Giovanni Parrini è nato a Firenze, dove vive. Ha una laurea in ingegneria meccanica. Ha pubblicato le raccolte di poesia Nel viaggio (prefazione di Neuro Bonifazi, Lietocolle, 2006), Tra segni e sogni (prefazione di Maurizio Cucchi, Manni, 2006), Nell’oltre delle cose (prefazione di Giovanna Ioli, Interlinea, 2011), Le misure del cielo, in rivista Poesia, n° 285, (Crocetti Editore), Valichi (prefazione di Giancarlo Pontiggia, Moretti&Vitali, 2015).
Sue poesie sono presenti nell’ Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori), e in varie riviste, fra le quali Caffè Michelangiolo (di cui è anche collaboratore), Atelier, Il Ponte.
Commento di Giorgio Linguaglossa
A proposito del precedente libro di Parrini Nell’oltre delle cose (2012), scrivevo: «Se si dovesse racchiudere in una definizione il lavoro poetico di Giovanni Parrini, si dovrebbe parlare di poesia della disseminazione prosastica in tutte le sue tonalità e modalità stilistiche, da quelle incidentali e laterali così forti da sconfinare nel loro opposto, a quelle, diciamo così, direttrici, alle corsie centrali, che appaiono più limpide, distese, con alternanza di penombre e di chiaroscuri. Da un lato, Parrini preferisce la raffigurazione di un quotidiano dimesso, con illuminazione laterale, direi di transito, temporalità del transito oltre le cose; dall’altro, c’è il progetto di indicare le «cose» come se fossero osservate da un finestrino di un treno in movimento, dove non sai se siano le «cose» in movimento o il punto di vista dell’osservatore. C’è un via vai, un affollamento, un affoltamento delle «cose», un infoltimento delle essenze delle «cose». E qui la gamma stilistica di Parrini mostra una tenuta encomiabile, risponde in modo problematico alle esigenze del canovaccio tematico (mi si passi l’espressione di gergo); a mio avviso, là dove Parrini introduce una maggiore variabilità sintattica e stilistica con inserti metaforici e polinomi perifrastici la poesia ne guadagna in incisività e mordente. Potrebbe essere questa la direzione da seguire nel futuro dell’autore.Il titolo non casuale Nell’oltre delle cose vuole richiamare il lettore ad una migliore attenzione, intende richiamarci alla esistenza di ciò che sta oltre le cose del quotidiano e dell’apparenza. Parrini impiega un linguaggio basso-colloquiale, cerca di tracciare un colloquio con il lettore, di metterlo a suo agio senza precludersi però la possibilità di introdurre delle sottili variazioni interne, dei distinguo, delle eccezioni. Il noto assioma secondo il quale «il linguaggio esiste indipendentemente da noi» ha il suo correlativo nell’altro: «le cose esistono assolutamente e indipendentemente da noi, per esse non si pone il problema del senso e neppure quello della significazione», stanno lì, al di fuori di noi. Esse sono. Ecco il punto. Per Parrini una visione trans-oggettuale e trans-soggettuale del linguaggio è il criterio che lo guida in questa ricerca del senso (il significato delle cose); Parrini non indica mai in modi prescrittivi là dove ci sono le cose ma le lascia intendere, le lascia nel luogo dove la loro presenza ne tradisce l’esistenza. Certo la posta in gioco è alta e impegnativa: narrare il quotidiano da un punto di vista che sta oltre le cose significa adottare un linguaggio idoneo alle premesse da cui parte. La scelta del verso libero è in tal senso azzeccata, come azzeccato è l’alternarsi di versi brevi, brevissimi e lunghi come ad indicare quella irregolarità e dis-continuità di cui il «reale» si fa porta-voce e che la poesia deve raccogliere se vuole essere all’altezza del suo compito. Ma è un processo ancora in fieri questo, e vedremo nelle prossime opere la direzione che adotterà l’autore. C’è ancora tempo».
Mi sembra che quanto scrivevo nel 2012 intorno alla difficoltà di oltrepassare questa prosasticità del dettato poetico, valga anche per questa raccolta di Parrini, fermo restando che la via da percorrere per la poesia italiana può essere percorsa non solo da un autore, per quanto dotato egli sia, ma da una continuità di tentativi collettivi.
Giovani Parrini da Valichi Moretti&Vitali, 2015
Una di queste mattinate qui
dure come l’acciaio
ci sarà l’occasione da prendere al volo
sono certo sarà meraviglioso perdersi noi due soli
io e il navigatore
non avere alcun luogo.
Display grigio
occhi calmi.
Io da una parte che non mi risolvo mai completamente
fra perdita e memoria
da un’altra lui sbadato
radioso senza il software new release che m’ero scordato.
Beffando coordinate andremo a giro assieme
flâneur complici
circuiti e cuore in ascolto
in attesa di niente. Vinceremo.
*
Avevo molto spesso un pensiero. Dicevo, forse è per via del lavoro. Anni dopo anni su cantieri enormi, e quando bucavamo la montagna, guardando nella polvere, pensavo che quando cade l’ultimo diaframma succede al limite dello sconforto, e ti pare che il ferro della talpa pure lui sia sfinito. Ma in un soprassalto di follia, o perché ognuno ha dentro l’infinito, ti dici che non tutto può finire lì, nell’avanzare cupo ora per ora, e poi un crollo finale. Non sai perché ti ritrovi a sognare una via invisibile, parallela e vicina. Eravamo agli ultimi duecento metri, gneiss e calcescisti, distanza piena d’intimo silenzio, di ricordi e sudore. Duecento metri accanto gli uni agli altri e quella montagna col suo corpo umido, fitto di fibre. Io sono uno qualunque, uno dei tanti. Di me, di noi, mi chiedo cosa resterà in questo buio violato: forse la pena, oltre che nostra, quella incomprensibile che sento del monte agonizzante, povero come noi. Mi fermavo ogni tanto – un mezzo lavativo, dicevano – guardando quel tormento di materia, che sembrava sognasse voli e azzurro, e soffrendo spedisse tanta vita in superficie, con una forza timida, settecento ottocento metri sopra, dove tutto scorreva inconsapevole. Tra poco ci sarebbe stata luce improvvisa, un boato, qualche sorriso piegato. Poi avremmo ricominciato altrove, a tracciare altre strade, diverse e tutte eguali, che a volte dentro il sonno si confondono, si sommano, ne fanno una soltanto, che dondola, va su. Va verso l’alto. Dove non lo so.
*
L’inverno è ritornato
sembra diverso però questa volta
quasi da strabiliare
sgominare l’indifferenza.
Fino a qui è arrivato dalla dimora del gelo
che tentano situare col satellite ultimo
quello che vede bene
anche i dettagli di tanta perenne magnificenza
che invece ci resiste
non avrà traduzione
resta nel bianco lascito cui attinge il cielo per rifare la neve
o nel bulino fine del tramonto
che fa i rami gioielli
nudità le montagne
in questo lancinante addio
che natura perdona sempre al fato.
Saremo ancora qui sperduti
mai sicuri
daccapo in questo freddo
che sente tanta povera speranza e ne fa primavera.
Alla fine
chi lo direbbe
che le cose che la vicissitudine ha messo insieme
rampicando una vita
qua e là per mura accecate
alla fine
le trovi in un armadio
e a contarle ti ci vuole poco
poche ore
una giornata
non ha importanza l’unità di misura
il nodo non è quello
ma solo che decideremo noi che cosa e come scegliere
buttare conservare quello che ci parla di qualcuno
denudare uno spazio
per fare posto a roba nostra
sempre lo stesso spazio
roba al posto di altra che serviva e non serve
adesso che fa quasi preghiera
religione dimessa
nel vuoto rimbombo del legno.
*
Proprio una bella cena
di quelle dove vola la distrazione
l’evasione dal vivere solito
come il vivere è sempre
portare
consumare
digerire
convivio e trauma creaturale ottuso
chiacchierare scempio
che sale alle alte sfere
mezzanotte ammiccante su piatti e su bicchieri
sulle teste travolte dall’algida bellezza
crudele con il vario armamentario di simboli
nero fondo di grilli
abissale inquietudine
o viola incantatore della lampada per gli insetti
dove vanno a un’orribile morte
oppure scampano
e noi iddii superbi per un po’ di potenza
un niente di presenza
che tra poco uno a uno andiamo via alla spicciolata
una notte qualunque.
*
Anche fosse soltanto per la grandine
che corre pazza sulle soffitte
o per l’aurora che posa le labbra sui monti
varrebbe resistere
non chiedendo che cosa mai significhino questi misteri
cosa vogliano da noi.
Che ci arrendiamo?
Sarebbe bello
così potremmo farcene dimora
smettendo di scavare e costruire
arraffare immanenze
per non rendere vana questa notte stremante
e non fallire l’altro fulgido significato
che ci cerca e ci ama come siamo
deboli e belli
ragazzi innamorati d’un poco di poesia
a cui l’anima va
per trovarsi da vivere.
*
Con miliardi e miliardi d’altre eguali
si fa la pioggia
si evapora.
È un fato concavo di cielo il mio
m’ama un cuore di nuvola
ma voi invece no
nemmeno per la testa
non v’accorgete che sono laguna dentro i fornici
cascata oceano assieme alle altre
io di soli tre atomi
che sopra i finestrini faccio fiumi e delta
in certe sere torve
quando sareste in grado di guardare
in un’altra maniera dal chiuso d’abitacoli
nell’urgere dei clacson.
Poi ecco il tergicristallo
netta ananke di gomma. Finiremo da qualche parte
torrente o nebbia
o gemma sopra il dente d’una benna
come successe a me
e c’era uno che stava a guardarmi.
Non so che cosa avesse
rimase lì con gli occhi da bambino per un bel po’
che mi pareva quasi che piangesse mentre andava via.
Allora anche un’occasione così in apparenza grigia
servirebbe a dire grazie
eppure a smozzicarne la pronuncia
rimasticandola fra i denti tutta la vicenda nostra
di dettagli da poco
non sapendo che ci ama
che ci vuole invaghiti qui perfino
col tabellone visite cui tiene dietro il fiato
chi sperso dentro una rivista mezzo spaginata
qualcuno in piedi spalle contro il muro goffrato
angeli immensi tutti
in quel fondo di mani
nella piega d’una bocca cui i pensieri s’arenano
o in quel giocare con il calendario dell’i-Phone
millenni uno sull’altro touch leggero
marzo del 5000
dicembre 7500 un lunedì
agenda da riempire
cosa saremo mai
stessa gloria e angoscia andate a perdersi
opacità dove mulina un polline di preghiere
smarrito intanto il nesso d’ogni cosa
mentre scatta il tuo numero.
*
Ci sono chimici vapori lunghi a sfibrare il sole
che ci si immerge stanco
e noi pure lo siamo.
Dovremo traslocare nuovamente domani
per poi acquartierarci
gettando l’inservibile
che ogni volta è maggiore
quasi tutto alla fine
un divario che colma di trasparenza il diario
d’assenza il sasso dell’identità
dopo molti trascorsi
sembrando che l’attesa abbia perduto il suo significato.
Ma se succede è perché quella è altro di quanto immaginiamo
serve affinché dilaghi l’invisibile nelle nostre evidenze
da starcene come isole
che il mare riassapora rende uguali.