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[Klaus Miser da 15 anni persegue un processo di lontananza dall’ambiente poetico mainstream, con dispersione e non riproducibilità dei testi, spesso presentati con pseudonimi diversi. Le sue poesie si aggirano in circuiti inconsueti, dai bar agli spazi occupati, dalle strade statali ai queer party, dai festival femministi a quelli di teatro, dall’Historischer Kataster di Berlino alle radio indipendenti, dal Cocoricò di Riccione alle stazioni di servizio in Svizzera. Sopravvissuti alla decennale irreperibilità delle sue opere, e tutti con pseudonimi diversi: “Luogo Comune“ (con Dafne Boggeri in “Italian Landscapes”, Luca Sossella Editore), la collaborazione a “Jungle In“ (di Cristina Rizzo, con Alessandro Sciarroni), e il cortometraggio “eppure nessuno parlava” (con Silvia Calderoni). Solo nell’ultimo triennio sono apparsi stralci e recensioni su riviste di settore e le pubblicazioni Kill Your Poet (plaquette a tiratura limitata, Galleria Fragile Continuo di Bologna) e pescarababylon (Collana Isola, illustrazioni di MP5).]
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Commento di Flavio Almerighi
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Che il mondo non sia un paese per poeti e tutto il mondo è paese, sono dati di fatto. Ho letto con autentico piacere il nuovo libro di Klaus Miser, poesia capace di rimanere in mano e nel cuore. Il motivo è molto semplice, anzi più di un motivo, “november rain a giugno” , oppure “rintoccava quasi la sera sulla statale per Ravenna” oppure anche “io sono la vita sprecata di Klaus”, “smettila di immaginare”, “i greti ghiaiosi dell’oltrepo’ e dell’aldilà” ma anche sugli “scivolamenti confusi/frane complesse”, ma “siamo nella romagna micragnosa”, passando “loskyline di pescara portanuova”, fino a “la poesia come ultimo grido di aiuto”. Ammetto di essermi divertito molto a sottolineare i versi che più mi piacevano, mentre rileggevo.
Klaus Miser scrive le sue raccolte a partire dal titolo. Ogni poesia insomma è parte dell’acronimo che forma il titolo, ed è divertente per chi legge seguirne il percorso. La forza di questa poesia sta nel ritmo energico, ossessivo, ripetitivo, raro. Quanti “come” ci sono! E i “come” mordono la mano a chi vuole accarezzarli Il libro piacerà soprattutto a chi non vuole annoiarsi su una poesia, ma preferisce specchiarsi e scovare, magari da un treno o su un tram, particolari a sua misura o immagine. In effetti pur con tutti i rimandi alla Romagna che entrambi abitiamo, queste sono poesie della globalizzazione, cui l’autore perfettamente si adatta e si estranea. Ci riesce. Un Simone Cattaneo forse più scaltro e un filo più globale.
Interessante anche la struttura dei brani, privi di ogni punteggiatura, i cui riferimenti di lettura sono definiti dall’interlinea e dal ritmo delle sillabe. Stilisticamente trovo interessante di questo lavoro la sua capacità drammaturgica, molto ben scandita e del tutto predisposta alla rappresentazione teatrale, forse anche cinematografica. Tratto che tra altri giovani ho riconosciuto per ora solo in Luca Ariano. Penso alle molte ripetizioni martellanti anche nello stesso verso, quasi mai c’è un enjambement altro tratto particolare, originale. Insomma, sommando stile e contenuto, qualcosa di nuovo c’è anche da noi, basta saperlo cercare. Autore quindi molto interessante, che va letto e conosciuto.
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Brani scelti (la N è la prima lettera del titolo e prima poesia della raccolta, la I l’ultima):
N come non è Bisanzio il paradiso
ma l’esplosione di nuvole sopra powerscroft road
il tacito patto dei salici lungo il Tamigi
november rain a giugno
la topografia ridisegnata dalle vene d’acqua
la salvezza affidata solo ai cervi
niente può più cambiare
talvolta
la resurrezione affidata solo agli alberi che non esistono più
ai gelsi
all’erba piegata dalla pioggia
al poeta matto di shoreditch che chiede sputando one ppp-pound
non un centesimo di meno
N come il succedersi delle stagioni
che mi ama perché io non esisto
come i gorghi neri amano i marinai
solo l’apparire della marea bluastra
come il mondo dalla fine
come un binario morto
il carbone mezzo arso e mezzo no
debacle dentro un bacio
franano le parole come franano i versanti
N come monocromie ancestrali
fiamme ungheresi
inizi balcanici di incontenibili ardori
poesie infinite tra i gasometri
poesie mai terminate in caledonia
poesie tossiche nel silenzio del cielo stamattina
ombre allungate dalle ceneri e dalle braci
tu alla sera rovistavi la brace
il tuo braccio storto dalla vecchiaia come metronomo latente
scandiva un tempo preciso stabilito una volta per tutte
arso nelle braci del ricordo
combustione di cieli azzurri
sinfonie mute
hai visto la paura o i frati neri o la sua foto fatta a pezzi?
il giubileo non della regina ma di santo derek jarman
protettore dei muri rossi
degli addomi trafitti
della carta da parati
dei faggi al sole che vivono fuori dal cerchio del tempo
fuori muoveva ancora un formicaio di vanità
melodrammi privati
scarpe perse per strade
una settimana di ferie all’anno
3 pappagalli alla sbarra
estasi di tabacco e samovar di antichi riti
2 cugine di nome Heather
5 metri quadrati di soffitti pieni di preludi e di muffa
i cieli del 27 aprile oltre i vetri
36 anni nello scoraggiamento
di un facchino biondo ai mercati generali
4 lumache si infilano dentro la cornetta dello yorkshire
la francese ripeteva alla cornetta voglio solo un vestito vittoriano
voglio solo venire da te
la cornetta era staccata
staccata la retina per non vedere più
lago morto ristagni d’acqua nei vicoli
la pozzanghera e l’altra scarpa mancante
un assolo e un cavaliere tutto rosso
di timidezza e di quattrocento
finisce la strada con la puzza dei moli
finisce la sera insieme a un strip tease da suicidio
una sera nautofono e vetro
finiscono le sigarette e pure le stanze d’albergo
solo le donne e la poesia sono gli occhi di dio
la ragazzina tossica mi accompagna a brick lane
ha le unghie rotte e lo smalto impreciso
rioni di case popolari
gli emozionati e il mangime nei tuoi quadri
nei miei solo penombre provvisorie
I’m coming home e tu non lo sai
goodbye blue sky goodbye
Il Settembre del 1912
fu un mese difficile
sangue e umore corporali
forse una sera piena di stelle
e un sorriso color viola
una frana imminente
e un’ asciuttezza obbligata
l’intero viaggio fu una vita difficile
primavere precoci e pentecoste di viole
esplosioni di riso immotivato
cartografie distorte di dimore mai abitate
dispersione dei toni e diluizione di colore
persistenti orizzonti sfocati
acciai temperati e sere dolci
I come infine
infine questo futuro
che sa di stravecchio
N come non è né il sangue di cristo
né quello di lord nelson
c’era piuttosto un irlandese che perdeva sangue
per strada a Dalston
guardava il marciapiede e gli scoli
come fossero cristo
N come non sono quel genere di persone che fa colazione
sono comunque in odore di santità
grazie ai mie slip porpora
e laghi bianchi
larghi malcontenti
apatie ridenti
esecuzione random di celesti seriali
morti immolati
per salvare il pervinca
chi tenta di uccidere un orso
non avrà indietro né il suo manoscritto
né tutte le promesse mai mantenute

Klaus Miser
profezie in righe di 9
P come dappertutto danze oscure
come l’universo laggiù
come stanze tiepide a barbes dove morire di noia
a furia di dolore ci mangiammo pure il dolore
P come perfino io
che non ho mai fatto la resistenza
se non ai miei stessi desideri
non ho avuto felicità da allodole sui fili
ma filiformi mattini di sigaretta
nella vecchiezza delle città
e grasse infelicità da resistenze inutili
nessuna soluzione di continuità
e corti circuiti celebrali
niente cugini russi a caccia di farfalle
ma solo nonni emigranti che sono pure tornati indietro
nel cappello una violetta
e sono tornati indietro tachicardie clandestine
epilessie da samovar e sdoppiamenti
di filiformi mattini dentro la vecchiezza delle città
e mai più i soffi di aprile dell’82
io che non ho mai avuto respiri oceanici
ma solo pozze adriatiche
al massimo un ventolin nei jeans
una sinfonia struggente per avere tutto
e non avere niente
io sono la vita sprecata di klaus
fallire la mia vita
è stata la mia ambizione più riuscita

Klaus Miser
Alcune domande di Flavio Almerighi a Klaus Miser
Domanda: Come nasci in poesia? Da quale necessità? Mi faresti una dichiarazione riguardo alla tua poetica?
Risposta: I poeti non dovrebbero esprimersi sulla propria opera!
La gentilezza di Flavio Almerighi mi spinge ad aggiungere qualcosa. Con il linguaggio poetico sperimento una demolizione del reale, cerco di evocare cronicamente una alterità.
Mi ossessiona il rapporto tra segno e tempo. In questa assenza di soluzioni di continuità, riscrivo continuamente un un cut up circolare e programmatico. Programmatico perché per me la poesia è un atto politico e mi interessa una struttura che contenga in sé le variazioni della struttura … una sorta di mise en abyme, di fluttuazione prigoginiana, che dia vita ad una molteplicità di realizzazioni drammatiche diverse. Confondo la forma e il genere, personaggi e paesaggi, la flora vs il linguaggio eterocentrico, allucinazioni ed esondazioni, un cut up atemporale che evoca continuamente una alterità.
Domanda: Un po’ di storia, curriculum e rapporti con le case editrici.
Risposta: Il mio percorso è stato anomalo, una sorta di autoemarginazione dall’ambiente poetico s.s.
In quasi due decenni di scrittura e moltissimi reading, nei posti più disparati, ho sempre preferito la dispersione dei testi, la non riproducibilità e l’anonimato, cambiando spesso pseudonimi. Molte collaborazioni con musicisti, mondo teatrale e queercrew, danzatori, pittori, artisti visivi. Soprattutto musicisti, quest’estate ad esempio ho collaborato a soundscapes di Jacopo Benassi, fotografo, e Fabrizio Modenese Palumbo, Paul Beauchamp e Jochen Arbeit degli Einsturzende Neubaten. Ho sempre prediletto un approccio alla Emilio Villa, scoperto ahimè solo negli ultimi anni.
Le poche cose edite sono nate con progetti altri :
Luogo comune, in Italian Landscapes, Sossella Editore, dal progetto con Dafne Boggeri.
Eppure Nessuno Parlava, cortometraggio con Silvia Calderoni.
KILL YOUR POET plaquette in tiratura limitata, Galleria Elastico per l’omonima performance mai ripetuta.
E infine pescarababylon per L’Isola, collaborando con MP5 che lo ha illustrato, e Mariagiorgia Ulbar ed Andrea Bruno che l’hanno prodotto. Non è un paese per poeti invece fu inviato, inizialmente a mia insaputa, dalla Ulbar all’editore Luca Rizzatello di Prufrock Spa.
Domanda: Parlami dei tuoi reading così diversi dal solito mortorio di sale vuote.
Risposta: Per me i reading sono un atto liberatorio, riesco a dimenticare quello che scrivo, le mie stesse poesie diventano estranee, smettono di essere mie e diventano solo di chi ascolta. Mi interessa che ognuno disponga di molti gradi di libertà, sia nel testo che nell’ascolto, perché la bellezza è sua. Forse è questa urgenza nel condividere il potere eversivo della poesia che arriva, ma bisognerebbe chiederlo al pubblico.

Flavio Almerighi
Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia “Allegro Improvviso” (Ibiskos 1999), “Vie di Fuga” (Aletti, 2002), “Amori al tempo del Nasdaq” (Aletti 2003), “Coscienze di mulini a vento” (Gabrieli 2007), “durante il dopocristo” (Tempo al Libro 2008), “qui è Lontano” (Tempo al Libro, 2010), “Voce dei miei occhi” (Fermenti, 2011) “Procellaria” (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti)
una piacevole e interessante sorpresa
L’ha ribloggato su almerighi.
Puro talento. Gioca con le sacralità delle parole: non perle ma mangime per piccioni; in una piazza – piazza della tragedia – dove tutti sono felici e non lo sanno. Si legge in un boccone ma bisogna avere fame e lo stomaco di un elefante; perché incalza lo stile e incantano le immagini ( vive e a colori). Il segreto? Per me è in questa frase : Confondo la forma e il genere. Finalmente qualcuno che l’ha capito.
Scrive Klaus Miser:
Mi ossessiona il rapporto tra segno e tempo. In questa assenza di soluzioni di continuità, riscrivo continuamente un un cut up circolare e programmatico. Programmatico perché per me la poesia è un atto politico e mi interessa una struttura che contenga in sé le variazioni della struttura … una sorta di mise en abyme, di fluttuazione prigoginiana, che dia vita ad una molteplicità di realizzazioni drammatiche diverse. Confondo la forma e il genere, personaggi e paesaggi, la flora vs il linguaggio eterocentrico, allucinazioni ed esondazioni, un cut up atemporale che evoca continuamente una alterità.
A parte il fatto che non capisco cosa voglia dire “linguaggio eterocentrico”, devo dire che ho letto con interesse il flusso di coscienza di Klaus. Il suo zigzagare in veste prigoginiana tra forme e generi diversi, il suo mischiare continuamente le carte, apprezzo la sua libertà di muoversi tra il comprensibile e i ritagli di lacerti del quotidiano. Insomma, Miser lavora con i “frammenti”, e lavora bene, anzi, io direi che la sua poesia o para poesia regge meno quando ritorna sull’io… lì è poco credibile perché più prevedibile, dovrebbe andare, a mio avviso, con maggiore decisione nella direzione dei “frammenti”, dovrebbe tentare di più in direzione di una composizione di “frammenti”. Cmq è una lettura interessante perché ci libera per un momento dal linguaggio poetico convenzionale dove tutto è “controllato” secondo ciò che si ritiene venga condiviso dalla cerchia letteraria di appartenenza o di provenienza. Auguro a Miser di procedere con maggiore decisione verso una poesia di assemblaggi di frammenti, di rifiuti e di scarti.
Un giorno una persona mi ha chiesto: che cosa sono i “frammenti”? E io le ho risposto: «sono ciò che resta delle cose nella memoria dopo che noi abbiamo dimenticato quelle cose».
Devo dire che dopo questa affermazione, quella persona mi ha dato una occhiata esplicativa.
La prima volta che lessi alcune poesie tratte da: “Non è un paese per poeti” mi soffermai, come adesso, sul versi di chiusura di: “ profezie in righe di 9”
“io sono la vita sprecata di klaus
fallire la mia vita
è stata la mia ambizione più riuscita”
E commentai su:
http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/817-Klaus-Miser-Non-e-un-paese-per-poeti.html
“Parafrasando Stephen King mi vien voglia di scrivere: “Miser non deve morire!” Di lei si sa poco, perché lascia parlare la sua poesia. Che trovo interessante. Colpiscono molte cose di questo fare poetico non ultimo quel tipo di assemblaggio di oggetti ed eventi osservati (catalogazione di indizi di vita, lo definisce G. Cerrai) con grande originalità e naturalezza, il senso di un disperato esserci. Comunicare per mezzo della poesia sapendo che OGGI, il nostro “Non è un paese per poeti” ci vuole coraggio. Sapere poi che Miser, la cui vita è per niente fallita, é una giovane voce dell’Adriatico, il mare dove sono nato, mi fa anche tenerezza. (U. de Robertis)
Ora sono grato a Flavio Almerighi per aver presentato ai lettori de L’Ombra la poesia di Klaus Miser dimostrando, (l’Almerighi) che sa “aprirsi” alle voci, ai linguaggi poetici più disparati. Ogni atto artistico merita la dovuta attenzione soprattutto se ad emergere è la voce di un giovane poeta.
Ubaldo de Robertis
“hai visto la paura o i frati neri o la sua foto fatta a pezzi?
il giubileo non della regina ma di santo derek jarman
protettore dei muri rossi
degli addomi trafitti
della carta da parati
dei faggi al sole che vivono fuori dal cerchio del tempo
fuori muoveva ancora un formicaio di vanità
melodrammi privati
scarpe perse per strade
una settimana di ferie all’anno
3 pappagalli alla sbarra
estasi di tabacco e samovar di antichi riti
2 cugine di nome Heather
5 metri quadrati di soffitti pieni di preludi e di muffa
i cieli del 27 aprile oltre i vetri
36 anni nello scoraggiamento
di un facchino biondo ai mercati generali
4 lumache si infilano dentro la cornetta dello yorkshire”
Non avrei voluto scrivere un commento sopra le poesie di questo poeta, per non sembrare ancora un fastidioso bastian contrario, un vecchio poeta pedante. Ma dopo aver letto la tua inserzione quasi apologetica citando persino uno stupendo film holliwoodiano mi sono costretto a stendere due parole non di commento critico ma di insoddisfazione nel leggere versi come quelli dell’elencazione sopra riprodotti, che francamente non mi “scucione un baffo” (volgarità). Sono tornato a rileggere le poesie inserite nel blog, sotto la spinta del tuo commento carissimo Ubaldo, ma francamente non riesco a cambiare ide ae non vedo il motivo di dannarmi più di tanto. La mia discutibile onestà intellettuale mi fa sempre dubitare di me stesso e delle mie considerazioni. Fino a un certo punto. Poi mi dico: perché leggere cose che non trovi interessanti. Allora mi è balenato alla mente che sarebbe bello proporre per gioco, una sorta di esperimento: chiedere a vari poeti, viventi ovviamente, di scrivere un paio di sonetti nella forma canonica dei quattordici endecasillabi, due quartine e due terzine, rigorosamente rimati nelle molteplici varietà, in un linguaggio non desueto. D’altra parte ne hanno scritti Baudelaire e Lorca, Saba, Sanguineti, Zanzotto, Auden , Borges i primi che affollano i miei ricordi. Non so quanti sarebbero capaci di rispondere all’appello. Ricordando che anche nella psudo-libertà del verso cosiddetto libero esistono delle regole che fanno sì che accada o non accada la poesia. Salvatore Martino
Rileggiamo insieme la proposta della sua poetica per bocca dello stesso poeta:
“Mi ossessiona il rapporto tra segno e tempo. In questa assenza di soluzioni di continuità, riscrivo continuamente un un cut up circolare e programmatico. Programmatico perché per me la poesia è un atto politico e mi interessa una struttura che contenga in sé le variazioni della struttura … una sorta di mise en abyme, di fluttuazione prigoginiana, che dia vita ad una molteplicità di realizzazioni drammatiche diverse. Confondo la forma e il genere, personaggi e paesaggi, la flora vs il linguaggio eterocentrico, allucinazioni ed esondazioni, un cut up atemporale che evoca continuamente una alterità”.
Mi sgomenta questo programmare con un cut up circolare, quasi che la poesia fosse un romanzo nel quale bisogna costruire un’architettura di storia dove inserire i personaggi. Mi sembra una posizione che tende a razionalizzare “il gioco” poetico, a castrare o a tagliare quel filo rosso che all’inconscio sale alla superficie coscienziale..l’abisso mi pare che lo veda solo lui, come la fluttuazione prigoginiana(?)…cosa sarebbe il linguaggio eterocentrico?… e questa alterità così ricercata intellettualisticamente? Ho l’impressione che se il Nostro facesse un bagno di semplicità e di umiltà raggiungerebbed ei risultati migliori, anche perché qua e là affiorano dei versi quasi folgoranti. Salvatore Martino
Caro Salvatore sei sicuro che sia il Nostro e non la Nostra? Qui nella bio si procede alle cieca.
Molto chiare invece le tue argomentazioni avverse a questo modo di fare poesia. Non si può non tenerne conto. Con immutata stima. Ubaldo de Robertis
è una donna
Baudelaire e Lorca, Saba, Sanguineti, Zanzotto, Auden , Borges? Sta leggendo Miser o vuole che qualcuno le dedichi un sonetto?
Non so risponderti caro Ubaldo ma le mie scarse cognizioni della lingua tedesca mi inducono a pensare che Klaus sia un nome maschile, ma forse come Andrea potrebbe essere anche femminile. Salvatore Martino
Grazie di cuore a tutti per la generosità nella lettura e nelle parole spese per me. Concordo appieno con Giorgio Linguaglossa sui “frammenti”: ma in “non è un paese per poeti” – piuttosto anomalo rispetto ad altri testi – temo sia l’insieme della lettura ad avere più valore o non valore rispetto alle sue parti. Confondere forma e genere è l’unico raziocinio. Vi abbraccio, k.m.
Ah, beh, m’era sfuggito questo Post. Riguardo alle maiuscole preferisco il Lucio Mayoor Tosi, che riesce a riunire versi a un buon pensiero critico, talvolta libero e talvolta liberato.
E quando si riuscirà a liberarsi di questi escamotages che come zavorra tradiscono insicurezza, e si scriveranno versi di vita, non dico semplici, ma pregni di sintesi, di pensiero, di arrovellamento stilistico e sintattico, di due più due senza il riporto (non trovo al momento altra figura), allora si avrà buona poesia.