
Roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma con spazzatura
Vivo all’estero e non è mai facile spiegare come mai i giovani italiani senza diritti, lavoro, opportunità, solidarietà intergenerazionale non abbiano fatto ancora una rivoluzione. La risposta semplicistica che do comunemente è che quelli come me nati negli anni settanta e ottanta hanno scelto due vie: adeguarsi a una società basata sulle raccomandazioni, la precarietà giovanile, il nepotismo, le corporazioni, il familismo amorale oppure andare via. Io sono andato via.
Ho la sensazione che i miei coetanei abbiano ancora poco chiaro che non è normale che i giovani in Italia non abbiano un sussidio di disoccupazione, nessuna garanzie per la pensione, nessuna meritocrazia, nessun supporto all’acquisto della prima casa, nessun assegno familiare per sostenere la natalità, nessuna rappresentanza sindacale per lavoratori a contratto e disoccupati di piccole imprese. I giovani italiani tollerano, come fosse una situazione naturale, una violenta esclusione nel mondo del lavoro, nella politica, nell’università e una atroce disparità intergenerazionale. I giovani vivono in una società che non è la loro ma quella dei loro genitori. Privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Manca la dialettica tra loro e la società, e questo produce falsi miti. Gli attacchi populistici da destra a sinistra — anche da parte di autolesionisti giovani — alle riforme Fornero, che hanno cercato di riequilibrare la società italiana a favore dei giovani, sono sintomatici.
Nella sclerotizzata società italiana l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo devastante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano di innovazione e giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani rimangono in vari modi ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente.

Roma, La grande bellezza fotogramma, Jep Gambardella in cammino a fianco l’acquedotto romano
I giovani italiani — con smartphone e jeans firmato — hanno certamente una condizione di vita migliore dei giovani di trent’anni fa, i loro genitori. Altrettanto certo però è che la loro visione del futuro è nettamente peggiore, e più oscura. Non fanno figli, si sposano tardissimo, non si comprano la casa. Le speranze di costruire piani di vita credibili si sono ridotte: quello che si percepisce è un regresso generalizzato nelle condizioni di vita dei giovani. Le prospettive dei giovani sono più incerte di quelle che avevano i loro genitori alla stessa età. Colpa delle famiglie e del malfunzionamento dell’economia. Il problema è profondo e la soluzione è complessa: occorre rivitalizzare la società affrontando due problemi, quello delle competenze da valorizzare e utilizzare da un lato, e dall’altro quello di una società corporativa da sradicare. Tra dieci anni tre quarti dei giovani, che a quel punto non saranno nemmeno più giovani, si saranno trasformati in un’enorme, indistinta generazione di sfigati probabilmente sovvenzionati dallo Stato, in un nuovo tipo di Stato assistenziale e plebiscitario.
Le generazioni dei nostri padri hanno condannato i figli a un precario presente e a un inesistente futuro attraverso il debito pubblico. Per costruire risparmio privato e alimentare una spesa pubblica folle, ha costruito uno stock di debito pubblico smisurato, zavorra per qualsiasi ipotesi di investimento produttivo. Nel 1963 il debito pubblico italiano era pari al 32.6% del prodotto interno lordo. Oggi è pari a 2138 miliardi di euro, oltre il 121% del Pil (dati Banca d’Italia). Sette anni fa, nel 2005, era pari a 1512 miliardi di euro: il 105% del Pil. In soli sette anni, 526 miliardi in più di debito. A seconda di come chiuderà l’anno l’Italia avrà comunque pagato solo per interessi sul debito tra i 90 e gli 100 miliardi di euro. Questa spesa annuale, sommata allo stock infinito del debito pubblico italiano, sono la palla al piede di qualsiasi ipotesi di politica nazionale di sviluppo, ricerca, innovazione. Se non avessimo questa dimensione incontrollata del debito pubblico avremmo i soldi per la ricerca, la scuola, l’università, le famiglie. La sommatoria perversa di mancati introiti fiscali per un’evasione fiscale calcolata certamente oltre i 100 miliardi di euro l’anno e una spesa per interessi sul debito di 100 miliardi, ovviamente impedisce qualsiasi ipotesi di investimento produttivo. Per questo dramma c’è una responsabilità e ricade tutta sui nostri padri. Come si è formato questo immenso stock di debito pubblico? Perché classi dirigenti anziane e per niente interessate alle condizioni delle generazioni più giovani, hanno costruito su una politica di spesa dissennata le condizioni del loro consenso.

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza: vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie
I nostri genitori, anziché chiedere rigore nei conti, hanno votato quelle classi dirigenti e le hanno tenute al governo, acquistando i titoli di Stato che pagavano interessi favolosi e zavorravano ancora di più il futuro del paese, costruendo attraverso le cedole di quei Bot, Btp, Cct il proprio gruzzolo di risparmio privato. Perché si dice sempre questo: è vero che l’Italia ha di gran lunga il peggior dato in termini di debito pubblico, ma ha tanto risparmio privato, che fa da ammortizzatore sociale. Ma in mano di chi è quel risparmio privato? Lo gestiscono i padri o i figli? I padri si sono comprati le case di proprietà, con tutto quell’attivo circolante l’inflazione ha galoppato, i prezzi delle case si sono impennati. Quali sono le generazioni che detengono il patrimonio immobiliare del paese e quali sono quelle che non possono neanche trovarsi una stanza in affitto per studiare fuori sede perché la fanno pagare uno sproposito? Tutte conseguenze del dramma del debito pubblico.
Durante le recessioni la disoccupazione aumenta di più per i giovani che nelle altre fasce di età. Questo avviene perché i datori di lavoro bloccano le assunzioni restringendo ogni canale di ingresso nel mercato del lavoro. Ma nella media dei paesi Ocse la disoccupazione giovanile è arrivata in questa crisi a essere al massimo il doppio di quella per il resto della popolazione. In Italia invece è quasi cinque volte più elevata. Viaggia in direzione del 35% a livello nazionale e del 50% nel sud Italia ormai da parecchi mesi. Il punto è che non è stata solo la crisi a privare i giovani delle loro legittime aspirazioni a un lavoro, un reddito dignitoso, un posto nella società. L’emergenza italiana affonda le sue radici in un mercato del lavoro strutturalmente caratterizzato da bassi tassi di occupazione, specie per le donne e i giovani, così come da molteplici dualismi di genere, generazionali e territoriali. Le riforme realizzate nell’arco di più legislature hanno introdotto nel mercato del lavoro italiano importanti elementi di flessibilità, in particolare attraverso le nuove tipologie contrattuali atipiche, senza però che queste fossero corredate dai diritti e dalle tutele sociali che invece configurano la flexsecurity di stampo europeo. L’uso distorto dei contratti atipici ha permesso una “fuga dal costo del lavoro e dai diritti”, come illusoria scorciatoia per la competitività, in alternativa a quella, di più alto profilo e durata, sorretta da maggiori investimenti nell’innovazione.

gladiatores de Roma
Le varie leggi di riforma hanno creato negli ultimi quindici anni in Italia un mercato “duale”. Da un lato i tutelati, con diritto al mantenimento del posto di lavoro, allo stipendio e alla pensione. Dall’altro i giovani: precari, spesso sottoccupati, sottopagati, con le prospettive di una vecchiaia miserabile. Non può esservi spazio per i giovani in questo sistema. I lavoratori già assunti e protetti da sindacati sono per molti versi “intoccabili”. La riforma del ministro del Welfare Elsa Fornero, che aveva garantito “Più articolo 18 per tutti”, era molto ambiziosa. Partiva dall’idea di non essere contrattata dalle parti sociali per poter favorire chi non era seduto al tavolo della trattativa, mentre in realtà poi è stata contrattata eccome e c’è veramente poco di innovativo per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
Se guardiamo le statistiche vediamo che durante tutto l’arco della crisi il numero di posti persi è relativamente basso rispetto ad altri Paesi, perché in realtà la tutela dei sindacati è stata per chi è già lavoratore a ulteriore discapito di chi non lo è ancora. Negli ultimi vent’anni i contratti nazionali dei lavoratori sono stati siglati da sindacati in modo tale da garantire lo status quo ai lavoratori esistenti a tempo indeterminato a scapito dei giovani e dei disoccupati che, senza loro rappresentanti nella concertazione, sono stati abbandonati alla precarietà e allo sfruttamento. Per tenere alti i livelli salariali dei già tutelati sindacati e politici hanno abbassato i livelli salariali di ingresso e i meccanismi di crescita dello stipendio per i neoassunti. Abbiamo affrontato la crisi salvaguardando il più possibile i posti di lavoro, ma questo ha avuto come conseguenza quella di alzare un muro di fronte alle generazioni più giovani. Perché la cassa integrazione blocca posti, tutela gli esistenti ma non ne crea di nuovi. E se il salvagente della cassa viene utilizzato a lungo, per molti anni, la porta girevole del lavoro si inceppa, intere generazioni rischiano di rimanere bloccate nel meccanismo.

roma fotogramma de La dolce vita, Fellini
Il salario medio in Italia è pari a 14.700 euro netti (fonte Eurispes). In Corea del Sud e Irlanda si guadagna mediamente il doppio, in Francia, Stati Uniti e Germania crica il 50% in più. C’è poi un cuneo fiscale del 46.5% che fa sì che il lavoratore incassi il 53.5 di quello che il datore di lavoro effettivamente paga per assumerlo. Con questa premessa andiamo ora a studiare i valori lordi per classi di età così come riportati dal Sole 24 Ore. Un operaio trentenne prende mediamente 21.332 euro lordi l’anno. Un operaio cinquantenne ne prende 30.555, quasi il cinquanta per cento in più. Disparità ancora più evidente: un operaio appena assunto con meno di ventiquattro anni di età prende mediamente 19.217 euro lordi l’anno; un operaio cinqantacinquenne 31.873 euro, poco meno del sessanta per cento in più. Queste politiche salariali sono riprodotte con dimensioni analoghe in qualsiasi livello e in qualsiasi comparto. Persino tra i dirigenti di fascia molto alta nelle aziende un quarantenne brillante può sperare di portare a casa mediamente 99.746 euro lordi l’anno, il suo pari grado ultrasessantenne e forse un po’ stanco ne porta mediamente a casa 130.367. Secondo i dati della Cgil sarebbero 8 milioni i precari in Italia (compresi quattro milioni di lavoratori in nero), in massima parte under 40 con un salario medio inferiore ai mille euro e senza diritti. Non sarebbe più ragionevole, visti i rischi assunti da un lavoratore che accetta la flessibilità del mercato del lavoro, pagare di più i precari e di meno chi ha più garanzie e certezze sul proprio futuro come capita in tutta Europa?

Roma La grande bellezza di Paolo Sorrentino, fotogramma di discoteca
Grande parte dei falsi miti riguardano le pensioni e innnalzamento dell’età pensionabile. Prima del 1995 delle scriteriate politiche che poi hanno portato alla dilatazione del debito pubblico permettevano di andare in pensione con criteri a dir poco generosi. C’erano persone andate in trattamento di quiescenza prima dei quarant’anni di età perché nei favolosi Anni Ottanta bastava aver versato quindici anni, sei mesi e un giorno di contributi per aver diritto a pensione. Pensioni che si sono rivalutate negli anni a ritmo di inflazione fino ad arrivare a costare attualmente allo Stato 240 miliardi di euro all’anno, il 15.6% del prodotto interno lordo (dati Istat). La riforma Dini del 1995 decise, sostanzialmente, che i nostri padri (cioè coloro che avevano versato almeno diciotto anni di contributi) continuassero ad andare in pensione con i vecchi criteri e il metodo retributivo, ottenendo così una pensione che nei fatti è pari a più del novanta per cento dell’ultima retribuzione. Gli altri, i più giovani, sarebbero andati in pensione con il metodo contributivo, calcolato dunque sui contributi effettivamente versati. Ora, la sommatoria dei fattori della precarietà dei posti di lavoro e di politiche salariali basse, fa sì che i contributi versati siano poca cosa e una recente stima del Corriere della Sera prevede che la pensione media di un under 40 di oggi sarà pari al 36% dell’ultima retribuzione e ammontante comunque ad un importo inferiore rispetto ai 540 euro della pensione minima sociale.
Calcoli fatti dal Center of Research di Pittsburgh sui sistemi di welfare occidentale affermano che la pensione media di un italiano nato negli anni Ottanta sarà pari a 340 euro mensili. Per integrare questa miseria sono stati invitati i giovani lavoratori italiani a versare il proprio TFR presso fondi di previdenza integrativa. il risultato finale è che oggi i nostri padri possono andare in pensione a sessant’anni, con il novanta per cento dell’ultima retribuzione e il TFR in tasca. Chi è nato dopo il 1 gennaio 1970 andrà in pensione a settant’anni, con il 36% dell’ultima retribuzione e senza il TFR. A questa ingiustizia colossale si lega quella dell’importo delle pensioni. Intanto diciamo subito che, secondo i dati Istat, vengono erogati ogni mese oltre 23 milioni di trattamenti previdenziali. Alcuni italiani percepiscono anche più di una pensione. Ebbene, il 27.4% delle pensioni ha un valore superiore ai 1.500 euro mensili e il 13.7% superiore ai 2.000 euro mensili. Insomma, lo Stato eroga circa sei milioni di pensioni superiori almeno del 50% al salario medio di otto milioni di precari.

Tre poeti: Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Rita Mellace Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina
Per continuare a pagare trattamenti di quiescenza senza pari al mondo per quantità e età pensionabile, la generazione dei nostri padri tolto ogni ipotesi umanamente accettabile di tutela previdenziale alle mezza Italia degli under 40. I padri, per stare bene loro, hanno depredato i loro figli. La recente riforma delle pensioni e l’innalzamento della età pensionabile è stata una soluzione positiva e indispensabile per parificare doveri e diritti intergenerazionali e risolvere nell’immediato l’emergenza, ma non basta. La politica, come il sindacato, ha spesso assecondato, per mero calcolo elettorale, l’egoismo degli anziani. Per esempio, tra gli iscritti alla Cgil sono i pensionati quelli numericamente più consistenti: la loro forza d’urto, in caso di votazioni, supera quella di ogni altra categoria. Come si può pensare che i giovani vogliano ancora iscriversi a un sindacato?
Da sempre in alcune professioni la successione e il ricambio sono garantiti dalla famiglia: il notaio lascerà lo studio al figlio, il taxista gli lascerà la licenza. Se però oltre a questi anche tutti gli altri posti di lavoro si ostruiscono, chi non è figlio di nessuno dove va? Per facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel mercato del lavoro occorre smontare gli attuali meccanismi di cooptazione. Se per le aziende fosse più economico assumere i giovani, lo farebbero di più? Probabilmente sì, garantendosi la possibilità di avere dei quadri nativi digitali, nuova linfa vitale. Che da dieci anni a questa parte non c’è più. Non siamo in grado di riconoscere le competenze perché il mercato non funziona: nelle società funzionanti è il mercato che riconosce la professionalità.

imperatore romano Caracalla
In un Paese con oltre due milioni di disoccupati “ufficiali”, e 2,7 milioni di “scoraggiati” (di persone cioè che non hanno un lavoro, ma hanno rinunciato a cercarlo, scoraggiati dalle difficoltà) a favorire le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro contribuiscono l’inesistenza di un valido sistema di Agenzie dell’impiego (da un’indagine Istat risulta che solo il 5% degli italiani trova lavoro attraverso le agenzie, mentre il 55% lo trova attraverso amici e parenti), la frammentazione dei possibili datori di lavoro in una miriade di imprese piccole e piccolissime, ma anche la mancanza di qualifiche adeguate da parte degli aspiranti lavoratori. La meritocrazia, a scuola e all’università, dovrebbe essere valorizzata molto più di adesso. Oggi chi esce con un voto alto non ha nessun vantaggio rispetto chi esce con un voto meno alto ma con un patrimonio di contatti e amicizie.
L’età media dei nostri docenti, politici e dirigenti è tra le più alte del mondo occidentale. Il gap retributivo tra giovani e anziani è in continuo aumento, mentre la possibilità di fare un salto rispetto alle condizioni socioeconomiche dei genitori è sempre più bassa. D’altronde con una disoccupazione che supera il 30% le possibilità di riscatto sono molto ridotte. Questa esclusione sistemica dei giovani ha radici culturali, esacerbate certo dalla crisi, ma ben più antiche. Esiste una vera e propria corporazione generazionale che è decisamente più forte nelle istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e nei centri del potere culturale. Esiste un meccanismo di cooptazione inventato e consolidato dalla generazione del Sessantotto, proprio quella che ha fatto la rivoluzione contro i poteri costituiti. Le relazioni sono tutte impostate sull’omologazione e sul riconoscimento reciproco. Questo discorso certo vale soprattutto per i posti apicali, ma è ovvio che anche questi vadano liberati, per sbloccare il ricambio generazionale anche ai gradini inferiori della scala gerarchica.
È un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri, e gli pseudo maestri, ci sono sempre stati. Poi però si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. I giovani di oggi non hanno gli strumenti per farlo, e si appiattiscono sulle idee dei vecchi. Temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro, e quindi del suo stesso futuro. Sempre che non sia troppo tardi. Le generazione dei nati negli anni settanta e ottanta ormai sono perdute, ma forse non è ancora troppo tardi per i nati negli anni novanta e negli anno zero.
Il liberismo, degenerazione del liberalismo, punta tutto sulla libertà d’azione delle classi privilegiate, a scapito degli individui. Mancanza di etica, arrivismo servile, mania di protagonismo vengono offerte alle giovani generazioni, che finiscono col vivere le proprie difficoltà come colpa personale. Ci siamo messi via la rivoluzione, la prospettiva ideologica marxista del sovvertimento, ma possiamo usare l’intelligenza per cedere un po’ di disoccupazione ai parlamentari in gara per la loro ricca sopravvivenza. E quindi fare scelte diverse, tali per cui non si perda nulla ma si rinunci coscientemente, per il bene di tutti. Per quelli nuovi che verranno conterà l’esempio che sapranno dare, con fatti e parole. Il sistema resterà meritocratico, ma che almeno si abbia la garanzia che resti tale, e senza esclusioni.
“Non fidarti mai di nessuno che abbia più di 35 anni” (Jerry Rubin, politico e attivista statunitense, anima della rivolta di Berkeley)
“Siamo il paese dei perpetui e delle perpetue senza via di mezzo.” (Flavio Almerighi, sfigato di un impiegato che scrive poesie per non impazzire del tutto, aspirante pensionato)
Quarant’anni fa eravamo tutti giovani, ora siamo tutti vecchi perché non ci siamo mai preoccupati di lasciare niente a nessuno. Gli anni Ottanta sono stati il crocevia verso l’inizio della fine di una società nata dal dopoguerra, italianizzata dalla televisione, corroborata dai benefici innegabili di una posizione strategica importante ai tempi della cortina di ferro. Le speranze di un paese migliore nato dalla Resistenza sono durate una ventina di anni poco più. Una classe politica di autentici gangsters (così gli americani definivano i politici italiani al tempo della guerra fredda) ha prosperato e i suoi epigoni non si sono ancora estinti. I sessantottardi, i settantasettini, le pantere e i loro cuccioli hanno sostituito degnamente i vecchi democristiani, diventando ancora più democristiani, dopo una fase di contestazione propedeutica alla loro assimilazione, capaci quanto loro a perpetuarsi in un paese dove persino un posto da spazzino viene trasmesso per via dinastica. La metastasi della corruzione e della disonestà si è estesa indistintamente a tutti gli strati sociali di un paese già immobile di suo. Teniamo presente che quasi tutti noi abbiamo sguazzato come porci e per tornaconto in questo sistema. I giovani se ne vanno perché pur essendo oramai una minoranza silenziosa e rincoglionita, hanno ancora istinto di sopravvivenza, forse talento, e chi ce la fa crede nel futuro, e così la parte migliore di questo paese se ne va, Matteo Renzi e Matteo Salvini restano. L’Italia non sta vivendo un passato, un presente o un futuro: semplicemente si conserva. C’è solo da sperare che la moria di certe generazioni, inevitabile e per motivi anagrafici non augurerei la morte a nessuno, sia rapida. Il PIL aumenterebbe esponenzialmente grazie ai cassamortari.
Le analisi sono tutte precise e obbiettive, ho fatto 40 anni di lavoro, lavoro da quando ne avevo 16 e mi son rotto il cazzo di lavorare sotto padrone, darei volentieri il mio posto a un giovane, ma pare debba lavorarne almeno altri 4. Le analisi sappiamo tutti farle, c’è solo un piccolo particolare: non sappiamo metterci insieme per cambiare le cose. E gli artisti veri non debbono più stare zitti.
Lucio Mayor e Flavio Almerighi hanno espresso considerazioni che io mi sento di condividere. Bravo Maurizio Pittau anche per le ultime due righe di speranza con le quali conclude la sua riflessione.
Ubaldo de Robertis
bhe’ certo, la speranza dei nati negli anni ’90 e oltre è che non chiudano gli estetisti e i venditori di telefonia cellulare che frequentano come prassi…
sig.de Robertis, perdoni il tono, non era rivolto certamente a lei. Ho, di fatti, omesso il destinatario, perché mi riferivo semplicemente agli ultimi righi dell’articolo. Voglia gradire i miei saluti adesso che ho riletto e ho notato la poca gentilezza con cui mi sono espressa.
Nessun problema, cara amica. Alla mia età quando sento la parola speranza per i giovani mi si allarga il cuore (anche se il mio, purtroppo, è malandato.
Ubaldo de Robertis
Ho letto con interesse questo articolo, preciso, micidiale e molto realista. Io nata a metà anni ’70, meridionale, con un titolo di studio che mi ha permesso una libera professione, una casa derivata da eredità che ha comportato le classiche rotture in seno alla rimanente famiglia d’origine, madre felice di una femminuccia e sposata con un coetaneo libero professionista che devolve un terzo del guadagno ad uno Stato (che per noi è soltanto un participio passato) ho imparato a vivere giorno per giorno e soprattutto a non aspettare nulla dai governanti. Non ho mai lasciato il sud, perché credo che la vita sia solo questione di scelte, di testardaggine e di priorità…nel senso che sia io che mio marito avremmo potuto emigrare altrove, lavorare entrambi, vivere due ore insieme come dopolavoro e far crescere nostra figlia ad una balia…Cosa voglio dire con questo? Che gli aspetti economici sono importanti, senza dubbio anche la conduzione di uno Stato è importante, ma oltre a ciò, dovremmo imparare nuovamente a considerare le risorse umane, le persone, senza inglobare tutto e tutti in luoghi comuni e stereotipi. Qui al sud, magari, le donne lavorano meno (se non considerate il lavoro casalingo, che fa tanto plebe, ma è necessario più di quello dell’avvocato) perché scelgono di crescere il figlio al massimo i due figli che sceglie di avere, vestendo il secondo con gli abiti del maggiore e magari non andando in pizzeria tutti i sabato o abolendo l’aperitivo e il telefonino all’ultima moda. L’analisi proposta è valida, ripeto, senza dubbio, ma per favore evitate quel fare pietoso e tristissimo degli insoddisfatti.
Le rivoluzioni nascono nel piccolo; la coscienza comune va coltivata giorno per giorno e, soprattutto, occorre imparare nuovamente a credere in altro, oltre il denaro. E scusate se sembrerò matta o fuori luogo.
aggiungo solo un’altra piccola riflessione personale: per lavoro non s’intende o non si deve intendere soltanto quello del dirigente o del docente o del medico o altre professioni che “regalano” buona visibilità nella società. Il lavoro è anche quello del contadino e, a mio avviso, se non fossero mai nati i pregiudizi su alcuni lavori, tutte le generazioni che hanno lasciato il mio sud non avrebbero mai sentito “il peso” di continuare a svolgere lavori artigianali e umili o di condurre quei terreni che, alla fine, hanno sfamato e sfamano anche i top manager. Il problema è stato quell’insinuare differenze sociali senza considerare tutti uguali in quanto persone.
Quanto sono vere le sue parole signora Greco, da siciliano della diaspora le condivido appieno, le faccio mie. Salvatore Martino
gentile Salvatore, mi chiami per nome, ne sarei lieta!
Angela
Scrive Maurizio Pittau: «Esiste una vera e propria corporazione generazionale che è decisamente più forte nelle istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e nei centri del potere culturale. Esiste un meccanismo di cooptazione […] È un problema di asfissia culturale».
Ecco, è un problema di “asfissia culturale”, la nostra età della stagnazione ha prodotto guasti enormi alla coscienza civile del paese, guasti prodotti da una casta politica che si è perpetuata per diritto cardinalizio e diritto divino e che ha occupato tutti i gangli del Potere del paese creando una sorta di democrazia parlamentare che altro non è che una spietata e corrotta autocrazia della Casta politica.
Per tornare alla poesia, direi che la poesia c’è, ci sono ottimi autori, è viva come si vede scorrendo l’Ombra delle Parole, ma non andate a leggere la poesia della casta pseudo culturale degli editori a maggiore diffusione nazionale, come si dice con un eufemismo, là non ci troverete nient’altro che cloroformio, sonnifero, conformismo…
La corda a portata di mano, il salto nel vuoto questo comporterebbe la condizione disastrata della nostra cosiddetta Repubblica fondata sul lavoro e sulla democrazia ( al pronunciare questo nome quasi magico i cittadini ateniesi di spiaccicano sulle lore stele, i rivoluzionari di Francia si nascondono in una feroce Restaurazione. Io che mi reputo estremamente fortunato per aver vissuto l’Italia della guerra e del dopoguerra, l’Italia del boom e della fratellanza, quella delle ideologie seppure sbagliate , e guardo con una sorta di soddisfazione alla mia condizione passata e attuale, esaminando la situazione globale del nostro paese politica, economica e sociale così priva di un barlume di etica dovrei incominciare un epicedio alla maniera di Cassandra. Purtoppo il popolo italiano è costituito in parte da ladri, approfittatori, furbetti da quatto soldi , totalmente privi di senso civico.Basta guardare le nostre città come sono devastate dall’incuria di chi le vive e di chi le dovrebbe amministrare. Tutti noi conosciamo profondamente le vicende di tanti anni a questa parte,e le geremiadi risultano inefficaci. E la classse dirigente nel suo specchio profondo rimanda l’immagine capovolta di questo popolo un tempo all’avanguardia in Europa.Già anche la Cultura alla quale si destinano frazioni infinitesime del miserabile , imperscrutabile, incomprensibile PIL. Certo se un autorevole Ministro della Repubblica sostiene che con la Cultura non si mangia “siamo del Gatto” come si dice in Toscana inteso come topi. C’è anche un lato per me oscuro che in tutti questi anni non sono riuscito a cogliere pienamente. Ho insegnato a lungo nella Facoltà di lettere a Roma Tre, ebbene: il livello medio dei ragazzi era a dir poco scoraggiante, la loro preparazione specifica anche sui temi di pertinenza della Facoltà stessa allarmanti. guardavano solo ai crediti, senza approfondire nulla, con un disamore verso lo studio, l’apprendimento , gli insegnamenti del maestro, sotto una patina di ignavia insopportabile. Io che sono un testardo , lavoratore, forse un po’ dispotico attraverso una fatica semestrale riuscivo talvolta a scuotere le loro coscienze, a farli uscire da quel circolo vizioso di Facebook, ipad, selfy, messaggini che appiattiscono le coscienze, mettono a tacere il mondo inconscio, distruggono in parte i rapporti interpersonali. Sono arresi e se in parte hanno mille ragioni di disagio, non possono, non debbono abbandonarsi al totale scoramento. Certo anche la cosiddetta Giustizia opera secondo canoni sempre ambigui, e comunque estremamente permissivi. In quale paese civile chi froda il Fisco non va in galera rimettendo allo stato tutto il dovuto? Casi clamorosi in America ( addirittura Al Capone incastrato per evasione), tutta una serie di super miliardari nelle patrie galere, in Spagna Isabel Pantoja grande stella della canzone sta scontando la pena in carcere per il medesimo reato, Ingmar Bergman, il più grande regista di tutti i tempi, conobbe anch’egli in Svezia l’onta della galera. Qui in ITalia solo per fare due nomi : Gianna Nannini e Valentino Rossi, ma ce ne sono molti altri, evadono per milioni di euro patteggiano e pagano forse nemmeno un quinto, e alla galera non si accede mai. I signori che hanno trasferito all’estero abusivamente somme anche elevate se le riportano in Italia pagando appena il 5&. La lentezza ossessiva dei processi fa sì che tanti reati cadano in prescrizione ( nel settecento Lesage nel Turcaret affermava : tuttto cade in prescrizione con una nota tragica e cinica della realtà) Certo se si depenalizza anche il falso in bilancio, allora davvero si capisce come questo governo e i precedenti tutti governi di “merda” siano dalla parte dei forti, che questo sconsiderato e frenetico liberismo, avvalendosi del mostro globalizzazione ha tracciato un solco profondissimo tra i pochi che detengono la metà delle ticchezze e la stragrande maggioranza degli individui che si arrabbatta a sbarcare il lunario. Ovviamente è meglio non toccare il Tasto UE , e gli spaventosi errori che l’Occidente ha commesso dal secolo scorso, e dei quali paghiamo un tasso estremamente oneroso.Per concludere sono pienamente d’accordo con la lucida disanima
di Pittau vorrei solo aggiungere quasi con un rivolo di speranza una parola per i giovani: aprite il dialogo con voi stessi, cercate al profondo quello che vi viene negato, avvicinatevi se potete all’Arte in tutte le sue manifestazioni, la forza planetaria dell’universo risiede dentro di noi. So che è un cammino impervio, faticoso ma il faut tenter de vivre cantava Paul Valery..
Criticatemi pure ma quanto era più felice l’talia dei primi anni sessanta e oltre quando litigavamo su Marxismo e Capitalismo: io mi esibivo nei Festival dell’Unità, e si credeva davvero che il comunismo poteva cambiare il mondo. Peccato! non è stato così. Ma quando durante un viaggio con la Gioventù Comunista nell’Unione Sovietica mi fermai in una cittadina dell’allora Cecoslovacchia con meno di settantamila abitanti vi trovai quattro Ospedali e cinque Teatri, con compagnie che lavoravano undici mesi l’anno. Pe r me attore come quasi tutti al borde de un ataque de nervios per ricerca di lavoro e attese, per condizioni di leccaggio e non di meritocrazia, mi sembrò un universo irraggiungibile ma da desiderare. Anche questo caduto in prescrizione. Salvatore Martino
“Certo anche la cosiddetta Giustizia opera secondo canoni sempre ambigui, e comunque estremamente permissivi. “ Caro Martino si è allargata la base di chi ha la possibilità di rubare, per il resto Giustizia e ladri di beni pubblici sono andati sempre di comune accordo, Se quel brav’uomo (di origine contadina) che risponde al nome di Catone il Censore non faceva che disperarsi:
“Fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures publici in auro atque in purpura.” (Notti attiche XI, 18, 18)
“I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori.”
Ubaldo de Robertis
Non che conti molto, ma per amore di precisione mi permetto di integrare, nel dato indicativo e identificativo, la citazione latina fatta dall’amico Ubaldo de Robertis.
A un lettore superficiale o che ignora la letteratura latina, può apparire – per indicazione incompleta- che “Notti attiche” sia opera scritta da Catone. Invece ne è autore Aulo Gellio che, nella detta opera ( XI, 18, 18) cita, appunto, una frase di Catone, fedelmente riportata dall’acuto de Robertis.
Pasquale Balestriere
Caro Pasquale è proprio come affermi tu. È stata una mia trascuratezza e chiedo scusa. L’ esempio resta valido e ci fa capire che l’attuale andazzo, non soltanto italiano, parte da molto lontano.
BUONE FESTE.
Ubaldo
Eh, sì, caro amico.
Buone feste anche a te.
Pasquale Balestriere