D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci. Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski. L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia. Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta. Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta. Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron. Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.
Giorgio Linguaglossa: Per una poetica del Vuoto. Quella “Cosa nuova”
I
«Interno senza mobili.
Luce grigiastra.
Alle pareti di destra e di sinistra, verso il fondo, due finestrelle molto alte da terra, con le tende tirate.
In primo piano, a destra, una porta. vicino alla porta, un quadro appeso con la faccia contro il muro.
In primo piano a sinistra, ricoperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro.
Al centro, coperto da un vecchio lenzuolo, seduto su una sedia a rotelle, Hamm».
È la didascalia d’inizio di Finale di partita (1957) di Beckett. In un certo senso, questo introibo può fornirci un incunabolo di ciò che ospiterà il palcoscenico, non solo per il teatro dell’avvenire ma anche per il romanzo e la poesia dell’avvenire.
Anche questo libro di Edith Dzieduszycka mette in scena una rappresentazione primaria, il fondamentale, ciò che è rimasto dopo il naufragio di quel Titanic che un tempo è stato l’«io» della Ragione Occidentale. E non può essere diversamente: ogni libro di poesia che si fa oggi non può che replicare il calco, lo Urbildung, la forma primaria. Oggi, un libro di poesia degno del nostro tempo non può che rappresentare qualcosa che richiami alla memoria la Struttura Assente, quello che gli esistenzialisti chiamavano negli anni Sessanta il «nulla» e che oggi alcuni filosofi preferiscono chiamare il «Vuoto». La rappresentazione primaria di Edith Dzieduszycka ospita l’azione scenica primaria: la rappresentazione della morte dell’«io», e della sua resurrezione, ma solo come involucro, surrogato, idolo, feticcio di un «io» che è scomparso. Ritorna in mente l’interpretazione adorniana secondo la quale l’opera d’arte del dopo Auschwitz, non può far altro che dichiarare la negatività del presente, e nel trovare una sua positività proprio in questa dichiarazione sostitutiva di negatività. Qui Adorno coglie un elemento essenziale della poesia del Dopo Auschwitz: la rappresentazione del negativo come essenza della poesia moderna.
Trivella di Edith Dzieduszycka prende atto della fine della poesia positiva, del decesso della poesia-conversazione, trova una sua ragion d’essere nello svuotarla dall’interno, innanzitutto riducendo il colloquio (la conversazione) in un monologo fine a se stesso, privato della sua funzione significante, e quindi sociale; e poi perché nel libro si mette in atto il fatto nudo e crudo della morte dell’«io», rivelandone la natura di rappresentazione teatrale, di fiction e nulla più.
Leggera
eterea
galleggiava
la Cosa nuova
indescrivibile
sgusciata dall’io
ormai disabitato
e volava
quella Cosa strana
volava…
Dunque, ci sono «un frastuono di luci», «luci bianche», «un tappeto», una «Cosa nuova» «sgusciata dall’io», c’è una «paccottiglia derisoria / ciarpame superstizioso». C’è tutto il necessario per indicare un interno borghese con tutto il suo armamentario di delitti e di scheletri stipati negli armadi, con anche lo scheletro della cultura e delle cose «belle».
Ovattato
incredulo
volava
quell’Io nuovo
Forse provano simili sensazioni
incomunicabili
i cosmonauti
nello spazio
le farfalle
liberate dalla crisalide
i pesci
e i pulcini
dall’uovo
[…]
Avevo letto
di lunghi tunnel
in fondo ai quali scintillano
luci bianche
abbaglianti
Avevo sentito
di musiche celestiali
di ombre
pian piano riconoscibili
che avanzavano incontro
a chi si era smarrito
Paccottiglia derisoria
ciarpame superstizioso
che allora
tanto
mi irritavano
Ed ecco
proprio quelle sensazioni
stavo provando
Ero fermo
e volavo
Ero fermo
e scivolavo
lungo pareti ondeggianti
dai colori mai visti…
È l’esistenza di un «io» che è rinato dal decesso del precedente:
Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota…
Una voce monologante, la voce di un «ectoplasma» che racconta una «scoperta incredibile», «Al di fuori di ogni immaginazione». Il Nuovo «Io» che vive in un mondo di altri «io» sopravvissuti ad una catastrofe, senza saperlo, senza neanche sospettarlo, che guardano al nuovo «Io» «come se fossi / un pericoloso extraterrestre». È il mondo del Dopo la terza guerra mondiale, del Dopo il conflitto atomico, del Dopo lo scontro delle civiltà. La voce monologante parla, straparla, è una voce alienata ed espropriata di se stessa, la voce di un morto vivente, di un sopravvissuto di «un pericoloso extra terrestre» che non sa che farsene di questo nuovo «io» che «galleggia» nel vuoto.
La poetessa utilizza il piano basso del linguaggio, un parlato a metà tra la conversazione e la confessione, lessico sobrio, visione minimale o minima delle cose, attenzione che si posa sugli aspetti minimi delle vicende rappresentate, «tra persone ben educate» come l’attesa in un ufficio dell’anagrafe dove con 26 centesimi ci si assicura «d’esistere in vita». Una condizione nella quale «mi manca l’orizzonte», quel malessere quieto dell’esistenza tipico delle società della affluent society, come si diceva una volta, prima dell’epoca della stagnazione e della recessione. Non c’è altro da dire per un poeta della metropoli odierna come Roma dove la Dzieduszycka vive, tutto è a posto, la borghesia colta mediatizzata vive nella «sfilata di salotti con arredi pregiati / Nulla da contestare», alla poesia non è rimasto nulla da dire. Altro che poesia civile, o impegnata, qui è la poesia che è stata fatta sloggiare dal ruolo di critica sociale nel quale un tempo si pacificava la coscienza delle anime nobili, ormai la pacificazione è entrata dentro le cose, dentro un modo di vita che non promette alternative, e alla poesia non resta altro da fare che prenderne atto.

New York City
Come un tempo si diceva, la visione del mondo della Dzieduszycka, la sua Weltanschauung, (se vogliamo apparire colti), è ben indicata dalla citazione di Emil Cioran posta in esergo del libro: «Bisognava rimanere allo stato larvale, fare a meno dell’evoluzione, rimanere incompiuto, gioire della siesta degli elementi, e consumarsi placidamente in una estasi embrionale». Il titolo della prima sezione del libro è: «Andata e ritorno». Il cerchio si è chiuso. Tutto è finito. Non è propriamente, credo, la storia dell’eterno ritorno, ma un ritorno che segna definitivamente la morte di tutto, perché nella storia del nichilismo moderno siamo arrivati a questo punto, alla morte del tutto e al ritorno nel nulla. Il luogo dell’azione è, come quello del Finale di partita, un interno spoglio, illuminato da una luce grigiastra, forse ci sono due piccole finestre poste in alto, forse è il palcoscenico stesso, forse è l’interno dell’occhio che guarda, o forse è il «palcoscenico dell’anima mia» di Palazzeschi? No, è il palcoscenico con un feretro nel mezzo, il feretro dell’«io» morto. Si tratta dunque di una meta-narrazione, poesia meta-teatrale, meta-poesia. Siamo dentro un bunker, un rifugio in mezzo alla neve che imperversa, o un rifugio antiatomico, dopo l’esplosione di una bomba nucleare. Dentro, c’è un sopravvissuto, l’«io» che è morto e che è rinato, non si sa come e non si sa perché: «In frantumi / testa / petto / corpo intero / dolore / frastuono / luci…»; «Contemplavo / qualcosa / che ero stato / che era stato mio / che assomigliava / a quel che ero stato / steso sul tappeto / insieme all’altro corpo / sconosciuto / portato lì / per essere consumato // L’altro corpo / avvinghiato / all’involucro di me / abbandonato / L’altro corpo / fremente / che lottava / si divincolava / per liberarsi dalla morsa inerte…».
5
Mi hanno trasportato
in un luogo bianco
freddo
illuminato da luci
abbaglianti
e crudeli
Maledetti
non ho potuto fermarli
Si sono a tal punto
ingegnati ad ostacolare
il corso naturale delle cose
si sono accaniti
con tanta ostinazione
a risalire la foce
della mia corrente
che ci sono riusciti
E strappavano dalla morbida nicchia
nella quale mi stavo adagiando
i pochi filamenti che
ancora
mi mantenevano
allacciato al voltaggio di giù
per ricollegare gli ultimi elementi
ancora disgiunti
Si sono poi congratulati
rumorosamente
tutti intorno al mio letto
somministrandosi grandi pacche
sulle spalle
mentre stappavano
bottiglie di champagne
con un brindisi
Abbiamo lottato a lungo
vecchio mio
ma ti abbiamo salvato !
gongolavano
gonfiando il petto
E proclamavano
orgogliosamente
Faticoso è stato l’atterraggio
ma ce l’abbiamo fatta|
L’abbiamo ripescato per i capelli
Potrà accendere un cero
alla Madonna
e uno
più grande ancora
a noi!
Ma non m’importava nulla
dei racconti di quelle
– ai loro occhi –
prodezze
Anzi
mi facevano rabbia
Non mi avete chiesto
né il mio parere
né il mio consenso
Che d’altra parte
in quel momento
non sarei stato in grado di dare
Ed è
quell’incapacità
l’unica scusante
che riesco a concedere loro
la sola discolpa
che a malincuore
posso loro riconoscere
però non volevano ammettere
di aver agito
con una prepotenza inaudita
di essersi appropriati
di una vita
non loro
di aver oltrepassato
i limiti
erano invece sicuri
di stare dalla parte giusta
Sgomenti
e rabbiosi
mi hanno preso per pazzo
rimanendo di stucco quando
invece di ringraziamenti
si sono visti bersagliare d’improperi
Ma dov’era
il grande merito
che si attribuivano?
Pensavano forse
di essersi trasformati
negli artefici
di una resurrezione
di una ri-creazione?
Riacchiappando il bandolo
d’un misero gomitolo
che si stava esaurendo
e il cui filo era sul punto
di sfuggir loro dalle mani
per smarrirsi e sparire
nella grande matassa del mistero
Aver riportato indietro
uno
uno qualunque
contro la sua volontà
a loro sembrava
un’impresa prodigiosa
degna dei più grandi elogi
di un’eterna gratitudine
Invece no
Per me si era trattato
soltanto
di un andare
contro la corrente
dell’ineluttabile
Di una mossa prepotente
per la quale li odiavo
adesso
con tutte le mie forze
Perché avrei voluto
rimanere
lassù
sospeso
senza identità
senza peso
senza consistenza
senza pensieri.
Ci stavo bene volevo rimanerci
Là sotto
invece
ombre in camici verdi
si agitavano
indaffarate e moleste
Mi pervenivano
le loro voci
lontane
immerse in un tiepido brodo
voci sempre più deboli
quasi inintelligibili
Dolori sconosciuti
m’avevano squarciato il petto
con lance
spade
coltelli
Poi
all’improvviso
si erano allentati
per sparire del tutto
Fuoriusciti
insieme all’io
testimone
osservatore
leggero come soffio
di brezza primaverile
Dapprima impaurito
poi incuriosito
appassionato
nel seguire le fasi
della metamorfosi
che si stava compiendo
Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota
Spettatore
del mio rifiuto
scarto del mio rifiuto
diniego
a reintegrarlo
Oggetto impotente
senza più voce né volontà
in balia del balletto verde
indaffarato
che gli volteggiava intorno
mosche ronzanti
avide
all’assalto d’un pezzo
di carne marcia
Ho capito poi
qual era lo scopo
di quelle mosche prepotenti
Cercavano di rianimare
le sembianze del me
di ridare movimento
alle membra inerte
battito
al cuore impazzito
poi ineluttabilmente
fermo
Hanno palpeggiato
massaggiato
perforato di aghi
fatto saltare
cavalletta impazzita
la bestia renitente
e sopra quella bestia
lottavo
con tutte le mie forze
gemevo
non mi sentivano
gridavo
non m’ascoltavano
urlavo
e a loro
non arrivava nulla
della mia disperazione
mi opponevo
con tutte le forze
alle loro manovre
Ma possiede forze
un ectoplasma?
Così ho capito
in modo sempre più chiaro
che la lotta era vana
Inutili
i miei patetici tentativi
di oppormi
Cominciavo a sentire
che i fili si stavano
riannodando
che il guscio vuoto
era pronto
a spalancarsi
del tutto
per riassorbirmi
per imprigionarmi
nuovamente
Perché loro
erano i più forti
Non dovevo illudermi
Ormai
avrebbero vinto.
In alcuni momenti sembra che invece di scrivere la Dzieduszycka, (brava peraltro), tessa una tela di parole misurate, pacate, a testimoniare la resa “dentro un modo di vita che non promette alternative,- come osserva il Linguaglossa, e quindi- alla poesia non resta altro da fare che prenderne atto.”
Si sono a tal punto
ingegnati ad ostacolare
il corso naturale delle cose
si sono accaniti
con tanta ostinazione
a risalire la foce
della mia corrente
che ci sono riusciti
Ogni nostra parola è un di più.
Ubaldo de Robertis
Più hanno il cognome impronunciabile e più sono ricchi di talento. Era già stata proposta, non si possono non ammirare questi versi. Più che poesia del vuoto la definirei poesia di un vuoto riempito con successo attraverso ottimi versi. Autrice davvero buona e la poesia ne prende atto.
Per quanto queste composizioni siano significative (e spesso notevoli) resta comunque il senso di una ‘narrazione’. La poesia deve sempre ‘narrare’ o descrivere e non piuttosto ‘essere’? cioè esistere di per sé?
secondo me più generi possono coesistere e la loro esistenza ha senso
Il commento di Luciano Nanni è pertinente ma preferisco non essere io a rispondere. Aspettiamo che siano i lettori del blog a rispondere.
ho già risposto
Il dato che risalta nei lavori di Edith oggi proposti mi pare che sia il tono. Un tono medio che deriva da un lessico e da un ritmo sorvegliati. Tono, lessico e ritmo volti a servire la poetica del “guscio” (“sfilato dal guscio”; ” che il guscio vuoto/ era pronto/ a spalancarsi/ del tutto/ per riassorbirmi…”). Ecco perché nella sua magnifica nota Giorgio Linguaglossa parla di nichilismo e d’un “Io” sopravvissuto: “che è morto e che è rinato”. Nella coesistenza di più generi – come giustamente Almerighi segnala – il talento di Edith ( dal cognome impronunciabile ) emerge in tutta la sua nobile valenza.
Gino Rago
Al caro Luciano Nanni rispondo che non è da oggi che nella forma-poesia (che è uno spazio espressivo integrale) le istanze saggistiche abbiano preso campo ed abbiano dis-locato le istanze “liriche”; così anche le istanze marrative, quelle proprie della narrazione romanzesca, hanno fatto storicamente ingresso nella forma-poesia producendone una implosione dall’interno. Fino al punto che oggi non si può più scrivere una poesia che sia soltanto afflato lirico, tanti sono gli elementi spuri che sono penetrati dentro la forma-poesia. Nel caso della poetessa dal nome impronunciabile, è chiaro che qui siamo in una poesia che narra e delimita un evento, narra un evento e, mentre che lo narra, ce lo mostra, ci gira intorno in modo vorticoso e ossessivo. In un certo senso, è vero che la Zdieduszycka si muove nell’orbita della forma narrativa, ma quest’ultima è applicata alla poesia; come dire, la poetessa romana si muove tra i due risvolti della narratività (quella propria della poesia e quella propria del romanzo), si muove sull’orlo di un bilico, oscilla tra le due forme senza mai perdere l’equilibrio e precipitare in una o nell’altra. E qui, credo, sta la vitalità della sua poesia.
Voglio limitare il mio commento a pochissime considerazioni. Nonostante la spezzettature del verso, quasi sempre breve, ma mai folgorante,questa è davvero prosa, malgrado ripeto i frequeni a capo: nulla che mi dia una scossa poetica, non una immagine folgorante, non un rtitmo, una cadenza musicale. Se la poesia è ridotta a questo davvero non mi interessa e non mi commuove. Sono incapace di un esame critico, sono sempre stato lontano da codesto atteggiamento, conosco i miei limiti, ma prima di ogni esegesi la poesia mi deve trasmettere un qualcosa che raggiunga la mia anima, il mio intelletto, il mio corpo.
“E strappavano dalla morbida nicchia
nella quale mi stavo adagiando
i pochi filamenti che
ancora
mi mantenevano
allacciato al voltaggio di giù
per ricollegare gli ultimi elementi
ancora disgiunti”
Mi lascia totalmente freddo e deluso codesto versificare.
“Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta” mi ricorda la frase finale di uno spot televisivo dell’Amaro Montenegro. Se questa è la poesia di ogg ipreferisco di gran lunga “Orfano” di Giovanni Pascoli “Lenta la neve fiocca etc. nella sua valenza esclusivamente musicale. I grandi poeti odierni dovrebbero tornare, almeno per proprio esercizio, a frequentare le forme chiuse, come accade ancora in tanti altri paesi. Ma ne sono capaci? il grande vantaggio del verso libero, se saputo usare, ha creato a mio giudizio altrettanto guasti. Molti pennivendoli si ostinano a pensare che la versificazione libera non abbia le sue regole, i suoi comandamenti. ERRORE. La sorveglianza di una scrittura poetica è sempre complessa e pericolosamente difficile, il labor limae è quasi sparito, lo scavo del profondo individuale e collettivo, l’ampiezza dello sguardo filosofico, o addirittura metafisico sembra scomparso. i cosiddetti poeti scrivono versi ma non studiano, non vivono da poeti, e non riescono a trasmettere nemmeno il loro mondo inconscio, il proprio io più profondo. Per fortuna ci sono delle eccezioni, poche ma lasciano intravedere uno spiraglio di luce. Salvatore Martino
“Si sono poi congratulati
rumorosamente
tutti intorno al mio letto
somministrandosi grandi pacche*****
sulle spalle
mentre stappavano
bottiglie di champagne
con un brindisi”
Ma come si fa ad apprezzare versi simili? Forse dipende dalla mia incapacità di comprendere l’alta poesia che dentro qui si racchiude, forse ho bisogno che qualcuno più versato di me nella poesia e nella sua critica mi tolga dagli occhi il velo che i impedisce di comprendere e apprezzare. Gliene sarei profondamente grato. Salvatore Martino
Sono stato incerto se intervenire o no, ma quando poi ho deciso mi sono trovato spiazzato dal commento di Salvatore Martino, proprio come accade a un oratore che, dovendo intervenire per secondo su un determinato tema , si scopra puntualmente anticipato dal primo nelle argomentazioni da esporre. Dunque, io condivido quanto sostiene Salvatore Martino, con un tono che oscilla tra l’accorato e il risentito. In particolare sottoscrivo completamente questo passo, che riporto fedelmente:
“I grandi poeti odierni dovrebbero tornare, almeno per proprio esercizio, a frequentare le forme chiuse, come accade ancora in tanti altri paesi. Ma ne sono capaci? il grande vantaggio del verso libero, se saputo usare, ha creato a mio giudizio altrettanto guasti. Molti pennivendoli si ostinano a pensare che la versificazione libera non abbia le sue regole, i suoi comandamenti. ERRORE. La sorveglianza di una scrittura poetica è sempre complessa e pericolosamente difficile, il labor limae è quasi sparito, lo scavo del profondo individuale e collettivo, l’ampiezza dello sguardo filosofico, o addirittura metafisico sembra scomparso. i cosiddetti poeti scrivono versi ma non studiano, non vivono da poeti, e non riescono a trasmettere nemmeno il loro mondo inconscio, il proprio io più profondo. Per fortuna ci sono delle eccezioni, poche ma lasciano intravedere uno spiraglio di luce.”
Di mio aggiungo, relativamente alla scrittura di Edith Dzieduszycka, che essa è costituita da qualche intuizione che naviga ai bordi della prosa e, con volo basso, sfiora i margini della poesia. Né, in questa situazione, premia la scelta del verso breve o addirittura di versicoli costituiti da una sola parola, in quanto mancanti di una carica semantica almeno accettabile sotto il profilo lessicale ed emozionale. Ho anche provato a eliminare gli accapo, disponendo i versi in forma di prosa: alla mia lettura non cambia molto, anche se, in prosa, pare che il tutto trovi una disposizione in qualche modo più consona agli stati d’animo e al mondo interiore che questi versi esprimono.
A mio parere, quella di Edith Dzieduszycka è una poesia piuttosto debole che può essere tranquillamente (e pienamente) inscritta nell’ambito del minimalismo, con tutti i pregi (pochi) e i difetti (molti) di tale tendenza poetica.
Pasquale Balestriere
Dissento sull’assunto di Salvatore Martino e Pasquale Balestriere, in particolare sulla loro tesi secondo cui la poesia della Dzieduszycka sarebbe una forma narrativa spezzettata con degli a-capo. È proprio qui il punto, la Dzieduszycka utilizza i rottami del parlato e non solo ma anche delle parafrasi del linguaggio pubblicitario (come ha notato acutamente Martino) con quel verso:
“Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta”
per operare delle tensioni interne alla forma-poesia resettandola sul piano della sequenza narrativa ma poi, con un colpo di direttore d’orchestra, paludarla nella forma-poesia come di ritorno dalla forma narrativa. Si tratta di uno spaesamento semantico tutto interno alla poesia che ha l’effetto di sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa…
Certo che la poesia della Dzieduszycka può essere messa anche in linea, senza gli a-capo, e siccome è una versificazione di provenienza narrativa non ne avrebbe ripercussioni negative ma potrebbe esistere anche in quella condizione. Ma qui quello che è importante a mio avviso è che la Dzieduszycka opera come un minatore nel sottosuolo dei linguaggi narrativi per ribaltarne il valore semantico traducendo il dettato narrativo in una forma-poetica. Si tratta di una pratica post-moderna utilizzata non solo dalla Dzieduszycka, ma anche da un poeta molto diverso che ho postato stamane come Mario Gabriele. Tra l’altro utilizzo anch’io nella mia poesia la medesima procedura disautomatizzante (non so con quali effetti estetici ma la adotto).
Si consideri che il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, e quindi estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con “Satura” (1971), seguito a ruota da Pasolini con “Trasumanar e organizzar” (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010” edito da EiLet di Roma nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una:
o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi;
o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz con la poesia manifesto “Ars poetica” del 1957 al problema della poesia dell’avvenire.
Giorgio la tua dottissima disssertazione sulla poesia dell’ultimo novecento e dei primi anni del duemila mi convtnce sempre di più sulla pochezza della versificazione odierna, nella quasi totalità, compresa ovviamente dquella della poetessa di cui qui si ragiona. Salvatore Martino
RICEVO A TRASCRIVO DA EDITH dZIEDUSZYCKA IL SEGUENTE COMMENTO:
Due commenti “elettroshock”, che vanno a colpire il mio personaggio e me (e indirettamente te, Giorgio) sopra la nostra nuvola di zucchero! Ma mentre lui la rimpiange e rifiuta le cure, io le accetto, in quanto le critiche aiutano a capire mancanze, errori e peccati, a correggersi e forse a migliorare. Per cui niente più “pacche sulle spalle”, anche se volevano sottolineare lo scarto.
Ma del resto chi non professa gusti, preferenze, antipatie per questo o quello, in qualunque campo? Per fortuna direi, il mondo senza sarebbe molto piatto.
Prosa o poesia? Confesso che il mio getto originale, anche del secondo racconto – visto che racconti sembrano -, è stato in prosa; avrei dovuto mantenerlo?
Giorgio ha spiegato tutto, molto meglio di quanto avrei potuto e saputo farlo.
Per Giorgio Linguaglossa
Tu, Giorgio, dissenti. Dissento anch’io, naturalmente, da quello che sostieni con -mi pare- un pizzico di accoramento.
Vediamo.
Tu scrivi: “la Dzieduszycka utilizza i rottami del parlato e non solo ma anche delle parafrasi del linguaggio pubblicitario (come ha notato acutamente Martino) con quel verso: “Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta” per operare delle tensioni interne alla forma-poesia resettandola sul piano della sequenza narrativa ma poi, con un colpo di direttore d’orchestra, paludarla nella forma-poesia come di ritorno dalla forma narrativa. Si tratta di uno spaesamento semantico tutto interno alla poesia che ha l’effetto di sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa…”
E aggiungi: “Ma qui quello che è importante a mio avviso è che la Dzieduszycka opera come un minatore nel sottosuolo dei linguaggi narrativi per ribaltarne il valore semantico traducendo il dettato narrativo in una forma-poetica”.
Va bene, Giorgio. Su questo potrei anche essere parzialmente d’accordo con te. Ma, alla fine di così titanica fatica, fatta di ribaltamenti e picconate, quali sono i brillanti risultati? Cosa producono nel lettore ( e, se permetti, anche in me, vecchio docente di lettere e ultracinquantennale cultore di poesia) questi versi con i loro “rottami del parlato”, “tensioni interne”, “parafrasi del linguaggio pubblicitario”, con questo saltabeccare tra forma-poesia e forma-narrativa, con lo “spaesamento semantico”, con effetti sensibilizzanti su lettori più o meno acuti? Ti chiedo: questa poesia ha, innanzitutto e soprattutto, il potere di scuotere il lettore, affascinandolo o, quanto meno, interessandolo con la sua grazia, bellezza, forza, fantasia? Produce emozione, appagamento estetico, vibrazioni, sommovimenti interiori, rispondenze sentimentali, effetti fibrillatorî che sono generati solo dalla vera poesia? O non invece parla solo al cervello, allude, ammicca, solletica per, come dici tu, “sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa”? Per me, caro Giorgio Linguaglossa, la poesia ha ben altro sapore e spessore, e fa capo a un’humanitas piena e solida, vera e feconda. Che è proprio tutt’altra roba. Perché – vedi – se la poesia perde il suo fuoco interiore, la sua incandescenza creativa, si riduce ( dico, per chiarezza, che ora sto parlando in generale, senza allusioni particolari) a ben misera cosa, come può essere un bla-bla minimalistico, un rigurgito pseudofilosofico, un semplicismo avventuristico, una fredda e circospetta sperimentazione. E anche altro. Ma non poesia. Non più poesia.
Quanto al tuo amatissimo Miłosz ( che a me piace più come poeta che come teorico, la qual cosa significa che ognuno deve stare nel campicello di competenza), ti ripropongo di seguito una risposta che già in passato ti ho dato.
«Mi pare ovvio che la tridimensionalità (forma-spazio-tempo)siaè una necessità della poesia. Premesso che non ho letto il tuo testo “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010”, mi appare però … abbastanza apodittica, vaga e discutibile nelle conclusioni l’espressione “Il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca ha determinato in Italia una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie…”. Significa forse che in Italia nel secondo Novecento si è affermata una concezione (o una visione, con conseguente realizzazione) di una poesia “superficiaria e unidimensionale” per l’assenza o per una scorretta considerazione di uno o più elementi della triade forma-spazio-tempo? E, se sì, come? e in quali autori (oltre al fin troppo citato Magrelli)?»
Tornando a Milosz,« non mi convince … l’idea contenuta nell’incipit della sua Ars poetica: “Ho sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né troppo prosa” . La teorizzazione della prosa poetica o poesia prosastica (o “forma ibrida” ch’è lo stesso) come superamento e come futuro della poesia, solo perché la forma di quest’ultima è poco “capace”, mi pare un’autentica assurdità. Soprattutto perché, oltre alla già grande varietà di versi e metri, la poesia italiana possiede i versi lunghi ( di dodici, tredici, quattordici, di sedici, di diciannove sillabe!) buoni per tutti gli usi (poetici).
Poi bisogna capirsi. Se vogliamo scrollarci di dosso ogni regola perché siamo incapaci di applicarla (conosco “poeti” incapaci di proporre un endecasillabo decente, e anche su questo aspetto ci sarebbe molto da discutere), perché ci appare come un dogma, un’inutile costrizione, beh, allora uno può prendere qualsiasi strada. Può anche capitare che l’accapo lo detti la pagina, se non lo sceglie il poeta. E poi l’ampio respiro alla poesia non lo dà “una forma più spaziosa” ma la forza e la qualità del creatore (o, più modestamente, del “faber”).
Certo la prosa poetica non è invenzione recente. E può avere una sua vita. Non però come futuro della poesia: che è ritmo, armonia, musicalità, emozione intensa e profonda, grazia, bellezza, forza e tante altre cose; che reclama il suo linguaggio e la sua misura. Perché la poesia, al di là di tutte le teorizzazioni, le interpretazioni, le etichette e le mode del momento, continuerà ad avere vita SUA. E, più che di teorizzatori, ha solo bisogno di buoni interpreti.
Che oggi, per me, difettano.
Pasquale Balestriere
Carissimo Balestriere la sua straordinaria difesa della POESIA mi “commuove” una disanima lucida e accorata che tocca tutti i temi banali dell’odierna versificazione. Come lei afferma con forza e conoscenza:
“Non però come futuro della poesia: che è ritmo, armonia, musicalità, emozione intensa e profonda, grazia, bellezza, forza e tante altre cose; che reclama il suo linguaggio e la sua misura. Perché la poesia, al di là di tutte le teorizzazioni, le interpretazioni, le etichette e le mode del momento, continuerà ad avere vita SUA. E, più che di teorizzatori, ha solo bisogno di buoni interpreti”
Chiaro per tutti? Cerchiamo di arrestare questa deriva che porta al naufragio e con umiltà, studio,introspezione, filosofia , musica, sangue, coraggio, trasmissione diretta tra l’io e l’inconscio, il viaggio, l’amore, la disperazione, il diuturno colloquio con la morte, la vivisezione della realtà politica e sociale, la natura, la metafisica, l’inesausta lettura dei testi dei grandi ma anche dei modesti, il tanto vituperato labor limae divenntato un Convidado de Piedra forse chissà potremo costruire una diga. Salvatore Martino
Carissimo Salvatore Martino,
devo dirle la mia soddisfazione per aver trovato in lei una persona che manifesta molte affinità con il mio modo di intendere la poesia. E devo pure ringraziarla perché, pur avendo deciso di intervenire in questo dibattito, l’ho fatto con animo più leggero e lieto dopo aver letto le sue considerazioni, in particolare quelle che ho riportato nel mio primo commento.
E in quest’epoca in cui l’ombrello della poesia viene stiracchiato di qua e di là, a comprendere e coprire anche ciò che non è poesia, imbattersi in qualcuno che dice pane al pane e vino al vino non è né facile né scontato.
Perciò mi ha fatto piacere quest’incontro, sia pure virtuale ( o telematico).
La saluto con viva cordialità
Pasquale Balestriere
Caro Pasquale,
alla fin fine tu dici bene, esprimi delle tue considerazioni che rappresentano il tuo gusto personale; io nel mio pezzo critico ho espresso alcune considerazioni mie di teorico e di addetto alla poesia, probabilmente entrambi abbiamo ragione ed entrambi torto. O meglio, io credo che una poesia è tanto più ricca quanti più strati si possono rinvenire nella sua struttura lessicale e stilistica.
Io ritengo, al contrario di te, che il futuro della poesia (e anche il presente) stia nella capacità della poesia di appropriarsi della mobilità lessicale della prosa. Però rispetto anche la tua posizione, il blog serve anche per questo.
Io invece, nel massimo rispetto per le tue idee, ritengo che il futuro della poesia abiti solo, ed esclusivamente, nei buoni poeti.
Pasquale Balestriere
Se intendo bene l’appello di Salvatore Martino, nostro compito (di noi autori di poesia) è quello di costruire una diga al nichilismo e alla cultura dello scetticismo, del già tutto è stato scritto e del già tutto è stato detto. E allora non resta da fare altro che distinguere il nichilismo dal nullismo, come scrive un poeta filosofo di oggi, Roberto Bertoldo:
«Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
Di fronte al mondo, date le spalle al nulla […] Il nullista non crede alla possibile percezione della pura oggettività, neppure a ben vedere può credere sicuramente al nulla. Il nullista, che è tale solo dopo aver attraversato, e portato con sé, il nichilismo, s’adegua alla propria percezione della verità, non alla verità.
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.» (1)
(1) Nullismo e letteratura Mimesis 2011 p. 27
Caro Giorgio non intendevo affatto costruire una diga al nichilismo che tra l’altro almeno quello filosofico può produrre e lo ha fatto anche eccellente poesia, nella sua ambivalenza. Intendevo semmai creare un argine a questa dilagante nullità della palude poetica che da anni si trascina e rischia di sommergerci tutti. Ovviamente apprezzo la dissertazione di Bertoldo non soltanto filosofo illuminato ma anche uno dei pochi poeti che stimo.Salvatore Martino
pag. 43 del libro di Edith Dzieduszycka:
Non si sono accorti di nulla
nel mio atteggiamento
perché mi sono ben guardato
di svegliare in loro
il minimo sospetto
Ma qualche volta
e per brevi attimi
già riesco a scappare
la Cosa mia
La Cosa
che vola
da qualche parte
intorno a me
Nessuno lo sa
ancora meno
se lo immagina
Lo faccio soltanto
quando rimango solo
quando mi tolgono
le maledette maniche
che
ancora
si ostinano
a farmi infilare
e che intralciano
i miei movimenti
e quando sarò pronto
uscirò dalla gabbia
e camminerò
dritto
duro
nudo
in mezzo agli alberi della foresta
Potrebbe esser stato scritto da Beckett per il suo teatro o da Osborne. e invece è la Dzieduszycka, che non concede tregua al lettore. È un pezzo eminentemente teatrale per un pubblico teatrale che ha bisogno della voce monologante di un attore…
Già forse Beckett l avrebbe inserito in “l’Innominabile” o in “Malone muore”… e stavolta devo dire che sono versi che mi toccano. Ovviamente li ho letti più volte a voce alta, quasi nel ricordo di quella professione che mi ha accompagnato per più di cinquanta anni, e che adesso forzatamente rimane silenziosa. Salvatore Martino.
Eccessivamente duro Martino con la Edith: l’attore Pino Censi, ieri sera (8 dicembre) ha dato ottima prova delle sue capacità (qualità) di lettura, trasformando le parole della Edith ( che a prima vista sembrerebbero – non versi – poco adatte ad essere declamate -) in versi da ascoltare con serietà- grazie
Ricevo alla mia email e pubblico, uno stralcio di una missiva privata di Valentina Neri:
Parto da una piccola premessa. Ho iniziato a leggere poesie intorno agli otto anni; mi fornivo rubando le vecchie antologie dalle case dei nonni e nelle quali ho conosciuto, tra gli altri, Rebora, Sbarbaro, Cardarelli, Corazzini, Campana, Govoni e tanti altri. Pertanto mi stupivo di come erano regredite le antologie in corso ai miei tempi che quasi non andavano oltre Rodari. Io leggevo perché ne avevo un gran bisogno, avevo bisogno di appropriarmi di quelle parole, di quelle emozioni, avevo bisogno della vita di qualcun altro per essere anch’io qualcun altro. Infatti il mio esercizio preferito era leggere pensando di essere stata io a scrivere e ricreare, attraverso la ripetizione ossessiva dei versi, il sentire di quel poeta. Una poesia, in qualche modo, diventava mia quando la mia memoria riusciva a immagazzinarla e ad attingere a lei al bisogno, come se fosse una preghiera o un punto d’appoggio, come se solo quei versi al mondo, e null’altro, potessero descrivere ciò che sentivo. E mi spiace che, con gli anni essendomi riempita di esperienze traboccanti che hanno voglia di uscire allo scoperto, lo spazio d’ascolto, quello della lettura, si sia ridotto, a vantaggio di quello del dire, cioè dello scrivere, soprattutto perché la mia vita ora predomina e m’impedisce di vivere, come un tempo, quella degli altri. Quindi sì, leggo meno, perché il gioco del fingermi qualcun altro non riesce quasi più. Quel che leggo deve essere insistente, martellante, ossessivo, disturbante, mi ci devo ritrovare e deve poter essere mio per affinità di esistenze. C’è molta “pornografia sociale” in giro perciò devo costruire molti muri per poter essere sostegno e non peso. Quando incontro una poesia che dirocca queste muri, che mi riporta allo stato fragile, quella per me è vera poesia; e deve essere, a mio modesto dire, oggi più che mai, il luogo della verità.
In questa direzione il poeta che ho apprezzato di più, dei tre suggeriti, è la Dzieduszycka, i cui versi sono punte di lame che ti si appoggiano addosso senza volerti infiggere ma che costituiscono un’estenuante tortura in ogni sussurro. La pacificazione di cui parli, che entrando dentro le cose ha ucciso la poesia sociale privandola del suo senso d’essere in un mondo senza alternative, è la peggiore minaccia; la resurrezione, in quel vivere costretto, è inauspicabile; e la poetessa sa restituire l’intera angoscia del caso. Gabriele invece, ha un altro livello di umanità, mi si avvicina nella solitudine. Per questo si fa amare da subito, e la sua Katiusia di Kiev si materializza senza problemi utilizzando Botero come parola magica. Il suo nulla ha invaso di rifiuti i nostri giorni ma i poeti come lui ci aiutano a far fronte. Posso vederla anche io la gazza ladra rubare i Kellogg’s, anzi ci vedrei quasi una gratitudine, come diceva Saba dei passeri ladri di miglio e di scagliola, ma il ketchup rovina tutta la fotografia. Così torniamo al poeta che deve disturbare e che a me fa impazzire. Comunque Gabriele c’è, è connesso, mi libera dal senso di colpa di non aver apprezzato “Seta”. Come dici benissimo è in contatto col lettore, e il lettore, talvolta, ha bisogno di poeti che esistano e che siano fatti di carne ed ossa. Farsi capire non è peccato per un poeta. Voglio ancora crederlo. […]. Voglio prestare un ultimo stralcio di pensiero ad una tua affermazione presente in quell’articolo, “L’atmosfera di un bel libro è il dondolio della sedia”, e a proposito della connessione tra poesia permissiva e abbrutimento che isolerò dal contesto. Io, nella mia ignoranza, la penso così. Dondolii, venti, ombre sono elementi del ritmo. Ha fatto molto male la poesia ad allontanarsi dalla musica e dal ritmo, come è accaduto in troppa poesia permissiva che spesso non ha saputo uscire dai canoni trovando un suo “jazz”. Al suono, al ritmo, al dondolio, in senso esteso, a mio inetto avviso, un poeta non dovrebbe mai rinunciare. Si eviterebbe così parecchio abbrutimento.