ROBERTO BERTOLDO. LA POESIA SURRAZIONALE. POESIE SCELTE da “Il popolo che sono” (Mimesis 2015 pp. 92 € 10) La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo, «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico». La metafora bertoldiana come “cicatrice linguistica” – Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

foto casa in disordine
Roberto Bertoldo Poesie da “Il popolo che sono” (Mimesis, 2016)
Spengo la vita sulla pelle di una donna,
le parole sono fieno senza nessuna messe,
la bratta s’indurisce sui sentimenti
e le cimici, uniche maliarde, bussano alle mie mutande,
sono nudo, da vomito, desolante,
anche le puttane eviterebbero il mio sguardo,
più si invecchia più le notti fanno schifo,
ci disprezzano le orchestre,
pure il canto si compone di bave
la donna mi ama con una frase fatta,
stringe il crepuscolo per aizzarsi il cuore,
non basta l’aroma dei coralli ad arrossare i suoi occhi
le lacrime sono perle appese ai bisogni,
hanno le loro vergogne.
Maledetta la chioma della cometa di Halley
che mi ha portato sulla terra ad usurpare spazi
una notte d’aprile in cui le nuvole si disfacevano sui pini,
sono foglie sul viso le lacrime dei rami.
Perdo tutte le poesie per la demenza dei miei occhi,
non ho più metafore: è questa mancanza la vecchiaia!

*

Scrive Roberto Bertoldo in “Nullismo e letteratura” (Mimesis, 2011):

«Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo».

foto no left

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è la e magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico,  è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale».1          

 1  Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 pp. 137, 250, 251

 

FOTO DONNA ALLA FINESTRA

Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

Non era Nietzsche che affermava che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?».

La questione del Logos ci porta a pensare le fondamenta interrogative del linguaggio poetico, per eccellenza la forma di linguaggio più problematica che esista, problematica perché ci induce a riflettere sulla sua natura spirituale e sulla sua origine magico-numinosa. A rigore, quando si impone una nuova dimensione spirituale, si trova anche una nuova dimensione del linguaggio poetico.

La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo si fonda sul ricordo della antichissima funzione magico-numinosa del linguaggio e sul suo ripristino in chiave critica.  Il suo modo di costruzione dei versi segue il modello del solenoide o della scala a chiocciola, un cinetismo auto vorticante che si inoltra nell’inesplicito, nella zona d’ombra del linguaggio, dove le parole si nascondono, forse per dissimulare un antico oltraggio da esse ricevuto e mai accettato. Di qui la ribellione delle parole belligeranti.

L’esplicito linguistico è certo risposta, ma risposta ad una domanda soggiacente, che non può essere pronunciata. Allora, ecco che l’inesplicito altro non è che una risposta ad una domanda precedente collegata con la prima da domande inespresse, nascoste nelle pieghe del linguaggio e nelle pieghe del sociale, della vita quotidiana degli uomini, della loro storialità. Ed ecco che il mondo appare quando viene esplicitata la domanda fondamentale attraverso l’implicito del linguaggio, il lato interno del linguaggio, le sue pareti interne. «Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime / lo so». Scrive Roberto Bertoldo:

Le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero

 

foto spadaccina

Altrove, parlando della poesia di Bertoldo ho discettato sul concetto di «cicatrice linguistica» come proprietà qualificativa delle sue metafore, appunto alludendo ad un retroterra linguistico, ad un retroscena inespresso, ad una dimensione che non può accedere alla superficie della scrittura poetica. Perché sia chiaro che non tutto può accedere alla poesia, essendo quest’ultima appena la punta dell’iceberg che affiora alla superficie linguistica di un idioma. Al poeta non resta altro da fare che approntare una trappola per la cattura delle parole. Una trappola per tropi. Bertoldo è un cacciatore di parole e un cacciatore di frodo, cacciatore di menzogne. Nella poesia bertoldiana si nota con grande chiarezza la conversione dall’esplicito all’implicito. Un implicito elaborato dallo spirito, direi.

La poesia che utilizza soltanto il linguaggio esplicito, non elabora le proprie istanze di fondo ma si limita a registrare le domande come un pubblico ministero utilizza le frasi durante  un interrogatorio. Questa è appunto l’istanza di fondo di ogni realismo, che si arresta ad una procedura di validazione del letterale al suo referente, alla fedeltà del primo rispetto al secondo. Ma si tratta, ovviamente, di una procedura miope fondata su un concetto ingenuo del reale e dell’arte come mero rispecchiamento.

Quest’oggi parlerò ai torcicolli che invadono la palude.

.

Ecco l’incipit di un’altra poesia bertoldiana, dove è chiaro che «torcicolli» è la migliore traduzione possibile dal profondo di una ferita linguistica che non può essere espressa in altro modo e con altri termini. La parola è appunto un «termine». Dove termina il linguaggio, là è la parola. O dove inizia. Il che è lo stesso. Perché il linguaggio inizia e termina con la «parola».  Ed è chiara qui la vocazione metaforica e metonimica della «parola» bertoldiana che indica se stessa nel mentre allude al luogo della sua cattura, della rivelazione. Il «temine» bertoldiano è apocritico (cioè dissolve la domanda sottostante) ma non del tutto, attraverso il suo corpo lascia intravvedere il tragitto spirituale che esso ha percorso dopo un lungo girovagare. Così, quel «torcicollo» allude ed indica esplicitamente  qualcosa che ha costretto il «termine» ad una torsione, pressato da forze impellenti e considerevoli. Analogamente, l’impiego dei verbi, dei sostantivi e dei qualificativi è sottoposto alla pressione di una gigantesca pressa che torce, deforma, dilacera la fisionomia e la fisiologia delle parole, in tal modo distorcendone anche l’uso comunicativo, il significato, che non collima più con il significato che quelle parole avevano nel linguaggio relazionale. E ne viene distorto anche il significante. Insomma, tutto il tonosimbolismo della poesia bertoldiana viene ad essere distorto e stravolto da una forza imponente che tutto sovrasta e tutto travolge, la forza di una gigantesca pressa che preme su ogni millimetro quadrato della «parola» bertoldiana che passa da un implicito, elaborato dallo spirito, ad un esplicito chiamato convenzionalmente linguaggio poetico. Un procedimento esattamente opposto e di direzione contraria a quello che avevamo lumeggiato all’inizio di questo scritto definendolo un processo che passava da un esplicito ad un inesplicito.

foto vuoto in alto

La poesia bertoldiana invera quell’assunto che dice che il locutore ha cessato di essere il fondatore. Bertoldo non fonda alcunché, la sua parola ondeggia, fraseggia, inferma e impotente, senza pentagramma, senza uno spartito, senza una chiave di violino. Abbandonata a se stessa, fuori del pentagramma sonoro, non le resta che affidarsi alla acustica dei rumori, essa stessa rumore, infermità e inermità del rumore. La poesia bertoldiana chiarisce quanto la parola poetica abbia fatto fiasco nelle sue pretese ergonomiche ed assiologiche di erigere una resistenza o una resilienza di contro al «mondo», quando invece si scopre essere mera retorizzazione del soggetto, che si sottrae, tende a disparire, irresoluta, presa nella morsa tra la malafede e la falsa coscienza, l’infermità e l’inermità, la diplopia e la distopia, la gratuità e la colpa, l’ingenuità e il disincanto, l’autenticità e la vita inautentica.

Nelle poesie di Bertoldo puoi scorgere chiaramente il disagio del poeta dinanzi agli oggetti e il disagio degli oggetti dinanzi al poeta. Di qui la dis-torsione, la lacerazione, lo stravolgimento di ciò che ci è familiare (Heimliche) in ciò che non riconosciamo più (Unheimliche). Tutta la poesia bertoldiana si basa su questa procedura, che è un modo di ridare agli oggetti il loro posto nell’umano; far diventare gli oggetti dei piccoli mostri che inseguono l’umano, lo braccano, lo tentano.
La dialettica tra Heimliche e Unheimliche è la caratteristica della poesia bertoldiana. L’inquietante di certe sue immagini e di certo lessico riflettono il rimosso della nostra cultura, ciò che non può essere detto. Freud dedica un ampio studio nel quinto volume di Imago, le cui conclusioni sono molto significative. Freud vede nell’inquietante (Unheimliche) il familiare (Heimliche) rimosso. «Questo inquietante non è in realtà nulla di nuovo, di estraneo, ma piuttosto qualcosa che è da sempre familiare alla psiche e che solo un processo di rimozione ha reso altro». Il rifiuto di accettare come immodificabile la degradazione dei facticia mercificati, si esprime crittograficamente nell’aura minacciosa che avvolge le parole dei versi di Bertoldo, quelle parole che non ci fanno più stare al sicuro e al riparo nelle nostre abitazioni profumate ma che ci inducono a malessere e in angoscia.

da  Roberto Bertoldo, Il popolo che sono, Mimesis, Milano 2015

Io parlo poesie

.

Io parlo poesie come i fabbri schegge
e festuche i falegnami,
amo per quel diluvio
che non potete dimenticare,
vivo come i veggenti,
scrivo da passatore.
Ho spade di legno
e l’arca di ferro,
una pagina di idee
e altri materiali sul ceppo.
Conosco la morte
perché è stata sulla penna
che ha scritto ‘bambini’,
conosco le mani disonorate
perché il vento vi ha inciso
le sue folate,
so dei rapaci che volano bassi
più della mia colpa
e aspettano che forgi il verso
di cui farmi sepolto.
Ma io ho, dentro di me,
il popolo che sono.

.

I distici della notte

.

Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
per affrancarvi dalla parola venduta,
la poesia ha decretato l’offesa:
non morirete con il canto alla gola,
le nostre mani che hanno terra
tra le fessure delle falangi
gridano con gli ultimi tendini,
fino a troncare il colore pingue
dei vostri aggettivi.
La notte opprime i distici,
vuole un’ampia dichiarazione,
impoetica per di più.
Sulla grata del confessionale
i versi si frantumano,
la tonaca si macchia di rime
e accessori annessi,
il rosario che sproloquia
sulle gambe del messia
sputa i semi delle metafore.
Qualcuno ha gridato la verità
più fortemente delle vostre lamentele,
nababbi di apollo,
gentilizi dell’anima.
Oh poeti, poeti, quale emblema
il mio osso di popolo vi estorce
quando la bocca avete sulla platea
per la tenia degli applausi?

 

foto femme fatal

Poema delle folate (il popolo tradisce)

.

Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
per il perdersi dei giorni
forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
e avrà carezze per i marmi
ma le notti di solitudine nascondono la pelle
come fosse mille volte dietro i ceri
e file di pellegrini dalle mani bacate
non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
li porta sul sorriso della sua lama
e chi ha assistito alle folate dei secoli
tra i miei capelli sepolti
sa che gli inverni portano ancora
i fiocchi freddi dei deserti.

.

Iraq

.

Fatemi delirare l’amore
prima di sorprendere i mercati
coi vostri deliri di glicerina nitrata,
io li conosco gli avventori,
i loro occhi, la bocca e lo scarnito,
la fame che farfugliano,
rinvengo le verità e le altre carabattole
nel campo delle mie aritmie.
Oh, questi versi che marciscono
per troppa passione, tra le mie scapole
incontrano la notte che ghermisce.

.

La vera cultura

.

Piangere per i poeti che non ci sono più, è cultura:
per gli occhi pensili di Kerouac con l’ubriachezza nel sangue,
per il sole che si spende sulle spalle di Camus,
la cultura è nel vitreo accendersi dei riflessi
sui capelli martoriati di Saint-John Perse,
la cultura è l’abside del cuore dove dimora la giustizia,
sentire che un uomo è morto prima dei suoi libri, è cultura,
che quell’uomo era un amico composto di parole,
la cultura è l’endecasillabo del naso, l’enjambement
delle labbra, la sinalefe degli occhi, la poesia
di un volto spremuto nella lirica
come i voli principeschi del cormorano
che si specchiano nel Delta del Po,
la cultura è la voce del viaggiatore di Céline,
la ricerca di Proust, la sofferenza dei bambini
immortalata sui bianchi fogli di Fabriano,
questa è la cultura che non si inchina ai dotti,
alle loro offese di cemento,
piangete allora, con Pasternak e il suo volto infinito,
la morte indelebile di Majakovskij
perché era un uomo da leggenda
piangete e se un giorno piangerete per me
spero che questa sia cultura.
foto Samuel Beckett

Samuel Beckett

Amare?

.

Come si può amare con la bocca allentata,
la verruca sulla palpebra, come possiamo
ancora aprirci alla donna che respira
al nostro capezzale, noi inguaribili romantici
col destino tracciato a bruciatura
e i rami del nostro subdolo corpo
come intricate croci sul bordo del petto.
Brancoleremo nell’incunabolo dei ricordi
con gli occhi aperti, senza retribuzione,
i fogli li scorreremo come ossessi
lasceremo l’impronta sudicia della falsità
per l’architrave del nostro sepolcro.

.

La storia?

.

Avete fatto la storia quanto voi
stringata, subdole le braccia qui le incrociate
come l’avvoltoio le ali sulle proprie idee,
mentiremmo senza quelle rabbie che si stemperano
appena sul petto delle donne,
le nostre donne che avete rapito d’inganni
e oggi celesti vi sono capinere
che svernano nei giardini regi.
Anche le nostre mani fanno croci
con le loro dita rigide e storte, come la bocca
che bestemmia quando imita sul muro
le ombre cinesi sdentate.

.

Non c’è ragione

.

Pubblico su questi muri di carta che ci dividono
l’epitaffio della mia vanità, non ho che crepe sulla pelle
e muschi, lucertole e arbusti che diramano il loro inchiostro
come un messale. Il popolo passa e ripassa
lungo questa cancrena, non conosce il diluvio
e la salvezza che lo impregna, non ama
che la propria grassa dimora
e, se prega, ripone nel giaciglio la carcassa di un dio.
Non c’è ragione che si parli di me
quando il popolo sul mio groppone
eiacula poesie.
alfredo de palchi roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
Bibliografia:
Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010.
Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;
Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono Mimesis, 2015

25 commenti

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25 risposte a “ROBERTO BERTOLDO. LA POESIA SURRAZIONALE. POESIE SCELTE da “Il popolo che sono” (Mimesis 2015 pp. 92 € 10) La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo, «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico». La metafora bertoldiana come “cicatrice linguistica” – Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

  1. molta metapoesia molto talento

  2. ubaldoderobertis

    Di recente sul blog Imperfetta Ellisse (Lunedì, 7 dicembre ’15) dopo aver letto alcuni testi di Bertoldo tratti da: il Calvario delle gru, avevo posto all’autore delle domande e ad una di queste, avendo io fatto riferimento al Leopardi, Bertoldo volle precisare: “Quindi la grandezza della poesia leopardiana deriva proprio dalla profondità del suo pensiero, mentre la mia poesia, a differenza di quanto pensino coloro che hanno letto almeno uno dei miei saggi, è completamente avulsa dalla mia cosiddetta filosofia.” Non ho dubbi che sia così. Ad ogni modo ogni volta che mi è dato di imbattermi nella poesia dell’autore piemontese molti dei discorsi a corollario si incentrano prevalentemente sul sistema di pensiero bertoldiano, sulla filosofia. E mi piacerebbe che le sue poesie”viaggiassero” da sole visto che sono dense e ricche di per sé stesse. Dai precedenti post avevo capito che Bertoldo è: “riuscito a teorizzare il nullismo, a definire la differenza tra il niente e il nulla (il niente è l’Essere, la materia che in campo scientifico ci affanniamo a svelare). Nella sua idea il nullismo è un risposta coraggiosa al nulla. E’ sua la distinzione del postmoderno in forte e debole; quello forte è il nullismo, quello debole è il decadentismo. Inoltre Bertoldo ha elaborato una nuova poetica di tipo post-simbolistico nel quadro concettuale del postmoderno. Adesso, sul post odierno, leggo composizioni recentissime anche se il poeta afferma di aver perso: “tutte le poesie per la demenza dei miei occhi, non ho più metafore: è questa mancanza la vecchiaia!” Caro Roberto la vecchiaia è qualcosa di plumbeo che appartiene a me. Poesie interessanti, queste, e piene di intuizioni. E di nuovo nelle delucidazioni fanno la comparsa altra categorie: il surrazionalismo, fenomenognomica, il tonosimbolismo l’immanenzione; attualmente sono fermo alla poesia surrazionale. “Il surrazionalismo- dice Bertoldo- è la ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale.” Ora, salute permettendo, e sperando di ritrovare una certa agilità di pensiero, ho individuato un lavoro per le vacanze di Natale. Mi intriga questo surrazionalismo, il crocevia tra la produzione epistemologica, la conoscenza certa, la scienza, e la produzione dell’immaginario.
    Cari saluti, all’autore.
    Ubaldo de Robertis

    • Salvatore Martino

      Quale dottisssima dissertazione caro de Robertis ma per me troppo faticosa da seguire, sopra un poeta che ritengo tra i pochissimi degni di essere ricordati.Queste sue poesie, come spesso gli accade, appartengono al tremendo citando Rilke, colpiscono al profondo, sono la non consolazione dell’umana vicenda, la fossa declinata dell’amore,il gioco spasmodico della solitudine e della rinuncia, in uno stile asciutto e acuminato di lance e di pugnali, senza nessuna concessione alla pietà. Forse spietatamente la ragione vi opera la parte preponderante, e questo non sempre giova all’emozionalità del discorso poetico, ma certo i voli frenetici tra immagini che danzano sull’abisso sono frecce che dilatano le nostre ferite. Nessuna consolazione quindi, forse va bene così. Salvatore Martino

  3. Gino Rago

    Anche nei versi odierni Roberto Bertoldo si muove dentro “L’archivio delle bestemmie”, coerente con il centro della sua dichiarazione di poetica, secondo la quale( per Roberto R. ) “la poesia è una forma di bestemmia, la più candida” e la metafora è come “una cicatrice dell’essenza”. Un poeta destinato a consolidare la sua centralità nella poesia italiana contemporanea.
    Gino Rago

  4. Apprezzo particolarmente questo verso di Bertoldo:”Scrivo da passatore”.Che è come dire :scrivere sulla sabbia,su una foglia,su un foglietto da chiudere nella bottiglia.Troppi vati si credono eterni, mentre la poesia va per conto suo; si palesa quando vuole,va a braccetto con chi meno ti aspetti.

  5. Nelle poesie di Bertoldo puoi scorgere chiaramente il disagio del poeta dinanzi agli oggetti e il disagio degli oggetti dinanzi al poeta. Di qui la dis-torsione, la lacerazione, lo stravolgimento di ciò che ci è familiare (Heimliche) in ciò che non riconosciamo più (Unheimliche). Tutta la poesia bertoldiana si basa su questa procedura, che è un modo di ridare agli oggetti il loro posto nell’umano; far diventare gli oggetti dei piccoli mostri che inseguono l’umano, lo braccano, lo tentano.
    La dialettica tra Heimliche e Unheimliche è la caratteristica della poesia bertoldiana. L’inquietante di certe sue immagini e di certo lessico riflettono il rimosso della nostra cultura, ciò che non può essere detto. Freud dedica un ampio studio nel quinto volume di Imago, le cui conclusioni sono molto significative. Freud vede nell’inquietante (Unheimliche) il familiare (Heimliche) rimosso. «Questo inquietante non è in realtà nulla di nuovo, di estraneo, ma piuttosto qualcosa che è da sempre familiare alla psiche e che solo un processo di rimozione ha reso altro». Il rifiuto di accettare come immodificabile la degradazione dei facticia mercificati, si esprime crittograficamente nell’aura minacciosa che avvolge le parole dei versi di Bertoldo, quelle parole che non ci fanno più stare al sicuro e al riparo nelle nostre abitazioni profumate ma che ci inducono a malessere e in angoscia.

  6. Salvatore Martino

    Ma perchè così pochi commenti per un poeta straordinario, mentre si sprecano interventi che riguardano l’assoluta mediocrità di tanti che scrivono versi e li millantano per poesia. Una sorta di timore? o magari di “tremore”? o una malcelata invidia? Non capisco ma mi dispiace. Salvatore Martino

  7. “Una sorta di timore? o magari di “tremore”? o una malcelata invidia?”

    Nulla di tutto ciò, almeno per me. I motivi possono essere di tutt’altro genere, ma l’invidia, poi…

    Giorgina Busca Gernetti

  8. Giuseppina Di Leo

    Dissento su quanto dice Martino in merito, appunto, al timore e ancor meno all “invidia” nei confronti di chiunque, anche per ciò che il poeta Roberto Bertoldo esprime nelle sue poesie: l’attenzione verso il mondo, verso l’altro-da sé. Difatti, che senso avrebbe l’invidia in un poeta nei confronti di un altro poeta? Direi nessuno, se è vero che ognuno di noi, attraverso la scrittura, porta all’esterno parte della sua visione di ‘mondo’. Parte intesa come verifica di se stessi rispetto al risultato ottenuto, giorno per giorno, e che sentiamo come parte di ognuno di noi, talvolta come pienezza, ma più spesso come differenza tra ciò che abbiamo dato e quanto abbiamo ricevuto. Certo, non siamo tutti uguali, e meno male direi, dato che la perfezione si persegue. Un lavoro che di certo non può transigere dal riconoscimento dei limiti che tuttavia sentiamo nostri.
    Nulla di personale naturalmente, Martino, quanto piuttosto una riflessione, in qualche modo ‘necessaria’, perché scaturita, come ho detto sopra, dalla lettura di queste poesie ‘invidiabili’.
    GDL

  9. Sono grato al professor Bertoldo per aver pubblicato a suo tempo alcune mie liriche su Hebenon. La sua poesia procede verso quei territori che amo particolarmente. Andando oltre si potrebbe destrutturare il testo e portarlo a livello biologico e poi interpretarlo: i significati diventerebbero quindi fenomeni o residui e le parole oggetti.

  10. antonio sagredo

    noto una certa stanchezza negli interlocutori di questo blog… per l’ntero anno abbamo lavorato direi benissimo: i risultati confermano…. spero qualcosa cambi nella impostazione del blog per renderlo più dinamico… vorrei che tantissimi altri interlocutori partecipino, meglio se giovani…
    i risentimenti personali e privati non devono più comparire… il linguaggio critico deve essere più agguerrito. e per esserlo deve esse colto, ma una cultura alta e profonda… bisognerebbe almeno una volta all’anno incontrarsi a Roma, dico, degli interlocutori più frequenti e meno frequenti: questa sarebbe una novità da promuovere e passo il testimone a Giorgio L.
    buone feste a tutti
    antonio sagredo
    nb. altre idee sono in fermento e da realizzare per evitare la sclerosi, di cui questo blog fino ad adesso non ha sofferto

    • Salvatore Martino

      Non so cosa mi succede ma devo ancora una volta concordare pienamente con l’amico Sagredo. Quasi un avvenimento. Salvatore Martino

  11. Non mi aspettavo questa attenzione, a parte la generosità amichevole di Giorgio, e vi ringrazio, anche se la letteratura non cerca consensi; tuttavia l’affezione alla poesia, che in questo e in altri blog è manifesta, fa sperare che almeno un domani i poeti tornino centrali nella collettività. Si, perché ogni poeta, al di là dell’apprezzamento o meno dei lettori, di solito porta con sé una ricchezza spirituale ed espressiva fondamentale per la ricostruzione civile di una società.
    Scrivo versi per empatia, quindi in ogni mio libro di sedicente poesia (ogni pubblicazione in versi, per il fatto d’essere volontariamente editata, si dice da sé poesia, per quanto altri possano negare al libro questa delibera) è un mettersi nei panni di qualcuno o di qualche categoria: un bambino (per età o per ingenuità) stuprato psicologicamente (L’archivio delle bestemmie), dei ribelli (Pergamena dei ribelli), varie persone sofferenti (Il calvario delle gru), il popolo (Il popolo che sono), ecc. Certamente permane qualcosa di personale nella scrittura (vede bene Rago che richiama la permanente “candida bestemmia”) ma in genere la singolarità si fenomenizza quando si sta, per scelta o meglio natura, dietro le quinte. Così quando “scrivo da passatore”, come fa notare la poetessa Anna Ventura, non mi riferisco, anche se senz’altro sarebbe bene, alla coscienza della mia caducità poetica, ma simbolicamente al vario significato del termine: in particolare al traghettatore, per lo più di clandestini, come fu il brigante Stefano Pelloni, detto appunto Il Passatore; e anche all’operaio addetto al controllo degli abiti per verificarne l’integrità e correggerne i difetti.
    C’è insomma, spontaneo, un certo correlativo che più che oggettivo, vedi Eliot e Montale, ho chiamato tonale, come negli uccelli di palude, i “torcicolli”, ben visionati da Linguaglossa: la parola richiama però anche il contesto, qui appunto la palude.
    La nostra personale espressione poetica ci insegna molto, insomma, insegna a noi stessi, che così ci conosciamo a posteriori, conosciamo non solo la nostra scrittura ma anche i nostri vizi letterari ed emotivi. L’incomunicabilità è una malattia che responsabilizza tanto lo scrittore quanto il lettore.
    Giorgio, sapendo che leggo quotidianamente questo blog, ogni tanto mi esorta ad intervenire, le poche volte che l’ho fatto non ha quasi mai riguardato la poesia degli altri poeti. Non ci sono motivi diciamo negativi in questo, sono d’accordo con la poetessa Giorgina Busca Gernetti: nel mio caso sento, da alcuni anni, di essere incapace non solo di valutazione ma anche di interpretazione corretta del testo poetico; resta in me il gusto e, nel migliore dei casi, il pregiudizio cosciente a farla da padrone e quindi mi riservo di commentare la poesia altrui solo all’interno di un discorso estetico, il più completo e composito possibile, in modo che chi legge a sua volta possa valutare il mio commento in dipendenza del pregiudizio che lo forma.
    Del resto ogni discorso intorno alla poesia è metapoetico e non ci sono accessi plausibili al testo letterario, ritengo però che non esista poesia metapoetica, e mi riferisco a quanto dice il poeta Almerighi; ma anche questa mia idea è pregiudiziale, si fonda su un radicato antilogicismo, in base al quale la poesia, per quanto razionale, lo è sempre in modo analogico, alla moda del telefono senza fili.
    Un saluto d’intelletto anche ai poeti de Robertis e Martino, che accennano al pensiero e alla razionalità. Certi filosofi ritengono che la razionalità operi tanto nella coscienza quanto nell’inconscio; in più, si coglie una logica anche nella chimica delle nostre emozioni. E tutta questa razionalità esplicita ed implicita deborda nelle immagini e nei suoni in modi differenti da poeta a poeta, determinati dal grado della propria fantasia e della propria memoria.

    • Salvatore Martino

      Quale straordinaria lezione di filosofia e di poetica,di modestia, carissimo Bertoldo. Non posso che ammirarla anche come persona, malgrado la non conoscenza diretta, giudicando solo dai suoi versi, che rileggo con grandissima gioia. Chissà se un giorno magari con gli uffici del nostro caro Lingauaglossa riusciremo a incontrarci. Salvatore Martino

    • La ringrazio, professor Roberto Bertoldo, per avermi dato ragione su qualche mia risposta sincera e senza opportunismo o adulazione. Però, mentre Lei scriveva, scrivevo anch’io sulla Sua poesia.
      Chissà se mi ringrazia ancora!
      Per ora La saluto cordialmente e Le auguro Buone Feste, così come agli altri interlocutori di questo blog da cui non so staccarmi

      Giorgina Busca Gernetti

  12. All’amico Antonio Sagredo replico dicendo che si può sempre far meglio, e certo questo è il nostro intendimento. Se mi permettete, affermo che la forza del blog sta, oltre che nei numerosi amici e interlocutori che ci danno consigli ed esortazioni, anche nella capacità di mantenere uno spazio di libertà interpretativa che non coincide con l’arbitrio della libertà o con la libertà dell’insulto, come pur è accaduto per via di alcune persone supponenti e maliziose, Pur sempre il blog è vivo, e questo appare non tanto nello share che è alto e si attesta ormai stabilmente intorno alle 900 – 1000 visualizzazioni, quanto, credo, nella bontà e nella libertà delle proposte e delle presentazioni critiche, che devono restare, appunto, critiche, e non agiografiche come traspare nella quasi generalità delle scritture di accompagnamento.
    Personalmente non ho mai tessuto le lodi di nessun autore ma se qualche volta mi sono lasciato prendere dall’esercizio della lode, questo è avvenuto per la stima e l’ammirazione verso le opere proposte. Primo intendimento del blog è quindi quello di salvaguardare lo spirito di libertà e la libertà, non solo di scelta, ma anche di sottrarsi alla scelta, di non condividere nulla di ciò che viene proposto e propugnato.
    Nell’approssimarsi del periodo di festività colgo l’occasione per augurare a tutti i lettori un pensiero ricco di fermenti e di buone cose.

  13. E’ arduo il lavoro – perché di lavoro si tratta e soprattutto non retribuito secondo i parametri economici classici,ovvero in denaro – di chi gestisce un blog ad alti livelli, come questo. Scegliere gli argomenti, proporre gli articoli in un certo modo, seguire i commenti, frenare l’istinto di mandare tutto a farsi benedire e poi ascoltare quella vocina interiore che ti dice che alla fine fai tutto questo solo e dico solo per un Bene più grande del tuo Ego, non è cosa semplice…Ci sono casi, come il poeta e la poesia di quest’articolo, dove non è semplice per tutti “entrare” a commentare, ma questo non significa che non si apprezzi (anzi, in questo caso si apprezza e molto anche) la lettura proposta.
    Voglio semplicemente dire che non è quello che si “vede” che decreta il buon funzionamento di questi spazi nati nei nuovi mezzi di comunicazione, ma piuttosto è il “dietro le quinte”, l’attenzione e la passione di chi amministra il tutto; non dobbiamo rilevare il mancato arrivo di maree di commenti, quanto piuttosto essere lieti dei pochi-ma-buoni interventi, che realmente contribuiscono ad una crescita.
    A questo punto del mio sermone mattutino, invito al sorriso (e all’ironia praticata da pochissimi qui) e aggiungo il mio GRAZIE a L’Ombra delle Parole, unitamente all’augurio di trovare sotto l’albero tutto quello che sogna il vostro cuore, così, semplicemente, senza troppi giri di parole e di pensiero.

    AnGre

  14. Mando un saluto a Roberto ‘Vladimir’ Bertoldo, poeta che stimo moltissimo per varie ragioni, non ultima quella di farmi riflettere sull’evolversi della metafora nel corso dell’ultimo secolo. Ho pensato a Vladimir Majakovskij senza scrupoli filologici, cosa che mi riesce facilmente, perché suicidò la speranza (altro nome dell’ideologia). Immaginandolo redivivo, ma senza speranza e il vitalismo della sua estroversione, arrivo a spiegarmi l’implicito di cui parla Linguaglossa, la Cicatrice linguistica, il superamento del realismo. Ma la passionalità, ora introversa, mi pare la stessa, e così la rabbia e la lucidità (per quanto la rabbia introversa sarebbe un ossimoro). Ai tempi di Vladimir la metafora era segno di modernità, oggi non saprei; mi pare di stare in un’epoca dove conta l’efficacia (dire qualsiasi cosa ma in poche parole), dove la complicazione formale diventa semantica, e viceversa, all’istante. Lo scrivevo anche a Sagredo, se non ricordo male. Tuttavia, in queste nuove poesie, Bertoldo mi si rivela come poeta dal contenuto più esplicito, almeno se confrontato con quel che ricordo di aver letto (Pergamena dei ribelli e, su altro fronte, Nullismo e letteratura). Segno di trasformazione.
    In ogni caso, grazie: la sua è anche per me poesia di altissimo livello.

    • Ciao Lucio. Si, hai ragione, “contenuto più esplicito”. Il popolo, a cui apparteniamo, mi è maestro. Ritengo che la metafora sia sempre attuale, ma non più per il suo solo rimando paradigmatico, perché ormai è impura, deviata dalla promiscuità retorica. Un abbraccio.

  15. Gino Rago

    Ringrazio Roberto Bertoldo per l’apprezzamento del mio sintetico pensiero sulla sua arte poetica. Gli esprimo la mia gratitudine per avere pubblicato – e in ottima compagnia – miei versi sul suo eccellente Hebenon, tanti anni fa. Accolgo l’accorato e intelligente appello di Antonio Sagredo.Frequentando assiduamente L’Ombra, ciò che si comprende e si impara leggendo la letteratura scelta e proposta da Giorgio L. è il senso della varietà delle culture, delle storie personali degli/delle autori/autrici,
    delle visioni del mondo, dei linguaggi. Si diviene più disposti ad accettare
    la relatività del giudizio, il carattere d’ipotesi delle prospettive troppo spaziose (o generali). Sono emersi dalle scelte linguaglossiane alcuni dati: la poesia è un mondo pluralistico. La poesia è come quell’astro che da lontano appare come pietra preziosa ma da vicino è un mondo.
    Ogni autore/autrice è una totalità onnicomprensiva…
    Sagredoskij ci invita a interventi critici. Ha ragione. Giorgio L., nei suoi micro-saggi, talvolta monografie in miniature, sulle sue proposte di poesia mi ha insegnato la differenza fra “analizzare” e “commentare” un testo. E non è poco.
    Gino Rago

    • Grazie a lei, Gino Rago. Chiusi Hebenon alla poesia italiana dopo aver pubblicato quelli che ritenevo, forse presuntuosamente, i migliori poeti italiani di quel periodo, perlomeno quelli che mi capitava di leggere, e passai a cercare il valore nella poesia straniera. Ora Hebenon è chiusa del tutto, ma i motivi sono altri: ho strappato la mia tessera da giornalista per protestare contro l’Ordine dei giornalisti che non prende posizione contro le menzogne che ci raccontano molti loro iscritti. Un caro saluto.

  16. “Spengo la vita sulla pelle di una donna,
    le parole sono fieno senza nessuna messe,
    la bratta s’indurisce sui sentimenti
    e le cimici, uniche maliarde, bussano alle mie mutande,
    sono nudo, da vomito, desolante,
    anche le puttane eviterebbero il mio sguardo,
    più si invecchia più le notti fanno schifo,
    ci disprezzano le orchestre,
    pure il canto si compone di bave…”.

    Un poco in ritardo per improrogabili impegni, mi accingo a scrivere qualche parola sulla poesia di Roberto Bertoldo proposta due giorni fa da Giorgio Linguaglossa ne “L’Ombra delle Parole”.
    I versi che ho trascritti in apertura mi hanno lasciata molto perplessa e chi mi conosce bene può immaginare perché.
    Il primo verso, con un semplice cambiamento di parola (“sigaretta” invece che “vita”), mi suggerisce certe orride pratiche di sadismo contro la donna; ma è solo un’impressione che per fortuna non risponde a realtà.
    Reali sono invece la “bratta”, che se non sbaglio è il fango, le “cimici” che “bussano alle mie (di Bertoldo) mutande”; “nudo, da vomito” (com’è un uomo “nudo da vomito”? Ditemelo pure perché non sono un’educanda…). C’è anche il “canto che si compone di bave”, dopo aver incontrato le “puttane” tre versi prima.
    In breve, c’è un repertorio di parole e di immagini che mi sembrano lontane dalla poesia, specialmente le “mutande” e il “vomito”.
    Ma quale poesia? Di che genere? E’ questo il dilemma.
    *
    Mi sembrano invece pregevoli i versi che incontro molto dopo, come i seguenti:

    “vivo come i veggenti,
    scrivo da passatore.
    Ho spade di legno
    e l’arca di ferro,
    una pagina di idee
    e altri materiali sul ceppo.
    Conosco la morte
    perché è stata sulla penna
    che ha scritto ‘bambini’,
    conosco le mani disonorate
    perché il vento vi ha inciso
    le sue folate,
    so dei rapaci che volano bassi
    più della mia colpa
    e aspettano che forgi il verso
    di cui farmi sepolto.
    Ma io ho, dentro di me,
    il popolo che sono.”

    E’ una poesia molto varia quella di Roberto Bertoldo, se paragono la prima composizione a quest’ultima e a quelle successive. Qui noto un pensiero serio e profondo come nutrimento dei versi, con un evidente rifiuto della metafora che oggi a molti poeti e critici pare un retaggio del tempo passato.
    Ma ciascuno scrive seguendo la propria vocazione e i propri gusti.

    Giorgina Busca Gernetti

    • La ringrazio per il commento sincero. Non ho nulla da obiettare, la libertà di chi scrive poesie è anche quella di forgiare il verso che lo «fa sepolto». Vorrei solo dire che le mutande non sono precisamente le mie, non ancora perlomeno: l’empatia si nutre delle nostre prospettive. Ma, come tutti, vivo in mezzo al male che ci buttano e ci buttiamo addosso e questo male cerco di descriverlo con l’ausilio della natura (bratta, cimici, bave…) che mi bombarda con la sua avversione per la nostra miseria. Per me è importante il dolore degli altri, non che sia poesia la voce che gli presto. E ho visto con quale disgusto certe infermiere guardano un anziano nudo. Con stima e cordialità.

      • La stima è reciproca.
        Quanto alle mutande, ho scritto (di Bertoldo) perché la costruzione della frase con il possessivo “mie” poteva far sembrare che fossero davvero le mie (di GBG), cosa davvero imbarazzante!
        Cordialità e auguri di Buone Feste

        Giorgina Busca Gernetti

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