Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione in un settore economico-finanziario. Dopo la laurea in Lettere presso l’Università La Sapienza di Roma e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.
Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. Nel 2011 ha pubblicato Alterni Presagi, Altrimedia editore. Nel 2015 ha pubblicato L’abitudine degli occhi, Passigli editore. Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia”, “Orizzonti” e racconti e poesie su varie antologie e blog letterari: ViaDelleBelleDonne, Neobar, La presenza di Erato, L’ombra delle parole, Poetarum Silva. E’ redattrice della rivista si cultura e letteratura “I Fiori del male”.
dalla Prefazione di Davide Rondoni
«…Un libro con molti punti di grande valore, che però – ed è uno dei molti punti del mio convinto e povero assenso a questa opera – se ne frega del valore letterario dell’opera, o meglio ne è libero. Un libro libero da se stesso, dall’ansia d’esser un buon libro di poesie. Un gesto dunque, gettato da una donna forsennata e educatissima nel vivo fuoco e incrocio che le segna l’esistenza. Perché la morte è forte, è una meccanica terribile, sia la morte corporale sia quella interiore e delle delicatissime cose del cuore… Monica Martinelli ha il coraggio, l’arrendevolezza e l’umiltà di non uscire da questo incrocio, da questo dramma […] perché la poesia è, per quanto intorbidita e a volte sprecata da noi che la viviamo fino a morirne, voce della verità. E la verità è che siamo creature. Sognare d’essere altro – cioè creatori, o il Creatore – è una stupida ebbrezza, inizio di un incubo, come il secolo tragico e breve ci ha mostrato. La poesia ci ricorda chi siamo. Sta a noi vivere questa condizione solo come sconforto o come umile letizia…».
C’è dato un tempo
per ogni tempo.
C’è una magia in ogni cosa,
nel perdono
in un bacio che ferma l’addio
nella ragione di essere nati.
Penso non sia il cambiamento
ma l’abitudine
l’unità di misura dei viventi,
ciò che ci rassicura e ci consola
ciò che ci viene naturale fare.
E poi gli occhi,
con cui misuriamo la realtà
che sia di fiato e di sabbia,
che ci prepari alla nostalgia
o all’abbandono.
È come seguire la danza
di una foglia nel vento
e indovinare da quale parte cadrà.
.
Maestranze
Siamo muri surriscaldati
pareti confinanti
separate da spazi siderali.
Ci sfioriamo
a simulare una pena di turno
che ci trattiene in sorvoli d’ansia.
Io ospite sgradita,
paziente come un condannato
ostaggio di vane trattative.
Mucchietto d’ossa rinsecchite
a sbattermi in un coraggio sconosciuto
immerso in calcare di sconfitte.
M’improvviso saltimbanco
tra sobbalzi e respinte.
È un soprassello vertebrale
intriso di commozione.
E le mie vertebre hanno il tuo nome.
Ombre allungate
schiacciate sull’asfalto,
stracci alle fiamme di un pagliaccio
che non fa ridere.
.
Non solo lame
Antico mestiere quello del flebotomo.
La precisione delle lancette
non lascia apparire alcuna esitazione.
Un gesto unico, definito,
non solo lame.
Il sangue sgorga lento
e non rientra.
Un attimo è un ingombro.
Percorso che affligge,
colore di bestemmia.
Ma guardare cosa, se sono già morta?
Seneca m’incoraggia
ma lui era cinico o stoico
mentre io sono fragile vibrazione.
Ora invece siamo moderni
è una barbarie differente.
Nelle prigioni-lager
brandelli di lenzuola
arnesi fortuiti lavacri di colpe.
Corde senza strumento,
pezzi di spago legati
a tubi accidentali
o a ganci d’indifferenza
nelle latrine e fra i muri della scuola.
Solitudini frantumate
da altre solitudini
a invocare un grido coraggioso
di libertà.
*
Sono la pioggia che disseta la terra
dono gravido senza parto.
Rumore di felicità su sassi ruvidi,
tonfi di gocce pesanti.
Sono il vento che scrolla pioggia dalle nuvole
denuda, sgualcisce e riannoda anime.
Sono la terra bagnata dalla pioggia
dove zolla dopo zolla
posi i tuoi passi stanchi e sparigliati.
Mi congedo in silenzio, senza lacrime
mentre giunge l’alito del biancospino.
E lascio fare.
Non puoi sapere quanto gelo
soffierà sulla tua fossa.
Io ti proteggerò,
per non affondare nel fango
perché da dove tutto viene tutto torna.
Cardi solitari di un sottosuolo in evoluzione
si tramutano in altro.
Rinnovarsi è persistere,
vorticare di atomi indefiniti.
Sono il sangue, marionetta osmotica,
fluido viscoso
ascensore di metabolismi
che scorre nel carosello della chimica.
Anche la luna perde sangue
se morsa dal sole.
Ma non è una ferita d’odio.
Ho una costellazione di riserva.
*
Questa mattina scorgo fisionomie nuove:
vorrei distinguere ogni cosa per quella che è,
sentire emozioni in punta di piedi.
Non pensieri guizzanti
e stati di agitazione,
vedere le persone per quello che sono
fragili custodi
di una realtà in transito.
Ma vedere è un subire in permanenza.
Non si può scegliere cosa guardare,
forse possiamo solo comprendere
la differenza tra ciò che merita attenzione
e ciò che fa piangere.
*
Ci sono parole per ogni cosa,
impariamo a pronunciarle da piccoli
appena ne siamo capaci.
Sappiamo dire fiore gioia paura
quando sperimentiamo anche le lacrime
per ampia concessione del dolore
a cui diamo un nome
senza conoscerlo o toccarlo
ma lo sentiamo in ogni singola parte del corpo
in ogni minuscola piega dell’anima.
E quando scopriamo cos’è amore
che arriva impetuoso e ci abbandona fragile
comprendiamo che non tutto ciò che ha nome
esiste o dura.
*

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the
Guardo le mie unghie e non le riconosco,
distante ornamento di mano più gentile
stentano a crescere loro
mentre io mi sento già troppo grande
e ho nostalgia dell’età trascorsa
quando il tempo non mi stava addosso
mentre ora viaggia senza tregua.
Le mie nuove unghie,
fragili ignare del vuoto
si offrono ad uno spazio ignoto.
Vorrei infilarle nella tua carne di pensieri
farti gridare una maledizione
in questo ridotto angolo di tempo,
una galassia in movimento
dove i nostri corpi ruotano
in senso inverso
e neanche questo ha un senso.
E mi dispero per ciò che non avremo
per ciò che abbiamo perduto
e relegato altrove.
.
Apparenze di stelle si affacciano
su distese di galassie.
Mi specchio in loro,
infinitamente lontane
e in me, senza immensità.
Penso a Saturno,
ai suoi anelli di polvere e ghiaccio
cerchi inclinati fecondi
di vita e di tempo.
Costellazioni di pazienza,
nebulose si rincorrono nel tempo
e nello spazio dove la distanza
non è un percorso né un arrivo,
inesauribile andare senza reciprocità.
Ho la vertigine solo a pensarci,
brividi di stelle.
La luce penetra trasversale
e proietta l’ombra
obliqua del tuo corpo:
un dio greco di gesso – forse Saturno
a spezzare il desiderio
che è di questa terra.
Anni luce in ritardo
mi trovo addosso un’ansia di vivere
nel sapere che lassù c’è tutto quello
che non sapremo mai.