prima non si è divorata, masticata, avversata, indagata la tradizione si rischia di brancolare sempre nel dilettantismo.La musica contemporanea atonale o dodecafonica, concreta o impastata di tutti i diavolèri della tecnica di sperimentazione è ben lontana dal raggiungere i vertici della musica tonale che si avvaleva dell’armonia e dei temi melodici, musica che ancora invade le sale dei concerti e le nostre case. Non sono d’accordo con Grieco sulla critica a Umberto Eco: oggi l’appiattimento in qualsiasi campo dell’arte, dovuto anche alla tecnologia,è straripante: per quanto riguarda alcuni settori , dei quali posso parlare in prima persona, come il teatro e tutto ciò che concerne la recitazione e il canto, davvero c’è stata una omologazione verso il basso. Per quanto concerne poi la fotografia, vivendo io da quasi cinquanta anni con un compagno grande fotografo posso assicurarti ,carissimo Steven, c’è un abisso tra una sua fotografia e una scattata da un qualsiasi dilettante, malgrado l’avvento della digitalizzazione, che certamente ha facilitato molte cose. In coda a questo mio lungo e noioso intervento mi piacerebbe formulare un gioco dedicato ai poeti ancora in vita: scrivere un sonetto nei canonici 14 endecasillabi, due quartine e due terzine, con gli innumerevoli accenti e rimari consentiti, con un linguaggio attuale senza desuetismi…non so quanti sarebbero capaci di arrivare alla fine dell’opera. Del resto lo hanno fatto Baudelaire, Lorca, Saba, Zanzotto, Sanguineti, Auden e Borges e non molto tempo fa. Salvatore Martino
Viene il cane a trovarmi nella sera dipinta
coi polpastrelli. Viene che è già arrivato, posa
il corpo come farebbe un attore sfrontato,
mi guarda e fa trasparire un sorriso da tirargli
contro l’intero guardaroba. Ma è un ladro
ed avendo in cuore i ladri non vorrei mancassero,
a meno che l’umanità perda il sorriso per davvero.
Trotta il cane sul pavimento gelato: qui mi sono
sepolto sconsolato; ma ben prima che il secolo
sparisse, diciamo vent’anni prima. Come passa
il tempo:
molto bella! anche perché si interrompe
E scrivicelo tu un sonetto con tutti gli accenti al posto giusto. Dai, su! Facci vedere di cosa sei capace.
Il mio precedente messaggio era per Mayoor, circa il sonetto. Però la poesia “Viene il cane” non è male, anzi direi di qualità (Viene…viene… sfrontato… attore.. ladro… gelato…sepolto…secolo… tempo..)
Però, a questo punto, attendo un sonetto bene fatto!!!
è stato divertente
Leggo solo adesso, dopo aver chiuso il mio precedente inetrvento, le parole dell’amico Ubaldo. Ebbene nei dieci anni che ho insegnato a Roma Tre e nei masters al Suor Orsola Benincasa altra Università, posso dire di aver incontrato, in mezzo alle diverse centinaia di giovani, ovviamente elitari, sì e no quattro o cinque individui di un certo spessore. Quasi tutti frequentavano i miei corsi con estremo impegno e attenzione , ma con risultati finali abbastanza modesti. Mancavano di basi culturali nonostante i 110 e lode, massificati dalla religione della velocità, del radi e getta, della comunicazione mai diretta e concreta e sempre più virtuale. Molte buone intenzioni ma grande incapacità di uscire dal vortice della Rete e della Televisione. Certo dopo mesi i miglioramenti si notavano e quindi mi facevano intuire che la materia sarebbe stata plasmabile… ma quante sovrastrutture da decapitare, quante mitologie da sfatare! Salvatore Martino
Quante sono le persone che hanno vissuto una vita intera senza vedere l’albero nel giardino accanto… senza accorgersi che era vivo, che ogni anno, nel totale silenzio, metteva foglie, fioriva, dava frutti e in autunno riperdeva tutto.
Ogni nuova generazione ha dato poi quello che ha dato. Ha anche dato Salvatori Marini e Ubaldi de Robertis che trovano i giovani (gli stessi che erano stati loro) noiosi, senza iniziativa, poveri di creatività.
Sicuramente qualche generazione ha avuto più fortuna con gli strumenti sociali e culturali che ha avuto in dono dalle generazioni precedenti, qualche altra meno.
Non so noi, anziani un po’ negativi, cosa abbiamo dato loro…
La generazione che ha prodotto i mostri del fascismo italiano e del nazismo tedesco ha anche partorito Georg Heym e Boris Pasternak. Di che cosa stiamo parlando?
Ma di una cosa sono abbastanza certo: la creatività umana straripa da ogni cucitura, in ogni generazione. Nel villaggio più scalcagnato del “terzo mondo” ho visto giovani che usano l’internet in modi imprevedibili, e un giorno forse ne rimarrete stupiti. Ma anche nella casa accanto alla vostra c’è un giovane così. O forse meno giovane. O forse è un albero. La creatività non conosce frontiere, ma, questo sì, ha bisogno di menti aperte, veloci, pronte ad apprendere, quale ne sia l’età.
Per quanto riguarda la scrittura del sonetto, è ben più difficile scrivere una poesia libera che una reggimentata. Proprio per quella libertà bisogna trovare il ritmo interno, la musicalità del pensiero, non tanto delle parole. Siamo orfani del grand style, che possiamo farci? E poi, chi vuole, scriva pure i sonetti, no? E’ capitato anche a me (in inglese…), perché quel pensiero esigeva quella forma.
Sono d’accordo con te caro Grieco che nel verso libero “bisogna trovare il ritmo interno, la musicalità del pensiero, non tanto delle parole”, e quindi rifuggire dalla convinzione che sia facile scrivere versi poetici…ma non sono d’accordo che fare poesia in una forma chiusa come il sonetto, rispettando tutti i dati canonici, sia più facile. In questo caso il difficile è trovare la porta e il chiavistello da aprire con una chiave spesso introvabile. Ammetto che una volta trovate queste condizioni può diventare più facile proseguire. Comunque aspetto una sapiente dimostrazione di scrittura del sonetto… se è come sostieni un cimento tutt’altro che arduo…Salvatore martino
Mi spiace non essere riuscito con l’ultimo intervento a chiarire il mio pensiero sui giovani. É lontana da me l’idea generalizzante ( poveri di creatività, noiosi) ecc. Ho fior di amici giovani e fior di nipoti e figli. E mi pesa molto, e qui sono assolutamente d’accordo con Steven Grieco, che la mia generazione poco ha fatto per lasciare loro un mondo migliore. Prendo su di me la colpa,- scriveva Pasolini. In quanto alla mia situazione di partenza (fortuna personale) ho ancora vivo il ricordo dei bombardamenti di una piccola stazione ferroviaria che era la mia casa.
Ubaldo de Robertis
Caro Ubaldo, tu sei memoria storica, da preservare. Altro che albero fiorito nel giardino del vicino.
Grazie Giuseppe, ho tentato di precisare il mio pensiero. Prima di passare a miglior vita mi mancava l’ etichetta di conservatore. É buffo come in passato io abbia spesso usato molte delle considerazioni di Grieco per contrastare i discorsi uditi via via da persone cosiddette mature. Avrei dovuto premettere (nel primo commento) che le mie parole erano dirette solo ai giovani che cedono alle idee consumistiche. Questi fraintendimenti sui blog accadono perché ci si conosce poco. Il massimo rispetto per il mio interlocutore.
Ubaldo de Robertis
E mi scuso con il Poeta Vaccaro per aver ” invaso ” impropriamente il post riservato alla sua poesia.
Adam Vaccaro è un poeta di valore nel panorama milanese. La sua è una poesia che procede per osmosi. Non nasce dal minimalismo né dall’esistenzialismo dato dall’ultimo Montale in cui molti poeti milanesi si sono crogiolati, inutilmente, negli anni (Doli capax). La sua poesia ha un respiro filosofico, non a caso è nato in Molise.
Diffidare sempre di chi pensa di avere la verità in tasca, in quanto “Summum ius, summa iniuria”.
Io penso, pronto comunque ad essere confutato, e pur non riconoscendo l’albero del giardino accanto, penso che i giovani di oggi abbiano smarrito l’eros, e forse persino l’erotismo. Roma che frequento dal 196o era una città prepotentemente erotica, adesso mi appare come una città sonnolenta. Sarà perchénon ho più ventanni?Salvatore Martino
Aprendo un libro della mia libreria, mi sono trovato dinanzi ad un reperto del passato che avevo dimenticato: una lettera d’amore di una donna di cui ero stato innamorato e di cui avevo perfino disperso il nome. Nel rileggerla, sono rimasto fulminato. E l’ho subito richiusa nella bara di un altro libro della mia libreria. Un’altra volta, ho pescato un pezzetto di carta. C’era la calligrafia di mio padre e la sua firma: “Filippo”. Ed era così simile alla mia quella calligrafia!, che ne sono rimasto turbato e spaesato. Un’altra volta, con il gomito ho urtato una ceramica che raffigurava una ballerina (che detestavo, regalo di una donna di tanto tempo fa). Ecco, ho pensato, finalmente il mio inconscio ha avuto la meglio sulla mia coscienza che tentava di mettere al riparo quella statuetta dalle sue ire. Un’altra volta, aprendo un libro, mi sono trovato di fronte ad una cartolina da Samarcanda che raffigurava delle statue di poeti russi con una scrittura che diceva: “un giorno anche tu sarai tra di loro”. È stato spaventoso.
Ecco, adesso l’ho imparato, questi “frammenti” di vita sono importantissimi, sono reperti di un’antica città morta dissotterrati come da uno scavo archeologico che ci rimandano ad un lontano passato. Ecco, questi “ritagli”, questi “frammenti” sono importantissimi per il nostro sguardo di oggi. Il frammento un tempo è stato vita, reca la traccia di tutte le contraddizioni, di tutte le illusioni, di tutte le sconfitte e di tutti gli amori, di tutte le cose che abbiamo amato e odiato. Ditemi voi, perché questi frammenti sono così importanti che, al loro apparire, ci turbano? Cosa hanno in sé che ci turba? Ecco, io credo che sono importanti, molto importanti anche per la scrittura di un romanzo o una poesia. Il frammento è stato vita che si è raggelata, C’è in essi l’ombra della morte, perché il passato è già morte, Ma è stato anche vita, la nostra vita. E adesso ho capito, retrospettivamente, quanti di questi frammenti ci siano disseminati nella mia poesia, come nella poesia di ogni altro poeta di valore.
Qualche giorno fa, una rivista milanese mi ha chiesto di scrivere un saggio di critica psicoanalitica sul primo libro di Alfredo de Palchi, “La buia danza di scorpione” scritto dal poeta ventenne nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e pubblicata in italiano soltanto nel 1993. Mi sono accinto a questo compito con curiosità e timore ed ho scoperto tra le parole del libro, un modo di vocaboli, di immagini, di totem, di frantumi, relitti del suo inconscio di giovanissimo recluso che lottava disperatamente per sopravvivere, frammenti dell’inconscio e di conflitti irrisolti, che nessuna cura psicoanalitica potrà mai risolvere (per fortuna!), frammenti testamentari del rapporto con la madre del poeta e con il padre (che io non sapevo assente). Vasi incomunicanti di frammenti che tra di loro parlano, comunicano, anche se parlano lingue diverse e incomunicabili. Questo è l’inconscio di un poeta che si riversa in un libro di poesia(!?) E tutto mi si è fatto chiaro all’improvviso. Devo dire un grazie alla rivista milanese (nella persona di Donatella Bisutti) che mi ha commissionato il lavoro. Ho mandato il saggio a de Palchi il quale, appena letto, ha commentato: “ma tu mi hai messo a nudo! Nessuno ha mai scavato così in profondità nel mio inconscio!”.
Ecco, io penso che il critico di poesia debba andare con la lanterna di Diogene alla ricerca dei frammenti sparsi e dispersi che neanche il poeta sapeva di avere messo dentro le proprie poesie.
(il calzolaio della poesia)
“La ricerca dei frammenti sparsi e dispersi che neanche tu sapeva di avere messo dentro le proprie poesie” mi ha riportato direttamente a Proust e alla sua Recherche.
E’ una conferma che le opere di Proust sono ancora fonte di ispirazione e riflessione filosofica, sia come oggetto diretto di dissertazione, sia come punto di riferimento indiretto, persino involontario, e che la riflessione di G. Linguaglossa sta spaziando così tanto da doppiare l’angolo giro.
Ubaldo de Robertis
Sì, ma come bene spiegava in un articolo che ho tradotto e pubblicato su l’Ombra (e che presto posterò di nuovo perché di capitale importanza) Salman Rushdie, c’è una differenza tra i “frammenti” di Proust, dei quali lui va alla ricerca, e i frammenti di oggi, che noi guardiamo esterrefatti e impauriti. I frammenti di oggi ci rendono inquieti. Noi fuggiamo da essi. Perché fuggiamo? Non lo sappiamo ma lo intuiamo- Ecco, io sono convinto che la poesia di oggi, quella di più alto livello, rechi la traccia, l’Ombra di essi frammenti. Ma non è una cosa che si possa fare a freddo, come dire: oggi faccio una poesia o un romanzo sui frammenti. Posta così la questione la si ridicolizza. Ci sono lunghi e sotterranei corridoi che si scavano nel sottosuolo della memoria inconscia che soltanto un poeta può percorrere, quei corridoi che ci portano alla poesia e al romanzo.
Il pensiero è un’entità misteriosa: non gli va di presentarsi in solitudine e scoprirsi interamente; vive con altri pensieri, tra i rumori della piazza. Lo puoi lasciare e riprendere; non è conseguenziale, spesso è incoerente. E’ un solo pensiero ma ha molte facce. Molti sono i punti di vista: da quello tuo all’attaccapanni, al rubinetto in cucina… a quel che ne direbbero i filosofi e tua moglie. Servono pause, dimenticanze. In questo modo, secondo me, nasce il frammento: è di un’unità vasta, più ampia del punto di vista prospettico rinascimentale. La logica cambia aspetto, la dialettica ne soffre; la parola si annuncia imprevedibile, come quando si rompe il silenzio.
Caro Lucio,
la tua descrizione del “frammento” la trovo perfetta. Qui ci vorrebbe un filosofo come Roberto Bertoldo a suggerirci qualche cosa in proposito. Roberto, ti ho convocato…
Purtroppo, caro Giorgio, non sono un filosofo, ma solo uno dei tanti che pensano, e quindi non riesco a pensare a comando. Posso solo dire d’essere d’accordo con Lucio: il frammento è uno squillo del pensiero e, se poetico, del pensiero emotivo, con espressione analogica.
Vorrei invece dire, riguardo Adam Vaccaro (interessanti le sue considerazioni!), ma anche Luigi Cannillo, che secondo me ha ragione Giuseppe Panetta circa il fatto che qui siamo lontani dalla linea versificatoria dominante a Milano. I due poeti hanno una voce non epigonica e questo è il massimo che credo si possa dire ed è un apprezzamento. Per il resto, i discorsi sul grande poeta o su come dev’essere la poesia mi interessano solo all’interno di un’estetica chiara che li modelli e che quindi si presenti in veste, anche scientifica, ma fallibilistica perché prospettica.
Ritengo insomma che chi voglia leggere poesia la legga, chi voglia scriverla la scriva, chi voglia giudicarla la giudichi, ecc., ma si lascino perdere discorsi altisonanti che hanno niente a che vedere con il nostro arrabattarci in questo mondo lurido. In fondo mi risulta che pochissimi e in certi casi nessuno tra i contemporanei di Leopardi, Poe o Baudelaire abbiano scommesso sulla loro grandezza.
Ricevo alla mia email e trascrivo il seguente commento di Adam Vaccaro:
Ringrazio tutti i numerosi intervenuti (era l’intento principale di questo scambio con Giorgio), in particolare quelli che si sono soffermati con adeguate puntualizzazioni e condivisioni sui miei testi poetici. La poesia va sempre oltre ogni intento e sua collocazione, per me è tale quando il suo inevitabile frammento accende il brillìo della totalità, quando è arte dell’infimo che si fa infinito.
E’ sempre stata la mia tensione, il mio verso, vedi il mio libro “Strappi e frazioni”.
Chi ama la poesia, alla fine, tenderà a riconoscere più i tratti comuni che a pestare i piedi come bambini, sulle pur necessarie e stimolanti (per me) differenze.
Pochi riescono a farlo, per questo ringrazio la passione, la generosità, il coraggio anomalo di Linguaglossa.
Adam Vaccaro
Mi sembra di vedere, anzi, di antivedere in queste cinque poesie di Adam Vaccaro, il tentativo della poesia italiana di prendere congedo dai linguaggi poetici ereditati (Milano e Roma), e Vaccaro lo fa e lo ha sempre fatto e perseguito fin dagli inizi con grande determinazione (cosa presente anche nella poesia di Luigi Cannillo). Nella poesia di Vaccaro c’è, si nota, la forte tensione di un progetto (che lui chiama adiacenza e che io chiamo esilio) di andare verso le «cose». Tutto questo parlare si dirà che alla fine serve solo come propedeutica alla azione verso le «cose». Si, poi forse un giorno arriverà un genio e metterà tutte le cose a posto. Ma, permettetemi di osservare che qui neanche un genio potrebbe fare alcunché, ormai la situazione si è talmente incancrenita che non c’è altro da fare che tagliare la gamba malata. Bisogna amputare di netto la gamba malata. Poi si andrà avanti con le stampelle. Meglio le stampelle che continuare a fare gli epigoni degli epigoni. Non è uno spettacolo acconcio, anzi, direi che è uno spettacolo sconcio. Adam Vaccaro è un poeta che ha sempre avuto il coraggio delle proprie scelte, anche sbagliando le persone scelte come interlocutori del suo progetto critico e poetico, anzi, a maggior ragione proprio perché sbagliava gli interlocutori come quando imbastì un discorso critico con Giò Ferri e compagnia i quali avevano in mente una poesia nata già vecchia, una poesia figlia dello sperimentalismo novecentesco quando era ormai chiaro ai più avveduti che bisognava virare di bordo, sterzare di netto.
Ricevo e trascrivo la seguente e-mail da parte di Adam Vaccaro
Caro Giorgio,
ti prego di inserire questa mia precisazione, relativa al tuo richiamo ad altri miei compagni di viaggio, e in particolare a Gio Ferri. Grazie di aver riconosciuto la mia autonomia, ma tale mia ardua ricerca è frutto di un arricchimento molteplice. Dell’albero metodologico interdisciplinare chiamato Adiacenza, le fonti sono state tante, come ho ricordato anche nelle risposte che ti ho dato. Tanti referenti sono anche in contrapposizione tra loro, come ad esempio (e lo so bene) tra te e Gio Ferri.
Ma per me Gio Ferri è stato ed è, non solo un carissimo e generoso amico, è stata una fonte di aspetti fondanti della mia concezione della poesia, quali la sua essenza materica e biologica. Senza di lui e la sua “Ragione poetica” questi caratteri non mi sarebbero diventati così chiari, non avrei capito fino in fondo la necessità della scrittura poetica, quale gesto che tende a dare tutte le lingue del corpo al corpo della lingua. Poi nessuno di noi, che si misura sia sul versante critico che su quello creativo, può pensare di produrre sempre oro colato. Questo vale per i grandissimi, figurarsi per tutti noi. Ma, anche su questo, Gio Ferri mi ha dato esempi di generosità e umiltà, molto rari nel panorama spesso supponente contemporaneo.
Su questo perciò non concordiamo, non considero affatto Gio Ferri e altri compagni e amici da me spesso richiamati, sbagli, ma preziose fonti di arricchimento. Come poeta considero il suo “Inventa lengua” un testo autonomo e importante che è fuori da ogni moda e modalità, milanese e non. E, come critico, rimane per me tra i pochi di maggior rilievo.
Considero questi scambi importanti, quanto più sono “aperti” e senza remore.
Caro Adam,
anch’io ho avuto compagni di viaggio che alla resa dei conti non riuscivano a confrontarsi su un piano di parità, alla fine uscivano fuori personalismi e individualismi, ciascuno si arroccava nella sua piccola trincea e così proseguire nel viaggio diventava davvero arduo e difficoltoso. Il problema era ed è molto semplice: avere pessimi compagni di viaggio non significa essere dei pessimi viaggiatori. Io, lo confesso, ho avuto pessimi compagni di viaggio ma non sono un cattivo viaggiatore.
Con Giò Ferri ho avuto, circa 15 anni or sono, soltanto un confronto. Quando io in una recensione gli indicai quelli che per me erano i limiti della sua poesia, lui ritenne di troncare il rapporto con me. La cosa non è nuova, si è ripetuta con altri letterati che scrivono poesie. Ben pochi sono coloro che sanno accettare le critiche, i più sono allergici a qualsiasi critica, scambiano la critica con l’agiografia. L’aspetto buffo è che tutti questi letterati sono così invaghiti della propria opera che vogliono solo l’applauso Ed io sono allergico, purtroppo, a qualsiasi forma di applauso..
In questi testi di Adam Vaccaro convivono l’onda lunga che si avvolge di verso in verso,per piccole rime che agganciano fine e inizio verso, e assonanze, e, in “Ventagli d’amore e d’inganno”, la doppia arcata di una struttura ad anello, un ciclo del vento e del canto, come una morbida voluta di fumo, e il ‘frammento’, in “Nop”, dove ritrovo quei brevi quadri a ritratto che in “La casa sommersa”, sezione di “La casa sospesa”, (Joker 2003), sono testimonianze parcellari (titoli fra parentesi, sommersi) di un intero mondo perduto, qui exempla di sperse condizioni umane. E ritrovo quei nomi-significato (Osso, Pelo) tanto presenti nella scrittura di Vaccaro (Sentenzio, Lucino, altri), che di persone comuni, o del loro destino, fanno una galleria di persone mitiche in minore, o un teatro di marionette, o una galleria di ex voto, un’iconostasi feriale di presenze fugaci, necessarie. E questo è nella scrittura di Vaccaro il frammento: i quadri, i fotogrammi che compongono una vita. Ma il libro, il corpus del libro, li accoglie e li giustifica in una continuità obbligante, nella falcata di un pensiero espresso in versi. Perché il libro non è la vita. Ma libro e vita hanno in comune l’immersione in (l’emersione da) una mobile molteplicità di universi, l’uno nell’altro, l’uno dall’altro, che nella sua accecante perdizione conforta, perdona il frammento.
A mio parere il frammento imperdonabile e sconfortante è quello che lungo una sequenza anodina e qualunque di frammenti in fila indiana dalla pagina 9 alla 109 di un libro di versi, senza collanti, senza legami, ben si astiene dal contribuire a formare un corpus, una coerenza di pensiero e forma: se ne potrebbero aggiungere tre o cinque, se ne potrebbero togliere due o quattro, e non cambierebbe niente. Un libro fatto di frammenti, sempre a mio parere, non è un libro, è un elenco.
Non è certamente il caso di Vaccaro, che cerca voce “a consolazione dell’infimo e dell’immenso”.
Ricevo la seguente e-mail da parte di Adam Vaccaro.
[l’Amministratore del sito riferisce che è lui ad aver postato il commento di Adam Vaccaro corretto, in quanto la prima stesura postata da Annamaria De Pietro conteneva un refuso]
“Ringrazio con lucore affettuoso ma senza alcun effluvio glassoso – come è nostro costume da un quarto di secolo – l’acuta, pertinente nota di Annamaria che i testi aspettavano .
Un albero non è di per sé garanzia, ma senza un albero, una pianta, non ci sono frutti, e noi abbiamo bisogno di frutti che siano sequenze gracili di un ritorno alla terra. Per continuare.
Questa la sfida della nostra vita e della poesia, che è il mio pensiero, la mia ragione poetica. Che la capacità di adiacenza e dif-ferenza utile di Annamaria ha così ben colto.
Adam Vaccaro”
L’ha ribloggato su L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale.