Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il percorso poetico di Elio Pecora ha inizio nel 1970 quando pubblica la raccolta d’esordio La chiave di vetro. Degno di nota il semantema simbolistico di quel titolo che ammiccava a una civiltà che non c’era più, che aveva riposto nel deposito bagagli smarriti ogni riferimento simbolistico. E non è casuale che Elio Pecora peschi proprio nel bagaglio simbolistico per il titolo della sua prima raccolta. I titoli sono importanti, sono sempre significativi di un percorso e di un progetto; e in quella specificazione di «vetro» c’era già tutta quanta la fragilità di quella «chiave» che mondi avrebbe dovuto aprire. Se non che quel mondo simbolistico era scomparso da un pezzo, spazzato via dalla contestazione del ’68 e dalla iperattività della neoavanguardia letteraria che occupava quasi tutto lo spettro di «nuovo». Nel frattempo il boom economico si è arrestato, l’Italia subisce l’invasione delle fiat Cinquecento, delle lavatrici, dei frigoriferi per tutti, inizia la balneazione di una popolazione che si è trasformata in piccola borghesia rapace e rampante; si va tutti in villeggiatura al mare mentre la classe operaia va in paradiso e il partito comunista sta all’angolo con le sua parole d’ordine diventate inutili. Nel frattempo, sia il romanzo che la poesia rinunciano alla rappresentazione di una società in rapido e tumultuoso cambiamento. Con Trasumanar e organizzar (1968) Pasolini abbandona la poesia al suo destino e si dedica al cinema, al giornalismo; Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana ed adotterà un linguaggio para giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domestico. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della poesia italiana avviene una mutazione genetica, una mutazione che va di pari passo con la mutazione antropologica di cui parlava Pasolini. E la poesia si appresta a diventare una pratica di massa.
Quelle del giovane Elio Pecora sono poesie che abitano il registro colloquiale, il piano basso, il bisbigliato, una versificazione che appare antica per quel suo passo ritmico e cadenzato, fatta di suoni di quantità in delicato equilibrio, con cadenze interconnesse e ritmi apparentemente stabili ma che in realtà stanno appena al di sopra dei sommovimenti equorei profondi della poesia di quegli anni. Una poesia dove il silenziatore ha una funzione dominante. Una poesia senza stacchi, acuti, o suoni sopra le righe del pentagramma, ma ritrosa e intima, che sembra non conoscere modellizzazione privatistica e invece è sapientemente elaborata in vista di una voce bisbigliata e sommessa. Ecco, possiamo dire che a questo registro minimo la poesia di Elio Pecora è poi rimasta fedele in tutto l’arco della sua produzione fino ai giorni nostri. Una poesia che si è mossa, come una invariante, fin dall’inizio, nel solco della continuità, ma senza essere conservativa, nel solco di una modernità che non equivaleva a modernizzazione, tantomeno forzata e sopra le righe come era in auge in quegli anni che ben presto divennero di «piombo». Una continuità che filtrava la poesia di Saba e Penna mediante il Pianissimo di Sbarbaro. Insomma, Pecora si ritagliava un suo Novecento e ripartiva da lì, da dove la poesia italiana si era interrotta e incagliata, ripartiva da una zona non ancora esplorata. E forse questo è stato ed è il merito della poesia di Elio Pecora: l’aver intravisto con chiarezza la direzione da intraprendere sin da subito, sin dal 1970. Un discorso poetico ricco di piccolissime cose, minuzie, amnesie, ricco di ombre e in chiaroscuro «come cartoline di saluti, come telefonate frettolose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe» (da Simmetrie, 2007).

Elio Pecora
Intervista a Elio Pecora di Giorgio Linguaglossa
Domanda: Il tuo primo libro è La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo? In quel volume c’è in nuce una voce nuova di un poeta che prende le distanze dalla poesia dell’opposizione, dalla poesia d’impegno, ideologica e sperimentale di quegli anni. Possiamo dire che il tempo ha dato ragione alla tua poesia; la poesia che allora era in voga è stata dimenticata mentre la tua poesia all’apparenza così esile e fragile oggi torna ad essere apprezzata.
Risposta: quel mio primo libro, che veniva da anni di letture, dai miei diari di ventenne, e da personalissime macerazioni, avevo dato un titolo che tuttora ritengo il più esatto ” Narciso in pensiero”: perché quell’io, nell’attenzione alle proprie storie e al mondo che lo accoglieva e imprigionava, poneva insieme consapevolezza e smarrimento. Ma l’editore Cappelli, che mi contentò nelle cure particolari del volumetto, chiese insistentemente un titolo diverso da quello che gli suonava “intellettualistico”. Seppi tempo dopo che “La chiave di vetro” era anche il titolo di un famoso romanzo poliziesco di Hammet. Invece lo inventai guardando i dipinti di Magritte e decisi per quella chiave trasparente, perché credevo, e credo, che l’uomo possa rispondere alle domande che lo inquietano e lo accompagnano solo se mette in conto i limiti di ogni possibile risposta; e pure seguita a cercare la verità adoperando i suoi strumenti tutti assai fragili. Ho derivato questo modo di essere e di vedere, prima di ogni scrittura, dai miei amati presocratici, in seguito ripensati nelle analisi abbaglianti di Giorgio Colli, e da Nietzsche che intravede nuove misure dell’esistere, più tardi da Bertrand Russell, dai diari di Max Frisch, dalle percezioni affilate di Virginia Wolf, ma anzitutto dal Leopardi che, nella mia prima adolescenza, mi si è presentato come il più alto e intimo riferimento. Peraltro, nel tempo del mio primo libro, mentre ero molto preso dagli scritti di Freud avevo stretto una forte amicizia con uno psicoanalista tedesco, venuto a Roma per scrivere un romanzo, e di cui fui, per alcuni mesi, ospite in Baviera, in un paese di nevi, dove scrissi “Narciso in pensiero” assiduamente riflettendo sul narcisismo e discutendone animatamente con il mio ospite.
Domanda: Alcuni critici affermano che nel secondo Novecento, dopo Laborintus (1956) di Sanguineti e La Beltà (1968) di Zanzotto la poesia lirica ha esaurito la sua spinta propulsiva e che oggi si scrive una poesia non più lirica, una sorta di esperanto narrativo con degli a-capo. Qual è la tua opinione?
Risposta: Non ho esitazioni nell’affermare che la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia, malattia che sta fra la pavidità e la cecità. Ed è condizione ben grave se porta a riparare in sentenze scheletrite e ad arroccarsi in un passato di comodo, già tutto codificato, dunque impossibile (per inerzia e pavidità) da ricollocare fuori di codici scontati e di facili nostalgie. Rifugge insomma dal rischiare nel presente più attentamente guardando e vagliando. (Non è casuale che il poco della migliore poesia delle generazioni più giovani propende all’elegismo.) Mi chiedo se in un paese sfiduciato e depresso, proprio la poesia, musa appartata e fuori dell’utile, possa essere data ancora per viva? (A un osservatore attento non può sfuggire che gli stessi esegeti delle fini e degli esaurimenti, si contraddicono ogni volta in cui dispensano riconoscimenti anche eccessivi e rilasciano indubbi certificati di esistenza a singoli poetificanti. Quanto poi all”’esperanto narrativo con gli a capo”, di sicuro è fenomeno dovuto al “vogliamo tutto”, da cui “possiamo tutto”, innescato da contestazioni affrettate e insensate in decenni ormai lontani.
Domanda: Alcuni critici affermano che dopo il ’68 la poesia si è democratizzata, è diventato più facile scrivere poesia, tutti scrivono poesia che sembra una pratica di massa, una scrittura facile, alla portata di tutti,basta andare a capo ogni tanto. Non ci sono più regole, non c’è più un Canone, sembrano scomparsi i modelli narrativi e poetici, e la valutazione critica sembra un atto casuale o, al più, arbitrario. Qual è la tua opinione?
Risposta: La storia non insegna, ma fornisce esempi ragguardevoli. Vi sono epoche in cui il nuovo consiste quasi solo nel respingere il passato e non solo per quel che è obsoleto, ma anche per quel che renda possibile la qualità nella prosecuzione. S’abbuia la memoria, s’annientano i confronti. Si ritiene che solo da una “completa” libertà, intesa come spoliazione, possa scaturire il meglio e il necessario. Basti ricordare che, nei decenni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, è emersa una massa informe che ha chiesto quanto prima gli veniva negato: a una tale massa è stata riconosciuta non più di una confusa apparenza. Nella confusione è passato e passa di tutto e la stessa autorità crtitica è venuta meno: così ciascuno gioca a suo modo. A questo punto il critico, sfiduciato e scontento, si concilia con se stesso inserrandosi in un recinto di negazioni e rischiando l’asfissia.
Domanda: Nel 1987 esce il tuo libro Interludio con l’editore Empiria di Roma. Ricordo che all’epoca, quando lo lessi, fui colpito dalla nudità del tuo modo di parlare in poesia, come di un colloquio che si svolge in un territorio non più sacro ma ridotto allo stato laicale, come indica il titolo, tra due ludi, due festività del gioco, un parlare sommesso con una voce esile che si compie in un terreno sconsacrato. Quel parlare che tu hai continuato a coltivare come essenza della poesia: un dialogo, un colloquio, o meglio, un soliloquio in una stanza. È questo, credo, il timbro riconoscibile della tua poesia. Da quella data la tua poesia trae le conseguenze della propria imperturbabilità pur nel caos degli avvenimenti della cronaca e della storia. È una lettura corretta della tua poesia o ho preso un abbaglio?
Risposta: Hai letto come meglio non posso augurarmi. Dici del tono nudo e sommesso. L’ho già più sopra accennato. Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza. La poesia non è mai gridata e quando lo è suona di enfasi, di atteggiata. Vale anche per quella che definiamo epica. Gigalmesch, Ulisse, Macbeth, Faust ci chiamano dalla loro parte soprattutto quando trovano gli accenti della verità, e questa non può essere esclamata, ma solo accennata così come Eraclito dice della Sibilla, che accenna non dice. Non convince l’eccesso del tono, la manifestazione recitata del vigore. Ho sempre sentito, fin dall’infanzia, che le parole durevoli sono quelle pronunciate con voce ferma, pacata; perfino la bestemmia e l’insulto, detti sottovoce, fanno maggior male. Finanche il dolore si rivela profondo e immedicabile solo quanto svela e rivela con parole nude e chiare, anche solo mormorate. Come per la musica, quel che fa straordinaria una voce è, così come annotava Roland Barthes, la sua “ grana” fatta di testa e di ventre, di ragione e di sentimento, e tutto questo non può raggiungere la giusta espressione se non nella dovuta misura. La poesia, vado ripetendolo in diverse scuole, non è spontaneità e immediata emozione, non è facile cronaca, ma ricreazione di queste in un altrove che, al di fuori di quel che chiamiamo realtà, pure della realtà consiste e la significa. Da ciò la mia “ imperturbabilità”.
Domanda: Recentemente tu hai scritto: «Verso che stiamo andando? E sarebbe da rispondere: da che veniamo?», mettendo in un certo modo il punto sulla questione della nostra contemporaneità. Il mondo che è rimasto orfano delle «Grandi narrazioni» sembra condannato, scriveva Montale, alla «balbuzie» a quel «mezzo parlare» che il poeta ligure aveva intravisto già all’inizio degli anni Settanta. Oggi veramente non si chiede più nulla al poeta e alla poesia? Qual è la tua opinione in proposito?
Risposta: La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento, corpuscolo fragile e infinitesimo in un fluttuare di universi infiniti. Conclusi gli ardori romantici, traversate guerre spaventose e rovine tremende, l’uomo ha da accettare una nuova misura di sé, sapersi fragile e breve, e in tale misura bastarsi e riconoscersi. Ma questo lo antivedeva, già nel primo Ottocento, il Copernico leopardiano. Può questo uomo ancora dare e dire molto , proprio dopo una trasformazione travagliata e pure aperta a nuove crescite, in special modo della psiche. Hilman ha scritto che gli dèi camminano ancora fra noi e certo i sentimenti che li significano e gli umori che li contraddistinguono tuttora ci nutrono e ci spingono, Poeti come Brodskij e come Walcott non hanno dubitato e non dubitano della presenza della poesia. ( Scendendo nelle giornate di tutti va ricordato che, mai come in questi anni e in Italia, è cresciuto a dismisura il numero di coloro che scrivono versi e versicoli, oltre a prose più e meno sgangherate, svendendole per poesia. Se una tale proluvie di libri e libretti denuncia il poco e il niente che li produce, questa stessa proluvie dimostra quanto tuttora valga l’illusione e la speranza di affidarsi, in un universo di chiacchiere, a parole durevoli. E questo prova quanto sia viva e più che mai vincente, in tanto inutile rumore, l’idea di poesia.) Vale ricordare che la poesia è un raro uccello? A pochi è dato, per talento e per qualità di strumenti, accostarla e raggiungerla. Gli altri, i tanti, vanno piuttosto avvertiti, istruiti. La mia generazione imparava fin dalle elementari molte poesie a memoria, poesie degli autori maggiori, e questo bastava a portarsi dentro un patrimonio che stabiliva raffronti e misure. Forse il bisogno di consegnarsi agli altri con parole durevoli potrebbe essere al meglio soddisfatto ripetendo le parole assolte e risolte che la poesia, raro uccello, ci ha lasciato e ci lascia affidandocele. E’ una questione di ignoranza da combattere.
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Domanda: L’ultimo tuo libro di poesia ha un titolo significativo: Simmetrie (2007) pubblicato ne Lo Specchio Mondadori. Perché quel titolo? – Il libro, insieme al volume Poesie 1975-1995 (Empiria, 1997), ci consegna il percorso di una poesia di sapiente compostezza metrica, che rimanda alla linea che va da Sbarbaro e Saba, e arriva a Penna e Bertolucci attraverso il progenitore della poesia italiana del Novecento: Pascoli. C’è il tema del viaggio e del congedo, un viaggio che si dirama “lungo la strada del cuore” attraverso il “corpo”:
È una stanza il corpo
nido-cella-recinto.
Abito in cui bastarsi,
da non potersi assentare un istante.
Gabbia d’ossa e di arterie,
di dove assistere al mondo.
*
Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti dietro interno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?
Risposta: IL titolo “Simmetrie” riassume e significa quella mescolanza di opposti che per me muove l’intera esistenza e l’essere in sé. Ho trovato e trovo questa verità, ossimorica, in ogni istante della mia giornata. L’ho riconosciuta nella gioia-dolore che da Schopenhauer passa in Leopardi e che, nel Novecento Italiano, nutre e dà luce soprattutto in Saba e in Penna, a mio parere i poeti più dentro il nuovo millennio: la ”serena disperazione” dell’uno, la “strana gioia di vivere” dell’altro. M’è toccato nell’infanzia: erano gli anni della guerra, mio padre era lontano sulle navi della marina militare, tutto era faticoso e doloroso da accettare, ma c’erano le poesie e le canzoni, gli orti che inverdivano a marzo, le allegrie di mia madre dopo le oscure malinconie, le felicità improvvise, brevi, continuamente attese, instancabilmente cercate. Non ho mai smesso di vedere, di sentire, in tutto quanto mi tocca, in tutto quanto affronto o rifiuto, nel mio stesso corpo che è insieme un peso e un dono, negli sconcerti e sconforti degli eventi pubblici, in un tempo di cambiamenti e di rumori, la grazia di un affetto, la luce della bellezza, la voglia testarda di vivere e di continuare che in ognuno resiste e alberga. Ho scritto molti anni fa un verso che in diversi ricordano: «Io compio l’avventura di restare.» Ho scelto, molto tempo fa, prima dell’adolescenza, di stare nella vita fuori della menzogna, ma anche fuori della tristezza come rifugio e medicamento. So che l’esilità e la fragilità non mi corrispondono se in ogni istante mi adopero per vedere chiaro, per capire meglio. Questa è la sostanza che nutre le mie forme.
Domanda: Molta poesia che si pubblica oggi, anche di autori di rilievo, sembra indirizzata al Ceto Medio Mediatico colto, quel pubblico di “poeti” che poi deve dare il plauso alla nuova poesia. Si realizza così un corto circuito tra le generazioni, una pratica molto diffusa tra i giovani oggi al di sotto dei quaranta anni che scrivono tutti allo stesso modo scimmiottando i modi della poesia maggioritaria. Qual è la tua opinione in proposito?
Risposta: Ho fin dalle mie prime poesie saputo che scrivevo per il testimone attento e severo che mi porto dentro e subito dopo per gli altri, per tutti gli altri. Sono stato per mia natura, o limitatezza, estraneo a scuole e ideologie. Quanto alle scimmiottature e alle omologazioni, non ho dubbi: il poeta è fedele a se stesso, non può venire meno a questa fedeltà, pena il suo spegnimento. E in conclusione: niente più della poesia denuncia il suo autore, le sue qualità e le sue mancanze. Sono sufficienti poche frasi, a volte un solo verso, per scorgere il vuoto e la bugia.
Domanda: Vorrei finire l’intervista con la domanda che faccio sempre ai poeti intervistati: pensi che ci sarà posto per la poesia nel mondo del futuro?
Risposta: Mai come oggi l’uomo e il poeta hanno tante domande a cui rispondere, emozioni e sensazioni e umori da raccontare, rilevare, percepire. Chi annuncia la morte della poesia, a mio parere accerta solo la morte che si porta dentro e la cupa volontà di giustificarla come condizione comune. Lo ribadisco: la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato. La modernità ha reso più incerto e scontento l’umano, più esteso e oscuro il suo desiderio, più folte e complesse le sue domande. La poesia, questo lo credo fermamente e vado da anni ripetendolo, è “educazione ai (e dei) sentimenti”.
![]() Elio Pecora Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1936, da decenni vive a Roma.
In poesia ha pubblicato: – 2012 Dodici poesie d’amore (Napoli, Frullini Edizioni) POESIE DI ELIO PECORA
L’OCCHIO CORTO Eventi da poco. Notizie prossime, come cartoline di saluti, come telefonate fretto (DOPPIO MOVIMENTO) Un albero, per appoggiarvi la schiena. Elio Pecora, Simmetrie (Mondadori, Lo Specchio, 2007, pp. 115, € 12) |
Grazie Giorgio. E’ una bella l’intervista, ampie, misurate, chiare le risposte e mi piace molto il tono pacato, la quieta consapevolezza con cui Pecora parla. E’ una grande qualità in un mondo dove tutti strillano, dove tutti impongono le loro ragioni in modo scomposto, perché nemmeno loro ci credono o le capiscono.
Posso dire per una volta che condivido assolutamente ogni parola e, dal mio piccolo spazio, quello da cui cerco di guardare sempre verso l’alto e il lontano, mi ci riconosco. Il tema della finitezza, dell’esserne consapevoli, e in questa finitezza trovare l’infinito, che era di Leopardi infatti, Pecora lo restituisce in modo nuovo. Con incredibile limpidezza. Ecco, credo che questo faccia di Pecora un grande poeta contemporaneo.
Pecora è uno dei tanti esempi di come si vivacchia la poesia
Caro Poeta Pecora… stia attento al lupo. Le consiglio di ascoltare attenti al lupo del fu Lucio Dalla. Poi della Poesia si può vivere bene sino a quando si hanno le ispirazioni.
Caro Almerighi,
però io preferirei che invece che con battute tu cercassi di esprimere una valutazione un po’ più articolata, considerando il fatto che si tratta di un poeta che ha alle spalle quasi 50 anni di percorso poetico che non si possono liquidare con una frase ad effetto.
non mi esprimo mai con frasi ad effetto, quanto sopra è quel che penso e ogni altra parola è di troppo
Caro Giorgio, non sarei tanto contrario al parere di Almerighi. Se è vero che “la critica letteraria italiana attuale, per buona parte soffre gravemente di inerzia” , è altrettanto vero che poeti ultrasettantacinquenni, e con un carico poetico ragguardevole, non si sono mai adeguatamente aggiornati, (pur con le dovute eccezioni), al linguaggio postmoderno, rimanendo dei cavernicoli. Mario M. Gabriele
Finalmente un’intervista a Pecora in cui non si parla se non di sfuggita di Penna ma del suo pensiero, della sua poesia che vive di una propria dignità letteraria, di questo autore che scrive anche bellissimi versi ma che da troppi anni viene considerato una specie di mascotte penniana buono solo per aprire lo scrigno dei ricordi. Molto interessante.
Un saluto.
Conosco la poesia di questo autore affermato, riflessiva al punto giusto. Apprezzo il suo modo di trattare i temi in modo pacato, la sua scrittura calibrata che fa diventare quasi indispensabile ogni parte delle proposizioni. Confida in un sano realismo per interpretare gli eventi, per cogliere i significati dell’esistenza.
Anche dalle risposte date nell’intervista, molto interessante, si capisce che è persona saggia, cosa auspicabile e rara di questi tempi.
Come ciliegina sulla torta non posso non condividere l’idea, da me espressa altre volte, che Leopardi, la sua poesia e il suo pensiero, siano da considerare un costante punto di riferimento.
Ubaldo de Robertis
Le gioie piccole del poeta sono nell’immediatezza stessa del suo stile, nel modo di strutturare le poesie, che oggi leggiamo, in “un registro minimo” che poi è coerente con il tono pacato con il quale Elio Pecora risponde alle domande dell’intervistatore-critico letterario. I temi proposti nell’intervista,
ben riuscita, sono di capitale importanza. Ma a parte il timore del “tutto e subito” e dell’urlo come segno di paura e insicurezza, sul dialogo stabilito fra il poeta e il critico aleggia il disagio della consapevolezza del grigiore
della koinè massmediale che tutto sta contaminando. E da tempo.
Disagio tanto più insopportabile se, per la sua storia personale di frequentazioni e amicizie, Elio Pecora si affida ai ricordi di una Roma che seppe trucidare Pasolini, che inviò non più di 15 persone ai funerali a Piazza del Popolo di Elsa Morante e forse meno a quelli di Dario Bellezza,in una Santa Maria in Trastevere tartassata dalla pioggia…Manca l’amore per la poesia. E i poeti non sono considerati anche se, questo sostiene
Elio Pecora, la poesia avrà sempre un ruolo nel mondo perché l’uomo e il poeta, mai come oggi, hanno tante domande da porsi che vogliono una risposta. Un quieto, condivisibile segno di saggezza.
Gino Rago
Conosco l’autore per averlo letto nei miei studi giovanili, non mi ha mai convinto. Un minimalismo sensoriale fatto di piccole “beghette” quotidiane, di contrattempi riportati in un pensiero para-filosofico spicciolo, piatto, da settimanale d’informazione. Un mood meter che non arriva mai ai colori forti ed energetici, ma si attesta sul blu, sul boh.
Interessantissima intervista con vasti squarci di umanità. E molto mi e’ piaciuta la posizione di assoluta libertà di Elio Pecora, poeta che stimo. Un riflettuto scevro di dogmatismi. Complimenti anche all’intervistante per le belle domande
A me sembra che con il suo tono pacato e sommesso Elio Pecora abbia detto cose importanti e abbia fatto il punto sulla situazione della poesia italiana, ad esempio quando parla di «poetificanti» e quando mette sotto accusa la critica, colpevole di cecità:
«Non ho esitazioni nell’affermare che la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia, malattia che sta fra la pavidità e la cecità».
Un altro punto in cui Pecora dice cose importanti è questo:
«La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento», agli esegeti trarne le conseguenze.
E anche quando parla della tendenza all’«elegismo» propria di molti esponenti delle ultime generazioni, a me sembra che Pecora metta a fuoco il punto debole della poesia dei giovani, ai quali si chiede studio, lavoro e pazienza. E invece i giovani hanno fretta, vogliono arrivare alla visibilità, cercano delle scorciatoie.
E, a proposito dei toni forti, gridati::
«Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza. La poesia non è mai gridata e quando lo è suona di enfasi, di atteggiata (…) Ho sempre sentito, fin dall’infanzia, che le parole durevoli sono quelle pronunciate con voce ferma, pacata; perfino la bestemmia e l’insulto, detti sottovoce, fanno maggior male.».
E, infine, il forte impegno per la poesia e la fiducia nelle possibilità della poesia, è un insegnamento per i giovani e i meno giovani:
«la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato».
Ringrazio dunque Elio Pecora per la sua squisita disponibilità e comunico che l’attenzione della Rivista sarà orientata, nel prossimo futuro, alle interviste, o dialoghi aperti, perché riteniamo che sotto la veste dei dialoghi e dello scambio di opinioni si possano affrontare problemi complessi in modo più diretto, facendo parlare direttamente gli interlocutori.
Caro Giorgio,
Elio Pecora è un autore che non leggevo quasi più da alcuni anni.
L’ombra delle parole mi ha procurato un’ottima occasione per affrontarlo con maggiore attenzione. E devo dire che il più recente “Simmetrie” è, a mio parere, il suo migliore volume; cosa che non capita spesso nella vita dei poeti.
Puoi ben immaginare, conoscendo il mio lavoro, che sarò fortemente partigiano nel mio giudizio. D’altronde, c’è un motivo molto semplice. Pur tenendo conto delle dovute proporzioni, il mio discorso poetico è quasi parallelo al suo come, peraltro, è dimostrato dalle reazioni di alcuni interventi al suo post molto simili a quelle sul mio.
Evito, tuttavia, di esprimere giudizi categorici, apodittici e ingiustificati in considerazione della frammentarietà di quanto ho letto della sua vasta produzione. Perciò, anche per non trascendere e per farmi meglio intendere, riferisco soltanto le considerazioni che mi sono state indotte dalle poesie riportate nel blog, ben sapendo che si tratta di un mio personalissimo avviso.
Cominciamo con la prima di esse: “È una stanza il corpo”. Poesiola in apparenza semplice e di facile lettura che, al contrario, ci prospetta e affronta l’eterno problema, non da tutti percepito, dell’essere noi stessi, del nostro rapporto con il nostro io, dell’impossibilità di sfuggire a se stessi. Poesia senza cedimenti che trova, a mio avviso, la parola tenue ma risolutrice quando dà la prima delle tre definizioni della nostra essenza fisica: “nido” molto più che “cella” e “recinto”. È una parola forte perché utile a riconciliarci con noi stessi e nel contempo portatrice di un senso di rinascita (quotidiana) e di sicurezza.
Il più lungo poemetto (DOPPIO MOVIMENTO) è una lettura filosofica del nostro vivere; anzi, dell’incapacità di molti di saper vivere o di vivere bene. La connessione con “Non vita” di Sbarbaro è evidente (ma anche con altri della grande poesia mondiale). Eppure vi è una differenza. Pecora ci offre un suo personale contributo: una nota lieve, una minore angoscia. Si tratta di qualcosa di nuovo (per quello che ci può essere di nuovo nel grande oceano del pensiero umano).
Egli, infatti, è uomo-poeta del secondo ‘900 che si proietta interamente nel XXI secolo, perché ha assimilato e risolto la disperazione distruttiva dell’individuo che è venuta in essere e si è manifesta con clamore dalla fine dell’800 fino alla metà o poco oltre del secolo scorso (e che continua a essere ripetuta dagli esangui epigoni del “distruttivismo”). Egli risponde con una propria filosofia di vita senza drammatiche cadute nello stoicismo. La sua risposta sta nelle sue domande: “Chi ha deciso questa inquietudine?”, “Quando è cominciato tutto questo?”. Il porsele significa voler affrontare le ragioni per le quali siamo noi stessi la causa di tanti nostri mali e del nostro disamore per la vita. Dare loro risposta costituisce, dunque, l’unico possibile passo in avanti che ci potrebbe aprire al futuro o, quantomeno, a questo avvio di XXI secolo.
È una visione valida che è in parte diversa dal mio tentativo di trovare nell’uomo la forza di battersi contro il vuoto e la disperazione che si può leggere nel mio componimento “L’inafferrabile essenza del presente” postato su questo blog il 27 gennaio.
È così che Pecora, con un indiretto richiamo al progetto che fu rivoluzionario dei crepuscolari, riporta alla luce parole come “felicità”, “allegrezza” che oggi sono aborrite dalle super-affollatissime schiere di poeti patiti del linguaggio postmoderno, visto che, le rare volte in cui questo esprime un qualche cosa di sensato, si sostanzia al più in un “urlo come segno di paura e insicurezza” (rubo le parole a Gino Rago a mio uso e consumo).
“Felicità, si badi bene, unita a “disperazione”, ma giustificata appieno quando la ragione arriva a riconoscere la valenza del vivere seppure breve. Oppure, la sorella minore “allegrezza”, sebbene parentesi tra dolore e dolore.
Pur condividendo l’affermazione di molti, secondo cui il tono o la voce di Pecora sono pacate, tengo a dire che i suoi discorsi sono essenziali, concreti, robusti e realistici. Essi hanno la dote fondamentale della migliore poesia: quella di svolgere la missione di indicare i valori sui quali si deve reggere la vita dell’uomo, senza atteggiamenti saccenti e anzi pacati, sottovoce, come hai ben evidenziato.
Ne va dimenticato il gioco di stile del suo linguaggio che ancora di più lo mostra uomo dei nostri giorni, senza cedimenti verso l’insignificante e il noioso.
Per me, dunque, è facile immaginarlo, come ha detto Mauro Ferrari, come un grande isolato. Chi vorrebbe che egli si lasciasse confondere e portare via dal tumultuoso e torbido fiume del linguaggio postmoderno che non conduce a nulla, rimarrà di sicuro inascoltato.
Occorre, però, avere voglia di leggerlo attentamente.
Massimiliano Achille
Verso la fine del 2011, così scrivevo a un amico, letterato e critico di grandissimo spessore: “ Al premio di Sant’Elia Fiumerapido, dove sono stato terzo, ha vinto Elio Pecora con il suo dettato poetico pensato e a volte profondo, ma troppo vicino alla prosa e con rare accensioni. È autore importante, lo so, ma mi tiene sospeso nel giudizio per una sorta di persistente minimalismo e per la sensazione di un volo forse volutamente basso. Tu cosa ne pensi?” La risposta: “ Ti confesso che la poesia di Pecora non mi ha mai entusiasmato, ma i versi più recenti mi convincono ancora meno. È tuttavia un autore lodato e premiato …”
Insomma cercavo conferme a una mia impressione, che giunsero -come si vede- in forma quasi telegrafica.
Son passati più di quattro anni e la mia opinione su Pecora-poeta non è in sostanza cambiata. La sua è una poesia contenuta nel dire, quasi avara e ristretta in sé, sussurrata (se non mormorata, nel qual caso sarebbe parente stretta di certi “ borbottii e bofonchii “ -sic!- criticati nell’intervista) con un pizzico di sussiego, tutta volta al piccolo e al quotidiano, parca (per scelta) di slanci e di visioni. Una poesia di notazione e di riflessione, attenta al testo e al contesto, di non ampio respiro, con qua e là qualche intuizione lirica realizzata con maestria che ti convince a continuare la lettura nella speranza di momenti migliori. Che non arrivano quasi mai, perché la scelta stilistica bassa nella tonalità e la scelta contenutistica di (più o meno ) quieta quotidianità (e talvolta, almeno apparente, ovvietà) e di inquieto pensiero lasciano in chi legge la spiacevole percezione di qualcosa di incompiuto, di mancante, di non dato e di non detto; l’impressione di essere, insomma, di fronte a una poesia monca che, pur non disprezzabile, non prende il volo ma, al più, lo accenna. E vorrei ricordare al colto e all’inclita che un testo -sia pure in versi- che non s’alza in volo (poetico) e non si definisce per scarti connotativi è semplicemente prosa. Pecora, a mio avviso, è con un piede di qua e uno di là.
Quanto all’intervista, mi è parsa pregna di spunti di grande interesse e, spesso, saggezza e acutezza, sia nelle domande che nelle risposte (le quali ultime non sempre condivido appieno).
Una buona pagina, infine. Complimenti a Giorgio.
Pasquale Balestriere
Elio Pecora è certamente un “maestro”:per continuità,per coerenza,per conoscenza profonda.Manca, forse (è una opinione personale, che nulla toglie alla stima che a Pecora viene giustamente tributata), l’accensione improvvisa, il fuoco che brucia,sconvolge, rinnova.