D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata “Ombres” (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci. Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski. L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia. Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta. Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta. Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron. Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Nel 2016 pubblica il romanzo Intrecci, con Genesi, La parola alle parole e, nel 2018 Squarci, con Progetto Cultura, Roma.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Direi che anche noi in Italia abbiamo poetesse di tutto rispetto che si rifanno alla linea europea del minimalismo metafisico o del minimalismo esistenziale, e precisamente: Anna Ventura e Edith Dzieduszycka. Il perché è presto detto: c’è bisogno oggi di questa poesia, c’è bisogno di parlare al lettore delle condizioni di instabilità e di incertezza della esistenza nel mondo moderno in modo diretto e colloquiale, senza mettere a disagio il lettore di fronte a chissà quali metafisiche del cuore o a posticci soprassalti di angoscia. La Dzieduszycka, come del resto la Szymborska, la capostipite di questo nuovo indirizzo della più alta poesia femminile, tratta appunto questa materia, interroga il «Vuoto», il «silenzio», le «pagine bianche», «uno spazio di niente», un «treno» che srotola «i suoi vagoni». Che cosa accade in questo tipo di poesia? Nulla, non accade nulla di particolarmente significativo, ed appunto questo è significativo. «E poi / all’improvviso», succede qualcosa che non avevamo previsto né immaginato, «da carrozze sventrate» «dilagano» «parole». È questa l’epifania laica del nostro tempo prosaico. È questo l’evento. La poesia della Dzieduszycka narra instancabilmente questo evento, lo narra e lo rinarra in modo quasi ossessivo alla ricerca di una chiave, di un significato. Che sta là, o almeno sembra che stia lì, sotto il tappeto, o sotto la scrivania, o appoggiato sul davanzale della finestra, basta afferrarlo. E invece quello sfugge, si sottrae. E l’indagine prosegue, non può che proseguire la ricerca e afferrare finalmente quell’oggetto, quel significato che ci sfugge, che si sottrae misteriosamente. Ed appunto questo, credo, è il significato profondo della poesia di Edith Dzieduszycka: la scomparsa del significato dall’esistenza, la sottrazione della soglia dove quel significato un tempo lontano stabilmente dimorava. Forse, in un altro tempo, in un’altra civiltà c’era ancora «la retta via», « un percorso esatto / una strada precisa / chiaramente tracciata / davanti ai nostri passi», oggi al poeta del nostro tempo non è dato altro che «vuote vie polverose», «ignoti paesaggi sprovvisti di cornice».
da Nella notte un treno (Dans la nuit un train) Edizione bilingue, Il Salice, Locarno, 2009
Vuoto
silenzio
pagine bianche
uno spazio di niente
tranquillo furtivo treno
srotolando i suoi vagoni
immagini sfocate
suoni impercettibili
emergenti
qua e là.
E poi
all’improvviso
nell’afa d’una sera d’estate
si schiude la ferita
dilagano
pressanti
da carrozze sventrate
invadono la scena
parole accumulate
corteo d’immagini
nel tempo seppellite.
*
Un foglio di carta
una penna
nient’altro
o quasi
scarabocchi abbozzati
segni allineati
sottratti al sonno
ai sogni strappati
evaporati all’alba.
Lasciati liberi
nel cuore della notte
tornano a celarsi
facendo perdere
fugaci fuochi fatui
loro deboli tracce.
Inediti
Se per caso
ci fosse
retta una via
un percorso esatto
una strada precisa
chiaramente tracciata
davanti ai nostri passi
sulla sabbia
l’asfalto
anche sull’acqua
se fosse lineare
decisa
evidente
sarebbe molto semplice
sarebbe troppo bello
soprattutto sarebbe
una noia.
*
Nella vita che fa?
Ma che domanda è questa?
Ma come si permette
di entrare così
con le sue scarpe grosse
dentro il mio privato?
Io a Lei non l’ho chiesto
mi sono ben guardata
d’indagare e frugare
in fondo al Suo bagaglio
Chi sa cosa sarebbe
venuto allo scoperto?
Mi vengono i brividi
a soltanto pensarci
Ognun ha le sue case
di ombre e di mistero
le cose più preziose
ed insieme sfuggenti
che si possa serbare
Lo so io “Che faccio”?
Rispondo “No di certo
giacché tutto un groviglio
si contorce all’interno
di cui nemmeno io
sospetto la risposta.
*
Che cosa verrà fuori
dalla mente assopita sul ciglio del letargo
laddove s’aggrovigliano
come nastri azzuffati da un gatto molesto
vuote vie polverose
solchi sterminati a perdita di sguardo
laddove fitta stagna una nebbia fumosa
che serpeggia e s’infiltra al di là del pensiero?
Cosa macinerà nel tremore
del sogno sull’uscio cigolante
d’un viaggio senza mèta
la coscienza incosciente?
Ignoti paesaggi sprovvisti di cornice
lande a strapiombo sopra rude scogliere
cieli vaganti e plumbei trafitti
da bagliori e nembi fuggitivi?
Cosa riporterà col risveglio
dell’alba l’ondosa mente
di quel mondo leggero
dentro il quale affonda con palpebre
di piombo e riemerge greve
di luoghi inaccessibili
indistinti sussurri bisbigliando segreti
ombre senza nomi dalle vesti stracciate?
*
Arriva sì
arriva
con l’alba incrinata
sfregiata porcellana
dalla viscida lingua
d’una nebbia in agguato
che lecca indiscreta
il davanzale grigio
Arriva sì
arriva
dapprima timido
presto incredulo
lo smarrimento
E poi scatta la rabbia
che brucia la ferita
dello star desta
lì
da sola
nella penombra ostile
del non capire mai
cosa ci faccio
lì
a guardare il cielo
fuori dalla finestra
mentre sbatte nervosa
alle persiane blu
l’ala dell’albero
lì piantato anche lui
a guardia di chi sa cosa.
*
Non avrò conosciuto
come Santa Teresa
estasi mistiche
né orgasmi di marmo
dagli occhi riversi
Non avrò d’Arco
Giovanna novella
in lontananza
percepito le voci
giungendo dalle nuvole
Più dubbi che certezze
finora nel bagaglio
che dietro mi trascino
roveti spine fiori
in uguale misura
e l’orizzonte spento
ad un’incerta ora
come la tenda rossa
che richiude il palco
alla fine dell’opera.
“Ignoti paesaggi sprovvisti di cornice”:come esprimono bene, questi versi, lo smarrimento del nostro tempo!Siamo soli in uno spazio illimitato, completamente liberi; ma, da che cosa?Non sfuggiremo mai a noi stessi, alla nostra storia.Eppure siamo ancora dei privilegiati, se la parola ci permette di esprimerci, di creare un discorso,di vivere un sentimento,di disegnare noi stessi una cornice: con i suoi limiti,ma anche con la sua protezione.Bravissima, comunque: una poetssa autentica, una donna non comune,anche se ben consapevole del limite che ci contiene.
Che bella coincidenza! Ho appena finito di cercarti e di leggere La vergine di Norimberga e Torquemada, nonché il commento di Linguaglossa. E mi è piaciuto tutto: le tue poesie che sono racconti dentro i quali frugare e sopra i quali riflettere e quello che ne dice Giorgio, sempre acuto e insieme .profondo.
“Che cosa verrà fuori
dalla mente assopita sul ciglio del letargo”
Se fosse questo l’inizio del capitolo 1 della Genesi, forse nessuno avrebbe da ridire. Da queste poesie sembra che, per la Dzieduszycka, l’inizio di ogni poesia sia una dichiarazione di vuoto, esplicitata in diverse forme, per cui pare di assistere alla genesi di una creazione. In piccolo, ovviamente, ma qualcosa ne esce: quel che c’è in uno sguardo ravvicinato, la prova evidente dell’esistenza di una forma di vita intelligente. Che ci salverà.
Speriamo!
GBG
Più che a mostrare la presenza del vuoto, Edith de Hody Dzieduszycka sembra richiamarne ripetutamente l’esistenza.
Anche in Occidente comincia a crescere l’attenzione verso il vuoto, l’importanza, l’efficacia di ciò che circonda il pieno come condizione di visibilità delle cose particolari.
Ubaldo de Robertis
Sono convinto, e mi convinco sempre di più, che la migliore poesia contemporanea si sta indirizzando verso una poetica del vuoto, cioè verso una poesia esistenziale di indagine del vuoto. Il vuoto come nostro compagno di banco, il vuoto come ciò che c’è dietro il sottosuolo, o dietro il sottosuolo del sottosuolo, il vuoto che invade sempre di più il pieno. L’horror vacui che ci sovrasta e ci invade… E la poesia di Edith Dzieduszycka mi sembra che si muova in questa direzione.
Caro Giorgio,
credo che non sia solo una questione letteraria, la poetica del vuoto, il vuoto come compagno di banco, il vuoto come ciò che c’è dietro, e nemmeno è una contemplazione filosofica astratta. Come per l’arte l’esperienza del vuoto è condizione necessaria anche per fare il vuoto dentro noi stessi. Lo sai, sono sopravvissuto per miracolo, e per scongiurare che la situazione si possa ripetere devo assolutamente cambiare registro, liberarmi in qualche modo di ciò che arreca stress, del ridondante, dei condizionamenti, delle sudditanze, in modo che la coscienza possa disporsi in uno stato di massima apertura, trasparenza, devo in altre parole predispormi al vuoto. Ho letto da qualche parte che: “se la mente è pura, cioè vuota, libera, diventa trasparente e può accogliere le cose senza stravolgerle o commentarle malamente.” (segue un mio verso)
/come un pensiero vuoto
cerca di riempirsi
più intimamente mi stringo alla vita
Ubaldo de Robertis
In queste poesie Edith de Hody Dzieduszycka si pone delle domande, segno che c’è un pensiero anche ben delineato, che le sostanzia. Ma persino la strada “retta”, se ci fosse, alla fine darebbe noia. E a me sembra che questi inediti focalizzino l’attenzione sulla diversità del comprendere mettendo in discussione ciò che ci circonda.
Poi c’è il vuoto, ma, come dice Ubaldo De Robertis, possiamo sì avvertirlo, ma a condizione che ciò presupponga una rinuncia, frutto di un cambiamento.
GDL
Molto belle. Finalmente versi che sono versi. Un saluto.
Sono passati due anni, di amicizia e crescita ! Grazie Giorgio, per aver ripescato questi testi.