IL MINIMALISMO NELLA POESIA ROMANO E MILANESE, LA FORMA-POESIA E LA FORMA-ROMANZO, IL FENOMENO DEL MAGRELLISMO E LA MICROLOGIA – LA DEMOCRAZIA POST-LIRICA: la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io, il cabaret televisivo, la poesia ludica, l’ironizzazione, la tascabilizzazione delle questioni metafisiche, l’istrionismo – di Giorgio Linguaglossa

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Oggi appare sempre più evidente il disorientamento in cui versa la poesia contemporanea. Presso le nuove generazioni è in vigore una koinè linguistica di stampo pseudo narrativo, una sorta di democrazia del post-lirico che elegge la medietà dei linguaggi tecno-mediatici per la comunicazione del «messaggio poetico». E che si giungesse a un tale miserrimo risultato era ampiamente prevedibile. Durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento un nepotismo sempre più tetragono e asettico si è insediato nelle principali Istituzioni deputate alla elaborazione del linguaggio poetico. Così, dopo la dissoluzione di quello che rimaneva della linea lombarda, sono rimaste padrone del campo soltanto due poetiche: il minimalismo romano-milanese (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Franco Marcoaldi, Vivian Lamarque oltre una schiera di minori apprendisti stregoni), e l’area che definirei esistenzialismo milanese. Resta il dato incontrovertibile della coincidenza di fatto  tra il minimalismo milanese e quello romano. Il minimalismo consente di scrivere di ogni argomento, in libertà assoluta perché privo di poetica, e in libertà perché adotta una riproduzione mimetica dei linguaggi tecno-mediatici.

In un articolo del mio libro Appunti critici del 2002, che riprende un articolo apparso su «Poiesis» del 1997, scrivevo: «L’arte del Novecento vivrà sempre più neghittosamente nella forbice divaricatasi tra la deprivazione dell’essere ed il dispiegamento progressivo della tecnologia applicata ai linguaggi mediatici. Le tarde post-avanguardie dagli anni Sessanta in poi avranno chiaroveggenza soltanto degli aspetti epifenomenici della crisi. Occorreva una tempestiva comprensione del moto di deriva della forma-romanzo verso la dissoluzione dei linguaggi e l’implosione delle tecniche compositive, occorreva riflettere sulla crisi di de-territorializzazione della forma-poesia che seguiva, a rimorchio, il declino del genere artistico egemone, occorreva una approfondita comprensione del concetto di forma-merce che, nelle economie di mercato globali tende a fagocitare entro i propri parametri ogni tipo di artefatto o manufatto estetico».

Il minimalismo è dunque la tendenza stilistica dominante della nostra epoca, nella misura in cui richiede la riproduzione fotografica del «reale» mass-mediatico mediante un linguaggio tecno-mediatico, una fiducia acritica ed assoluta nella immediatezza, nella forma-merce nel momento in cui la riproduce già feticizzata. L’arcaicità dell’elegia, che si ripropone, ancora una volta, come linea centrale della poesia del tardo Novecento, non deriverebbe soltanto dall’arcaicità del rammemorare, quanto dalla impossibilità di evincere dall’esperienza vissuta il quid di autenticità necessario alla forma-poesia: gli oggetti del ricordo vagano inconsapevoli nel mare della datità come astratti relitti del mondo delle «cose» ormai del tutto infungibili.

L’esistenza dell’opera d’arte, nell’epoca della riproduzione computerizzata dell’iperreale, è divenuta problematica. Il minimalismo è la risposta, in ambito estetico, dell’ampliamento a dismisura del mondo reale: l’iperreale ed il virtuale accrescono sì la dimensione del reale ma, ciò facendo, ne sottraggono sostrato, essenza, profondità. Poiché l’arte non può entrare in concorrenza con le smisurate capacità di creazione del «reale» della macchina gestaltica, essa ripiega nella tellurica micro-entità del mondo, portando alla estrema dissoluzione il fenomeno dell’«aura», che sappiamo essere l’apparizione «di una distanza quantunque vicina essa possa essere» (W. Benjamin).

Il minimalismo, come campo di forze stilistiche, resta stregato ad un’estrema prossimità al «reale» mediatico – il rapporto soggetto-oggetto si presenta come un reciproco star-di-fronte, fronteggiamento d’una estraneità (il magrellismo di tanti magrellisti, al di là della facile ironia, rappresenta un fait social e non soltanto una moda, e precisamente, l’impossibilità per il soggetto di com-prendere il reale, e quindi uno stallo, un alt, che è sociale e storico, prima ancora che estetico); ovvero, come una lontananza d’una autenticità posta magicamente nell’infanzia, prigione del sortilegio, (anche qui della fuga dal mondo) e, quindi, fronteggiamento-rammemorazione dell’eden, con ricaduta nell’elegia, seppur corretta, negli autori più scaltri, con inserimenti di prosasticità. Elegia ed antielegia sarebbero i corni d’una medesima dilemmatica problematicità che l’ambiguità concettuale del minimalismo non consente di risolvere. Il solipsismo rappresenta, sul piano filosofico-concettuale, ciò che tradurrei con micrologia nell’ambito estetico.

Il solipsismo è, afferma Schopenhauer, «una piccola fortezza di confine. Mai può venire espugnata ma anche le sue truppe non possono mai uscire. Perciò si può passarle vicino e lasciarsela alle spalle senza alcun pericolo». Così come la micrologia, con la sua perlustrazione del micron, rappresenterebbe l’ultimo ricettacolo di autenticità nel mondo falso e corrotto. Ma così come stanno le cose, né la micrologia incontra il mondo, né il mondo la micrologia. L’estraneità del rapporto soggetto-oggetto rimane immutata, l’origine è uguale alla meta. Alla base della micrologia (che porta alle estreme conseguenze i presupposti teorici del minimalismo e, in un certo senso, prefigura l’esaurimento di quel campo di forze stilistiche), v’è un rapporto di inimicizia e incomprensione con il «mondo», vi si avverte l’eclissi delle istanze radicali che ogni grande arte ha sempre tenuto ad esprimere pur contro la cultura di cui era espressione, la «tascabilizzazione» delle grandi problematiche della civiltà europea di cui la grande poesia del Novecento è stata espressione. Il minimalismo giustifica ed accetta come un dato di fatto indiscusso l’eclisse delle grandi narrazioni del post-moderno. D’ora in poi sarà possibile parlare in poesia soltanto tramite la teatralizzazione del proprio «io» all’interno della scena domestica, del «privato» (Patrizia Cavalli con Le mie poesie non cambieranno il mondo – 1976), del proprio «album di famiglia»: Renzo Paris Album di famiglia del 1990, in tono ironico e scanzonato.

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L’ironizzazione applicata alla vita domestica e agli affetti familistici diventerà un paradigma stilistico che il minimalismo imporrà quale modello dominante. Non è un caso che il titolo di un’opera che farà scuola, sia Metafisica tascabile (1997) di Valentino Zeichen. Con la tascabilizzazione delle grandi problematiche «metafisiche» il minimalismo proclama con impudenza e orgoglio il proprio trionfo ideologico, il trionfo del proprio scetticismo piccolo-borghese e l’avversione per ogni ipotesi di poesia non minimalista. Nei testi dei minimalisti si avverte l’odore degli appartamenti ammobiliati e politicamente corretti. Ora serrata retinae di Valerio Magrelli è del 1980. È l’inizio del «riformismo» minimalista. È noto il pensiero di Magrelli in ordine al problema dell’interlocutore: la poesia è «libera», nel senso che può svilupparsi liberamente in tante direzioni diverse, e che essa è «l’impronta digitale» di chi la scrive. Senza stigmatizzare il truismo e la tautologia di una tale dichiarazione di poetica, c’è da dire che la poesia di Magrelli, nella sua torsione verso l’utopia della par condicio tra l’io esperiente e il reale, quella che ho definito riforma moderata del minimalismo (una sorta di pareggio tra oggetto e soggetto), diventa una riflessione sull’autoreferenzialità dell’«io», una sorta di par condicio tra l’io e il non-io, dove la problematizzazione dell’io gira a vuoto all’interno della macchina gestaltica della segnaletica mediatica. Il passo ulteriore sarà la micrologia.

roma La grande bellezza fotogramma

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Presso gli epigoni il luogo della poesia diventerà la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io falsamente teatralizzato dinanzi ad un pubblico falsificato, imbonito di facezie e di trovate spiritose; il luogo della poesia diventerà il commento intellettualistico e ludico; la palestra stilistica sarà caratterizzata da esercizi, didascalie, disturbi del codice «binario», «glosse» della cronaca nera del «giornale», «glosse» del «quotidiano». I titoli delle opere dei minimalisti sono un (inconsapevole?) manifesto di poetica: tracciano il perimetro di una glossematica acritica e aproblematica. Non si capisce dov’è l’«originale», se c’è ancora un «originale», o se il discorso poetico sia nient’altro che didascalia, commento, esercizi di qualcosa d’altro: Esercizi di tiptologia (1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) di Magrelli sono «esercizi» «tiptologia», codice di trasmissione dei dati, appunti didascalici per l’istruzione del pubblico, glosse pseudo intellettualistiche sui disturbi del funzionamento «binario».

Nei minimalisti degli anni Ottanta, come Vivian Lamarque, l’oggetto-poesia diventa l’investigazione della cronaca da lettino psicoanalitico, con conseguente regressione ad un infantilismo posticcio e a un finto buonismo. I titoli dei suoi libri sono eufuismi: L’amore mio è buonissimo (1978), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il libro delle ninne nanne (1989), Una quieta polvere (1996). È evidente che ci troviamo davanti ad una sproblematizzazione di qualsiasi problematica e a una infantilizzazione di qualsiasi tematica di adulti. I quadretti delle sue poesie sono dei finti acquerelli per bambini, finta infantilizzazione di un mondo sproblematizzato. Il libro di esordio di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), segna con alcuni anni di anticipo il definitivo riflusso della cultura del ’68. La poetessa romana mette la parola fine ad ogni tipo di poesia dell’interventismo, alla poesia politica, ideologica, civile, comunque impegnata ed apre la strada del disimpegno, dello scetticismo «privato» e del ritorno al «quotidiano». L’andamento colloquiale, i toni da canzonetta più che da canzoniere, il piglio scanzonato e disimpegnato, un certo malizioso cinismo e scetticismo, l’esibizione spregiudicata del «privato», anzi, dell’abitazione privata (nella quale avviene il processo di teatralizzazione dell’io), l’esibizione del certificato anagrafico, del certificato medico, la preferenza per gli oggetti «umili» del quotidiano, l’ironizzazione dell’io lirico, la deterritorializzazione del «pubblico» sono tutti elementi che diventeranno presto paradigmatici e saranno presi a modello dalla nuova generazione di poetanti. La poesia diventa sempre più «facile», ironica e spiritosa, di conseguenza cresce a dismisura la frequentazione di massa di un certo tipo di epigonismo.

Patrizia Cavalli nasce a Todi nel 1947 e vive a Roma dal 1968In altre parole, poeticamente parlando, Patrizia Cavalli è per Roma quello che Vivian Lamarque è per Milano. Entrambe forniscono paradigmi stilistici esemplari. Entrambe aprono la sfrenata corsa in discesa del minimalismo romano-milanese. Un minimalismo acritico, disponibile, replicabile e ricaricabile all’infinito da una smisurata schiera di poetesse e poetanti del nuovo «privato» massificato della società della post-massa mediatica. La poesia diventa un genere commestibile, replicabile in pubblico, nei pub e nei cabaret, nei ritrovi all’aperto e nei teatri. D’ora in poi la poesia tenderà a somigliare sempre di più alle filastrocche dei comici del nuovo genere egemone: il cabaret. È subito un successo di pubblico. È la tipica poesia femminile degli anni Ottanta: finto-amicale, finto-individuale, finto-sociale, finto-intellettuale; dietro questo impalpabile spartito di zucchero filato e banale puoi scorgere, come in filigrana, la durezza e la rozzezza del decennio del pragmatismo e dell’edonismo di massa, il decennio del craxismo, della ristrutturazione industriale e della ricomposizione in chiave conservatrice dei contrasti di classe che erano esplosi nel decennio precedente. È una poesia facile, buonista, igienica, ironica, colloquiale, finto-amicale, finto-problematica, finto-delicata, finto-infantile fatta di un’aria sognante, di piccole gioie e piccole vicende familiari: il «privato» da lettino psicanalitico è squadernato sulla pagina senza alcuna ambascia. Un finto infantilismo (accattivante, disarmante e smaccato che mescola furbescamente il tono da fiaba con lo spartito finto-infantile), è diluito come colla appiccicosa un po’ dappertutto con una grande quantità di zucchero filato e un pizzico di tematica «alta» (la «morte»), così da rendere più appetitoso il menù da servire ai gusti di una società letteraria ormai irrimediabilmente massmediatizzata e standardizzata.

Micrologia. Poesia che è, ad un tempo, il frutto tipicamente italiano della eterna arcadia che ritorna, come il ritorno del rimosso, nella cultura poetica italiana che, da questo momento, conoscerà un lungo momento di oscuramento e di obnubilamento.Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una coincidenza di interessi, di orientamenti letterari e di concezione dell’oggetto-poesia. Una poetica di derubricazione del minimalismo sarà la micrologia, che convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico. La poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una tale impostazione «filosofica». Nel frattempo, durante l’ultimo trentennio del Novecento diventa sempre più manifesta la crisi dello sperimentalismo il quale ha sempre considerato i linguaggi come «neutrali», fungibili e manipolabili, incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, rischia di periclitare tutta la costruzione estetica della scuola post-sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, almeno da Vocativo del 1956 e La Beltà del 1968, fino agli ultimi eredi: Giancarlo Majorino con Prossimamente (2006) Viaggio nella presenza del tempo (2008) e Luigi Ballerini con Cefalonia (2006). Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E si badi: io dico e ripeto sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010” edito da EiLet di Roma.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz alla poesia dell’avvenire.
La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

22 commenti

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22 risposte a “IL MINIMALISMO NELLA POESIA ROMANO E MILANESE, LA FORMA-POESIA E LA FORMA-ROMANZO, IL FENOMENO DEL MAGRELLISMO E LA MICROLOGIA – LA DEMOCRAZIA POST-LIRICA: la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io, il cabaret televisivo, la poesia ludica, l’ironizzazione, la tascabilizzazione delle questioni metafisiche, l’istrionismo – di Giorgio Linguaglossa

  1. gabriele fratini

    “E’ subito un successo di pubblico.” Mi manca il riscontro di questa frase. Forse non sono aggiornato ma non credo che Cavalli o Lamarque abbiano venduto 50 000-100 000 copie di libri poetici (forse neanche con quelli specificamente dedicati all’infanzia). Poeti che hanno avuto un reale successo di pubblico, tipo D’annunzio Ungaretti Montale o Trilussa, hanno venduto almeno 100 000 copie dei propri testi in versi. E sono autori noti al grande pubblico dei lettori. Magrelli Lamarque Cavalli non li conosce nessuno al di fuori della ristretta cerchia degli appassionati di poesia. Facendo un piccolo sondaggio tra amici e parenti, più o meno tutti laureati o diplomati, nessuno conosceva il nome di Magrelli, prima che gliene parlassi io ovviamente. Quindi mi sembra più un successo di nicchia. Se mi sbaglio mi corrigerete 🙂 Un saluto minimalista a tutti.

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    • Ambra Simeone

      dice bene Gabriele e aggiungo che – nella mia esperienza editoriale – leggo una quantità infinita di testi di autori, poesia del genere carducciano, leopardiano, montaliano e dantesco addirittura, per cui è facilmente replicabile qualunque stile ed è realmente replicato (prove alla mano) ai giorni d’oggi!

      Come Giorgio diceva riguardo una sua poesia postata qualche giorno fa, i metri poetici e gli autori dai quali attingiamo stile e contenuti come maestri in poesia, ognuno se li sceglie nel proprio “privato poetico” e da lì ricalca più o meno criticamente e originalmente.

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  2. Ivan Pozzoni

    Partendo dal concetto di «anacoretismo» delle tendenze di fine secolo scorso, ho sviluppato, contemporaneamente a Giorgio e senza nessuna reciproca informazione sul lavoro altrui, un tentativo minimo di ontologia estetica critica che, data come persa la fine del Novecento, riflette sul nuovo millennio, chiedendo una riforma del concetto, anacronistico (in relazione al progressivamente sempre più veloce “balzo del mondo” in avanti rispetto alla «grammatica») della nozione stessa di «forma-poesia».

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  3. caro Ivan Pozzoni,

    il concetto di «forma-poesia» è altra cosa dal concetto di «poesia maggioritaria» o «poesia egemone» (dizioni che utilizzo raramente per gli equivoci che possono ingenerare); poi vorrei dire che il concetto di «forma-poesia» è altra cosa da quelli utilitaristici di «mini canone» o addirittura di «Canone» che vengono spesso utilizzati che però indicano un’altra cosa ancora… tutti questi concetti sono concetti politici, cioè ad usum delfini… (non so se mi spiego), invece, il concetto di «forma-poesia» come io lo intendo non è qualcosa che debba necessariamente escludere una poesia che esca da quel concetto (non so se mi spiego), non è un concetto normativo né di valore, ma è un concetto, diciamo, storico-geografico. Per esempio, se qui da noi, nel tardo Novecento e ai giorni nostri, avessimo avuto un poeta del calibro di Zbigniew Herbert, ti chiedo: dove lo avremmo collocato? In quale area geopolitica?, o Geoestetica?, tra i magrellisti?, tra gli esistenzialisti milanesi?, tra gli urbano scettici alla Patrizia Cavalli?, nella poesia da teatro alla Gualtieri? – E ancora un altro esempio: se qui da noi fosse sorto un poeta come Tadeusz Rozewics, dove lo collocheremmo?, in quale area geopolitica della poesia italiana?
    Come vedi, mi sono servito di un paio di paradossi per farti vedere e toccare con mano la povertà della poesia maggioritaria italiana degli ultimi decenni, la povertà dei loro schemi concettuali, la piccolezza della cultura dalla quale provengono… l’aria da cortile che emana la loro concezione della poesia italiana…

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    • Ivan Pozzoni

      Per risponderti sul tuo concetto non normativo di «forma-poesia». Tu scrivi: «se qui da noi, nel tardo Novecento e ai giorni nostri, avessimo avuto un poeta del calibro di Zbigniew Herbert, ti chiedo: dove lo avremmo collocato? In quale area geopolitica?, o Geoestetica?». La tua domanda: «dove lo avremmo collocato?» ha come condizione un «modello» di «Geoestetica» che ci segnali come collocare chi e dove. Cioè una «norma». Quindi, tu, come critico, nel collocare geoesteticamente un autore, ti servi di modelli, cioè di norme: ogni forma di classificazione ha un’origine normativa. Quando ci si chiede: in che zona del carcere collochiamo il carcerato x o in che zona del magazzino collochiamo la merce y, abbiamo un «modello» normativo di riferimento (il carcerato x va nell zona y dato che ha commesso il crimine z o la merce x va nella zona y dato che ha le caratteristiche Hccp z = il carcerato x deve andare nella zona y dato che ha commesso il crimine z o la merce x deve andare nella zona y dato che ha le caratteristiche Hccp z). La normatività, cacciata dall’uscio, èrientra sempre dalla finestra. 🙂

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  4. Ivan Pozzoni

    Caro Giorgio Linguaglossa,

    Purtroppo, attualmente, collocheremmo Zbigniew Herbert o Tadeusz Rozewics, come extra-comunitari, in un campo di “accoglienza” (…) o fuori dalla stazione di Milano. 😦

    Con il termine «forma-poesia» io mi riferisco alla definizione datane da Stefano Agosti nel volume Lezioni sul Novecento: storia, teoria e analisi letteraria: «Se un testo è riconoscibilmente suddiviso o oggettivamente suddivisibile in membri o segmenti che il lettore sia disposto a considerare versi, allora il testo in questione appartiene alla forma-poesia (anche se il suo tono è prosastico, e anche se la forma-poesia ovviamente non basta da sola a farne un testo di vera Poesia» (71/72), con richiamo al tentativo di un Di Girolamo (Costanzo, significativo), nel suo Teoria e prassi della versivicazione, del 1976, di distinguere tra «forma-poesia» e «funzione-poesia» (Jakobson): tratto fondante della «forma-poesia» è la mera «disposizione grafica» (insieme ai non fondamentali: fonica, ritmica e metrica). La «forma-poesia» è, dunque, l’insieme dei tratti atti a distinguere «poesia» e non-«poesia» (cioè altra «forma-comunicativa»). Io, ontologicamente, la interpreto come ogni «grammatica» dei versi idonea a raccontare il mondo (mímesis). Perciò, nei miei ultimi testi di ontologia estetica, denuncio uno scollamento tra la «forma-poesia» e il mondo, essendo la «grammatica» della «poesia» divenuta, a mia modesta opinione, insufficiente a rapportarci col mondo tardomoderno. Tu scrivi: «Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è). Il momento espressivo coincide con il linguaggio […]». «Grammatica» e «linguaggio»: non sembra che, nelle premesse, siamo molto distanti. Siamo distanti nelle conclusioni: chiaramente, tu ti servi del concetto di «forma-poesia» come strumento di «critica» (discorso interno); io mi servo dello stesso concetto di «forma-poesia» come strumento di sociologia dell’arte o di ontologia estetica (meta-discorso). Lo stesso termine, assunto a stadi diversi (discorso e meta-discorso) assume valenze differenti, non confrontabili.

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  5. Ambra Simeone

    caro Giorgio, ma la poesia “egemone” o “maggioritaria” altro non è che una scelta editoriale, non capisco però cosa c’entri con l’estetica o la critica.

    una cosa è criticare una scelta editoriale in quanto scelta editoriale, altra cosa è criticare la qualità o meno di una certa poetica.

    che poi molti autori cerchino di arrivare ad una casa editrice maggioritaria tramite una scelta estetica maggioritaria, è ancora un’altra cosa… però poi c’è pure chi ci arriva senza barare! 🙂

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  6. Ivan Pozzoni

    Nessuno dei due intende relazionare il termine «forma-poesia» con i termini «poesia egemone» o «Canone» (con la C maiuscola). Non tu, che da «critico» cammini su un’altra strada (cioè il comprendere cosa, tra la «scrittura», sia «forma-poesia» e cosa, invece, non lo sia); né io, che da filosofo resto interessato a comprendere a] se la «forma-poesia» sia ancora in grado di rapportarsi al mondo, b] se la definizione stessa di «forma-poesia» sia corretta ad indicare il “contenitore” dei tratti caratteristici della «poesia» e c] se la «grammatica» della «poesia» sia ancora confontabile con la «grammatica» ontologica (!) del mondo. La domanda «Cosa è poesia?» – racchiusa dalla locuzione tecnica «forma-poesia» è ancora significativa nel tardomoderno (e via a discorsi complessissimi, assolutamente non realizzabili su un blog)? Lo stesso concetto di forma [sansc. DHAR, da cui DHAR-I-MAN, figura stabile e fissa (il fir-mus latino), in un mondo caratterizzato dall’amorfismo, dalla flessibilità, dalla Unsicherheit, è in grado di mantenere il suo significato originario o smarrisce il suo senso? Da qui, a mia modesta opinione, l’urgenza di una riforma dello stesso concetto di «forma-poesia». Ivan

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  7. Giuseppina Di Leo

    Prendo spunto dal commento di Gabriele Fratini perché trovo interessante quanto egli dice a proposito della mancanza di popolarità anche di quei poeti che vengono pubblicati da case editrici che ignote non sono. Ciò significherebbe che non è il numero delle volte in cui un poeta si esibisce in pubblico che fa la sua fama, né che la fama dell’editore accresce il pubblico dei lettori. Lo spunto di riflessione mi porta a formulare la domanda: Allora, come si fa a conquistare il grande pubblico?
    È questa la domanda dalle cento pistole che ci interessa e alla quale lo stesso Giorgio risponde argomentando (già dal 2002 – correggimi se sbaglio).
    Perché il problema sta proprio qui: fare pubblico, per fare cassa anche con la poesia. Che i libri non si vendono questo è un dato oramai acquisito; però, ragionando ‘secondo il pubblico’ il problema non si pone neanche, il nocciolo sta semmai nel riuscire a ‘entrare nel gioco’ comunque. E questo lo si fa attraverso i reading, le “filastrocche”, la poesia buonista la chatpoetry, la lap-dance, il cabaret, ecc. ecc. Vale a dire con tutto ciò che Linguaglossa dicendo e ripedendo da un decennio e passa.
    Io la penso come Ivan e come Ambra, non è la forma che determina la poesia bensì la sostanza, ovvero ciò che la poesia comunica. Giorgio dice la stessa cosa, ma avverte anche contro il ‘conformismo’ o l’americanizzazione della poesia-spettacolo. Ma già Valery metteva in guardia contro l’assuefazione del “gusto” e dalle banalizzazioni volute dall’”Industria” dei replicanti. Cosa che in effetti si è verificata. E oggi, ancor più di ieri, è maggiormente a rischio la cosa più importante: la libertà di ognuno di noi di esprimersi secondo la propria voce, fosse pure minimalista. Ma non su commissione o per compiacere il pubblico di qualche editore ‘che vale’.
    GDL

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    • Ivan Pozzoni

      Cara Giuseppina, che senso ha il concetto di «grande pubblico», in una società che ha sussidiarizzato tutto al «privato»? Non esiste un «pubblico» come concetto generale, ha smesso di esistere la c.d. Poesia e pubblico nella Grecia antica, così bene segnalato dal Gentili. Più che un discorso di forma /sostanza, io faccio un discorso di «grammatica» della «poesia». Se non c’è un «pubblico», cade l’idea stessa di una «grammatica pubblica» (la «grammatica pubblica» è sussidiarizzata a molteplici, caotiche, monadiche «grammatiche private»). Che senso ha una «forma-poesia», una «poesia», senza «pubblico» e con una «grammatica» inadeguata a mettersi in confronto con il mondo (o con la «grammatica» del mondo)? I casi sono due: o a] abbandoniamo la «poesia» come strumento di rappresentazione/normazione del mondo o b] riformiamo la «forma-poesia» adattandola all’era tardomoderna. Altre soluzioni?

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      • Un restyling? ma non è quel che si tenta di fare ogni volta? ah NO, il linguaggio commerciale è bandito in poesia (un po’ come ridere o fare l’amore in chiesa?). Si teme che la poesia perda i suoi connotati, eppure la storia dimostra che poesia non è la sua forma… quale sarebbe il canone che resta da abbattere, dopo il novecento, se non la ricerca stessa del canone?

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      • Giuseppina Di Leo

        Caro Ivan, parlare di pubbllico in una società privatizzata è una contraddizione di termini ed infatti non mi riferivo alle teste libere di partecipare ad un evento, bensì a quanti seguono la ‘scia’ alla maniera dei pecoroni. Ma so bene che tu hai capito perfettamente quanto da me detto, e ci capiamo.

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        • Ivan Pozzoni

          Carissima, certo!

          Però, facciamoci la domanda, interroghiamoci. Che senso ha una «forma-poesia», una «poesia», senza «pubblico» e con una «grammatica» inadeguata a mettersi in confronto con il mondo (o con la «grammatica» del mondo)? Discorso bastardissimo e di una complessità bestiale.

          Se non c’è un «pubblico», cade l’idea stessa di una «grammatica pubblica» (la «grammatica pubblica» è sussidiarizzata a molteplici, caotiche, monadiche «grammatiche private»).

          Il senso stesso della nostra attività di scrivere, in versi o meno, è sotto scacco.

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          • Giuseppina Di Leo

            Credo che per evitare lo scacco, come dici tu, Ivan, occorrerebbe scrivere in piena autonomia e libertà, infischiandosene di restare ai margini (mio personalissimo punto visuale). Poi, è chiaro, ognuno fa le scelte che meglio crede. Se andiamo invece sul fronte del perché si scrive, o di cos’è la poesia e di tante altre cose belle e non, le risposte devono essere ritrovate nel percorso di ognuno. Idem per la forma o non forma, se per forma intendiamo lo stile.

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  8. Giuseppina Di Leo

    correggo: sta dicendo e ripetendo

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  9. cari interlocutori,

    a mio avviso la forma-poesia deve essere tenuta distinta dal Canone o dal concetto di Poesia maggioritaria o da altre formulazioni similari. E per fortuna, direi. In linea generalissima, ogni tradizione poetica esprime una forma-poesia, ogni Lingua esprime una propria forma-poesia. Ma questo solo in linea molto generale. Scendendo nei particolari, si può dire che ci sono tante forma-poesia quanti sono i grandi poeti di una tradizione letteraria. Ma anche questa è una affermazione non interamente veritiera, perché suscettibile di molte obiezioni. Per tagliare la testa al toro, dirò che la forma-poesia è quella «forma» che consente ai singoli poeti di accedere alla propria «forma individuale e temporale». Ma è sempre con la «Forma» in generale che il poeta deve interloquire, è con essa che il poeta ha a che fare. Ogni nuova forma-poesia è una ipostasi critica della precedente forma-poesia, ecco perché Adorno nella sua Teoria estetica scriveva che ogni opera d’arte è nemica di un’altra. Le opere d’arte comunicano anche per opposizione reciproca. Non si può andare oltre Montale senza sorpassarlo, negarlo, annientarlo. Solo così si può creare una nuova forma-poesia. Pensare di accedere alla nuova forma-poesia solo con dei riformismi moderati della forma-poesia dominante è una pia illusione.
    Per fare un esempio che mi riguarda, non mi meraviglia che una mia poesia postata qualche giorno fa: “Tre fotogrammi dentro la cornice” abbia incontrato delle difficoltà di lettura e di ricezione… era proprio quello il mio obiettivo: fare una poesia che corrispondesse ad una nuova forma-poesia, ma per essere tale doveva uscire necessariamente dai criteri di lettura propri della vecchia forma-poesia. Ovviamente, non so se ci sono riuscito, forse l’obiettivo non è stato centrato, ma anche i tentativi falliti sono utili, anzi, indispensabili in questo percorso ad ostacoli che è il rinnovamento di una forma-poesia, basta pensare a quel grande fallimento che è stato “Lavorare stanca” (1936) di Cesare Pavese…

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    • Grazie, nulla da obiettare. Il tua poesia, Tre fotogrammi dentro la cornice, nella forma mi fa pensare che, a dispetto della lunghezza, sia composta da somme di brevità. Da qui la narrazione incalzante, per altro trattenuta da versi costanti, di né lunghi né brevi, che non consentono interruzioni alla lettura. Non mi sembra poco.

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    • Ivan Pozzoni

      Giorgio,
      una cosa e a] creare una nuova forma-poesia (come cerchi di fare tu con i tuoi versi) (discorso interno all’estetica); una cosa è creare una nuova «forma-poesia» (discorso esterno all’estetica, cioè di ontologia). Le «» creano una immensa, sottilissima, di difficile intuizione, differenza tra un diiscorso (critica o attività artistica) e un meta-discorso (ontologia o sociologia dell’arte). Se, come artista, mi interessa creare una nuova anti-forma-poesia; come filosofo mi interessa creare una nuova anti-«forma-poesia». Le mie due operazioni sono di statuto, teoretico e metodologico, differenti. Può apparire un discorso assurdo: non lo è affatto. Semplicemente non è un discorso da blog, o da email. E, infatti, tu stesso mi scaschi nella distinzione tra forma-poesia concreta, individualizzata, e «Forma». Che differenza c’è tra forma-poesia e «Forma» (nel tuo lessico)? La differenza che c’è tra concetto applicato e concetto generale?

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  10. Ivan Pozzoni

    Parlo di riforma, Luciano, e non di rivoluzione della «forma-poesia», conscio della inoppugnabilità di una bellissima intuizione di Lombardi Vallauri sull’ipossibilità delle rivoluzioni. Restano le mie domande: di secondo livello (meta-estetica).

    La domanda «Cosa è poesia?» – racchiusa dalla locuzione tecnica «forma-poesia» è ancora significativa nel tardomoderno (e via a discorsi complessissimi, assolutamente non realizzabili su un blog)? Lo stesso concetto di forma [sansc. DHAR, da cui DHAR-I-MAN, figura stabile e fissa (il fir-mus latino), in un mondo caratterizzato dall’amorfismo, dalla flessibilità, dalla Unsicherheit, è in grado di mantenere il suo significato originario o smarrisce il suo senso?

    Aldilà di tutto, a mia modesta opinione, prima di «fare» poesia, occorre «dire», definire, poesia.

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