MARCO ONOFRIO – “Giorgio Caproni e Roma”, Roma, Edilazio, dicembre 2015, pagg. 160, € 13, Presentazione di Renato Minore, con stralci dalla parte iniziale del volume

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Roma foto di Giorgio Chiantini

Roma, foto di Giorgio Chiantini

Dopo Ungaretti e Roma (Edilazio, 2008), Marco Onofrio ci consegna quest’altra monografia su un altro grande poeta trapiantato a Roma, Giorgio Caproni. Pubblichiamo alcuni stralci della parte iniziale del volume.

 

Come sarebbe stato il percorso di Giorgio Caproni – uno dei maggiori poeti italiani del ʼ900 – se non fosse venuto a Roma? Quali conseguenze sono derivate da quella scelta? Che cosa sarebbe stata, senza Roma, la poesia di Caproni? «A Roma giunsi quando ormai ero uomo fatto. Trovo dunque naturale che Roma abbia lasciato minori tracce nella mia poesia». L’evidenza farebbe credere che è Genova la città-motore della poesia di Caproni; e invece è Roma, anche se in un modo più nascosto e sottile: la città che più di qualsiasi altra lo rende “spatriato”, e dunque poeta. Roma è importante per Caproni: non solo e non tanto per le opportunità culturali che sa offrirgli, quanto e soprattutto perché si rivela congeniale al suo bisogno di essere poeta, o meglio: di diventare il poeta che è, propiziando il sorgere del “canto”. Roma induce e rappresenta lo spaesamento che, nel distacco dalle origini, gli fa toccare il vuoto creativo: ovvero la dimensione dove, da un lato, catturare e precisare meglio le proprie voci, rivisitando i luoghi e i fatti del tempo attraversato; dall’altro, trafiggere l’angoscia e la desolazione di cui è preda la coscienza dell’uomo contemporaneo. Roma è perfetta per coincidere con la posizione malinconica dell’esule che ricorda, rimpiange, sospira: una posizione favorevole quant’altre mai alla coltura e alla potente ramificazione del germe poetico […] Il volume analizza, con esaustiva ricchezza documentale, l’esperienza biografica di Caproni a Roma, le sue immagini della città, le sue idee di Roma; quindi la presenza censibile di Roma nella sua Opera, le tracce non marginali che vi ha lasciato, ma soprattutto il ruolo che Roma ha svolto nel forgiare la maturità dello sguardo di Caproni e nel determinare le condizioni umane, psicologiche e culturali da cui è scaturita la sua poesia […] 

…dalla Presentazione di Renato Minore:

«… Marco Onofrio scrive parole assai pertinenti nel suo racconto critico che è anche un prezioso avvio alla lettura caproniana, grazie alla misura del poeta che anch’egli è, alla precisione per nulla “tecnica” o critico-gergale con cui egli conduce le sue analisi».

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Giorgio Caproni visto da Franco Zampetti

Stralci dal libro

Da ragazzo studiavo armonia musicale, tentavo di comporre dei corali a quattro voci. Normalmente al tenore si affidano dei versi, che io attingevo dai classici più musicali e piani, come Poliziano, Tasso o Rinuccini, finché un giorno mi accorsi che il mio maestro – questi versi – non li leggeva nemmeno. Da allora mi feci vincere dalla pigrizia e cominciai a scriverne di miei. È così che ho iniziato; poi il musicista è caduto ed è rimasto il paroliere, ma non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento. Andavo sul ponte dell’Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei versi sono nati in simbiosi con il vento. (Giorgio Caproni)

La vocazione poetica sorge in [Giorgio Caproni] dal colloquio ideale con il vento di Genova; più concretamente dalla pratica musicale che la nutre, per vie endogene, accompagnandola verso il dominio di alcune strutture compositive e metro-ritmiche fondamentali. Come un fiume carsico sotterraneo, la “musica della parola” emerge alla luce non appena si interrompe il flusso della musica strumentale vera e propria. A diciott’anni Caproni capisce di non essere tagliato per la professione del musicista; e così, dopo anni di studio e di esercizio, malgrado i buoni risultati ottenuti, si decide a spezzare il violino. È un gesto rituale che, sacrificando una vocazione per un’altra, apre alla necessaria e inevitabile rivelazione della poesia, già da qualche tempo – peraltro – in corso di sommovimento interiore. Caproni deve rinunciare alla musica per abbracciare la poesia: all’inizio, infatti, i versi sono il «surrogato della musica tradita». Ma poi la musica a sua volta riemerge attraverso le parole, dove l’apparente levità da “canzonetta” (giocata con il ruolo scoperto e talvolta cantilenante delle rime e delle assonanze, anche quelle interne o sotto la cresta del verso) lascia per converso trapelare una pastosa complessità armonica, per niente “facile”, che affascina con la sua oscurità essenziale, densa, misteriosa, perturbante. Si crea così un singolare contrasto dialettico fra esterno e interno, parola e musica, ragione e paradosso: la conoscenza – in equilibrio dinamico tra gli opposti che la sorreggono – viene proiettata ogni volta un passo oltre i propri limiti. E la musica è la corda elastica che, nell’arco della sua poesia, spinge la freccia di questa conoscenza. Infatti i libri di Caproni vogliono essere intesi in chiave musicale, come «libretti d’opera che hanno in sé la propria musica», secondo l’illuminante definizione di Pietro Citati. Afferma lo stesso Caproni:

(…) io concepisco un libro, forse presuntuosamente, un po’ come si può concepire una sonata, una sinfonia, cioè in vari tempi: l’Allegro, l’Adagio, magari il Grave, il molto Grave, l’Allegretto, magari anche lo Scherzo, anche la Freddura, non ho paura.
giorgio caproni

Giorgio Caproni

Ed è forse la mai sopita vena musicale a fargli sentire l’insufficienza della parola, come bordo del muro della terra (vale a dire la ragione umana, da cui non ci è possibile uscire mai del tutto), e dunque l’esigenza di fare della poesia un linguaggio diatonico, di «scrivere sul pentagramma» e «andare oltre la parola».

L’apprendistato avviene sui poeti delle origini, i siciliani, i toscani e soprattutto Guido Cavalcanti, da cui assorbe i succhi di una lingua aspra, dura, spigolosa, «non addomesticata a ritmi cantabili». Le prime composizioni caproniane sono «vagamente surrealiste», e riflettono il gusto delle sue letture giovanili (soprattutto sulle pagine dell’«Italia letteraria»). Caproni “risillaba” questi esperimenti sull’Allegria di Ungaretti (dove impara l’economia della parola, ritrovando il «sapore perduto della grande – semplice – poesia per parola, silenzio per silenzio» e abbracciando, quindi, la consapevolezza di dover espungere senza pietà le “chiacchiere” inessenziali) e sul Carducci, in particolare quello “macchiaiolo”, cioè sul poeta che gli era fra tutti più «antipatico». Di evidente plasticità carducciana è, ad esempio, la poesia che apre la prima raccolta di Caproni, Come un’allegoria:

Marzo

Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.
Il fiato del fieno bagnato
è più acre – ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.

Intanto Genova gli svela la luce dei suoi poeti, genovesi o comunque afferenti l’area ligure. Compra su una bancarella gli Ossi di seppia di Montale e ne resta folgorato, soprattutto per il «potere della grande musica, che non suggerisce né espone idee, ma le suscita in una con l’emozione profonda». Legge i poeti della «Riviera ligure» di Oneglia, la rivista dell’Olio Sasso, finanziata da Mario e Angelo Silvio Novaro: Boine, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, lo stesso Mario Novaro, e soprattutto Sbarbaro, che conoscerà di persona a Spotorno nell’agosto del ’59. Con questi poeti Caproni percepisce di avere un’affinità di sentire: per raggrupparli conierà nel ’54 la fortunata definizione di “linea ligustica”, basandola anche su certe caratteristiche di asprezza linguistica che sembrano tra loro condividere e che, d’altra parte, aiutano a capirne la temperie.

Roma ora di pranzo di Angela Greco

Roma ora di pranzo, foto di Angela Greco

Caproni, tuttavia, non diverrebbe un poeta importante – malgrado gli studi e gli esercizi – se non lo fosse ingenito, già a livello di sguardo, di approccio, di attitudine; se dunque la poesia non fosse, al di là degli eccessi adolescenziali, il suo modo naturale di rapportarsi alle cose, la finestra da cui affacciarsi, il diaframma da cui vedere il mondo. Un ricordo autobiografico del ’75 traguarda l’indole contemplativa e la sensibilità tipiche del poeta natus:  

Ero un ragazzaccio, sempre in mezzo alle sassaiole, quando non me ne restavo incantato o imbambolato. Non ero molto allegro: tutto “mi metteva veleno” in partenza: mi noleggiavo per un’ora la barca o la bicicletta, e già vedevo quell’ora finita. Ne soffrivo in anticipo la fine.         

Genova gli regala anche l’amore. È inevitabile: quando una città irrompe nella vita di una persona, porta con sé, quasi sempre, il destino di un incontro (che non accadrebbe, senza quella città). Vale ovviamente anche il contrario: l’irruzione di una persona nella vita di qualcuno, porta con sé il destino di un luogo (dove non si andrebbe, senza quella persona). Il luogo per eccellenza della vita di Caproni determina il fatto di incontrare la genovese Olga Franzoni, con cui si fidanza. Caproni ha nel frattempo espletato il servizio di leva, a Sanremo. Si mantiene impartendo lezioni private di latino e di solfeggio. Poi qualcuno lo convince a tentare la strada dell’insegnamento, e allora Caproni  consegue – sostenendo gli esami da privatista – il diploma magistrale. E si ritrova a fare “per caso” il maestro elementare: insegnare gli dà anche gusto, e soprattutto da vivere, ma non è tra le sue vocazioni principali. Lo chiamano a Loco di Rovegno, in Val Trebbia: «ecco la Val Trebbia come la conobbi». Olga lo raggiunge con la madre. È il 1936, Olga e Giorgio stanno per sposarsi. Ai primi di marzo Olga muore per setticemia. Caproni è devastato dal dolore. Scriverà a Carlo Betocchi, un anno dopo: «Ah se potessi dire un giorno il mio amoroso sgomento, il mio lucente panico, il terrore calmo e meditato dello spazio e del vuoto».

L’anno scolastico 1936-37 lo vede insegnante ad Arenzano, in provincia di Genova. Poi dà tre concorsi per la scuola elementare – a Pavia, Torino, Roma. La Val Trebbia gli ha tolto Olga e – in una sorta di “cambio” idealmente impossibile – gli regala Rina: a Loco di Rovegno Giorgio conosce Rosa (Rina) Rettagliata, una bella ragazza dagli occhi «siderei», con cui si fidanza e che sposa nell’agosto del ’38. Di lì a poco viene assegnato a Casorate Primo, in provincia di Pavia, dove però resta pochissimo perché viene raggiunto dalla chiamata a Roma, che – essendo di “prima categoria” – significa uno stipendio più alto.

Dopo quindici giorni che ero là, che avevo già preso casa, una palazzina, provviste di legna… questo Casorate Primo è tra Milano e Pavia… mi arriva un telegramma: o rinunci a Roma o accetti Roma, e venni a Roma. 

Roma foto di Angela Grieco

Roma, ora di pranzo, foto di Angela Grieco

E venni a Roma. Lo dice come uno che ha preso una decisione dopo averla estratta a sorte: quasi nell’onda di un soggiacere alla forza della vita, di un ritrovarsi dominato dagli eventi, dalle situazioni, dalle casualità. Attenzione, però: Caproni sceglie Roma. Sceglie di andarci a vivere, e soprattutto di restarci. Come scrive nel suo diario del 1948:
A Roma dov’io ho fatto il possibile e l’impossibile per rimanere!

È una scelta apparentemente dettata da un’opportunità di miglioramento economico, non dai motivi per cui – malgrado i disagi iniziali e i crescenti mugugni di insofferenza – Roma finirà per rivelarsi decisiva, nella sua maturazione umana e poetica. In realtà non c’è solo l’aspetto prosaico a cui si abbranca Caproni, nel ricordo, con una ostinazione che sembra voler nascondere altre implicazioni: «la decisione di trasferirsi a Roma probabilmente era stata dettata non solo da motivi economici, che avevano un peso rilevante sulle condizioni finanziarie di un maestro con familiari a carico: la capitale offriva prospettive culturali affascinanti per un giovane intellettuale (…)».

Voglio “azzardare” questa ipotesi: non credo che Caproni avrebbe lasciato Casorate se lo stipendio più alto fosse venuto da un’altra città (forse neppure Genova). I motivi?

Primo, perché Roma è Roma (più che un luogo comune, una realtà storica e culturale dal fascino ineguagliabile): andare a vivere nella capitale d’Italia è un’occasione che non lascia mai indifferenti.

Secondo, perché scegliendo Roma Caproni, anche se non vuole ammetterlo, obbedisce alle istanze della sua vera vocazione, che – ricordiamolo – non è l’insegnamento ma l’«estremo rifugio» della poesia: sa, non può non sapere, che andare a Roma sarà infinitamente più vantaggioso, per la sua strada di scrittore, che non restare a Casorate. Meglio essere ultimi e sconosciuti in una Roma da conquistare, o primi ma isolati in una provincia da dimenticare? Roma saprà agevolare opportunità imperdibili, di contatto, colloquio, visibilità: solo allora «si parrà» davvero il suo valore, di poeta e di uomo. Confrontarsi con Roma è anche un modo per mettersi alla prova massima, per non avere più “scuse” di limiti impedienti, per prendere davvero in mano le redini della propria vita.

  Terzo, perché – come i molti testi che traduce – si sente attratto più dalla diversità che dalla consonanza (ad esempio «l’autentica molla» che lo spinge a tradurre Frénaud per Einaudi, nel 1967, sarà «il pronto riconoscimento, in lui, di quella diversità che ho sempre cercato a mio profitto»). Avverte dunque che Roma è molto diversa da lui, e proprio per questo la sceglie.  

roma 1

Roma ora di pranzo, foto di Angela Greco

Ed è una scelta da cui deriva che per la prima volta, dopo la nascita livornese, il luogo e il fatto coincidono pienamente. Roma è un luogo (anzi un mondo di luoghi) che porterà a Caproni i fatti più importanti della sua vita: a Roma trascorre la maggior parte dei suoi giorni, dal 1938 al 1990; a Roma scrive la maggior parte delle sue pagine in poesia e in prosa; a Roma stringe le amicizie più forti, entrando in contatto con esponenti di spicco dell’ambiente culturale e letterario; a Roma intreccia le collaborazioni professionali che lo impongono come una tra le figure eminenti della cultura italiana del ‘900; a Roma, infine, raccoglie i consensi e i risultati “ufficiali” del suo impegno.      

Orbene, è lecito chiedersi: come sarebbe stato il percorso di Caproni se, invece di accettare la chiamata di Roma, fosse rimasto ad insegnare tra le nebbie e le brume di Casorate, o nella quiete boschiva di Rovegno? Quali conseguenze sono venute da quella scelta? Quanto gravido di futuro e di creative fecondità doveva rivelarsi quell’assenso? Che cosa sarebbe stata, senza Roma, la poesia di Caproni? Quali impreveduti sviluppi alternativi poteva imboccare? Quali tematiche? Avrebbe scritto le stesse opere, le stesse singole composizioni?

roma Tiberio La città prende il nome dall'imperatore Tiberio, quando nell'anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

Tiberio Tiberiade, La città prende il nome dall’imperatore Tiberio, quando nell’anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

La risposta a queste domande è facilmente intuibile.

   Giovanni Raboni ha sottolineato l’importanza, nella poesia di Caproni, del tema della città. Caproni stesso avvalora l’ipotesi con molte dichiarazioni rilasciate nel corso di interviste e conversazioni. Ma anche, ad esempio, curando per la radio, nel 1962, una trasmissione in sei puntate dal titolo “Viaggio poetico in Italia”, dedicata al rapporto dei poeti con le città.

   La città di Caproni è e resterà sempre la sua «Genova di tutta una vita». Genova che, dopo il 1937, diventa una città-mito, indimenticabile, da amare in esilio.

   Un esilio che, appunto, si chiama Roma.

[…] Caproni è tendenzialmente introverso ma capace di rendersi arguto, di “reggere il sacco” alla buona compagnia. Stringerà amicizia, fra gli altri, con Carlo Cassola, Attilio Bertolucci, Vasco Pratolini, Giuseppe Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Debenedetti.

   Nel 1945 si iscrive al partito socialista e  avvia la collaborazione con riviste e quotidiani della sinistra, tra cui «Il Politecnico» (dove nel 1946 pubblica due articoli di denuncia sociale: “Le ‘borgate’ confino di Roma” e “Viaggio tra gli esiliati di Roma”), «Avanti!», «La settimana», «L’Unità» (edizione genovese), «Italia socialista», «La Tribuna del Popolo», «La Voce adriatica», ai quali successivamente, nel corso degli anni, si aggiungono «Il Lavoro nuovo», «La Gazzetta di Livorno», «Mondo operaio» (in qualità di curatore della pagina letteraria), «Vie Nuove», «La Fiera letteraria», «Letteratura», «Il Belli», «Galleria», «Il Raccoglitore», «La Chimera», «Il Caffè», «Tempo presente», «Palatina», «Il Punto», etc.
la grande bellezza Anita Ekberg fotografata

Anita Ekberg La Grande Bellezza della Poesia anni Sessanta

Caproni si sta facendo un “nome” nelle patrie lettere: lo si cerca, lo si coinvolge, lo si prende sul serio. Il primo scatto di prestigio, su un piano di “ufficialità” letteraria, è la pubblicazione di Cronistoria con Vallecchi. Seguirà un “crescendo” progressivo e inesorabile, segnato da alcune tappe fondamentali, qui anticipabili: nel 1952 contribuisce assai a smuovere le acque, traendo Caproni dal brusio dei consensi “sottotraccia”, un articolo di Pasolini uscito su «Paragone», poi raccolto in Passione e ideologia;  nel 1954 viene cooptato dalla RAI nella Commissione preposta a giudicare i testi delle canzoni da presentare al Festival di Sanremo (giunto allora alla sua terza edizione); nel 1959, caldeggiato da Bertolucci, Il seme del piangere esce con Garzanti anziché con Mondadori, che pure lo voleva; nel 1962 Caproni succede a Giuseppe De Robertis come critico letterario de «La Nazione»; nel 1969 diventa consulente editoriale per la Rizzoli; nel 1970 viene nominato Commendatore al merito della Repubblica; nel 1989 succede a Leonardo Sciascia nella direzione di «Nuovi Argomenti». Senza contare i premi – tra cui il “Viareggio” (due volte: nel 1952 con Le stanze della funicolare, e nel 1959 con Il seme del piangere), il “Lerici”, il “Selezione Marzotto” (con Il passaggio di Enea), il “Chianciano” (con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee), il “Gabicce Mare”, e soprattutto, nel 1982, il prestigioso “Antonio Feltrinelli” dell’Accademia dei Lincei –, nonché le traduzioni delle sue opere in lingua straniera. Tutto questo alla fine degli anni ’40 è ancora di là da venire, ma già se ne avvertono gli indizi, i sentori, i presentimenti. Eppure Caproni non si monta la testa, né ora né dopo, sempre ancorato com’è alla sua naturale modestia e a un carattere gentile ma chiuso, riservato, pieno di pudore. Al successo reagirà sempre con il contrappeso dell’ironia, con l’attesa del complementare insuccesso (sempre in agguato), con il buonsenso (toscano e ligure) dei “piedi a terra”. Una riprova immediata è offerta dai 38 anni di insegnamento elementare: Caproni diventa un poeta famoso, ma non per questo pensa di lasciare la scuola, come “indegna” della posizione raggiunta, prima dell’età pensionabile. E a scuola non ama parlare della sua attività letteraria, né tanto meno approfittare in qualsiasi modo dei meriti acquisiti in campo poetico. Quando nel 1959 i suoi alunni lo vedono in Tv, intervistato in occasione del premio “Viareggio”, e l’indomani a scuola manifestano il loro ammirato entusiasmo, Caproni si schermisce dicendo loro: “Sono il vostro maestro, e voletemi bene come tale”.     

[…] Ricorda Debenedetti:

A trentacinque anni Giorgio Caproni, che era stato violinista e partigiano prima di approdare all’insegnamento nella scuola elementare, aveva ancora l’odore della Liguria e l’aria di chi prende il tram al mattino presto. Era magrissimo e tornò a essere magro a quel modo solo negli ultimi anni della vita.
  Appena arrivato a Roma col suo passato di sogni e di asprezze, Giorgio rideva, scriveva, cercava un po’ di soldi, voleva bene alle persone e aspettava con allegria impaziente. Aspettava, proprio come fosse sicuro di avere in tasca il biglietto vincente di una lotteria miliardaria, l’assegnazione d’un alloggio dell’INCIS, l’istituto per le case degli impiegati dello Stato.
  Sopportava ritardi, difficoltà burocratiche senza lamentarsi. Quando ci si sarebbe aspettati di sentirlo lagnarsi e protestare, scoppiava invece in una risata fredda, insistita, un po’ teatrale, che rammentava due realtà: il suo pudore che aveva molto a che fare con la sua poesia e forse, visto il suono che sembrava venire dalle viscere, i furiosi bruciori di stomaco cui andava soggetto già da tempo.

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roma La grande bellezza 2

Roma, fotogramma di La grande bellezza

Per inquadrare il Caproni romano dell’immediato dopoguerra risulta preziosa la lettura dei suoi “frammenti di diario” (1948-49). Sono lampi di minuta quotidianità, dove vengono registrati, giorno dopo giorno, i fremiti pulviscolari dell’esistenza: ore, atmosfere, luci, metereologie, spostamenti, incontri, stati d’animo, pensieri, cose fatte e cose da fare, nel percorso di una “navigazione” incerta e inquieta, che trova nella scrittura uno strumento fidato di ricomposizione e sublimazione dell’esperienza, a fronte dei dispiaceri che, d’altra parte, non smettono mai di amareggiarlo. Prendiamo contatto, ad esempio, col suo vinaio di fiducia, il «sor Nino»; e con la lattaia a cui Caproni (24 agosto 1948) chiede dov’è via Bissolati; e col «bar nuovo sul piazzale della stazione» (Roma Trastevere); e con lo «spaccio della Croce Rossa, che sa di spaccio militare», dove si reca insieme al collega Francesco Pierattini per il caffè. Troviamo la lista delle cibarie che Caproni compra per i pasti – sempre frugali e un po’ desolati, da uomo che vive solo –, ad esempio caffè, ricotta, burro, parmigiano, zucchero. Si nominano le chiese dove va a messa la domenica, San Pietro in Montorio, San Crisogono, Santa Maria in Trastevere. Emergono “epifanie” curiose e livide come questa (29 ottobre 1948):

Uscendo piove a dirotto e m’inzuppo tutto facendo a piedi fino a S. Giovanni. A S. Giovanni, sotto la tettoia della fermata, una donna passeggia e mi dice: «com’è bagnato!» Ha l’aria trentacinquenne tra la prostituta e la donna di casa un po’ povera ma pretenziosa, un po’ grigia e anonima. 

O come questa (30 ottobre 1948):

A S. Maria Maggiore aspetto l’autobus nel buio ossessionato dai pupazzi di gomma che a stringerli fanno il suono della civetta e un uomo vende.

Decisamente più sereno un “quadro” che gli si offre in musica, di cui trascrive le note a pentagramma (23 agosto 1948):

La sera esco e in Piazza S. Cosimato mi piace molto una canzone cantata con l’orchestrina da voci freschissime di ragazzi mentre il lastricato è lavato di fresco.

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In-nome-del-popolo-italiano con Vittorio Gasman

C’è poi il viaggio in Polonia, a Wroclaw (Breslavia), dove dal 25 al 28 agosto 1948 si svolge il primo Congresso internazionale degli intellettuali per la pace. Caproni vi partecipa fra mille tentennamenti, poiché teme che «si tratti d’una cosa di pretta organizzazione comunista». La partenza ha luogo all’aeroporto di Centocelle, con tre Dakota cecoslovacchi su cui si imbarca la delegazione italiana, formata da scrittori e intellettuali tra cui Vittorini, Repaci, Quasimodo, Solmi, Gorresio, Barbaro, Petronio, la Ginzburg e Sibilla Aleramo. Il decollo avviene alle ore 10.55 del 24 agosto 1948: per Caproni è il battesimo del volo. Il viaggio sarà ricordato, più che per le verbosità del Congresso, soprattutto per la visita al lager di Auschwitz, che lascia in tutti una profonda impressione. Caproni ne ricava un bellissimo articolo di resoconto.   

 Il 1948 di Caproni si ricorda anche per le sue perlustrazioni esplorative della zona di San Pancrazio, dove sorgono le costruzioni dell’INCIS: «spinto da chissà quale forza», ogni tanto si reca da quelle parti per vedere da fuori i casamenti, pregustando la civile abitazione che un giorno non lontano sarà sua. Quel giorno, difatti, arriva presto: in autunno gli viene finalmente assegnata una casa in Viale Quattro Venti, n. 31, a Monteverde Vecchio. Sono palazzi disagevoli, tirati su con la fretta della ricostruzione, senza ascensori né riscaldamenti; ma Caproni è felice perché può finalmente raggiungerlo la famiglia. 

Marco Onofrio. Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 10 volumi, tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove” (2013). Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). Inoltre, ha pubblicato monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

12 commenti

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12 risposte a “MARCO ONOFRIO – “Giorgio Caproni e Roma”, Roma, Edilazio, dicembre 2015, pagg. 160, € 13, Presentazione di Renato Minore, con stralci dalla parte iniziale del volume

  1. ubaldoderobertis

    Vivere a Roma per un uomo schivo come Caproni è stato un fatto di grande importanza per i motivi esposti da Renato Minore e più ancora da Marco Onofrio.
    Delle opportunità che la Capitale seppe offrire al poeta livornese me ne parlava il compianto Vincenzo Cerami. Mi raccontò dei ricorrenti colloqui che aveva con lui e quanto Giorgio Caproni tenesse ad incontrarsi giornalmente con i vari Pasolini Bertolucci Gadda Debendetti, un concentrato di cervelli, di idee.
    Mi fa piacere ciò che Onofrio scrive a proposito dell’influenza del Carducci sulla formazione poetica di Giorgio Caproni. Oggi sembrerebbe una cosa scontata, ma nel ’59 fu lo stesso Caproni a scrivere a Giuseppe De Robertis: “mi ha fatto molto piacere il tuo riferimento a Carducci, tu solo te ne sei accorto!”
    Come a dire chi fa la critica la deve saper fare bene,
    Ubaldo de Robertis

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  2. gabriele fratini

    Ho letto due volte, a distanza di dieci anni, l’intera opera poetica di Caproni e non vi ho scorto traccia del suo passaggio nella capitale. Forse sono distratto. Un saluto.

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  3. marconofrio1971

    Sono oltre 30 i testi poetici di Caproni con riferimenti diretti a Roma, che emerge dall’esperienza biografica soprattutto in “Cronistoria”. A queste poesie si aggiungano 6 racconti di ambientazione romana e numerosi articoli di studio artistico, storico, sociale. Al di là della presenza censibile dell’Urbe nell’opera caproniana, il mio saggio cerca di definire l’importanza che l’Idea (le idee) di Roma assume rispetto alla sua evoluzione poetica. Riporto a tal proposito un brano tratto dall’ultimo capitolo del libro:

    “L’evidenza farebbe credere che è Genova la città-motore della poesia di Caproni; io credo invece che sia Roma, e in un modo più nascosto, sottile, consustanziale: la città che più di qualsiasi altra lo rende “spatriato”, e dunque poeta. D’altra parte Genova può assurgere al canto poiché Caproni la “perde” e la sospira da lontano, cioè da Roma. Così come la poesia può sgorgare dal suo «fil di voce» poiché Caproni la pratica di straforo, nei rari intervalli degli impegni con cui guadagna la “pagnotta”, quasi a dispetto di una vita e di una città (Roma) che lo spingono altrove.
    Roma serve anche ‘in absentia’: a stimolare il rimpianto e il mito nostalgico delle due città distanti e perdute, Livorno e Genova. È il seme da cui origina la creazione poetica di queste due città. È il contraltare necessario. Troppo vicina per cantarla “intera” (emerge semmai come frammento, rudere di un tutto frantumato), è domicilio definitivo e luogo della trita necessità professionale, mai rimpianta. Ma lo mette nella condizione – altrettanto poetica – dell’esule.
    Lo abbiamo già constatato: ad esempio

    E io sono assente,
    assente in questa terribile e lunga
    Roma disfatta e lontana dal cuore
    (…)
    dove più trasparente d’una vela
    la mia vita negata sospiro,
    io in esilio per lucro e per miseria (…).

    E ancora:

    Nell’ossa ho un’altra città
    che mi strugge. È là.
    L’ho perduta.
    (…) Città
    cui nulla, nemmeno la morte
    – mai, – mi ricondurrà.

    È per questo che Roma è importante per Caproni: non solo e non tanto per le opportunità che deve necessariamente offrirgli, quanto e soprattutto perché si rivela congeniale al suo bisogno di essere poeta, o meglio: di diventare il poeta che è, propiziando il sorgere del “canto”. Roma – nella misura in cui risulta una «scarpa troppo grossa» per il suo piede – induce e rappresenta lo spaesamento che, nel distacco dalle origini, gli fa toccare il vuoto creativo: ovvero la dimensione dove, da un lato, catturare e precisare meglio le proprie voci, rivisitando i luoghi e i fatti del tempo attraversato; dall’altro, trafiggere l’angoscia e la desolazione di cui è preda la coscienza dell’uomo contemporaneo. Roma è perfetta per coincidere con la posizione malinconica dell’esule che ricorda, rimpiange, sospira: una posizione favorevole quant’altre mai alla coltura e alla potente ramificazione del germe poetico”.

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  4. gabriele fratini

    Allora mi sono distratto almeno 30 volte. Saluti

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  5. Salvatore Martino

    Voi mi perdonerete se parlando di Caproni accenno alle mie esperienze con il poeta tosco-genovese-romano. Me lo presentò un pomeriggio in un ricevimento che si teneva in un bel palazzo di via Vittoria Colonna Libero de Libero, che in quel periodo, fine anni sessanta, mi guidava nel faticoso cammino della poesia. Mi colpì questa figura ascetica e rapace, mi ricordava in qualche modo Becket. Io ero un po’ confuso dal suo sguardo quasi indagatore, ma lui mi mise subito a mio agio dicendo a Libero : “questo giovane ha lo sguardo del poeta”.Scoprii in seguito che abitava a via Pio Foà 28 e che ci separava soltanto la Circonvallazione Gianicolense. In quello stesso condominio abitavano miei carissimi amici e compagni di lavoro:Elsa Albani e Ferruccio de Ceresa grandi, indimenticabili attori, e anche Fabio Doplicher poeta, critco, scrittore e regista.Le mie frequentazioni a via Foà erano frequentissime e incontravo spesso Caproni che aveva sempre un sorriso e una parola gentile. Così finalmente mi invitò nella sua casa, dove tornai diverse volte. Parlavamo soprattutto di musica, di quintetti, quartetti, sonate per violino solo per violino e pianoforte, ma non avvertivi in lui alcun rimpianto per avere abbandonato lo strumento. Quasi mai si parlava di poesia. Nel 1976 seppi da Gabriella Sobrino, allora segretaria del Viareggio, che Caproni si era presentato alla riunione della giuria con il mio “La fondazione di Ninive” dicendo: questa è la migliore opera prima in concorso…purtroppo avevo già pubblicato Attraverso l’Assiria. In lui mi ha sempre entusiasmato la crudeltà eseguita sulla parola, l’asciuttezza del suo dettato poetico,e ovviamente la musica che invade i suoi versi. Fu lui che mi spinse alla lettura approfondita degli stilnovisti e soprattutto di Guido Cavalcanti. Non concordavo affatto con il suo amore per Carducci. Mi pare di ricordare che malgrado il suo amore per Genova Roma rappresentasse per lui un nucleo fondamentale di ispirazione, la città forse amata più di quanto lui stesso sospettassse. E qui mi sembra che Onofrio con la sua consueta magia abbia perfettamente ragione. Un’ultimissima licenza , e poi Linguaglossa potrà anche cassare questo mio personalissimo commento… fu Caproni che con insistenza mi fece attribuire il Premio Montale nel 1985. Quello che Onofrio attribuisce a Roma nella nostalgia delle due città rimpiante
    coglie al profondo il pensiero, il sentimento che il poeta nutriva nei confronti della Città Eterna. Salvatore Martino

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    • marconofrio1971

      Splendido ricordo di Caproni (e di una Roma che non c’è più)… Grazie a Salvatore Martino per la sua preziosa testimonianza

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      • Salvatore Martino

        Carissimo Marco non sai quanto queste tue affermazioni mi rendano felice, e rafforzano il filo di complicità che avverto come uno splendido legame. Salvatore Martino

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  6. Un poeta che apprezzo moltissimo, essenziale, limpido e profondo.

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  7. ubaldoderobertis

    Nel ribadire, in linea con il senso della ricerca condotta da Marco Onofrio, l’importanza di Roma per Caproni, attestata dalle parole di Vincenzo Cerami, oltre al ruolo di Genova “città dell’anima”, rivolgo un sincero apprezzamento a Martino per la sua testimonianza. E perché mai “Linguaglossa dovrebbe cassare il tuo commento così interessante? Però c’è un punto in cui dissento quando dici:
    “Non concordavo affatto con il suo amore per Carducci.” qui il discorso è lungo, ma io credo di poter affermare, con il conforto di Michela Zompetta in: http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/Zompetta%20Michela.pdf
    che quello di Caproni non era “amore” per il poeta Premio Nobel. In un certo periodo ne subì l’influenza, rientrò nel suo programma “educativo”, ecco tutto. “ E così presi come modello il poeta che credevo di amare meno, ovvero Giosuè Carducci; il Carducci impressionista, che io, da buon livornese, definivo “macchiaiolo”. Così, a denti stretti, ricominciai, e nella scia delle “canzonette” carducciane//e proprio per sfuggire alle seduzioni della moda per la moda, di proposito volli ricominciar tutto da capo, rifacendomi al poeta allora da tutti ritenuto il più sorpassato, cioè il Carducci; del quale, come poi non mancò d’accorgersi in senso positivo De Robertis, seppi ritagliarmi quanto più mi si confaceva”.
    Ritornando a Marco Onofrio e al suo “Giorgio Caproni e Roma” mi permetto di considerare che ogni uomo, per di più se artista, sa cogliere, nelle varie città che via via ha modo di frequentare, il fascino che merita. Nel 1983 Caproni di Firenze scrive: “Quando ci vado / mi sento in una città molto bella, viva, accogliente, culturalmente attiva e fraternizzante nonostante i fiorentini sempre così critici e ironici. Potessi scegliere una città ove abiterei andrei subito a Firenze, anche se non è più quella che conobbi, cioè quella delle Giubbe Rosse, di De Robertis, di Bigongiari, di Luzi… Firenze è stata tutto per me. Un fiorentino, il letterato De Robertis, mi segnalò alla critica…”
    E qui lo correggo perché Giuseppe De Robertis era di Matera.
    Ubaldo de Robertis

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  8. cito dal mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. La poesia italiana (1945-2010)” EdiLet, Roma pp. 380 € 16 :

    La rivoluzione linguistica e «simbolica» delle masse è un portato della diffusione di massa della televisione. La rivoluzione linguistica e simbolica della massa è, di fatto, una controrivoluzione. Una controrivoluzione capitanata dalla televisione. E con la televisione, ecco l’invasione delle lavatrici e delle automobili. Ecco l’invasione di una infinità di merci di massa. È una grande «rivoluzione» dei costumi e del simbolico quella che il Moderno annuncia. E con essa arriva l’omologazione e la ribellione delle masse giovanili. E la poesia come reagisce a questi avvenimenti eccezionali? Nei suoi esponenti più intelligenti e sensibili la poesia italiana accusa il colpo: con il crollo del post-ermetismo si dissolve una intera infrastruttura della figuralità che corrispondeva ad uno stadio pre-industriale dello sviluppo economico; crolla l’idea che la poesia possa soggiornare e sopravvivere in una zona eburnea, di separatezza dal mondo, al riparo da quegli avvenimenti che stanno cambiando il corso della storia. Con il ’68 anche la poesia viene fatta bersaglio della contestazione giovanile, anch’essa viene vista come una «sovrastruttura» organicamente connessa con il sistema di potere della «borghesia». Ma in Italia accade un fatto bizzarro: la contestazione giovanile viene a confondersi e a sovrapporsi allo sperimentalismo linguistico; di più, alla fine degli anni Sessanta lo sperimentalismo assorbirà e surrogherà le spinte centrifughe della contestazione giovanile diventandone il dubbio rappresentante sulla scena politico-letteraria. L’ingresso massiccio e disordinato della prosa entro le asfittiche strutture difensive della poesia è l’effetto più immediato e vistoso di questa contestazione della forma-poesia. Il fenomeno, simile all’effetto di un fiume che rompa gli argini e dilaghi nella città, diventerà nel corso dei decenni successivi una costante tipicamente italiana, raccoglierà nel proprio alveo tutti i ribellismi linguistici che si originano dal ’68. Si verificherà una «stabilizzazione» del ribellismo linguistico.

    Improvvisamente, un’intera generazione di poeti come Bigongiari, Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Girolamo Comi, Alfonso Gatto, Arturo Onofri, Sergio Solmi, Giorgio Vigolo, Vittorio Bodini, Sinisgalli diventano anacronistici; appaiono, agli occhi della nuova generazione, invecchiati, ancora attestati a moduli stilistici antiquati, con elementi di rigidità stilistica e lessicale dinanzi ad un mondo che nel frattempo si è rapidamente trasformato; esponenti di una poesia considerata evasiva, generica e genericizzante, criticamente agnostica e virtuosa, stilisticamente «sublime» e «stupenda». Sarà un poeta della generazione degli anni Dieci,Giorgio Caproni a fare i conti con il Moderno con Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e con Il Conte di Kevenhüller (1986), ad aprire la via ad una poesia post-moderna, che ha fatto i conti con la poesia simbolistica e che prende le distanze dalle coeve teorizzazioni della parola-segno, della poesia come segnaletica di «segni». Un discorso poetico, quello di Caproni, che si interroga sulle ragioni della propria sopravvivenza, fitto di interrogazioni sul principiale: può la parola significante abitare il linguaggio priva dell’intenzione significante? È la prima apparizione del nichilismo critico di una poesia attenta al «significato» e al suo correlato lato «simbolico». Di fatto, la strada aperta da Caproni rimarrà impraticata, nessuno seguirà la direzione di ricerca aperta dal poeta toscano, almeno fino agli anni Novanta quando la poetica del nichilismo principiale verrà ripresa ed elaborata dal piemontese Roberto Bertoldo con la teorizzazione del «nullismo» e del «post-contemporaneo». Nei fatti, la poesia italiana dei decenni successivi imboccherà una via contigua a quella della piccola borghesia in fase di ascesa e di riconoscibilità sociale: la via del minimalismo e del post-sperimentalismo.
    Contrariamente alla opinione di un valente critico come Paolo Lagazzi il quale ritiene Attilio Bertolucci il più grande poeta del Novecento italiano, io, invece, penso che la poesia di Attilio Bertolucci sia di secondaria importanza perché è rimasto estraneo alla cultura del modernismo europeo (in pratica alla lezione di Eliot e Mandel’stam), e questo fatto ha finito per pesare considerevolmente sulla sua poesia (sia il primo che il secondo Bertolucci) in senso negativo, poiché non lo ha spinto a rinnovare la sua poesia in direzione di un modernismo italiano. Caproni, invece, è stato tra i pochissimi a fare una poesia che avesse ad oggetto il “concreto” e ad abbandonare le opzioni per una poesia paesaggistica, sostanzialmente ancorata ad una pratica di lirica obsoleta.

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